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Infortuni sul lavoro: l’etichettatura di sicurezza sui macchinari non esclude il dovere di vigilanza del datore di lavoro.

 

Sentenza

MASSIMA

Il datore di lavoro che non abbia correttamente vigilato sulle attività svolte dal singolo lavoratore e si sia limitato ad attestare la generica formazione del dipendente sull’impiego dei macchinari, contrassegnati con apposita etichettatura diretta a prevenirne l’uso improprio, risponde penalmente dell’infortunio occorso all’operaio in conseguenza di un errato utilizzo del macchinario. La Corte ha confermato la sentenza di condanna del datore di lavoro chiamato a rispondere del reato di lesioni personali gravi in danno del dipendente che, intento all’utilizzo di un forno per la cottura di dolciumi, veniva investito dalla deflagrazione del macchinario conseguente all’introduzione nello stesso di prodotti dolciari preparati con base alimentare alcolica.

 

ABSTRACT

La sentenza in esame, concentrando ogni valutazione in merito alla penale responsabilità sulle sole condotte di omessa informazione, formazione e vigilanza da parte del datore di lavoro, svaluta pressoché totalmente la condotta pericolosa tenuta dal lavoratore. Con il presente commento si tenta di offrire una lettura alternativa della vicenda sottesa al giudizio penale e si stimola una riflessione sul tema della causalità e della dimensione soggettiva della colpa.

 

The ruling in question focuses every assessment on criminal liability exclusively on omission of inform, train and supervise by the employer and almost totally devalues the dangerous conduct of the worker.  With this note we try to offer an alternative reading of the events behind the criminal judgment and inspire a reflection about causality and the subjective dimension of guilt.

 

SOMMARIO

  1. La fattispecie concreta. – 2. Lo sviluppo processuale della vicenda. – 3. L’approdo giurisprudenziale in esame. – 4. Le cautele relative all’obbligo di informazione e formazione imposte al datore di lavoro. – 5. Il dovere di vigilanza. – 7. Osservazioni critiche e conclusioni.

 

  1. La fattispecie concreta.

In data 2 dicembre 2010, il signor D.P., dipendente con mansioni di pasticcere presso la D. S.r.l., subiva lesioni personali gravi in conseguenza dell’esplosione di un forno rotativo modello Quasar, alimentato a gas di petrolio liquefatto (GPL), all’interno del quale il suddetto lavoratore aveva introdotto una notevole quantità di biscotti, tra i cui ingredienti figuravano anche sostanze a base alcolica, indicate come pericolose in un cartellino di avvertenza applicato sul vetro del medesimo macchinario.

 

  1. Lo sviluppo processuale della vicenda.

In seguito all’infortunio, pacificamente verificatosi a causa dell’introduzione nel vano cottura del forno di alimenti che, raggiunta una determinata temperatura avrebbero rilasciato vapori altamente infiammabili cagionando così l’esplosione del macchinario, era stato avviato un procedimento penale a carico del datore di lavoro, imputato del delitto di cui all’art. 590, commi 1, 2 e 3 del codice penale, commesso in violazione delle cautele imposte dall’art. 71, commi 1, 2 e 4 del D.Lgs. 81/08 e del reato contravvenzionale previsto dall’art. 87, comma 2, lett. b) del D.Lgs. 81/08.

All’esito dell’esperimento dibattimentale di primo grado, il Tribunale di Palermo, in composizione monocratica, in data 23 dicembre 2015, condannava l’imputato alla pena di mesi sei di reclusione. La sentenza veniva parzialmente confermata in sede di gravame. La Corte di Appello panormita, invero, pronunciata l’estinzione del reato contravvenzionale di cui all’art. 87, commi 2, lett. b) del D.Lgs. 81/08 per intervenuta prescrizione, riduceva la pena inflitta a tre mesi di reclusione. Avverso quest’ultima decisione l’imputata, tramite il proprio difensore di fiducia, proponeva ricorso per cassazione lamentando vizi di motivazione e travisamento della prova.

La Suprema Corte, chiamata, una prima volta, a decidere sulle doglianze attinenti alla contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione nonché al travisamento della prova – posto che non si era debitamente considerata la circostanza per la quale sul vetro del forno era presente una targhetta gialla recante il divieto di introdurre per la cottura alimenti contenenti sostanze alcoliche volatili e che il lavoratore aveva a sua disposizione un altro forno, accanto a quello utilizzato, nel quale potevano essere immessi per la cottura anche i dolciumi con base alcolica – accoglieva il motivo di ricorso ed annullava con rinvio la sentenza impugnata.

