Cerca
Close this search box.

La Cassazione si esprime nuovamente riguardo la differenza tra i delitti di peculato e di truffa aggravata ai danni dello Stato.

Cass., Sez. VI, 22 ottobre 2020, n. 30637 

Integra il delitto di peculato e non di quello di truffa aggravata la condotta del pubblico ufficiale che si appropri di denaro pubblico anche nel caso in cui, per effetto delle norme interne dell’ente che prevedono l’intervento di più organi ai fini dell’adozione dell’atto dispositivo, il soggetto che formalmente emette l’atto finale del procedimento non concorra nel reato per essere stato indotto in errore da coloro che si occupano della fase istruttoria”

 

Sommario: 1. Lo svolgimento del processo. – 2. L’interversio possessionis e il possesso o la disponibilità come presupposto della condotta del delitto di peculato. – 3. L’artifizio e il raggiro nel reato di truffa nonchè la conseguente integrazione del danno e del profitto ingiusto  – 4. Considerazioni conclusive.

 

  1. Lo svolgimento del processo.

Il Tribunale di Catania e, successivamente, la Corte di Appello, seppur in parziale riforma rispetto al primo pronunciamento,  condannavano il Sig. D. L. in relazione al reato di cui agli artt. 81, comma 2, e 314 c.p. per essersi appropriato dal 2006 al 2010, nella qualità di segretario ed economo di fatto degli Istituti Femminili Riuniti Santa Maria del Lume (I.P.A.B) di Catania, di somme di denaro di cui aveva la disponibilità per ragioni di ufficio della gestione del patrimonio di tale ente.

Per la precisione, accreditava un importo pari a 227.045,07 euro su suoi conti personali in esecuzione di mandati di pagamento emessi dall’I.P.A.B. in suo favore, in assenza di autorizzazioni e di documentazione comprovante le spese.

Inoltre, l’imputato veniva condannato, nei primi due gradi di giudizio, per avere versato dall’I.P.A.B. alla Cooperativa Papa Giovanni XXIII (di cui lo stesso D. L. era amministratore di fatto) una somma di denaro pari a 139.869,56 euro a titolo di corrispettivi per lavori e servizi mai eseguiti dalla Cooperativa in favore del suddetto I.P.A.B.

Ancora, versava una somma di denaro pari a 97.483,00 euro dall’I.P.A.B. alla Fondazione Santa Maria del Lume (di cui lo stesso prevenuto risultava essere presidente) a titolo di servizi di colonia marina solo apparentemente resi dalla suddetta Fondazione in favore dell’I.P.A.B.

Infine, trasferiva una somma pari a 100.853,00 euro dall’I.P.A.B. in favore della Cooperativa San Domenico Savio (di cui lo stesso D. L. era amministratore di fatto) per servizi mai resi in favore dell’ente pubblico.

La difesa presentava ricorso per Cassazione sulla base di sette motivi.

Tra le varie argomentazioni, si eccepiva una erronea qualificazione giuridica dei fatti, in quanto la Corte territoriale li aveva considerati in termini di peculato e non di truffa aggravata ai danni dello Stato.

Specificatamente, la difesa basava le proprie considerazioni sul fatto che l’istruttoria processuale avesse dimostrato come l’imputato non avesse “abusato del possesso” delle indicate somme  di denaro, così appropriandosene, ma aveva – al più – abusato della propria funzione, compiendo atti di artifizio e raggiro per trarre in inganno l’ente pubblico al fine di acquisire successivamente il possesso, mediante l’emissione di mandati di pagamento a firma del presidente dell’ente – al quale non veniva  contestato un concorso di reato.

Inoltre, veniva precisato , che il D. L. si occupasse esclusivamente della “gestione del patrimonio dell’I.P.A.B”, donde l’impossibilità che vi fosse in capo al prevenuto il possesso ovvero la disponibilità del denaro oggetto di appropriazione, tenuto conto del fatto che l’atto di disposizione finanziario derivasse, esclusivamente, dall’apposizione sul relativo mandato di pagamento della firma del presidente, quale “trattario” , e non anche della firma aggiunta del segretario D. L., che aveva – unicamente – una mera rilevanza amministrativa interna.

