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La CEDU condanna l’Italia per la detenzione in OPG e REMS oltre i termini massimi di legge

Corte europea dei diritti dell’uomo,
Prima Sezione, sentenza del 6 giugno 2024, Cramesteter c. Italia, ricorso n. 19358/17

La sentenza segnalata ha ad oggetto la detenzione di un ricorrente italiano in un ospedale psichiatrico giudiziario e, in seguito, in una “REMS” oltre la durata prevista dalla legge 30 maggio 2014, n. 81, introdotta successivamente alla pronuncia del provvedimento.

Il ricorrente si doleva di non aver potuto richiedere un risarcimento per la presunta violazione dei suoi diritti previsti all’art. 5, parr. 1 e 5 CEDU.

Nello specifico, con la sentenza del 20 ottobre 2004, la Corte d’appello di Firenze assolveva il ricorrente perché, essendo incapace di intendere e di volere, non era imputabile.

Ritenuto pericoloso, i giudici applicavano una misura di sicurezza per un periodo iniziale di due anni, prorogato sino al 26 ottobre 2016, data in cui il Tribunale di Firenze, in qualità di giudice dell’esecuzione della pena, riteneva decorso il termine massimo fissato dalla l. n. 81/2014 e disponeva l’immediata liberazione.

Il ricorrente lamentava l’illegittima limitazione della libertà personale a partire dal 28 febbraio 2015, data che secondo lui corrispondeva, nel suo caso, alla scadenza del termine massimo di pena per le misure di sicurezza previste dalla l. n. 81/2014.

Nel rilevare la lesione dell’art. 5, par. 1, CEDU, la Corte ha valutato compiendo una distinzione tra provvedimenti manifestamente invalidi (perché emessi da un tribunale che difetta di giurisdizione o di competenza), e titoli di detenzione che sono prima facie validi ed efficaci fino all’annullamento da parte di un tribunale di grado superiore. Inoltre, un provvedimento restrittivo della libertà deve essere considerato  invalido se il vizio in esso rilevato costituisce una “irregolarità grave e manifesta”, nel senso eccezionale indicato dalla giurisprudenza della Corte.

Nel caso di specie, è pacifico che la detenzione del ricorrente era stata inizialmente imposta conformemente alla normativa nazionale fino all’entrata in vigore della l. n. 81/2014, con cui è stata introdotta una durata massima delle misure di sicurezza.

La Corte ha rilevato che con sentenza del 26 ottobre 2016 il Tribunale di Firenze ha ritenuto la citata legge applicabile al caso di specie e che fosse stato raggiunto il termine massimo il 28 febbraio 2015 o, al più tardi, dal 31 marzo 2015.

Pertanto, la Corte ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 5, par. 1, CEDU.

Per quanto attiene alla lesione dell’art. 5, par. 5, CEDU, la Corte ha ricordato che la vittima di arresto o detenzione in violazione delle disposizioni dell’art. 5 CEDU ha diritto alla riparazione del danno, da garantire effettivamente con un sufficiente grado di certezza.

Il risarcimento deve essere non solo disponibile in astratto ma anche accessibile in concreto dalla persona interessata.

Tale risarcimento deve comprendere, oltre al diritto al risarcimento del danno materiale, anche il diritto al risarcimento del disagio, dell’angoscia e della frustrazione eventualmente subiti dalla persona lesa dalla violazione di altre disposizioni dell’art. 5 CEDU.

Inoltre, un diritto al risarcimento che preveda una somma decisamente bassa da far perdere in concreto il suo carattere “effettivo” non soddisfa i requisiti dell’art. 5 CEDU.

Nel caso di specie, siccome la Corte ha constatato una violazione dell’art. 5, par. 1, CEDU, allora il ricorrente può invocare la lesione dell’art. 5, par. 5, CEDU.

La Corte ha osservato che il ricorrente ha esperito domanda di riparazione per ingiusta detenzione di cui agli artt. 314 e 315 c.p.p. Tuttavia, la domanda è stata rigettata perché i giudici hanno considerato le disposizioni inapplicabili alle misure di sicurezza.

Sulla base di tali osservazioni, i giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia anche per la violazione dell’art. 5, par. 5, CEDU.

Normativa di riferimento
  • Art. 5, parr. 1 e 5, CEDU
Precedenti citati
  • Corte europea dei diritti dell’uomo, Quarta Sezione, sentenza dell’8 ottobre 2019, Denis e Irvine c. Belgio , ricorsi nn. 62819/17 e 63921/17
  • Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza del 15 dicembre 2016, Khlaifia e altri c. Italia, ricorso n. 16483/12
  • Corte europea dei diritti dell’uomo, Terza Sezione, sentenza del 10 luglio 2012, Del Río Prada c. Spagna, ricorso n. 42750/09
  • Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza del 9 luglio 2009, Mooren c. Germania, ricorso n. 11364/03
  • Corte europea dei diritti dell’uomo, Seconda Sezione, sentenza del 3 giugno 2003, Pantea c. Romania, ricorso n. 33343/96
  • Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza del 17 gennaio 2012, Stanev c. Bulgaria, ricorso n. 36760/06
  • Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza del 18 dicembre 2002, N.C. c. Italia, ricorso n. 24952/94
  • Corte europea dei diritti dell’uomo, Terza Sezione, sentenza del 27 novembre 2012, Khachatryan e altri c. Armenia, ricorso n. 23978/06
  • Corte europea dei diritti dell’uomo, Terza Sezione, sentenza del 10 luglio 2018, Vasilevskiy e Bogdanov c. Russia, ricorsi nn. 52241/14 e 74222/14
  • Corte europea dei diritti dell’uomo, Seconda Sezione, sentenza del 20 novembre 2018, Selahattin Demirtaş c. Turchia (n. 2), ricorso n. 14305/17
  • Corte europea dei diritti dell’uomo, Prima Sezione, sentenza del 6 ottobre 2016, Richmond Yaw e altri, ricorsi nn. 3342/11, 3391/11, 3408/11 e 3447/11 
  • Corte europea dei diritti dell’uomo, Terza Sezione, sentenza del 4 agosto 2005, Zeciri c. Italia, ricorso n. 55764/00

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