Le ragioni che conducevano alla predetta decisione possono essere così sintetizzate: premesso e ribadito che <<il sistema della normativa antinfortunistica si è evoluto, passando da un modello “iperprotettivo”, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro, quale soggetto garante investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, ad un modello “collaborativo”, in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori.>>[1], si rileva come, da un lato, la Corte di merito non si sia adeguatamente soffermata nella valutazione dell’adempimento da parte dell’imputata degli obblighi di cautela gravanti sul datore di lavoro né sulla condotta contraria all’indicazione riportata sull’etichetta applicata sul forno, tenuta dall’imprudente lavoratore, dall’altro, il medesimo collegio giudicante abbia dato particolare risalto a circostanze insufficienti a sostenere una pronuncia di condanna. Tra queste ultime si annoverano: (i) le dichiarazioni superficiali della persona offesa che, in merito alla violazione del divieto di introduzione nel forno di preparati dolciari con base alcolica indicato nell’etichetta presente sul vetro del macchinario ed alla sottoscrizione del documento che attestava l’avvenuta formazione sull’utilizzo dei macchinari, si è trincerato dietro molteplici <<non ho visto>>, <<non ho letto>>, <<non ho prestato attenzione a quello che firmavo>>; (ii) l’asserita, ma non provata, consapevolezza da parte dell’imputata – che, peraltro, aveva messo a disposizione dei lavoratori un altro forno adatto alla cottura di prodotti dolciari a base alcolica – della prassi di utilizzo improprio del forno esploso.

In seguito all’esito del giudizio di rinvio avanti alla Corte di Appello di Palermo – che si concludeva con una nuova sentenza di conferma della condanna emanata dal Tribunale nel primo grado di giudizio – il processo giungeva nuovamente al vaglio della Corte di legittimità la quale, con la sentenza in commento, annullava la sentenza solo in ordine al trattamento sanzionatorio che ricomputava in mesi tre di reclusione e rigettava, nel resto, il ricorso, dichiarandolo infondato.

 

  1. L’approdo giurisprudenziale in esame.

Alla decisione oggetto del presente commento, la Suprema Corte giunge mediante un percorso argomentativo che – superando le censure di contraddittorietà e di manifesta illogicità della motivazione d’appello, nonché quelle di travisamento delle prove, mosse dal ricorrente – si radica sul seguente assunto: il consolidato orientamento giurisprudenziale che evidenzia il passaggio della normativa antinfortunistica da un modello iperprotettivo ad un modello collaborativo non esonera il datore di lavoro dall’obbligo di svolgere un’adeguata attività di informazione-formazione sul rischio specifico collegato all’impiego di determinati macchinari ed attrezzature, né da quello di vigilanza sul rispetto delle norme antifortunistiche. Pertanto, da un lato, l’obbligo di informazione sui rischi non può ritenersi adempiuto mediante la mera presenza di etichette di avvertimento posizionate sui macchinari, dall’altro l’obbligo di formazione specifico relativo all’impiego dei macchinari non può dirsi provato dalla mera sottoscrizione di moduli generici attestanti l’avvenuta formazione sull’utilizzo delle apparecchiature a disposizione del lavoratore. Di tal ché, l’infortunio occorso al lavoratore nel compimento di attività altamente rischiose, contrarie alle cautele imposte, svolte, peraltro, anche da altri dipendenti e note al datore di lavoro (le cui conseguenze erano pertanto prevedibili) genera responsabilità penale in capo al titolare della posizione di garanzia.

 

  1. Le cautele relative all’obbligo di informazione e formazione imposte al datore di lavoro.

Per comprendere al meglio la portata della decisione in esame appare utile rievocare, in estrema sintesi il quadro delle cautele di carattere generale, attinenti ai doveri di informazione e formazione, che gli artt. 15 e 18 del D.Lgs. 81/08 impongono al datore di lavoro.

L’art. 15 individua, tra le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, <<l’informazione e formazione adeguate per i lavoratori>>.

I due termini trovano definizione nell’art. 2, lett. aa) e bb) che, rispettivamente, descrivono la formazione come il <<processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili all’acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi.>> e l’informazione come il <<complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili alla identificazione, alla risoluzione e alla gestione dei rischi in ambiente di lavoro>>.

L’obbligo di impartire adeguata informazione, formazione ed addestramento è peraltro chiaramente sancito all’art. 18, lett. l), del D.Lgs 81/08 il quale fa rinvio alle norme di cui agli artt. 36 e 37 del D.Lgs. 81/08, per l’individuazione delle specifiche modalità di adempimento[2].

