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La Corte costituzionale, con la sentenza n. 8/2020, consolida il nuovo 323 c.p.

Con ordinanza del 6 novembre 2020, il GUP del Tribunale di Catanzaro aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, del D.L. 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito, con modificazioni, nella L. 120/2020, recante modifiche all’art. 323 c.p., in tema di abuso d’ufficio, in riferimento agli artt. 3, 77 e 97 della Costituzione.

La norma impugnata (art. 23, c. 1, D. L. 76/2020) ha previsto, per il delitto di abuso di ufficio, la sostituzione nel testo dell’art. 323 c.p. della locuzione – già tacciata di genericità – “violazione di legge o di regolamento” con quella, dai confini sicuramente meno sfuggenti, di “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

Il giudice calabrese si trova a decidere su tre imputati i quali, membri della commissione esaminatrice di un concorso per il conferimento di incarichi di dirigente medico, avrebbero indebitamente favorito gli altri due coimputati, garantendo loro dapprima l’ammissione alla procedura, sebbene privi del richiesto titolo di specializzazione e, successivamente, la collocazione in posizione utile nella graduatoria finale.

Venivano contestate agli imputati plurime condotte di abuso d’ufficio, addebitando la violazione del dovere di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) in tema di procedure ad evidenza pubblica, nonché dello specifico regolamento in materia di requisiti per la partecipazione alle pubbliche selezioni e di attribuzione dei punteggi.

Intervenuto, nelle more, l’indicato art. 23, c. 1, D.L. n. 76 del 2020, come convertito, che ha riscritto in senso limitativo la fattispecie incriminatrice, l’intervento legislativo, secondo il rimettente, si esporrebbe a dubbi di legittimità costituzionale sia per l’utilizzo dello strumento del decreto-legge, sia per il suo contenuto sostanziale.

La norma violerebbe, innanzitutto, l’art. 77 Cost. a causa della disomogeneità della norma denunciata, per contenuto e finalità, rispetto al resto del corpo normativo in cui è inserita, dedicato alla semplificazione delle procedure amministrative in vista del rilancio economico del Paese; ugualmente in contrasto con l’art. 77 Cost. sarebbe la scelta del decreto-legge a causa del difetto del presupposto della straordinaria necessità ed urgenza che «non [potrebbe] essere realisticamente postulata se non in ipotesi residuali», nella specie palesemente insussistenti.

Sul piano dei contenuti, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost.
Il buon andamento, l’imparzialità e la trasparenza della P.A. sarebbero in contrasto con la finalità della semplificazione in quanto l’abuso, per assumere rilievo penale, deve risolversi nell’inosservanza di una norma legislativa che prefiguri un’attività amministrativa vincolata «nell’an, nel quid e nel quomodo»: attività, non solo estremamente rare, ma che atterrebbero «ad una sfera minuta dell’attività amministrativa», «improbabile e del tutto marginale», lasciando prive di risposta punitiva condotte ben più gravi e meritevoli di sanzione.

Da questo punto di vista, la scelta legislativa di privare di rilevanza penale ogni forma di esercizio di discrezionalità amministrativa comporterebbe la violazione del principio di eguaglianza, risolvendosi nell’attribuzione all’agente pubblico di un potere dispositivo assoluto e sottratto al vaglio giudiziale.
Così ricostruite le doglianze del giudice remittente, la Corte – dopo aver ricostruito “la tormentata parabola storica della figura” ed aver sottolineato come la sua estrema elasticità abbia concorso a produrre il fenomeno della cd. “burocrazia difensiva”, secondo il quale i pubblici funzionari si astengono dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative o restare inerti, per il timore dell’ipoteca legale (cosiddetta “paura della firma”) – esamina, dapprima, le eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Avvocatura Generale dello Stato, incentrate sulla legittimità di pronuncia in malam partem in materia penale.