La Suprema Corte rigettava quanto prospettato dalla difesa, ritenendo che quanto dedotto dalla Corte di Appello territoriale fosse in linea con il maggioritario orientamento giurisprudenziale relativo alla differenza tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravato dall’abuso delle funzioni o violazione dei doveri inerenti a pubblico servizio.

Ulteriormente, precisava il Giudice di legittimità come l’elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata, ai sensi dell’art. 61 n. 9 c.p., fosse individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione.

Per tale via, quindi, secondo la Cassazione ricorreva il delitto di peculato quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio si appropri del bene mobile o di una somma di denaro avendone già il possesso o comunque la disponibilità in ragione del proprio ufficio o servizio.

Differentemente, incorreva nel delitto di truffa aggravata il soggetto attivo che non avendo il possesso del bene mobile o della somma di denaro, se lo procuri fraudolentemente facendo ricorso, per via del proprio ufficio, ad artifici o raggiri.

Quindi, nel caso concreto, veniva qualificata come peculato la condotta dell’imputato, il quale emetteva e firmava i mandati di pagamento, poi controfirmati dal presidente dell’ente, senza che quest’ultimo esercitasse un controllo sul contenuto dell’atto dispositivo.

In vero, secondo il Giudice di legittimità il controllo contabile e, conseguenzialmente, il possesso delle somme di denaro era in capo al prevenuto il quale ebbe a predisporre i mandati di pagamento, seppur firmati dal Presidente dell’Ente ma, controfirmati, in via amministrativa, anche dall’imputato.

Di scarsa rilevanza risultava il fatto che, in base alle norme statutarie interne dell’I.P.A.B., il potere formale di emettere i mandati pagamento spettasse al solo presidente dell’ente, in quanto il controllo contabile – come detto – fosse totalmente nelle mani del D. L. e come fosse questi a predisporre i mandati di pagamento.

Alla luce di tali considerazioni, la Suprema Corte – come precedentemente rappresentato – non riteneva integrato il delitto di truffa aggravata  ma, al contrario, il reato di  peculato stante il maggioritario orientamento giurisprudenziale secondo il quale,  risulterebbe configurato suddetto reato “…in relazione  al denaro pubblico il cui possesso, per effetto delle norme interne dell’ente pubblico che prevedono il concorso di più organi ai fini dell’adozione dell’atto dispositivo, fa capo congiuntamente a più pubblici ufficiali, anche se, di essi, quelli che emettono l’atto finale del procedimento non concorrono nel reato per essere stati indotti in errore da coloro che si sono occupati della fase istruttoria…” (Cass., Sez. 6, n. 39039 del 15/04/2013).

Quindi, ad avviso del Giudice di legittimità, l’elemento discretivo va individuato nelle modalità di possesso del denaro o della cosa mobile altrui, oggetto di appropriazione.

Pertanto, alla stregua di quanto sopra dedotto, vi sarebbe la configurazione della  fattispecie delittuosa disciplinata dall’art. 314 c.p. allorquando il pubblico ufficiale sia già in possesso della res per ragioni di ufficio o servizio; differentemente dal reato di truffa dove il soggetto attivo, non avendo il possesso della res, se lo procura fraudolentemente attraverso artifizi o raggiri.

 

  1. L’interversio possessionis e il possesso o la disponibilità come presupposto della condotta del delitto di peculato.

Il delitto di peculato è un reato proprio, integrabile esclusivamente da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio che, per via del possesso o della disponibilità scaturiti da ragioni di ufficio o di servizio,  si appropri illecitamente di un bene o di una somma di denaro distraendoli dalla finalità effettiva.

Oggetto di tutela della norma è il  buon andamento dell’azione amministrativa – identificabile nell’esigenza di un corretto ed efficiente funzionamento dell’amministrazione con riferimento alla piena disponibilità ed effettiva destinazione dei beni ai fini istituzionali –  individuando l’art. 314 c.p. il proprio disvalore essenziale nell’abuso delle facoltà giuridiche, connesse alla qualifica pubblica rivestita circa la destinazione di risorse di cui si dispone per via della funzione ricoperta.