L’art. 36 impone al datore di lavoro di provvedere affinché il lavoratore riceva un’adeguata informazione[3] (facilmente comprensibile) , tra l’altro, <<sui rischi per la salute e sicurezza sul lavoro connessi alla attività della impresa in generale>>; <<sui rischi specifici cui è esposto in relazione all’attività svolta, le normative di sicurezza e le disposizioni aziendali in materia>>; <<sui pericoli connessi all’uso delle sostanze e delle miscele pericolose sulla base delle schede dei dati di sicurezza previste dalla normativa vigente e delle norme di buona tecnica>>; <<sulle misure e le attività di protezione e prevenzione adottate>>.

L’art. 37, d’altro canto, individua i canoni dell’adempimento dell’obbligo di formazione da esperirsi, in particolare, anche <<in merito ai rischi specifici di cui ai Titoli del […] decreto successivi al primo>>. Tra i titoli di particolare interesse nella presente sede rientra evidentemente il Titolo III, <<Uso delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale>>, ove si collocano le disposizioni di cui agli artt. 71 e 73.

La prima delle due norme impone al datore di lavoro una serie di obblighi in fase di scelta delle attrezzature, in fase di loro installazione, utilizzo e manutenzione: il datore di lavoro è tenuto a prendere in considerazione, all’atto della scelta delle attrezzature di lavoro, i rischi derivanti dall’impiego delle attrezzature stesse ed è tenuto, <<al fine di ridurre al minino i rischi connessi all’uso delle attrezzature di lavoro e per impedire che dette attrezzature possano essere utilizzate per operazioni e secondo condizioni per le quali non sono adatte>>, ad adottare adeguate misure tecniche ed organizzative, tra le quali quelle dell’allegato VI al Testo Unico. E’ bene soffermarsi rapidamente anche sulle predette misure tra le quali, per quanto di interesse nella presente sede, si annoverano quelle inerenti all’utilizzo delle attrezzature, vietato <<per operazioni e secondo condizioni per le quali non sono adatte.>> (par. 1.0.1) e quelle che, <<presso le macchine e gli apparecchi dove sono effettuate operazioni che presentano particolari pericoli per prodotti o materie:infiammabili, esplodenti…>>, impongono <<l’esposizione [del]le disposizioni e [del]le istruzioni contenenti la sicurezza delle specifiche lavorazioni>>.

La seconda delle due norme specifica il contenuto degli obblighi di informazione, formazione e addestramento relativi alle condizioni di impiego delle attrezzature. Nel dettaglio, la norma impone al datore di lavoro di fornire ai lavoratori incaricati dell’uso di ogni attrezzatura di lavoro <<ogni necessaria informazione e istruzione>> e <<un addestramento adeguato>> in relazione <<alle condizioni di impiego delle attrezzature>> ed <<alle situazioni anormali prevedibili>> nonché <<di informare i lavoratori sui rischi cui sono esposti durante l’uso delle attrezzature di lavoro>>.

Per come è stato efficacemente osservato in dottrina, l’obbligo di informazione, formazione ed addestramento <<va evaso proprio perché del lavoratore bisognerà poi potersi fidare>>.[4]

Il quadro normativo sinteticamente richiamato raccoglie l’insieme degli obblighi cautelari specifici di matrice normativa a cui è tenuto il datore di lavoro ai quali, naturalmente, si accompagnano quelli di matrice “autovalutativa” frutto dell’elaborazione del documento di valutazione dei rischi.

Non è dato esprimersi sullo specifico adempimento degli stessi da parte del datore di lavoro nel caso in esame, se non facendo ricorso alle scarne informazioni riportate nella sentenza in commento, le quali pongono in evidenza due sole circostanze: la prima consistente nella presenza di un’etichetta che informava tutti gli utilizzatori del forno del pericolo di combustione interna in presenza di prodotti alcolici in cottura; la seconda rappresentata dall’avvenuta sottoscrizione, da parte del lavoratore di un documento che attestava la generica formazione ricevuta dal lavoratore in merito all’utilizzo delle attrezzature di lavoro.

 

  1. Il dovere di vigilanza.

In quanto <<principale debitore di sicurezza>>[5], il datore di lavoro non esaurisce i suoi obblighi con la mera adozione delle misure atte a garantire la sicurezza sul luogo di lavoro, in larga parte già enumerate[6]. Egli ha anche un non meno importante compito: deve necessariamente vigilare sulla <<concreta attuazione, momento per momento, della disciplina e dell’organizzazione aziendale>>[7].

