Sommario: 1. Il provvedimento de quo. – 2. Premesse di carattere generale: le garanzie di cui all’art .103 c.p.p. – 3. Il nodo ermeneutico: l’interpretazione del comma 2 dell’art. 103 c.p.p. – 4. Conclusioni.
ABSTRACT
La sentenza in esame si occupa di un contrasto giurisprudenziale relativo al disposto dell’art. 103 c.p.p., contenente la disciplina delle intercettazioni, delle ispezioni, delle perquisizioni e dei sequestri espletati presso gli studi dei difensori. In particolare, il contrasto riguarda l’applicabilità delle garanzie previste dai commi 2, 3 e 4 al solo difensore dell’indagato o dell’imputato nel procedimento in cui si ritenga necessario svolgere attività di ispezione, perquisizione o sequestro, oppure anche ai casi in cui tali atti vengano eseguiti nello studio di un difensore che abbia assunto la difesa di qualsiasi assistito, anche in un procedimento del tutto estraneo rispetto a quello in cui l’attività di ricerca, perquisizione e sequestro venga compiuta, sempre che vi sia fondato motivo di ritenere che tali attività possano incidere su documenti che rappresentano “oggetto di difesa” in un altro procedimento, rispetto al quale i documenti stessi si trovano in collegamento. La risoluzione della questione passa dall’interpretazione della disposizione.
The judgment in question deals with a jurisprudential conflict relating to the provision of art. 103 Code of criminal Procedure, containing the discipline of the interceptions, the inspections, the searches and the seizures of defence firms. In particular, the contrast concerns the applicability of the guarantees provided for in paragraphs 2, 3 and 4 only to the lawyer of the suspect or the accused in the proceedings in which it is considered necessary to carry out inspection, search or seizure activities, or even to cases in which such acts are carried out in the office of a lawyer who has taken the defence of any of his or her witnesses, even in proceedings which are completely unrelated to those in which the activity of inspection, search and seizure is carried out, provided that there is good reason to believe that such activities may affect documents which are “the subject-matter of a defence” in another proceeding, in respect of which the documents themselves are linked. The resolution of the question passes from the interpretation of the provision.
1. Il provvedimento de quo
Con sentenza n. 44892 del 25 novembre 2022 la seconda Sezione penale della Corte di cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: «Le speciali garanzie di libertà del difensore previste dall’art. 103 cod. proc. pen. non riguardano solo il difensore dell’indagato o dell’imputato nel procedimento in cui sorge la necessità di svolgere attività di ispezione, perquisizione o sequestro, ma vanno osservate in tutti i casi in cui tali atti vengano eseguiti nello studio di un professionista iscritto all’albo degli avvocati, che abbia assunto la difesa di qualsiasi assistito, sia nello specifico procedimento che in altro procedimento, anche del tutto estraneo rispetto a quello in cui l’attività di ricerca, perquisizione e sequestro venga compiuta, atteso che non si tratta di privilegi di categoria, finalizzati alla tutela della dignità dei suoi appartenenti, ma del riflesso dell’inviolabilità del diritto di difesa, come diritto fondamentale della persona garantito dall’art. 24 della Costituzione.».
Nel caso di specie il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Livorno proponeva ricorso per Cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale stesso, in veste di Tribunale del riesame, con cui il giudice annullava il decreto di convalida di sequestro emesso dal Pubblico ministero, limitatamente ai beni e documenti reperiti a seguito di perquisizione avvenuta presso lo studio legale dell’indagato, disponendone per l’effetto la restituzione.
Il Tribunale del riesame riteneva sussistenti gli estremi per la violazione dell’art. 103 c.p.p., sostenendo che le garanzie previste dal terzo e dal quarto comma trovano applicazione anche in ipotesi di perquisizione eseguita a carico dello stesso difensore a norma del primo comma, lett. a) dell’art. 103 c.p.p., ossia quando lo stesso assuma le vesti di indagato o imputato.
L’atto di impugnazione del Pubblico ministero si fondava sulla violazione, da parte del Tribunale del riesame, dell’art. 103 c.p.p. per come dallo stesso interpretato, e cioè per l’estensione delle garanzie contemplate dai commi 2, 3 e 4 anche alle ipotesi in cui il difensore rivesta semplicemente la qualità di imputato.
Nel caso di specie l’indagato si ipotizza partecipe di un’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di delitti di natura fallimentare e tributaria, oltre che per truffe, autoriciclaggio e reimpiego di denaro di illecita provenienza, tramite la messa a disposizione della propria attività professionale alla realizzazione dei reati-fine prefissati dal sodalizio criminoso.
L’organo requirente lamentava, come detto, l’erronea interpretazione dell’art. 103 da parte del giudice del riesame, sulla scorta dell’indissolubile collegamento tra condotta illecita e attività professionale svolta, atteso che l’indagato riveste la qualità di difensore di alcuni dei coindagati in altri procedimenti. Sulla base dell’asserito intreccio tra attività illecita e attività professionale, strumentale alla prima, il Tribunale riteneva applicabili le garanzie di cui all’art. 103 in ogni caso di perquisizione e conseguente sequestro di carte e documenti presso uno studio legale. Tale interpretazione, secondo il Pubblico ministero, darebbe adito a intenti criminosi, limitando la possibilità di sequestrare carte e documenti ai soli casi in cui questi costituiscono corpo del reato nonostante il difensore rivesta la qualità di indagato. Tale interpretazione si porrebbe altresì in contrasto con gli articoli 3 e 112 della Costituzione, dando vita a una disparità di trattamento tra situazioni uguali e ostacolando l’esercizio dell’azione penale del pubblico ministero.