Il delitto in esame è un reato istantaneo che si integra nel momento in cui avviene l’interversione del possesso, con la dovuta precisazione che è ammissibile il tentativo inquadrabile nella mancata apprensione del  bene.

Per quanto concerne l’elemento soggettivo, sufficiente è il dolo generico ovvero l’intenzione dell’agente di fare propria una res o una somma di denaro appartenente alla pubblica amministrazione.

Particolare attenzione bisogna prestare al momento di consumazione del reato,  ravvisabile, nella interversio possessionis: il pubblico ufficiale che ha nella propria disponibilità o possesso un determinato bene di proprietà della pubblica amministrazione, finisce per comportarsi nell’utilizzo dello stesso uti dominus ovvero come se ne fosse proprietario, disponendone a piacere e ben al di là di quelle che sono le corrispondenti destinazioni funzionali[1].

Ritiene una parte della dottrina che  il momento di consumazione del delitto di peculato avvenga nella circostanza  appropriativa, intesa nell’atto di disposizione mediante il quale il soggetto attivo immette nel proprio patrimonio la cosa e il valore economico in essa materializzato, escludendone permanentemente l’avente diritto[2].

Diversamente, altra parte della letteratura giuridica ravvede appropriazione illecita nel momento in cui il soggetto “si comporti come se fosse proprietario della cosa, escludendo il vero proprietario”[3].

Sul punto, giova evidenziare come, anche il recentissimo e maggioritario orientamento giurisprudenziale ritenga perfezionabile il reato in esame nel momento della interversione del possesso, ovvero laddove avviene appropriazione “… che si realizza con una condotta incompatibile con il titolo per cui si possiede e che sottrae al patrimonio dell’avente diritto il bene incamerato dall’agente…condotta dalla quale traspare la volontà da parte dell’imputato di disporre uti dominus dei denari…”[4]

Il momento appropriativo rappresenta, sotto ogni profilo, la macroscopica rottura dell’equilibrio tra le posizioni connesse, dell’agente e della pubblica amministrazione, rispetto al danaro o all’altra cosa mobile, a tutto favore della prima posizione[5].

Appare evidente come il presupposto della condotta sia da inquadrare nel possesso o nella disponibilità della cosa, per via dell’ufficio o del servizio svolto dal soggetto pubblico.

Sicché, a differenza della appropriazione indebita, nel peculato  è dalla funzione ricoperta che  deriva il possesso, posto che nel rapporto tra il soggetto attivo e l’oggetto altrui, che in questo caso assume rilevanza come possesso, è insito un obbligo[6] relativo alla effettiva destinazione del bene avente quale fine, esclusivamente, uno scopo pubblico.

Ciò che rileva nel presente elaborato è domandarsi se l’ottenimento del possesso o della disponibilità della cosa – conquistato dal pubblico ufficiale o da incaricato di pubblico servizio  mediante artifici e raggiri – possa determinare la integrazione della fattispecie di peculato oppure quella di truffa aggravata ai danni dello Stato.

Allo stesso tempo, appare necessario scandagliare il concetto di possesso da interpretare, secondo la dottrina maggioritaria, non dal punto di vista civilistico ma quale potere di fatto sul bene  direttamente collegato ai poteri e doveri funzionali derivanti dall’incarico ricoperto[7]; diversamente dalla disponibilità intesa nel senso che il soggetto agente possa essere in grado, mediante un atto dispositivo di propria competenza, di disporre della cosa o della somma di denaro e di conseguire, poi, quanto oggetto di appropriazione.

Quindi, è la stessa dottrina a puntualizzare che la nozione di possesso debba assumere un significato più ampio rispetto a quello delineato dall’art. 1140 c.c.; interpretazione tanto estesa da segnare “il punto di divergenza più notevole tra i due diritti (il civile e il penale) quanto al possesso”[8] poiché comprendente, da un punto di vista penale, non soltanto la detenzione materiale della cosa ma anche il potere di disporre della medesima.