In termini più specifici: <<Il datore di lavoro è portatore di un dovere di prevenzione tecnica ed organizzativa, di un dovere di prevenzione informativa e formativa e di un dovere di vigilanza e controllo>>[8]

Il Testo Unico, differentemente a quanto accade per i concetti di <<informazione>>, <<formazione>> e  <<addestramento>>, non offre una definizione normativa dell’attività di vigilanza demandata, in ordine crescente rispetto al momento di concreta esecuzione dell’attività lavorativa, al datore di lavoro, al dirigente ed al preposto (figure, queste ultime due, assolutamente eventuali nel sistema della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro). [9] Tale dovere, tuttavia, è espressamente contemplato da diverse norme del decreto.

L’obbligo di vigilanza gravante sul datore di lavoro è, invero, canonizzato dall’art. 18, comma 3 bis, del D. Lgs. 81/08, introdotto dall’art. 13 del D.Lgs. 106/09, il quale dispone che <<Il datore di lavoro e i dirigenti sono tenuti altresì a vigilare in ordine all’adempimento degli obblighi di cui agli articoli 19, 20, 22, 23, 24 e 25, ferma restando l’esclusiva responsabilità dei soggetti obbligati ai sensi dei medesimi articoli qualora la mancata attuazione dei predetti obblighi sia addebitabile unicamente agli stessi e non sia riscontrabile un difetto di vigilanza del datore di lavoro e dei dirigenti>>.

In particolare, tra gli obblighi di vigilanza del datore di lavoro, rientrano anche quelli di vigilanza sui lavoratori tenuti al rispetto delle prescrizioni indicate nell’art. 20 del D.Lgs. 81/08[10]. E’ la predetta norma che indica, quale obbligo specifico dei lavoratori, sul quale il datore di lavoro è tenuto a vigilare, quello di <<utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro, le sostanze e le miscele pericolose, i mezzi di trasporto, nonché i dispositivi di sicurezza>>[11].

La dottrina si è spesso soffermata a chiedersi <<fino a quale limite possa e debba giungere il controllo sull’attività dei dipendenti; se possa umanamente pretendersi che il garante si trasformi in una sorta di angelo custode che senza soluzione di continuità sorvegli ogni momento dell’attività dei lavoratori>>[12].

La risposta a più riprese ribadita e talvolta recepita anche dalla giurisprudenza di legittimità è quella secondo la quale l’obbligo di vigilanza non può dirsi assoluto e onnicomprensivo[13].

Esso incontra diversi limiti, tra cui: (i) l’impossibilità di vigilare con costanza sull’operato di ciascun lavoratore; (ii) l’affidamento riposto dal datore di lavoro sulla diligenza, prudenza e perizia del lavoratore nei cui confronti sono stati scrupolosamente adempiuti tutti gli obblighi di informazione, formazione ed addestramento ed al quale sono stati puntualmente forniti di tutti gli strumenti di prevenzione e protezione individuale e collettiva.

In ordine al primo dei due limiti giova precisare che l’obbligo di vigilanza può ritenersi adempiuto attraverso <<un controllo che si uniformi ad uno standard di diligenza modulato sulla base della concreta attività, delle mansioni svolte e del contesto lavorativo>>[14]. Esso, dunque, non comporta un obbligo di <<presenza continua [del datore di lavoro] sul luogo di lavoro>>[15]. In ordine al secondo dei due limiti, appare utile un richiamo all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale <<il sistema della normativa antinfortunistica, si [sia] lentamente trasformato da un modello “iperprotettivo”, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro che, in quanto soggetto garante era investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori […], ad un modello “collaborativo” in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori>> per cui <<Il datore di lavoro non ha più, dunque, un obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore, come in passato, ma una volta che ha fornito tutti i mezzi idonei alla prevenzione ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, egli non risponderà dell’evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore.>>[16].

E’ stato efficacemente sostenuto in dottrina che <<al datore di lavoro l’organizzazione del lavoro, ma, con la stessa organizzazione del lavoro (e la formazione del lavoratore sicuramente rientra in tale concetto, visto che possono essere addetti allo svolgimento delle attività lavorative solo i lavoratori che siano stati adeguatamente formati), egli si spoglia del dominio attuale sulle singole fasi dell’attività industriale. Il dominio su ciascuna, specifica, unitaria attività lavorativa, magari ripetuta diverse volte nell’arco di una giornata di lavoro, non ce l’ha il datore di lavoro ma il singolo lavoratore>>. [17]

I concetti, parzialmente ribaditi, solo in via di premessa argomentativa, finanche nella sentenza in commento, non hanno condotto, nel caso in esame, all’esonero di responsabilità del datore di lavoro, colpevole, secondo la prospettazione offerta dalla Suprema Corte, oltre che di non aver adempiuto il dovere di vigilanza, data la pacifica ammissione di non essersi mai recato presso il laboratorio di pasticceria ove era avvenuto il sinistro, anche di non aver ottemperato ai doveri di informazione e di formazione specifica mediante i quali il lavoratore sarebbe potuto esser reso edotto del pericolo derivante dall’immissione in cottura nel forno di alimenti contenenti sostanze alcoliche.