Infine, l’interpretazione avallata dal giudice si porrebbe in contrasto con la lettera della disposizione, atteso che il legislatore ha ritagliato in maniera precisa l’ambito applicativo delle garanzie di cui ai commi 2, 3 e 4, indirizzandole alla tutela della funzione difensiva dell’avvocato, e non della qualità di difensore in quanto tale. Ne deriva che, secondo l’impostazione condivisa dal pubblico ministero, l’incarico professionale funge da condicio sine qua non per l’operatività delle succitate garanzie, dando luogo, in caso di diversa impostazione, ad un’illegittima ipotesi di immunità penale, diversamente da quanto previsto dalla norma, che «trova concreta applicazione non a priori ma ex post, al momento del vaglio della documentazione acquisita».
Prima di passare all’esame delle motivazioni della sentenza, è utile analizzare brevemente la disposizione in esame.
2. Premesse di carattere generale: le garanzie di cui all’art .103 c.p.p.
Partiamo dal panorama normativo.
L’art. 14 della Costituzione dichiara inviolabile il domicilio, disponendo al comma 2 che «non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale.», ossia tramite atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei solo casi e modi previsti dalla legge (art. 13, co. 2 Cost.); l’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) stabilisce il diritto al rispetto del domicilio, il cui esercizio non può subire ingerenze «da un’autorità pubblica […] a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per il benessere economico del paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui.»; l’art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (Patto 19 dicembre 1966) recita: «Nessuno può essere sottoposto ad interferenze arbitrarie o illegittime nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa o nella sua corrispondenza». Infine, l’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta 12 dicembre 2007) dispone che «ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni».
Le esigenze di tutela del domicilio, sentite sia in Costituzione che nelle fonti internazionali succitate, si illuminano quando toccano uno dei luoghi dove il difensore espleta la sua attività, dove quindi trova concreto esercizio la sua funzione, costituzionalmente tutelata dall’art. 24, co. 2 Cost., e dove quindi è presente il materiale inerente al rapporto con l’assistito, ossia lo studio legale.
Anche il codice di procedura penale del 1930 teneva conto delle esigenze appena viste. All’uopo, prevedeva una norma volta a limitare il potere di sequestro presso difensori e consulenti tecnici, ossia l’art. 341[1]. Ciò che non poteva essere sequestrato – e che oggi chiamiamo “oggetto della difesa” – era la documentazione “ricevuta in consegna” dal difensore o dal consulente tecnico “per l’adempimento” dell’ufficio. Di conseguenza si riteneva non soggetto a disciplina il materiale non sottoposto alla disponibilità del difensore perché allo stesso non consegnato, oltre a ciò che non era funzionale all’espletamento della difesa[2].
L’esigenza di tutelare il rapporto tra difensore e assistito permea l’art. 103 del vigente codice di procedura penale, contenente norme volte a garantire il libero esercizio della funzione difensiva rispetto ad eventuali intrusioni del potere investigativo, specie in ordine alle attività di ricerca della prova, rispetto alle quali l’ufficio del difensore riceve una tutela rafforzata, in linea con quanto previsto dalla legge delega[3] e dalla Relazione al progetto preliminare del codice vigente[4].
Il suddetto articolo, rubricato “garanzie di libertà del difensore”, è composto da sette commi. Il primo detta una disciplina relativa al difensore imputato[5], il secondo ne detta una relativa sempre al difensore, ma come espressione della funzione dallo stesso svolta.
Il comma 1, volto a definire il perimetro soggettivo e oggettivo delle attività di ricerca della prova negli studi dei difensori imputati, recita: «Le ispezioni e le perquisizioni negli uffici dei difensori sono consentite solo: a) quando essi o altre persone che svolgono stabilmente attività nello stesso ufficio sono imputati, limitatamente ai fini dell’accertamento del reato loro attribuito; b) per rilevare tracce o altri effetti del reato o per ricercare cose o persone specificamente predeterminate».
La previsione di cui alla lettera a) mira ad evitare che l’atto d’indagine sia finalizzato alla scoperta di documenti che nulla hanno a che vedere con il procedimento penale a carico dell’imputato stesso[6].
La previsione di cui alla lett. b) contempla un perimetro di ricerca più ristretto rispetto a quello di cui all’art. 247 c.p.p., che consente le perquisizioni, oltre che per la ricerca del corpo del reato, per la ricerca di «cose pertinenti al reato», laddove la lettera b) limita la ricerca a cose o persone specificamente predeterminate, al fine di evitare inutili ingressi negli studi legali senza che sia già prefissato l’oggetto della ricerca, onde prevenire una ricerca a tappeto[7].
Si ritiene che il reato di cui alla lett. a) debba corrispondere a quello di cui alla lett. b)[8], con l’effetto di impedire in maniera assoluta ispezioni e perquisizioni negli uffici dei difensori se essi o chi svolge stabilmente attività nello stesso ufficio non sono imputati. Tale interpretazione sembra la più corretta alla luce del collegamento risultante dalle due lettere. Inoltre, in base alla ratio della norma, le garanzie di libertà del difensore (di cui alla rubrica dello stesso articolo 103) troverebbero tutela anche dal punto di visto oggettivo. Tuttavia, non si vede ragione per limitare tali attività alle ipotesi in cui siano i difensori ad essere imputati, potendo emergere dalle indagini l’esigenza di ricercare una specifica cosa o una specifica persona che si abbia fondato motivo di ritenere che si trovi nei predetti luoghi.
Il comma 2 dell’art. 103 c.p.p. vieta il sequestro di “carte e documenti relativi all’oggetto della difesa” presso i difensori, gli investigatori privati e i consulenti tecnici autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, salvo che tale materiale costituisca corpo del reato[9]. Anche qui, il perimetro oggettivo muta rispetto a quello più ampio dettato dall’art. 253 c.p.p., che consente il sequestro anche per le «cose pertinenti al reato necessarie per l’accertamento dei fatti». Il corpo del reato comprende una quantità di cose che fa parte della più ampia categoria delle “cose pertinenti al reato”; tra i due difatti si instaura un rapporto tra genere e specie[10].