Ulteriormente, il possesso, rilevante ai sensi della norma appena citata, deve spettare alla pubblica amministrazione altrimenti l’agente non potrebbe essere investito di tale potere per ragione del suo ufficio o servizio, posto che non  si deve perdere di vista il collegamento funzionale del possesso con il soggetto cui è conferito.

Per tali motivi, parte della dottrina ha  precisato come “ la ragione di ufficio o di servizio non costituisca soltanto un requisito esterno alla struttura caratteristica nel possesso di peculato, ma ne è indiscutibilmente un elemento interno”[9].

Quindi, la possibilità di disporre della cosa, ai fini della integrazione della fattispecie delittuosa in esame, deve necessariamente fare capo al soggetto attivo del reato.[10]

Al contrario, altra scuola  ritiene che il possesso debba  essere inteso anche come disponibilità giuridica derivante dalla “posizione gerarchica o funzionale in forza della quale il soggetto è in grado di raggiungere la cosa”[11], come nel caso di specie stante la possibilità di acquisire, da parte del prevenuto, le somme di denaro attraverso mandati di pagamento, ma successivamente alla firma del Presidente.

Relativamente alla definizione di disponibilità, è la stessa letteratura giuridica a precisare che la l. n. 86/1990 “rimodulando il delitto di peculato, ha affiancato in alternativa al “possesso” il requisito della disponibilità, cristallizzando nel dettato normativo il diritto vivente che si era formato sul requisito del possesso”.

Specificatamente, l’inserimento del concetto di “disponibilità”  appare essere superfluo o, addirittura, un mero “scrupolo tecnicistico”[12] che potrebbe determinare incertezze circa l’interpretazione del possesso[13] dal punto di vista del diritto penale.

Il maggioritario orientamento giurisprudenziale sembra essere sulla stessa lunghezza d’onda della dottrina in relazione alla “nozione di possesso idonea ad integrare il delitto di peculato” che assume “un significato molto più ampio di quello civilistico, in quanto comprende sia il possesso mediato o disponibilità giuridica, intesa come potere di disporre del bene mediante ordini o mandati, sia il possesso immediato o disponibilità materiale della cosa, come la mera detenzione l’uso e la semplice custodia”[14].

Al riguardo, degno di osservazione risulta quanto specificato dalla Suprema Corte circa il carattere plurioffensivo del reato di peculato, lesivo di principi come quello di legalità, di efficienza e di buon andamento della pubblica amministrazione, tanto che “…l’eventuale mancanza o particolare modestia del danno patrimoniale, conseguente l’appropriazione, non esclude la sussistenza del reato, considerato che rimane pur sempre leso dalla condotta dell’agente l’altro interesse, diverso da quello patrimoniale, protetto dalla norma e cioè il buon andamento della pubblica amministrazione…”[15]

Per completezza, la configurazione dell’elemento soggettivo del reato di peculato, alla stregua del maggioritario e recente  orientamento giurisprudenziale, è identificabile “…con il mutare dell’atteggiamento psichico dell’agente, che non si rappresenta più di essere possessore della cosa per conto di altri ma di possedere per conto proprio…” [16]

Dunque, è evidente come dottrina e giurisprudenza siano concordi nel precisare come, nel reato di peculato, il momento di consumazione sia ravvisabile nella interversio possessionis, derivante dal possesso o dalla disponibilità della cosa o della somma di denaro.

Infatti, ciò che assume rilevanza – come detto – sia a parere della dottrina che della giurisprudenza  non è la modalità attraverso la quale si perviene al possesso o alla disponibilità della res, ma la conseguente appropriazione dolosa attuata per via del possesso o dalla disponibilità del bene, in ragione dell’ufficio o del servizio pubblico ricoperto dal soggetto attivo come nel caso di specie, stante il fatto che  gli artifizi e i raggiri siano stati necessari per l’agente non  per appropriarsi delle somme di denaro ma per ottenerne la disponibilità.