L’esclusione del carattere abnorme ovvero anche solo esorbitante della condotta del lavoratore e l’asserita (seppur in modo alquanto lapidario e contraddittorio) conoscenza della prassi operativa contraria alle cautele riportate sull’etichetta apposta sul forno da parte del datore di lavoro – che, pur tuttavia, non pare aver partecipato o assistito direttamente alla condotta incauta, posto che non si sarebbe mai recato nel laboratorio di pasticceria – hanno orientato la decisione della Corte di legittimità verso il sostanziale rigetto del ricorso.

 

  1. Osservazioni critiche e conclusioni.

Le argomentazioni logico-guridiche offerte nella motivazione della sentenza in commento, ad avviso chi scrive, svalutano in modo eccessivo la condotta imprudente del lavoratore e finiscono, da una parte per relegare nell’ombra i principi che governano la responsabilità colposa, dall’altra per rialimentare una ormai sopita tendenza giurisprudenziale che, sulla base di un generico e onnicomprensivo dovere di impedire l’evento, scarica sul datore di lavoro la responsabilità di ogni evento lesivo dell’incolumità del lavoratore legato all’espletamento dell’attività lavorativa.

Ed invero, ancorate ad un’asettica valutazione ex post della condotta del datore di lavoro (seppur carente in ordine ai doveri di informazione, formazione del lavoratore e di vigilanza sul suo operato), trascurano del tutto il comportamento imprudente della persona offesa dal reato, di rilevante importanza nella più volte menzionata prospettiva di “collaborazione” tra garante e garantito che caratterizza l’attuale sistema di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

Una valutazione più attenta che si cali con maggior scrupolo sui principi che governano la responsabilità colposa in ambito penale avrebbe, a sommesso avviso del sottoscritto, potuto condurre ad un esito non del tutto aderente a quello offerto dalla Suprema Corte[18].

La sentenza in commento pone ampiamente in risalto come <<La circostanza che il forno era utilizzato da più lavoratori, anche per la cottura di prodotti contenenti sostanze vietate e la notorietà di tale circostanza erano elementi, secondo la sentenza impugnata, che conducevano a ritenere che il comportamento del D., il giorno del fatto, fosse prevedibile, posto che tale condotta era stata tenuta da lui come da altri dipendenti in molteplici occasioni e che, dunque, la condotta del lavoratore non poteva dirsi abnorme o esorbitante.”.

Per come sapientemente precisato dalla Suprema Corte in altra precedente pronuncia, tuttavia: <<l’agire imprudente del lavoratore può rilevare o nell’ottica dell’elemento oggettivo del reato, sotto il profilo dell’interruzione del nesso causale, oppure nell’ottica dell’elemento soggettivo, sotto il profilo dell’esclusione della colpa del datore di lavoro>>[19]. Ed allora, quand’anche fosse stato escludibile, come nel caso di specie, il carattere abnorme della condotta del lavoratore[20] – idoneo ad interrompere, ai sensi dell’art. 41, comma 2, del codice penale, il nesso causale tra la condotta colposa del datore di lavoro e l’evento occorso[21] – sarebbero rimaste comunque da valutare, (i) da un lato, la cosiddetta causalità della colpa in relazione all’addebito inerente all’omessa formazione ed informazione dei lavoratori sul rischio connesso all’impiego del forno in modo improprio ed in contrasto con quanto indicato nelle istruzioni applicate, bene in vista, sul vetro del medesimo[22], (ii) dall’altro la dimensione soggettiva della colpa in ordine all’omessa vigilanza sulle singole operazioni di cottura dei prodotti dolciari da parte del datore di lavoro.

In altri termini, sarebbe stato necessario, sempre a sommesso avviso dello scrivente,  verificare se la violazione delle specifiche regole cautelari che impongono i doveri di informazione e formazione dei lavoratori sia eziologicamente connessa con l’evento che si è verificato.

Nel caso di specie non sembra peregrino ipotizzare che qualsivoglia attività di informazione e formazione diretta a rendere edotto il lavoratore dei rischi collegati all’impiego errato del forno non sarebbe stata idonea ad escludere in radice un comportamento imprudente del lavoratore, il quale, in veste di addetto alla cottura dei preparati dolciari, non poteva non essere a conoscenza dei rischi (peraltro chiaramente indicati sul macchinario medesimo) insiti nell’immissione di sostanze alcoliche altamente infiammabili all’interno di un forno a gas GPL.  In altri termini <<se la formazione serve per mettere il lavoratore nelle condizioni di fronteggiare un rischio specificamente legato alle mansioni cui lo stesso è addetto, non vi sarà nesso della cosiddetta causalità della colpa quando l’evento sia estrinsecazione di un rischio comunemente fronteggiabile da un agente avveduto>>[23].

