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La definizione di terrorismo fornita dal legislatore nazionale: le «condotte con finalità di terrorismo» (art. 270-sexies c.p.)

Abstract

Sebbene il fenomeno terroristico abbia interessato il nostro Paese fin dalla fine degli anni ’60, solo nel 2005 il legislatore ha fornito una definizione giuridica di terrorismo, introducendo l’art. 270-sexies c.p., che recepisce la nozione contenuta nella decisione quadro 2002/475/GAI. La norma, nonostante gli innegabili meriti in termini di certezza del diritto, ha tuttavia sollevato numerosi problemi interpretativi dovuti alla difficoltà di coordinamento con la fattispecie associativa di cui all’art. 270-bis c.p., ma soprattutto alla nozione marcatamente soggettivizzante in essa contenuta, che finisce per basare l’individuazione delle condotte considerate terroristiche essenzialmente sull’atteggiamento interiore dell’agente, in contrapposizione con i postulati del diritto penale del fatto. Inoltre, la sua formulazione vaga e imprecisa, che apparentemente consente di far rientrare nella propria portata applicativa le condotte più disparate, presenta profili di contrasto con il principio di determinatezza-tassatività.

Although terrorism has affected our country since the late 1960s, the national legislator provided a legal definition of terrorism only in 2005 with the introduction of art. 270-sexies c.p. in implementation of Framework Decision 2002/475/JHA. The rule, despite its undeniable merits in terms of legal certainty, has nevertheless raised numerous interpretative problems due to the difficulty of coordination with the associative crime referred to in art. 270-bis c.p., but above all to the strongly subjectivizing concept expressed in it, which ends up basing the identification of the acts defined as terrorist essentially on the internal attitude of the agent, in contrast with the postulates of criminal law of the fact. Furthermore, its vague and imprecise wording, which apparently allows to fit within its scope the most varied conducts, presents profiles of contrast with the principle of legal determinacy.

Sommario

1. L’originale vuoto normativo – 2. L’attuale nozione ex art. 270-sexies c.p.: elemento soggettivo ed oggettivo – 3. Problemi interpretativi

1. L’originario vuoto normativo

Nell’ordinamento italiano la prima definizione legislativa di terrorismo è fornita dall’art. 270-sexies c.p., introdotto, sulla scia emotiva degli attentati londinesi del 2005, con l’art. 15 della l. 31 luglio 2005, n. 155, di conversione del d.l. 27 luglio 2005, n. 144.

Prima di tale data, in effetti, nell’ordinamento italiano ancora mancava una definizione del termine ‘terrorismo’, che pure compariva in diverse norme incriminatrici (artt. 270-bis, 280, 280-bis, 289-bis c.p.). Sino ad allora, si era ricorsi ad una concezione sociologica[1] in virtù della quale la finalità terroristica consisteva nell’«incutere timore nella collettività con azioni criminose indiscriminate, dirette, cioè, non contro le singole persone ma contro quello che esse rappresentano o, se dirette contro la persona indipendentemente dalla sua funzione nella società, miranti a incutere terrore per scuotere la fiducia nell’ordinamento costituito e indebolirne le strutture»[2]. Tuttavia, la dottrina e la giurisprudenza più attente, già a partire del 2003, avevano ricavato per via interpretativa la definizione di terrorismo vigente nell’ordinamento italiano avendo riguardo alla Convenzione internazionale di New York del 1999 per la repressione del finanziamento del terrorismo e alla decisione quadro europea 2002/475/GAI sulla lotta contro il terrorismo[3]. In particolare, è utile richiamare una decisione della Suprema Corte dell’11 ottobre 2006, che – in riferimento a fatti commessi nei primi anni duemila, e dunque antecedenti all’introduzione della norma definitoria di cui all’art. 270-sexies c.p.– statuì che «la formulazione della Convenzione del 1999, resa esecutiva con l. 27.1.2003 n. 7, ha una portata così ampia da assumere il valore di una definizione generale, applicabile sia in tempo di pace che in tempo di guerra e comprensiva di qualsiasi condotta diretta contro la vita o l’incolumità di civili o, in contesti bellici, contro ‘ogni altra persona che non prenda parte attiva alle ostilità in una situazione di conflitto armato’, al fine di diffondere il terrore fra la popolazione o di costringere uno stato o un’organizzazione internazionale a compiere o a omettere un atto […] con l’ulteriore requisito della motivazione politica, religiosa o ideologica, conformemente a una norma consuetudinaria internazionale accolta in varie risoluzioni dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, nonché nella Convenzione del 1997 contro gli attentati terroristici commessi con l’uso di esplosivi»[4].

2. L’attuale nozione ex art. 270-sexies c.p.: elemento soggettivo ed oggettivo

Le indubbie difficoltà degli interpreti e la mancanza di un dato esegetico certo, a livello di legislazione nazionale, che consentisse di ricavare in maniera tassativa il concetto giuridico di terrorismo, hanno spinto il legislatore ad introdurre l’attuale definizione di cui all’art. 270-sexies c.p., in base alla quale: «Sono considerate condotte con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia».