Il momento appropriativo, nel caso di specie, è individuabile allorquando il soggetto attivo emette i mandati di pagamento, trasferendo così le somme di denaro in questione sui propri conti correnti al fine di  utilizzarle ad libitum escludendo, per tale via, il vero proprietario identificato nell’I.P.A.B. in questione.

Alla stregua di quanto appena precisato, dal punto di vista dell’elemento soggettivo del reato di peculato, si può precisare che, nel caso di specie,  gli artifizi e i raggiri, posti in essere dal soggetto attivo, testifichino l’intenzione dello stesso di entrare nella disponibilità della cosa per poi appropriarsene e  possederla per conto proprio.

Pertanto, una volta ottenuta la disponibilità delle somme di denaro – intesa quale posizione funzionale in forza della quale il soggetto attivo risulta in grado di raggiungere la cosa –  l’agente appropriandosene, illecitamente, perfeziona il reato di peculato e non  il delitto  di truffa aggravata ai danni dello Stato.

 

  1. L’artifizio e il raggiro nel reato di truffa nonché la conseguente integrazione del danno e del profitto ingiusto.

Il delitto di truffa si caratterizza per essere una fattispecie commessa con frode, le cui modalità si sostanziano negli artifizi e nei raggiri.

L’agente, attraverso simili modalità, modifica il quadro reale o determina un’immutatio veri, facendo apparire come effettiva una realtà che non esiste o celandone una esistente.

Per artifizio bisogna intendere una manipolazione o trasfigurazione della realtà esterna, provocata mediante la simulazione di circostanze inesistenti o – per contro – la dissimulazione di circostanze esistenti; il raggiro, invece, consiste in una attività simulatrice sostenuta da parole o argomentazioni atte a far scambiare il falso per il vero.

A differenza degli artifici, che necessitano di una proiezione nel mondo esterno, i raggiri possono esaurirsi in una semplice attività di persuasione che influenza psiche altrui, a prescindere da qualsiasi mise en scène [17].

Quindi, il soggetto caduto in errore,  a seguito di artifizi e raggiri, deve compiere un atto di disposizione patrimoniale che procuri un ingiusto profitto con l’altrui danno.

Si ha, dunque, una triplice causalità: la condotta ingannatrice che induce in errore il soggetto passivo; dall’errore deriva l’atto di disposizione patrimoniale; l’atto produce un profitto ingiusto a vantaggio di chi agisce o di altri e un danno per il soggetto passivo.

Sufficiente, ai fini della integrazione del delitto, è il dolo generico ovvero la rappresentazione e la volizione da parte dell’agente della suddetta triplice causalità.

Determinante, ai fini dell’elaborato, risulta individuare il momento di perfezionamento del reato di truffa.

La dottrina maggioritaria ritiene che la truffa si integrerebbe nella circostanza in cui si verifichi l’ultimo degli eventi provocati dalla condotta ingannatrice, sia esso il danno o il profitto, ovvero nel momento in cui si verificano entrambi gli eventi, se simultanei[18].

Sul punto, appare concordare il maggioritario orientamento giurisprudenziale secondo cui, ai fini della configurazione del reato di truffa, la realizzazione del profitto e quella del danno devono essere contestuali, trattandosi di dati tra loro strettamente collegati in modo da costituire due aspetti della medesima realtà, circostanza non avvenuta nel caso in esame[19].

Il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato assume, secondo una parte della dottrina, sempre più, caratteristiche particolari tali da porre il problema se essa  non rappresenti nella sostanza una fattispecie autonoma di reato [20].

Infatti, un rilevante riferimento deve essere rivolto al concetto di danno che tende ad assumere connotati qualitativi che vanno al di là della tradizionale dimensione patrimonialista privata.

Il patrimonio pubblico è caratterizzato da una prospettiva dinamica che conferisce ad esso il carattere di beni in circolazione, vincolato al conseguimento di scopi pubblici, per cui emerge, con ogni evidenza, come profilo del danno anche l’interesse degli scopi perseguiti attraverso l’erogazione di finanziamenti pubblici.