Peraltro, la stessa circostanza per la quale l’utilizzo incorretto del forno sarebbe stato noto a tutti i lavoratori, porterebbe a ritenere che non fosse la condizione di personale ignoranza del rischio alla base del comportamento imprudente del lavoratore quanto piuttosto un suo atteggiamento di superficialità (già rilevato nella prima sentenza di annullamento con rinvio emanata dalla Suprema Corte e per come evidenziato al paragrafo 2.) e che, pertanto, il lavoratore non avrebbe mutato la sua condotta neppure in presenza di una corretta e completa informazione e formazione da parte del datore di lavoro.

Rimane da esaminare l’ultima censura mossa al datore di lavoro, inerente all’omessa vigilanza sull’operato del lavoratore. Anch’essa, naturalmente richiama i connotati della colpa penale e deve pertanto essere valutata sia nella sua dimensione oggettiva, incentrata sulla condotta posta in essere in violazione della norma cautelare che impone al datore di lavoro di vigilare sull’adempimento degli obblighi di sicurezza da parte del lavoratore, sia sotto il profilo soggettivo, connesso alla concreta possibilità dell’agente di osservare, nel concreto e nei termini contestati, la predetta regola cautelare.

Pacifica può ritenersi l’omissione legata all’asserita permanente assenza del datore di lavoro dal luogo ove si è verificato l’infortunio, meno chiara appare, per contro, la possibilità che il datore di lavoro avesse di controllare ogni singola operazione di cottura dei prodotti dolciari di talché, la relativa censura sembrerebbe legata ad un’imperativo inesigibile.

Per una chiara disamina del tema, appare utile riportare un breve passo di altra decisione della Suprema Corte: <<il datore di lavoro è certamente responsabile del mancato intervento finalizzato ad assicurare l’osservanza delle disposizioni in materia di sicurezza ma tale condotta omissiva non può essergli ascritta laddove non si abbia la certezza che egli fosse a conoscenza della prassi elusiva o che l’ avesse colposamente ignorata. Tale certezza può, in alcuni casi, inferirsi da considerazioni di natura logica, laddove, ad esempio, possa ritenersi che la prassi elusiva costituisca univocamente frutto di una scelta aziendale, finalizzata, in ipotesi, ad una maggiore produttività [pacificamente esclusa nel caso di specie in ragione della presenza di altro forno adatto per la cottura di prodotti a base alcolica nel medesimo luogo di lavoro]. Ma quando […] non vi siano elementi di carattere logico per dedurre la conoscenza o la conoscibilità di prassi aziendali incaute da parte del garante, è necessaria l’acquisizione di elementi probatori certi ed oggettivi che dimostrino tale conoscenza o conoscibilità. Diversamente opinando, si porrebbe in capo al datore di lavoro una inaccettabile responsabilità penale “di posizione”, tale da sconfinare nella responsabilità oggettiva ( Cass., Sez. 4, n. 20833 del 3-4-2019).>>[24].

A questo punto, in conclusione, è da chiedersi come si collochi, nel generale panorama giurisprudenziale, la decisione con cui la Suprema Corte ha escluso che, nel caso di specie, il comportamento colposo del lavoratore potesse incidere nel giudizio sulla penale responsabilità del garante.

Può serenamente affermarsi che, in passato, si sono registrate numerose sentenze che, facendo leva sulla sconfinata mole di prescrizioni cautelari, tra le quali molte dirette a tutelare il lavoratore anche dalla sua stessa negligenza, hanno negato una tale possibilità[25]. Una crescente sensibilità diretta a scongiurare il pericolo di sconfinamento verso forme di responsabilità oggettiva del datore di lavoro ha recentemente condotto a pronunce più attente alla posizione del garante che sarà legittimato a fare affidamento sull’adeguamento del lavoratore agli standard richiesti dalle sue mansioni e non dovrà confrontarsi con situazioni nelle quali si trova chiamato a rispondere per non aver posto rimedio alla stoltezza altrui. In tali casi, invero, <<il solidarismo scadrebbe in paternalismo>>[26].

Ed invero: <<La linea di confine tra vulnerabilità e volontaria autoesposizione al pericolo viene tracciata attraverso l’enunciato che l’azione volontaria di una persona libera, informata e capace d’intendere e di volere non può essere fonte dell’altrui responsabilità>>[27].