Per quanto riguarda le carte e i documenti, la formula linguistica sembra alludere a ricomprendere nel divieto tutto ciò che potrebbe, per qualsivoglia ragione, non rientrare nel concetto di documento[11]. Sulla formula, poi, non poche sono state le critiche, dovute alla mancata contemplazione, all’interno del divieto, di cose diverse dai documenti, di cui comunque la difesa potrebbe servirsi[12]. Infine, il divieto opera per quanto costituisce “oggetto della difesa”, ossia per tutto ciò che in qualche modo sia riconducibile all’attività difensiva.
In presenza delle condizioni di cui al comma 2 operano le garanzie previste dai commi 3 e 4. L’autorità giudiziaria è tenuta a pena di nullità a dare avviso al consiglio dell’ordine forense del luogo perché il presidente o un consigliere da questo delegato possa assistere alle operazioni, con diritto di vedersi consegnata copia del provvedimento qualora ne faccia richiesta.
Il comma 4 prescrive invece che alle operazioni di ispezione, perquisizione e sequestro negli uffici dei difensori proceda «personalmente il giudice ovvero, nel corso delle indagini preliminari, il pubblico ministero in forza di motivato decreto di autorizzazione del giudice». La figura del giudice è espressione di garanzia circa il libero esercizio del diritto di difesa. La norma, com’è facilmente intuibile, vieta la delega alla polizia giudiziaria da parte del pubblico ministero, che dovrà presenziare alle attività di ricerca della prova oggetto del decreto di autorizzazione del giudice, il quale deve contenere una congrua motivazione circa la sussistenza di tutti i presupposti di cui al comma 2.
Il comma 7, infine, dispone l’inutilizzabilità dei risultati delle ispezioni, perquisizioni e sequestri eseguiti in violazione delle disposizioni appena citate.
3. Il nodo ermeneutico: l’interpretazione del comma 2 dell’art. 103 c.p.p.
Il pubblico ministero lamentava, come sopra accennato, un’erronea interpretazione dell’art. 103 c.p.p. volta ad estendere le garanzie di libertà del difensore anche alle ipotesi di perquisizioni e sequestri posti in essere contro legali indagati o imputati. A tal fine, l’organo di accusa citava una giurisprudenza volta ad escludere le predette garanzie al difensore indagato, sulla scorta di un’interpretazione che ravvisa l’oggetto di tutela delle stesse garanzie non nella figura dell’esercente la professione forense, ma nella funzione difensiva e nell’oggetto della difesa, atteso che «in tema di sequestro da eseguirsi nell’ufficio di un difensore, qualora il mezzo di ricerca della prova venga disposto nell’ambito di un procedimento relativo ad un reato attribuito al difensore medesimo, non è necessario l’avviso al Consiglio dell’ordine forense di cui al comma 3 dell’art. 103 c.p.p., e ciò in quanto nella predetta ipotesi, atteso che il soggetto attivo del reato non è la persona assistita bensì una persona che esercita la professione legale, non viene in rilievo la tutela della funzione difensiva e dell'”oggetto della difesa”, cui è finalizzata la disposizione in esame»[13].
Come sopra accennato, nel caso di specie all’indagato si addebita la partecipazione ad un’associazione per delinquere, il cui ruolo sarebbe, secondo l’ipotesi accusatoria, la fornitura di assistenza professionale per la realizzazione dei reati-fine prefissati dal sodalizio. Inoltre, al momento della perquisizione, l’indagato difendeva altri asseriti partecipanti alla suddetta associazione in separati procedimenti. Sulla scorta di quanto detto, la Cassazione ha prospettato un’interferenza tra attività professionale dell’indagato e attività di ricerca della prova espletata dal pubblico ministero, cui si accompagna un forte intreccio tra attività professionale e attività illecita attribuita all’indagato.
Dal quadro indiziario la Cassazione ha dedotto che «pare arduo escludere che nella specie venga in rilievo la tutela della funzione difensiva e dell’”oggetto della difesa”, cui sono finalizzate le guarentigie dell’art. cod. proc. pen.».
In relazione al procedimento nel cui ambito sono avvenuti perquisizione e sequestro, l’indagato non aveva un incarico defensionale. Questo è l’ulteriore argomento posto a fondamento dell’impugnazione del pubblico ministero, confutato dalla Cassazione sulla base della giurisprudenza secondo cui le garanzie difensive di cui all’art. 103 c.p.p. «non vanno limitate al difensore dell’indagato o dell’imputato nel cui procedimento sorge la necessità di attività di ispezione, ricerca o sequestro, ma vanno osservate in tutti i casi in cui tali atti vengono eseguiti nell’ufficio di un professionista, iscritto all’albo degli avvocati e procuratori, che abbia assunto la difesa di assistiti, anche fuori del procedimento in cui l’attività di ricerca, perquisizione e sequestro viene compiuta[14]».
A corroborare tale ricostruzione sono intervenute le Sezioni Unite[15], secondo cui «l’operatività dei limiti e delle garanzie previsti dall’art. 103 c.p.p. per le ispezioni e perquisizioni da eseguire negli uffici dei difensori non è subordinata alla condizione che tali atti siano disposti dall’autorità giudiziaria nello stesso procedimento in cui è svolta l’attività difensiva. Ne consegue che deve ritenersi illegittima la perquisizione di uno studio di un difensore disposta dal p.m. ed eseguita dalla polizia giudiziaria senza l’osservanza delle prescrizioni dell’art. 103 commi 3 e 4 c.p.p., anche se con riferimento ad un procedimento diverso da quello in cui era svolta l’attività difensiva». La pronuncia in esame riprende integralmente le ragioni delle sezioni unite.
La sentenza delle sezioni unite aveva avuto il ruolo di redimere il contrasto tra i due contrapposti orientamenti interpretativi.
Il primo «ritiene che “le speciali garanzie di libertà del difensore previste dall’art. 103 c.p.p. sono riferibili ai soli avvocati che assumono l’ufficio di difensore nel procedimento nel quale vengono disposti la perquisizione o il sequestro e non ai legali che svolgano o abbiano svolto l’ufficio in favore dell’attuale investigato, ma in diversi affari o procedimenti” (Sez. VI, 22 gennaio 1991, Grassi, in Cass. pen., 1991, II, p. 721, n. 246);».