Per altro verso, l’identificazione del soggetto passivo nello Stato incide sul modo di atteggiarsi della corresponsabilità della vittima nella dinamica della frode, ruolo del soggetto passivo indentificato nella valutazione giudiziale del grado di scrupolo col quale gli organi pubblici adempiono gli obblighi di controllo preventivo.

Secondo la dottrina maggioritaria, il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato si differenzia dal reato di peculato per il fatto che il pubblico agente, al fine di ottenere un bene mobile o una somma di denaro altrui, ha necessariamente bisogno di artifizi e raggiri.[21]

Per completezza, risulta necessario sottolineare quanto decretato dal maggioritario orientamento giurisprudenziale circa la differenza che sussiste tra il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato e il delitto di peculato.

L’elemento discretivo è da individuare nelle modalità di possesso del denaro o della cosa mobile altrui, oggetto di appropriazione[22].

Precisamente, la differenza tra il delitto di peculato e il reato di truffa va individuata nel fatto che nel primo caso il possesso e la disponibilità del denaro per fini istituzionali costituiscono un antecedente alla condotta criminosa, mentre nella truffa l’impossessamento della res è l’effetto della condotta illecita.

Da quanto appena dedotto deriva  il corollario secondo il quale occorre aver riguardo al rapporto tra possesso, da una parte, e artifizi e raggiri, dall’altra, nel senso che, qualora questi ultimi siano finalizzati a mascherare l’illecita appropriazione da parte dell’agente del denaro o della res di cui aveva legittimamente la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ricorrerà lo schema di peculato; qualora, invece, la condotta fraudolenta sia posta in essere proprio per conseguire il possesso del denaro o della cosa mobile altrui, sarà integrato il paradigma  della truffa aggravata[23].

Nel caso di specie, gli artifizi e i raggiri, ex se, posti in essere dall’agente non determinano un profitto ingiusto né, tantomeno, un altrui danno ma concretizzano  la disponibilità delle somme di denaro per il soggetto attivo.

Infatti, il prevenuto – dopo aver rimosso l’ostacolo ravvisabile nella figura del Presidente – in ragione della sua funzione si appropria delle somme di denaro attraverso un distinto e necessario procedimento identificabile nella successiva emissione dei mandati di pagamento in proprio favore.

Per  esattezza, la condotta illecita espletata dal prevenuto nei confronti del Presidente non comporta, da parte di quest’ultimo,  il compimento di un atto di disposizione patrimoniale tale da procurare un ingiusto profitto ma, esclusivamente, la disponibilità del bene per il soggetto attivo, il quale in ragione del proprio ufficio si appropria  – illecitamente –  attraverso un ulteriore procedimento delle somme di denaro.

Dunque, come precedentemente rappresentato, il possesso o, meglio, la disponibilità del bene conseguita, nel caso di specie, dal prevenuto tramite artifizi e raggiri nei confronti del Presidente non comporta alcun profitto ingiusto.

Pertanto, da suddetta disponibilità scaturisce  l’illecita appropriazione dell’agente che integra una autonoma fattispecie delittuosa inquadrabile nel reato di peculato con esclusione, per tali motivi, dell’ipotesi  di  truffa aggravata ai danni dello Stato.

 

  1. Considerazioni conclusive.

La vicenda in esame offre l’occasione per chiarire, nuovamente, i controversi confini tra la fattispecie di peculato, di cui all’art. 314 c.p. e l’ipotesi delittuosa di truffa aggravata ai danni dello Stato.

Alla stregua di quanto precedentemente osservato, si ritiene  di condividere l’interpretazione della Suprema Corte, con la dovuta precisazione che, nel caso in esame, sarebbe auspicabile inquadrare  il possesso e/o la disponibilità delle somme di denaro in secondo momento.

Infatti, se da un lato è vero che il prevenuto gestiva il controllo contabile dell’ente, dall’altro lato è anche vero che senza la firma del Presidente, seppur meramente simbolica, l’imputato non avrebbe potuto disporre delle somme di denaro in questione.

