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Interdizione perpetua dai pubblici uffici: sollevata questione di legittimità costituzionale

  1. Segnaliamo l’ordinanza della Sesta Sezione, depositata lo scorso 30 dicembre 2020, con la quale è stata sollevata questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3 e 27 Cost., dell’art. 317 bis c.p. (nella versione precedente alle modifiche introdotte con la legge 9 gennaio 2019, n. 3) nella parte in cui prevede l’automatica applicazione dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici in caso di condanna, per il reato di cui all’art. 319 cod. pen., ad una pena uguale o superiore a tre anni di reclusione.
  2. Tale disciplina viene ritenuta manifestamente irragionevole, in quanto impone al giudice l’applicazione di una sanzione perpetua che può essere sproporzionata rispetto alla gravità del fatto. Sproporzione che comporta un vulnus ai principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio contenuti rispettivamente negli artt. 3 e 27 Cost.- giacché «una pena non proporzionata alla gravità del fatto (e non percepita come tale dal condannato) si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa».
  3. E’ essenziale, ritiene il Collegio, per garantire la compatibilità delle pene accessorie di natura interdittiva con il volto costituzionale della sanzione penale, che esse non risultino manifestamente sproporzionate per eccesso rispetto al concreto disvalore del fatto di reato, tanto da vanificare lo stesso obiettivo di “rieducazione del reo”, imposto dall’art. 27, terzo comma, Cost. Dalla giurisprudenza della Corte costituzionale emerge, infatti, il principio secondo cui è proprio la durata fissa delle pene accessorie a non apparire compatibile con i principi costituzionali in materia di pena e, segnatamente, con i principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio, principi che rilevano sia sul piano della determinazione del trattamento, sia al momento della condanna, in sede di applicazione del trattamento punitivo, che il giudice individua tenendo conto in particolare della vasta gamma di circostanze indicate negli artt. 133 e 133-bis cod. pen.
  4. Nel caso di specie il reato di corruzione previsto dall’art. 319 cod. pen. ricomprende e sanziona in modo uniforme, con la pena da sei a dieci anni di reclusione, condotte che possono avere gravità oggettivamente diversa per il differente grado di lesione del bene giuridico tutelato. Poiché la interdizione in perpetuo dai pubblici uffici trova applicazione indifferenziata per tutte le fattispecie concrete, sebbene caratterizzate da una gravità marcatamente differenziata, si è in presenza di una rigidità applicativa della pena accessoria perpetua, che non può che generare risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso, rispetto all’intera gamma dei comportamenti tipizzati, e, dunque, in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., rispetto a fatti meno gravi e in distonia con il principio di individualizzazione del trattamento sanzionatorio.
  5. Invero, l’eventuale abrogazione dell’interdizione perpetua prevista dalla prima parte del primo comma dell’art. 317 bis pen. comporterebbe che in presenza del reato di corruzione commesso in violazione dei doveri di ufficio, con una pena di anni quattro e mesi quattro di reclusione, come quella applicata sull’accordo delle parti all’odierno ricorrente, il giudice potrebbe applicare la pena della interdizione temporanea dai pubblici uffici, in una misura che, entro il limite legale di durata della pena accessoria temporanea di cui all’art. 28 cod. pen., non sarebbe automatica e rigida, ma determinata secondo i poteri discrezionali del giudice, sulla scorta dei principi enunciati dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite Suraci.

Per leggere il testo dell’ordinanza clicca su Ordinanza

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