Il secondo«giunge alla conclusione che tali garanzie “non vanno limitate al difensore dell’indagato o dell’imputato nel cui procedimento sorge la necessità di attività di ispezione, ricerca o sequestro, ma vanno osservate in tutti i casi in cui tali atti vengono eseguiti nell’ufficio di un professionista, iscritto all’albo degli avvocati e procuratori, che abbia assunto la difesa di assistiti, anche fuori del procedimento in cui l’attività di ricerca, perquisizione e sequestro viene compiuta” (Sez. VI, 27 ottobre 1992, Genna, in Cass. pen., 1993, p. 2020, n. 1187).».
A sostegno del primo orientamento veniva addotta «la “sedes materiae”, perché l’art. 103 c.p.p. è norma che è inserita nel libro primo del codice di procedura penale, che regola i soggetti, e tali possono considerarsi solo coloro che siano in concreto intervenuti, anche se con ruolo diverso dalle parti, nel rapporto processuale”». A sostegno del secondo veniva «ricordato che i lavori preparatori, dalla Relazione al Progetto preliminare del 1978 alle discussioni parlamentari, contengono chiare indicazioni a sostegno del secondo orientamento», rilevando «che “non c’è nessuna ragione, né letterale, né logica, né sistematica, di limitare la garanzia al difensore dell’indagato nel cui procedimento sorge la necessità di attività di ispezione, ricerca, sequestro o intercettazione”; che la limitazione sarebbe ingiustificata perché darebbe “la possibilità di incidere sulla sfera riservata al difensore attraverso attività investigative formalmente estranee al procedimento de quo, ma che potrebbero far acquisire indirettamente alla polizia giudiziaria e al pubblico ministero notizie ed elementi utili ai fini dell’indagine”; che “non si tratta di privilegi di categoria giacché la tutela apprestata non è finalizzata… alla “dignità” professionale degli avvocati, ma al libero ed ampio dispiegamento dell’attività difensiva e del segreto professionale (così come negli artt. 200 e 256 c.p.p.), che trovano il diretto supporto nell’art. 24 Cost., che sancisce la inviolabilità della difesa, come diritto fondamentale della persona (art. 2 Cost.)”».
Aderendo al secondo orientamento, le Sezioni unite sottolineavano che non vi erano ragioni per ritenere che le garanzie di cui all’art. 103 fossero limitate al difensore del procedimento in cui veniva svolta attività difensiva[16], né che tale limitazione potesse considerarsi «implicita perché il codice quando parla di difensori fa necessariamente riferimento a quelli a quelli del procedimento in cui è compiuto l’atto considerato». Cioè a dire che con il termine difensore l’art. 103 non fa riferimento al difensore incaricato per lo specifico procedimento ma al “ruolo” di difensore[17]. In particolare l’uso del plurale (“uffici dei difensori”; “difensori”) «sta ad indicare che la norma prende in considerazione l’attività difensiva e non il rapporto instaurato nel procedimento in cui sono compiuti gli atti di ricerca della prova».
In conclusione, l’odierna sentenza ha ritenuto irragionevole una disparità di trattamento sulla base del procedimento nel quale gli atti di ricerca della prova vengono compiuti. In particolare, il giudice nomofilattico ha ritenuto, riprendendo anche qui le conclusioni delle sezioni unite, che le garanzie previste dall’art. 103 sono volte ad evitare che le operazioni effettuate negli uffici dei difensori siano finalizzate a reperire illegittimamente documenti e atti relativi a un diverso procedimento[18].
L’indirizzo testé citato dalle sezioni unite è stato seguito anche da altre pronunce, cui si confà anche l’odierna sentenza, secondo cui «le speciali garanzie di libertà del difensore previste dall’art. 103 c.p.p. non riguardano solo il difensore dell’indagato o dell’imputato nel procedimento in cui sorge la necessità di svolgere attività di ispezione, perquisizione o sequestro, ma vanno osservate in tutti i casi in cui tali atti vengono eseguiti nello studio di un professionista iscritto all’albo degli avvocati, che abbia assunto la difesa di qualsiasi assistito, sia nel procedimento “de quo” che in altro procedimento, anche del tutto estraneo rispetto a quello in cui l’attività di ricerca, perquisizione e sequestro venga compiuta, atteso che non si tratta di privilegi di categoria, finalizzati alla “tutela” della dignità dei suoi appartenenti, ma del riflesso dell’inviolabilità del diritto di difesa, come diritto fondamentale della persona garantito dall’art. 24 cost.[19]».
La dicotomia tra i due indirizzi fa leva sua una diversa interpretazione dell’art. 103 c.p.p., la cui soluzione porta inevitabilmente alla soluzione del problema.
Il primo orientamento opta per un’interpretazione puramente letterale delle disposizioni ivi contenute, facendo leva sulla connessione tra commi 1 e 2. Nello specifico, parlando la lettera a) di difensore imputato, e parlando il comma 2 di difensore incaricato in relazione al procedimento, i fautori di tale impostazione dividono nettamente le due posizioni, in modo che le garanzie di cui ai commi 2 e seguenti possano operare esclusivamente in presenza di un mandato defensionale ed esclusivamente nell’ambito delle operazioni di ricerca della prova espletate nel procedimento in relazione al quale il mandato stesso viene conferito.
Viceversa, i fautori dell’impostazione “estensiva” optano per un’interpretazione teleologica delle disposizioni, facendo leva in particolare su quanto prospettato dal legislatore in fase di redazione dell’articolo in esame, il cui fine è la tutela della funzione difensiva. In realtà entrambi gli orientamenti sottolineano che oggetto di tutela non sia il difensore, ma il libero esercizio della sua funzione. Tuttavia, ciò che distanzia le due impostazioni è il conferimento dell’incarico. L’impostazione estensiva allarga le garanzie anche a chi non è difensore nel procedimento de quo, ma che risulterebbe bisognoso delle stesse esigenze di cui beneficerebbe se fosse difensore incaricato in quello specifico procedimento.