In vero, il funzionario pubblico che esercita un controllo contabile dell’ente non necessariamente  ha in possesso  le somme di denaro né tantomeno la disponibilità  intesa nel senso che il soggetto agente deve essere in grado, mediante un atto dispositivo di propria competenza, di disporre della somma di denaro e di conseguire poi quanto oggetto di appropriazione.

Nel caso concreto – come detto –   il D. L. avrà la disponibilità delle somme di denaro solamente nel momento in cui il Presidente dell’I.P.A.B. apporrà la propria firma sui mandati di pagamento.

Per tali motivi  l’interversio possessionis – momento di consumazione della fattispecie di peculato – è da ritenersi integrato successivamente alla apposizione della firma del Presidente sui mandati di pagamento, poiché da quell’istante  in poi il prevenuto avrebbe potuto – attraverso la propria firma – disporre delle somme di denaro uti dominus  e, quindi, appropriarsene.

Gli   artifizi e raggiri – posti in essere nei confronti del Presidente dell’I.P.A.B. dal soggetto attivo, il quale destinando le somme di denaro ad altri enti che si impegnavano a svolgere alcuni lavori in favore dell’I.P.A.B. determinava una parvenza legale circa la destinazione delle suddette somme di denaro – potrebbero far prendere in considerazione l’integrazione dell’ipotesi delittuosa di truffa aggravata ai danni dello Stato ma, in realtà, nel caso in esame, sono stati espletati dal prevenuto per via della propria funzione e con l’intenzione di rimuovere un ostacolo identificabile nella figura del Presidente, nonché per ottenere la disponibilità delle somme di denaro necessaria per la conseguente appropriazione.

Pertanto, nel caso di specie, è da escludere il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato nei confronti del Presidente dell’I.P.A.B. quale rappresentante pubblico dell’Ente poiché gli artifizi e i raggiri devono essere ricompresi nella condotta di peculato in quanto volti, da un lato, ad eliminare l’ostacolo identificabile – come precedentemente rappresentato –  nella figura del Presidente, dall’altro lato, necessari per  consentire all’agente la disponibilità delle somme di denaro.

Tale disponibilità è inquadrabile  nel momento in cui il soggetto attivo,  avendo ottenuto la firma del Presidente, attraverso la propria siglatura – seppur inserita in via amministrativa – consentiva l’emissione dei mandati di pagamento, determinando  quella  interversio possessionis per via del  trasferimento delle somme sul proprio conto corrente, con la volontà, coscienza nonché consapevolezza  dell’agente di appropriarsi, illecitamente, delle  somme di denaro de quibus e di distrarre le stesse dall’effettiva destinazione pubblica  concernente la  realizzazione di opere e di lavori in favore dell’ I.P.A.B. in questione.

[1] Concetto di Interversio Possessionis secondo Vincenzo Scordamaglia, il Peculato, estratto dal XXXII volume della Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè Editore – 1982.

[2] Cfr. Proto, op. cit., 338.

[3] Trattato di diritto penale, a cura di Carlo Federico Grosso e Marco Pelissero, Milano, Giuffrè Editore, 2015 – circa il concetto di appropriazione nel delitto di peculato, ripreso da Pagliaro (a) 1990, 270.

[4] Cfr. (Cass. Sez. 6,  Sent. n. 1865 del 29.09.2020 Ud., dep. 18/01/2021) –  ex multis ( Cass., Sez. VI pen., sent.  15 settembre 2017 n. 42061 ; Cass, Sez. 6, n.6753 del 04/06/1997, dep. 1998, Finocchi, Rv. 211011).

[5] Cfr. Flick, il delitto di peculato, cit., 339.

[6] Peculato come appropriazione indebita speciale, stante l’obbligo del pubblico ufficiale insito nel possesso della res, avente quale fine uno scopo pubblico, Petroccelli, l’appropriazione indebita, Editore Morano, edizione del1933.

[7] Vincenzo Scordamaglia, Peculato, estratto dal XXXII volume della Enciclopedia del diritto, Giuffrè Editore – 1982.