[1]   Principio più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità. Si segnalano, tra le molteplici pronunce: Cass., pen. Sez. IV, 3.2.2015, n. 15172; Cass., pen. Sez. IV, 10.4.2015, n. 26263; Cass., pen. Sez. IV, 5.5.2015, n. 41486; Cass., pen. Sez. IV, 17.6.2015, n. 36040; Cass., pen. Sez. IV, 14.7.2015, n. 36882; Cass., pen. Sez. IV, 10.2.2016, n. 8883; Cass., pen. Sez. IV, 12.4.2016, n. 33587; Cass., pen. Sez. IV, 3.5.2016, n. 40702; Cass., pen. Sez. IV, 11.5.2016, n. 24139; Cass., pen. Sez. IV, 20.10.2016, n. 3300; Cass., pen. Sez. IV, 27.10.2016, n. 38531; Cass., pen. Sez. IV, 20.12.2016, n. 4225; Cass., pen. Sez. IV, 21.2.2017, n. 24923; Cass., pen. Sez. IV, 9.3.2017, 15178; Cass., pen. Sez. IV, 29.11.2017, n. 2338; Cass., pen. Sez. IV, 29.11.2017, n. 10363; Cass., pen. Sez. IV, 16.1.2018, n. 15186; Cass., pen. Sez. IV, 16.1.2018, n. 7685; Cass., pen. Sez. IV, 21.2.2018, n. 17392; Cass., pen. Sez. IV, 22.2.2018, n. 36715; Cass., pen. Sez. IV, 28.3.2018, n. 18409; 19.4.2018, n. 58299; Cass., pen. Sez. IV, 24.5.2018, n. 26855; Cass., pen. Sez. IV, 5.6.2018, n. 34805; Cass., pen. Sez. IV, 14.6.2018, n. 50293; Cass., pen. Sez. IV, 5.7.2018, n. 36024; Cass., pen. Sez. IV, 27.11.2018, n. 16175.

[2] In argomento Fantini – Giuliani, Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Le norme, l’interpretazione, la prassi,  Giuffrè, 2011, 179 ss.; Cinquina, La formazione continua per la sicurezza dei lavoratori, in Sicurezza&Ambiente, 2012, 10, 38 ss.; Carollo, Informazione e formazione dei lavoratori, in Tiraboschi (a cura di), Il Testo Unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, Giuffrè, 2008, 489 ss.; Micheletti, I reati concernenti la gestione del rischio lavorativo ordinario, in Giunta – Micheletti (a cura di), Il nuovo diritto penale della sicurezza nei luoghi di lavoro, Giuffrè, 2010, 251 ss.

[3] Osserva attenta dottrina come il fatto che la formazione, ancorché atipica, debba essere sufficiente ed adeguata, evoca dubbi sotto il profilo della necessaria determinatezza della fattispecie penale. Trattandosi, poi, di un parametro che fonda la responsabilità colposa, è necessario che a tale valutazione si proceda con un criterio ex ante, ovvero di prognosi postuma a base parziale. In tal senso Micheletti, I reati concernenti la gestione del rischio lavorativo ordinario, op. cit., 260.

[4]  Grotto, Obbligo di informazione e formazione dei lavoratori, nesso di rischio e causalità nella colpa, in DPC, 22 settembre 2012, p. 5.

[5]  Tordini Cagli, I soggetti responsabili, in Aa.Vv., Sicurezza sul lavoro – profili penali, Giappichelli, 2019, 84.

[6] Sul tema si segnala Pisani, Posizioni di garanzia e colpa di organizzazione nel diritto penale del lavoro, in Compagna (a cura di), Responsabilità individuale e responsabilità degli enti negli infortuni sul lavoro, Jovene, 2012, 53 ss.

[7]  Blaiotta, Diritto Penale e sicurezza sul lavoro, Giappichelli, 2020, 37.

[8]  Grotto, op. cit., 2.

[9]  Si vedano gli artt. 2, lettere d) ed e) e l’art. 18, comma 3, bis, del Testo Unico.

[10] Per un esame più puntuale degli obblighi del lavoratore si segnala Macaluso, Il ruolo del lavoratore nella normativa prevenzionistica tra obblighi e tutele, in ISL, 2011, 265 ss.

[11]  Obbligo del lavoratore penalmente sanzionato con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda da euro 200 ad euro 600, dall’art. 59, comma 1, lett. a), del D.Lgs. 81/08

[12] Blaiotta, op. cit., 37.

[13]  Si segnala, sul tema, Masciocchi, Sicurezza sul lavoro: profili di responsabilità, Ipsoa, 2010, 355.

[14]  Tordini Cagli,  op. cit., 85.