Come detto sopra, l’art. 103, specie per quel che riguarda la disciplina che va dal comma 2 in poi, è frutto di un bilanciamento di interessi, che ha portato ad una disciplina derogatoria rispetto a quella ordinaria in relazione ai mezzi di ricerca della prova. Questa non è applicabile solo ai difensori, ma anche agli investigatori privati e ai consulenti tecnici che ovviamente siano autorizzati e incaricati in relazione al procedimento. Trattasi in pratica di tutti quei soggetti che non sono difensori ma la cui attività professionale è indispensabile per la tattica difensiva.
Quanto detto corrobora la tesi secondo cui oggetto di tutela della norma non è il professionista in quanto tale ma il libero esercizio della sua funzione in relazione alla persona che ne beneficia[20], in linea con quanto espresso dal legislatore nella Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale.
Le garanzie operano senza dubbio con riguardo al procedimento in cui il difensore ha un mandato a difendere l’imputato coinvolto nelle suddette attività. Ma il punto da risolvere è se dette garanzie operino solo in questi casi oppure se la disciplina debba estendersi anche ad ipotesi in cui il difensore non è l’avvocato dell’indagato, e quindi in procedimenti diversi rispetto a quello in cui vengono espletate le attività di cui all’art. 103 c.p.p.
Conclusioni
L’art. 103 c.p.p. non vieta l’espletamento di attività di ricerca della prova negli uffici dei difensori, ma ne detta una disciplina particolare, resa necessaria dalla delicatezza delle informazioni che i documenti ivi contenuti possono contenere, trattandosi di informazioni relative all’indagato e al suo rapporto con il difensore[21].
Tanto premesso, la disposizione in esame detta una prima disciplina con riguardo ai difensori imputati, nei cui studi legali le ispezioni e le perquisizioni possono avvenire solo per ricercare tracce o altri effetti materiali del reato oppure per la ricerca di cose o persone specificamente predeterminate. La disciplina, come già visto, rimane quella ordinaria, tranne per quel che riguarda l’oggetto della perquisizione, che viene ristretto rispetto a quello di cui all’art. 247 c.p.p.
Le stesse attività sono consentite negli stessi luoghi anche se il legale non riveste la qualità di imputato, nei cui casi sorgono particolari esigenze cui far fronte con altrettanto particolari garanzie. Qui bisogna salvaguardare il rapporto tra difensore e assistito, la cui sacralità è scolpita nell’art. 24, co. 2 Cost. che predica il diritto di difesa come inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. È chiaro che tale sacralità verrebbe meno se si consentisse “senza limiti” – rectius: con i limiti “ordinari” – all’autorità giudiziaria di disporre attività di ricerca della prova negli uffici dei difensori, onde si concretizzerebbe il rischio che l’organo requirente entri in possesso e a conoscenza di informazioni che rappresentano l’essenza di quel rapporto[22], in particolare per quel che riguarda la tattica difensiva. Dall’altro lato, ça va sans dire, non si può certo impedire in maniera assoluta all’autorità giudiziaria di ricercare nei predetti luoghi cose che possano consentire la ricostruzione del fatto, dovendo essere garantito l’interesse all’accertamento.
Da qui la disciplina peculiare di cui ai commi 2, 3 e 4 dell’art. 103. Il sequestro delle carte e dei documenti rinvenuti nello studio legale può avvenire solo se tali materiali costituiscono corpo del reato, e le attività di ispezione, perquisizione e sequestro devono essere precedute dall’avviso al consiglio dell’ordine forense e poste in essere personalmente dall’autorità giudiziaria.
Il punto è, come detto sopra, capire in quali casi operano tali garanzie.
Come anticipato, nulla quaestio in caso di mandato difensivo in relazione al procedimento, come espressamente prevede il comma 2. Il problema si pone quando le attività di ricerca riguardano un avvocato cui non è stato conferito un incarico in relazione al procedimento de quo.
Se siamo giunti alla conclusione che oggetto di tutela della particolare disciplina in esame non è il difensore in quanto tale, ma la funzione dallo stesso espletata e quindi la libera ed efficace esplicazione del rapporto difensivo[23], allora possiamo giungere alla conclusione che non può essere un atto formale come il mandato defensionale a stabilire se trovi o meno applicazione il sistema di garanzie di cui ai commi 2, 3 e 4.
Nel caso di specie, in relazione al procedimento non c’era alcun mandato difensivo. Tuttavia, la Corte di cassazione ha deciso di annullare il decreto di perquisizione e quello di convalida del sequestro in quanto le attività di ricerca della prova avrebbero potuto carpire informazioni relative ai procedimenti degli asseriti compartecipi dell’indagato all’ipotetico sodalizio criminoso. Le ragioni non vertevano solo sull’ipotizzata partecipazione all’associazione per delinquere ma anche sulla circostanza che l’indagato era incaricato in altri procedimenti in cui erano coinvolti alcuni dei sodali. Usando le parole della Corte, «pare arduo escludere che nella specie venga in rilievo la tutela della funzione difensiva e dell’”oggetto della difesa”, cui sono finalizzate le guarentigie dell’art. 103 cod. proc. pen.».
In altri termini, l’autorità giudiziaria ha ritenuto non configurabile la struttura garantistica nel caso di specie, non trattandosi, come recita il comma 2, di un difensore incaricato «in relazione al procedimento». Tuttavia, l’interpretazione letterale della disposizione contenuta nel comma 2 non basta se si stabilisce come premessa quella secondo cui la ratio della norma è di tutelare la funzione e la tattica difensiva, e la segretezza che le permea, e che interpretando in maniera puramente letterale il comma 2 finiremmo per escludere dal novero delle ipotesi contemplate dal sistema di garanzie proprio una serie di casi in cui c’è il rischio che attività di ricerca della prova si indirizzino formalmente verso «tracce o altri effetti materiali del reato cose o persone specificamente predeterminate» ma sostanzialmente incidenti su «carte e documenti oggetto della difesa». Nel caso di specie le attività di perquisizione e il relativo sequestro avrebbero potuto riguardare non solo il fatto addebitato all’indagato ma anche documenti relativi all’oggetto di difesa in relazione al rapporto tra l’indagato stesso e i suoi assistiti in altri procedimenti, dovendo trovare applicazione la disciplina garantista.