[8] Trattato di diritto penale, a cura di Carlo Federico Grosso e Marco Pelissero, Milano, Giuffrè Editore, 2015 – si scandaglia la differenza circa il concetto di possesso nel diritto penale e nel diritto civile, riprendendo quanto dedotto da Scordamaglia 1982, 587.

[9] Cfr. Pagliaro, Studi, cit., 89.

[10] Cfr. Pannain, Il Possesso, cit., 53 ss; Id., I delitti  dei pubblici ufficiali, cit., 61.

[11] M. Gallo 1952, 387; Riccio (b) 1965, 739. In tal senso anche la giurisprudenza meno recente: v. Cass., Sez. III, 6.5.1963, in Giust. Pen. 1964, II, 196, cin nota di Cantagalli, secondo la quale nel peculato il possesso “deve essere inteso in senso molto più ampio del concetto di possesso accolto nel campo del diritto civile, così da comprendere anche la semplice detenzione della cosa ovvero la facoltà di disporre della stessa mediante un atto o un fatto che rientrino nella competenza dell’ufficio del quale l’agente è investito”.

[12] Pagliaro – Parodi – Giusino 2008, 74 – relativamente all’inserimento del concetto di disponibilità nel delitto di peculato.

[13] Grosso, 1989, 1155; Palazzo 1996, 12. Per la precisione da notare quanto dedotto da Vinciguerra 2008, 334 circa l’interpretazione del concetto di possesso alla luce dell’art. 1140 c.c. e stabilendo nella disponibilità “la possibilità di decidere la sorte del denaro dell’altra cosa mobile, avendo su di essi il controllo, anche non materiale, che la consente”.

[14] Cass., Sez. VI, 24.06.1997, in Cass. Pen. 1999, 527. Conf., ancora, Cass., Sez. un., 20.12.2012, n. 19054, cit. e Cass., Sez. VI, 16.10.2013, n. 45908, laddove si ritiene configurabile il delitto di peculato nell’atto di ricognizione, posto in essere dall’amministratore di una società di gestione di un pubblico servizio, di un falso debito pecuniario; Cass., Sez. VI, 18.9.2013, n. 41093 laddove veniva ravvisato il reato di peculato nella condotta di un responsabile del servizio di economato di un ente pubblico consistente nella predisposizione e sottoscrizione di mandati di pagamento intestati a se stesso con causali prive di qualsiasi riscontro per poi riscuoterli personalmente presso la banca che svolgeva il servizio di tesoreria.

[15] Cfr. Cass. Sez. 6,  Sent. n. 1865 del 29.09.2020 Ud. – ex multis (Cass., Sez. 6, n. 30141 del 04/06/2015, Zanetti, Rv. 265745.

[16] Cfr. Cass. Sez. 6,  Sent. n. 1865 del 29.09.2020.

[17] Fiandaca, Musco,  “I delitti contro il patrimonio”, volume II, tomo secondo, settima edizione, settembre 2015.

[18]  Andrea Fanelli, la truffa, seconda edizione, aggiornata al Pacchetto sicurezza (l. 15 luglio 2009, n. 94) – Giuffrè Editore, 2009.

[19] Cass., 11 marzo 1998, Rizzo, in Foro it., Rep. 1998, voce Truffa, n. 19,

[20] Fiandaca, Musco parte speciale “i delitti contro il patrimonio”, volume II, tomo secondo, settima edizione, settembre 2015.

[21] Cma Iurisblog, Avv. Andrea Accardi.

[22] Cass., Sez. VI, sent. n. 57521 del 22 dicembre 2017 inerente la differenza tra il delitto di peculato e di truffa, individuabile nella modalità del possesso.

[23] Commento di Giuseppe Amato, il Sole Ore, 29 gennaio 2018 circa la pronuncia della Suprema Corte relativamente alla differenza tra il delitto di peculato e di truffa ravvisabile nella modalità del possesso del denaro.

 

Tags

Condividi su:

Articoli Correlati
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit, sed do eiusmod tempor incididunt ut labore et dolore
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit, sed do eiusmod tempor incididunt ut labore et dolore