L’adozione di pronunce con effetti in malam partem in materia penale risulta, in via generale, preclusa dal principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., a condizione che non emergano vizi formali o di incompetenza, relativi, cioè, al procedimento di formazione dell’atto legislativo e alla legittimazione dell’organo che lo ha adottato: già più volte la Corte ha scrutinato nel merito, malgrado i possibili effetti in malam partem conseguenti al loro accoglimento, non solo questioni volte a censurare l’inserimento in sede di conversione di norme penali “intruse”, ma anche, e prima ancora, questioni intese – come l’odierna – a denunciare la carenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, ai quali è subordinata l’eccezionale legittimazione del Governo ad adottare atti con forza di legge in assenza di delegazione parlamentare (cfr. Sent. n. 330/ 1996; ord. n. 90/1997; n. 432/1996).

Alla luce di tali principi, le censure del giudice a quo non vengono condivise, in quanto
la norma censurata non è assolutamente eccentrica rispetto al decreto-legge in cui è inserita.
Il D.L. n. 76/2020 reca un complesso di norme accomunate dall’obiettivo, comune a tutte le sue disposizioni, di promuovere la ripresa economica del Paese dopo il blocco delle attività produttive durante la prima fase dell’emergenza pandemica.

In quest’ottica, il provvedimento interviene in molteplici ambiti: diverse semplificazioni per le imprese e la pubblica amministrazione, diffusione dell’amministrazione digitale, ma anche responsabilità – penale ed erariale – degli amministratori pubblici, affinché anche la pubblica amministrazione, perdendo l’inefficienza e l’immobilismo che ostacola il rilancio economico, svolga una sua azione di volano della ripresa, risolvendosi, pertanto, in un intervento guidato da un’unica logica che anima la traiettoria finalistica portante decreto.

Anche l’eccezione della mancanza del presupposto della straordinaria necessità ed urgenza non coglie nel senso: è l’esigenza di far “ripartire” il Paese dopo il prolungato blocco imposto dovuto alla pandemia che ha impresso ad essa i connotati della straordinarietà e dell’urgenza; valutazione che non può considerarsi manifestamente irragionevole o arbitraria.

Nel merito, sulla violazione del principio di eguaglianza, avendo la norma privato di rilievo penale ogni forma di esercizio di discrezionalità amministrativa, attribuendo all’agente pubblico un potere dispositivo assoluto e sottratto al sindacato giudiziale, simile a quello del privato di disporre della propria cosa, sopravvive la preclusione delle decisioni della Corte in mala partem in materia penale e la questione sollevata deve dichiararsi inammissibile perché volta a conseguire il ripristino di una norma incriminatrice abrogata, operazione preclusa alla Corte (cfr. sent. n. 37/2019, n. 57/2009, n. 324/2008).

La norma censurata, infatti non è norma di favore, ovvero una norma che stabilisce, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione della norma generale, ma una scelta non irragionevole del legislatore; la decisione invocata non mira a far riespandere una norma tuttora presente nell’ordinamento, ma a ripristinare la norma abrogata, espressiva di una scelta di criminalizzazione, riservata al parlamento, non più attuale.

Viepiù che, se la norma incriminatrice (non qualificabile, come visto, norma penale di favore) determinasse intollerabili disparità di trattamento o esiti irragionevoli, il riequilibrio potrebbe essere operato dalla Corte esclusivamente “verso il basso” (ossia in bonam partem), e mai in malam partem e, in particolare, tramite interventi che dilatano il perimetro di rilevanza penale.

La scelta legislativa è, pertanto, salva: ragionevole l’uso del decreto legislativo, coerente con l’impianto dell’intero provvedimento, inammissibile per la Corte la (re)introduzione, tramite una declaratoria di illegittimità costituzionale, di una fattispecie di reato maggiormente ampia rispetto a quella figlia della discrezionalità del parlamento (in questo caso, intervenuto successivamente); salva – per il momento – la nuova formulazione dell’art. 323 c.p.

Corte costituzionale, 25 novembre 2021 (dep. 18 gennaio 2022), n. 8

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