L’interpretazione della legge avviene alla stregua dei criteri di cui all’art. 12 delle Disposizioni della legge in generale (cd. Preleggi)[24].
Il comma 1 contempla il criterio letterale e il criterio teleologico. La norma va ricavata dal senso delle parole e dalla connessione tra esse, che rappresentano limite invalicabile per l’interprete, in primis per il giudice[25]; il criterio teleologico (o per ratio) ricava la norma sulla base del fondamento, dello scopo e della funzione obiettiva della stessa[26].
I due criteri devono completarsi a vicenda, ma non si pongono sullo stesso livello. Ciò si evince dalla virgola contenuta nel comma 1, che precede l’inciso «e dall’intenzione del legislatore», che denota un peso specifico inferiore[27] oppure equivalente del criterio teleologico. Infine, il ricorso all’analogia legis è consentito esclusivamente quando manca una specifica disposizione che regoli la fattispecie concreta, motivo per cui «si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe» e, se tali disposizioni mancano, si fa uso dell’analogia iuris, che consente di ricavare la norma da applicare alla fattispecie concreta ricavandola dai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.
L’articolo 12 espressamente prevede una “preferenza” per il criterio letterale, nel senso che la norma ricavata non può contrastare con il senso letterale delle parole contenute nella disposizione. In altre parole, se il testo normativo non risulta ambiguo, è vietato all’interprete l’uso di altri criteri ermeneutici[28]. Ne consegue che i due criteri possono convergere solo se dall’utilizzo del solo criterio letterale il significato sella norma risulti ambiguo, supplendo il criterio teleologico alle carenze del primo, qualora utilizzati separatamente non risultino idonei al raggiungimento dello scopo[29].
Nel caso di specie, il problema ermeneutico sorge in riferimento al comma 2 della disposizione in esame; più nello specifico, essa attiene alla formula “autorizzati e incaricati in relazione al procedimento”. L’uso del solo criterio letterale ci porterebbe a conclusioni analoghe a quelle del pubblico ministero. Il soccorso del criterio teleologico, nei limiti visti poc’anzi, risulta vitale.
La formula “in relazione al procedimento”, in particolare, è quella che concepisce maggiori perplessità. La ratio della norma è quella di tutelare la funzione difensiva e il diritto di difesa, ma l’interpretazione puramente letterale della disposizione darebbe origine a una norma che rende le garanzie applicabili solo in presenza di un mandato difensivo. Dal che si potrebbe prospettare una questione di illegittimità costituzionale della norma per violazione degli artt. 3 e 24, co. 2 Cost. nella parte in cui non include nell’area di tutela anche le ipotesi in cui il suddetto mandato manchi e ciononostante venga in rilievo l’esigenza di tutelare difensore e imputato da indebite apprensioni di documenti oggetto della difesa.
Se al criterio letterale si aggiunge quello teleologico, tuttavia, è possibile un’interpretazione cd. estensiva della formula in esame. Difatti, il comma 2 parla di «difensori […] incaricati in relazione al procedimento», potendo comprendere anche incarichi esterni al procedimento nel cui ambito le attività vengono svolte. Il legislatore avrebbe potuto benissimo utilizzare termini come “per lo specifico procedimento” oppure “nominati per la difesa dell’imputato”, laddove la formulazione letterale avrebbe lasciato poco spazio al criterio teleologico. Ma la formula “in relazione al procedimento” ben può essere estensivamente intesa, sia per il tenore letterale, ponendo l’incarico in relazione al procedimento, ossia all’attività del difensore anche estranea al singolo procedimento ma comunque attinente allo stesso, sia perché un’esegesi estensiva attiene pienamente alla ratio della norma, che è requisito imprescindibile per l’operatività di detto criterio interpretativo[30].
Un ultimo punto da chiarire riguarda i presupposti delineati dalla Corte per l’applicazione dei commi 2, 3 e 4. Difatti la Cassazione dice, richiamando altre pronunce, che «le speciali garanzie di libertà del difensore previste dall’art. 103 cod. proc. pen. non riguardano solo il difensore dell’indagato o dell’imputato nel procedimento in cui sorge la necessità di svolgere attività di ispezione, perquisizione o sequestro, ma vanno osservate in tutti i casi in cui tali atti vengano eseguiti nello studio di un professionista iscritto all’albo degli avvocati che abbia assunto la difesa di qualsiasi assistito, sia nel procedimento «de quo» che in altro procedimento, anche del tutto estraneo rispetto a quello in cui l’attività di ricerca, perquisizione o sequestro venga compiuta». La conclusione cui giunge la Cassazione ritiene avulso dall’applicazione della disciplina qualsiasi collegamento del procedimento de quo con altri procedimenti. Prima facie tale affermazione renderebbe sempre applicabili le garanzie di cui all’articolo 103, essendo sufficiente che gli atti avvengano nello studio del difensore iscritto all’albo degli avvocati e che questi abbia assunto la difesa di qualsiasi assistito anche in un procedimento del tutto estraneo a quello in cui l’attività viene espletata.
Ovviamente non è così che va letta. Le garanzie di cui ai commi 2, 3 e 4 vanno applicate anche ai casi in cui le attività di ricerca della prova debbano avvenire nello studio di un difensore che non abbia mandato a difendere, che sia iscritto all’albo degli avvocati e che abbia assunto la difesa di un altro assistito anche in un procedimento del tutto estraneo rispetto a quello interessato dalle attività di ricerca, purché vi sia fondato motivo di ritenere che tali attività possano incidere su carte e documenti che rappresentano “oggetto di difesa” in un altro procedimento, rispetto al quale il materiale si trova in collegamento[31]. Da qui l’esigenza di applicare le garanzie di cui ai commi 2, 3 e 4 dell’art. 103 c.p.p.