[15]  Debernardi, Omessa vigilanza dell’imprenditore ed incuria del lavoratore, in GI, 2004, 7.

[16] Cass., pen. Sez. IV, 5.5.2015, n. 41486.

[17]  Grotto, op. cit., 10, l’autore prosegue << se quel che conta è la signoria rispetto alla produzione dell’evento dannoso o pericoloso, anche l’attività di vigilanza dovrà essere parametrata di conseguenza. Essa non potrà, quindi, estrinsecarsi in un controllo capillare ed incessante di tutto quanto fanno i lavoratori previamente formati, ma dovrà atteggiarsi a verifica sull’adeguatezza generale dell’assetto produttivo. Così secondo quelli che sono i canoni “classici” del principio di affidamento, il contenuto della posizione di controllo potrà essere ricostruito nei seguenti termini: il datore di lavoro deve organizzare il lavoro in maniera tale da garantire la sicurezza dei lavoratori e deve periodicamente verificare la congruità del sistema implementato rispetto ai rischi effettivamente presenti, salvo un dovere di immediato intervento correttivo nelle situazioni in cui l’inaffidabilità del lavoratore emerga in concreto”.

[18]  Sul tema della doppia dimensione della colpa si veda Canestrari, La doppia misura della colpa nella struttura del reato colposo, in Studi in onore di Franco Coppi, Giappichelli, 2011, 73 ss.; Castronuovo, L’evoluzione teorica della colpa penale tra dottrina e giurisprudenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 1613 ss; Mantovani, voce Colpa, in Dig. disc. pen., Utet, 1988, 303; Giunta, La normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 86 ss.; Blaiotta, op. cit., 281.

[19] Cass., pen. Sez. IV, 16.4.2019, n. 1021

[20]  Intesa come tale quella <<radicalmente, ontologicamente lontana dalle ipotizzabili e quindi prevedibili scelte, anche imprudenti del lavoratore nell’esecuzione del lavoro>>Cass., pen. Sez. IV, 10.11.2009, n. 7267.

[21]  Essendo, per come correttamente osservato anche in giurisprudenza, <<L’operatività dell’art. 41, comma 2, cod. pen., […] circoscritta ai casi in cui la causa sopravvenuta inneschi un rischio nuovo e del tutto incongruo rispetto al rischio originario, attivato dalla prima condotta>>. Cass., pen. Sez. IV, 16.4.2019, n. 2021 e, nei medesimi termini, Cass., pen. Sez. IV, 3.5.2016, n. 25689; Cass., pen. Sez. IV, 10.3.2016, n. 15493.

[22]  Sebbene secondo parte della giurisprudenza non sia coerente con lo scopo della normativa la formazione fatta con la consegna, al lavoratore, di un manuale di sicurezza cartaceo contenente le norme generali di comportamento (Cass.. pen. Sez. IV, 16.11.2006, n. 41997), ovvero del libretto di istruzioni di una macchina (Cass., pen. Sez. IV, 8.11.2005, n. 14175), è da valutarsi se l’indicazione chiaramente riportata su evidente etichettatura presente sul vetro del forno possa o meno rappresentare idonea informazione al lavoratore.

[23]  Grotto, op. cit., 13. L’autore efficacemente osserva: <<Per esempio: ci si potrà astenere – ritengo – dal dire all’autista, dotato di patente speciale, che il cassone del camion va ribaltato quando il mezzo è in condizioni di stabiltà e che bisogna indossare sempre la cintura di sicurezza. Cosicchè, se il camion si ribalta perché il conducente lo scarica dopo averlo posto in posizione di equilibrio instabile e si accerta che il decesso è dovuto non ad un difetto del mezzo ma all’impatto del torace contro il volante, il datore di lavoro che abbia correttamente formato il dipendente in ordine ai rischi connessi all’attività cantieristica (e non anche rispetto all’uso delle cinture di sicurezza) dovrà andare esente da responsabilità penale. in tal caso, infatti, l’evento, seppur tragico, è la concretizzazione di un rischio che non spettava al garante fronteggiare e che poteva gestito da un guidatore avveduto in possesso sia di nozioni comuni sia delle speciali abilitazioni necessarie per condurre i mezzi pesanti>>.

[24]  Cass., pen. Sez. IV, 16.4.2019, n. 1021

[25]   In tal senso, Cass., pen. Sez. IV, 10.11.2003, n. 4870; Cass., pen., Sez. IV, 25.11.2010, n. 1225; Cass., pen. Sez. IV, 10.2.2011, n. 1376; Cass., pen. Sez. IV, 7.2.2012, n. 16888.

[26]  Blaiotta, op. cit., 281.

[27]  Blaiotta, ibidem.

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