[1] La disposizione recitava: «Presso i difensori e i consulenti tecnici non si puo’ procedere al sequestro delle carte o dei documenti che hanno ricevuto in consegna per l’adempimento del loro ufficio, salvo che tali carte o documenti facciano parte del corpo del reato».
[2] SCALFATI, Ricerca della prova e immunità difensive, Padova, 2001, 170 – 171.
[3] L’art. 1, n. 4) della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale) richiede che il codice di rito contenga la «previsione di garanzie per la libertà del difensore in ogni stato e grado del procedimento».
[4] Relazione al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni e delle norme per l‘adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ed a quello a carico degli imputati minorenni, 46: «è stato dibattuto ampiamente il tema delle garanzie di libertà del difensore, nella consapevolezza che in un processo di parti la funzione difensiva, al pari di quella di accusa, deve essere fortemente tutelata e che, dunque, era necessario dare contenuti concreti e specifici alla direttiva 4 della legge-delega. Ne è risultato l’articolo 102, nel quale, sotto la rubrica, appunto, «Garanzie di libertà del difensore» si è ritenuto, in primo luogo, di raccogliere varie disposizioni che nel Progetto del 1978 erano distribuite in varie altre norme: in tema di ispezioni, di perquisizioni, di sequestri, di intercettazione di comunicazioni. Ciò rende più palese che si tratta di disposizioni tutte coordinate alla tutela della funzione difensiva».
[5] O indagato, posto che l’art. 61 c.p.p. estende alla persona sottoposta alle indagini preliminari i diritti e le garanzie dell’imputato. A fortiori, DE PIETRO, Ispezioni, perquisizioni e sequestri negli uffici dei difensori secondo l’articolo 103 del codice di procedura penale, in Archivio della nuova procedura penale, 1993, 661, sottolinea che «non avrebbe alcun senso il testo del quarto comma dell’art. 103 c.p.p. nella parte in cui prevede che, nel corso delle indagini preliminari, il provvedimento di ispezione, perquisizione o sequestro debba essere adottato dal giudice ed eseguito dal P.M., se non ritenesse equiparabile all’imputato, cui fa letteralmente riferimento il primo comma, lett. a), la figura dell’indagato.».
[6] CRISTIANI, Art. 103, in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di Chiavario, I, 1989, Torino, 473.
[7] FRIGO, Art. 103, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di Amodio – Dominioni, I, Milano, 1988, 660.
[8] DE PIETRO, op. cit., 662.
[9] Secondo l’articolo 253, co. 2 c.p.p. costituiscono corpo del reato «le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso nonché le cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo».
[10] MELCHIONDA, Sequestro (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Milano, 1990, XLII, 150; GALANTINI, Art. 321, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, III, Milano, 1990, 272; SCALFATI, op. cit., 173.
[11] SCALFATI, op. cit., 179.
[12] V. SCALFATI, op. cit., 182; FRIGO, op. cit., 662.
[13] Cass. pen. Sez. II, 12/11/1998, n. 6766. Dello stesso avviso Cass. pen. Sez. II Sent., 21/08/2012, n. 32909; Cass. pen. Sez. V, 12/09/2003, n. 35469; Cass. pen. Sez. II, 20/09/2006, n. 31177; Cass. pen. Sez. VI Sent., 25/02/2019, n. 8295; Cass. pen. Sez. III, 07/06/2017, n. 28069; Cass. pen. Sez. I, 18/06/2015, n. 25848.
[14] Cass. pen., Sez. VI n. 3804 del 27/10/1992.
[15] Cass. pen. Sez. Unite, 12/11/1993, n. 25, in Foro It., 1994, II, 205.
[16] L’impostazione contraria si basava sulla collocazione dell’art. 103, norma inserita nel libro primo del codice di procedura penale, rubricato “i soggetti”. Ne conseguirebbe che i soggetti possono essere considerati solo coloro che sono in concreto intervenuti nel procedimento stesso, anche se con ruolo diverso dalle parti.
[17] «È significativa innanzi tutto la lettera della legge, dato che nell’art. 103 non vi sono parole per indicare che le garanzie
previste sono destinate ad operare solo per gli atti di ricerca della prova compiuti nel procedimento in cui è svolta l’attività
difensiva. Né si può dire che questa limitazione è implicita perché il codice quando parla di difensori fa necessariamente
riferimento a quelli del procedimento in cui è compiuto l’atto considerato. Infatti un’affermazione del genere si risolverebbe in una petizione di principio, dando per dimostrato quello che è appunto da dimostrare, e cioè che con il termine “difensori” il codice non si riferisce mai alle persone che svolgono attività difensiva, indipendentemente dal procedimento in cui la svolgono. Ma c’è di più: l’art. 103 non sarebbe comunque il solo a parlare di “difensori” in relazione ad una qualità professionale anziché ad uno specifico procedimento visto che si esprimono in modo analogo anche gli artt. 97 comma 2 (dove si parla di “elenchi dei difensori”) e 613 comma 1 (dove si parla di “difensori iscritti nell’albo speciale della corte di cassazione”).
È da notare inoltre che nell’art. 103 si parla al plurale di “difensori” e di “uffici dei difensori”, od anche, con l’articolo indeterminativo, di “ufficio di un difensore”, mentre generalmente il codice usa il sostantivo difensore al singolare con l’articolo determinativo o la preposizione articolata (“il difensore”, “del difensore”, ecc.), per ‘indicare la titolarità’ di diritti, facoltà e doveri all’interno del procedimento, parlando al plurale di “difensori” solo quando intende riferirsi alle diverse parti del processo (e non è il caso dell’art. 103) o quando prende in considerazione genericamente le persone che svolgono professionalmente l’attività difensiva, come avviene appunto nei già menzionati artt. 97 comma 2 e 613 comma 1; perciò deve ritenersi non solo che la parola “difensori” nell’art. 103, di per sé, non ha necessariamente il significato limitativo che gli si vorrebbe attribuire ma anzi che l’uso del plurale (“negli uffici dei difensori”; “presso i difensori”) sta ad indicare che la norma prende in considerazione l’attività difensiva e non il rapporto instaurato nel procedimento in cui sono compiuti gli atti di ricerca della prova.»
[18] Cass. pen. Sez. Unite, 12/11/1993, n. 25: «Del resto se si considera la funzione delle garanzie dell’art. 103 ci si convince che sarebbe irragionevole una differenziazione di disciplina a seconda del procedimento nel quale vengono compiuti gli atti che incidono sul rapporto tra parte e difensore, perché se occorre evitare interferenze in questo rapporto, presa di cognizione o di atti tutelati con il segreto (artt. 200 e 256 c.p.p.) sequestro di carte e documenti relativi all’oggetto della difesa, diversi da quelli che costituiscono corpo del reato (art. 103 coma 2), l’esigenza si presenta con uguali caratteristiche per gli atti compiuti nello stesso procedimento in cui si svolge il rapporto difensivo e per quelli compiuti in altri procedimenti. In particolare i limiti del primo comma e le garanzie dei commi terzo e quarto dell’art. 103 sono diretti proprio ad evitare che con ispezioni e perquisizioni non strettamente necessarie negli uffici dei difensori, effettuate dalla polizia giudiziaria in modo incontrollato, si possa condurre una ricerca indiscriminata su tutti gli atti esistenti nell’ufficio del difensore, con la possibilità di acquisire o comunque di conoscere, solo perché relativi ad altri procedimenti, atti di un rapporto difensivo che il difensore ha diritto di mantenere segreti. Del resto è assai difficile immaginare che la lett. a) del primo comma sia stata dettata pensando alle ispezioni e alle perquisizioni negli uffici di persone che nello stesso procedimento svolgono attività difensiva, perché è assai improbabile che queste persone (od altre che svolgono stabilmente attività nello stesso ufficio) oltre alla veste di difensore (o di addetto all’ufficio del difensore) possano assumere quella di imputato.»
[19] Cass. pen. Sez. VI, 12/03/2001, n. 20295; Cass. pen. Sez. IV, 03/06/2014, n. 23002; Cass. pen. Sez. V Sent., 21/09/2020, n. 27988; Cass. pen. Sez. II Sent., 21/04/2017, n. 19255.
[20] DINACCI, Le garanzie di libertà del difensore tra tutela costituzionale e difficoltà operative, in Dir. pen. proc., 6/2012, 23.
[21] DE PIETRO, Ispezioni, perquisizioni e sequestri negli uffici dei difensori secondo l’articolo 103 del codice di procedura penale, in Archivio della nuova procedura penale, 1993, 661, dove si legge che «l’art. 103 adopera l’espressione «difensore» non nel senso di soggetto legato ad altro soggetto da mandato difensivo, ma nel senso di persona esercente professionalmente l’attività difensiva. La ratio della norma è da individuarsi nella tutela del diritto alla riservatezza e alla segretezza di tutti i clienti del difensore, specie per quelli non coinvolti nel procedimento penale nel corso del quale vengono disposti gli atti garantiti dalla norma processuale in oggetto».
[22] DE PIETRO, op. cit., 661.
[23] MONTAGNA, In tema di sequestro presso il difensore, in Giur. it., II, 108.
[24] «Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.
Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.».
[25] Art. 101, co. 2 Cost: «I giudici sono soggetti soltanto alla legge.».
[26] VIOLA, Interpretazione della legge con modelli matematici, Milano 2018, 77.
[27] Cass. civ., Sez. I, ord. del 14.6.2018 n. 15584, secondo cui è noto che: «nell’interpretazione della legge occorra primariamente riferirsi al criterio letterale, attribuendo cioè alla disposizione interpretanda il solo significato emergente dalle parole da essa impiegate secondo la connessione sintattica che si realizza tra di loro, risultando il criterio in parola di regola sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva. È, per converso, consentito ricorrere al criterio emreneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l’esame complessivo del testo, della “mens legis”, con il solo limite imposto dal divieto per l’interprete di correggere il significato delle parole impiegate dalla norma, soltanto qualora la lettera di essa risulti ambigua, l’uno e l’altro criterio potendo infine acquistare un ruolo ermeneutico paritetico allorché singolarmente impiegati si rivelino inidonei allo scopo».
[28] VIOLA, op. cit., 73.
[29] Cass. civ., Sez. lavoro, 14/10/2016, n. 20808: «In tema di interpretazione della legge, nelle ipotesi in cui l’interpretazione letterale di una norma di legge sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l’interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, attraverso l’esame complessivo del testo, della “mens legis”, specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma, così come inequivocabilmente espressa dal legislatore. Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario, l’elemento letterale e l’intento del legislatore, insufficienti utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, così che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all’equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all’interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all’interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono, nell’ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è preordinata.»
[30] VIOLA, op. cit., secondo cui «l’estensione del significato della norma è arbitrario se non corre sul binario teleologico e, perciò, nell’ambito della sua ratio.».
[31] SCALFATI, op. cit., 185: «A determinare il legame protetto, pertanto, basta che il materiale si ponga in una relazione finalistica rispetto a vicende che il professionista tratta o ha trattato, tanto rispetto ad una controversia giudiziaria in atto, quanto ad una potenziale». L’Autore cita come esempio lo svolgimento di un’attività di consulenza legale. Dello stesso avviso DALIA – CIMADOMO, Difensore (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Agg., III, Milano, 1999, 510, secondo cui le garanzie operano anche quando «il professionista sia comunque venuto in contatto con la persona sottoposta alle indagini o con l’imputato per ragioni connesse alla difesa o, anche, se l’attività difensiva concerneva un procedimento diverso da quello relativo all’incarico.».