La definizione citata rappresenta il recepimento della citata decisione-quadro 2002/475/GAI. A tal proposito va evidenziato che, mentre la nozione europea esclude dal proprio ambito di applicazione, per effetto dell’undicesimo «considerando»[5], i fatti commessi dalle forze armate in tempo di conflitto armato, la norma italiana non opera distinzioni al riguardo. Da ciò deriva che attualmente la definizione di cui alla Convenzione di New York del 1999 si continua ad applicare all’area lasciata ‘scoperta’ dalla definizione della decisione quadro 2002/475/GAI e dall’art. 270-sexies c.p., ossia l’area dei fatti commessi in tempo di guerra. Tali fatti sono, dunque, qualificabili come terroristici se destinati a cagionare la morte o lesioni personali gravi a un civile o a qualsiasi altra persona che non partecipi attivamente alle ostilità nel corso di un conflitto armato, quando lo scopo, per la natura o il contesto dell’atto, sia di intimidire la popolazione o costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere od omettere un atto, e si tratti di fatti motivati da ragioni politiche, religiose o ideologiche.[6]

Tornando all’art. 270-sexies c.p., esso sostanzialmente rinuncia sul piano oggettivo a tipizzare analiticamente le condotte con finalità di terrorismo (come invece fanno sia la Convenzione del 1999 sia la decisione-quadro del 2002), limitandosi a far proprio il solo requisito dell’idoneità delle condotte, per loro natura o contesto, ad arrecare «grave danno a un Paese o a un’organizzazione internazionale», ciò al precipuo scopo di ovviare all’eventualità che condotte meritevoli di essere qualificate come terroristiche potessero restare escluse dalla portata della definizione.

Dal punto di vista dell’elemento soggettivo, invece, esso è identico a quello previsto dalla definizione europea: le condotte devono essere sorrette da un triplice dolo specifico alternativo, vale a dire essere compiute allo scopo di «intimidire la popolazione», «costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto» o «destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale». L’inserimento di quest’ultima finalità, di tipo eversivo, tra le finalità alternative idonee a qualificare come terroristica una condotta, risolve la questione, a lungo controversa[7], dei rapporti tra finalità terroristica e finalità eversiva nel senso dell’assorbimento di quest’ultima nella prima, con evidenti difficoltà di coordinamento rispetto a quanto previsto dalla fattispecie associativa di cui all’art. 270-bis c.p., che menziona in maniera espressa e disgiunta la finalità terroristica, estesa all’ambito internazionale, accanto a quella eversiva. Inoltre, l’assimilazione della finalità eversiva a quella terroristica comporta il rischio che siano perseguite penalmente anche le condotte violente rivolte con finalità eversive contro qualsiasi Stato sovrano e che siano in tal modo qualificate come reati terroristici anche condotte dirette a rovesciare sistemi politici dittatoriali, che si pongano in aperto contrasto con i principi democratici[8].

Dunque, rispetto alla definizione contenuta nella Convenzione di New York del 1999, la formula contenuta nell’art. 270-sexies c.p. estende l’ambito della tutela penale, in quanto non opera distinzioni in ordine alla qualità della vittima e ricomprende anche la finalità eversiva accanto alle finalità di intimidire la popolazione e di coartare la volontà di uno Stato o di un’organizzazione internazionale[9].

A completare la definizione, inoltre, interviene una clausola di chiusura con la quale si estende la nozione a tutte «le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia». Questa clausola, cui si addice la qualifica di «norma penale in bianco»[10], assicura l’automatica ricezione nell’ordinamento interno di (eventuali) future definizioni di condotte terroristiche di fonte sovranazionale, senza necessità di appositi atti di esecuzione o adeguamento. Ciò espone la norma a censure dal punto di vista della riserva di legge e della determinatezza, con riguardo al possibile recepimento di definizioni contrastanti tra loro e con quella enunciata nella prima parte della norma e alla tecnica normativa impiegata a livello internazionale, consistente nella predisposizione di elenchi (spesso ampi e generici) di condotte ritenute ipso iure terroristiche in presenza di determinate finalità[11].

3. Problemi interpretativi

Sebbene l’introduzione di un’apposita definizione legislativa di terrorismo abbia apportato notevoli benefici al lavoro degli interpreti, la norma solleva diversi problemi interpretativi.

Innanzitutto, l’individuazione delle condotte considerate terroristiche, in assenza di un’analitica tipizzazione delle stesse, finisce per basarsi essenzialmente sull’atteggiamento interiore dell’agente, identificato nelle tre finalità indicate (terrorizzare, costringere, destabilizzare/distruggere). Ne deriva una nozione marcatamente soggettivizzante, in contrasto con i postulati del diritto penale del fatto[12]. Tuttavia, per correggere in chiave costituzionale la norma, si può optare per un’interpretazione in virtù della quale si tratta di condotte «equiparabili, quanto meno, a quelle costituenti il tentativo punibile ai sensi dell’art. 56 c.p.: atti idonei e diretti in modo non equivoco a realizzare uno dei tre obiettivi individuati come terroristici (o eversivi) dalla norma in esame»[13].

In secondo luogo, a differenza delle altre norme codicistiche che incriminano fatti di terrorismo, l’art. 270-sexies c.p.non richiede che le condotte siano commesse con violenza. Sebbene nelle norme incriminatrici vigenti figuri sempre il requisito della violenza (artt. 270-bis, quater e quinquies, 280, 280-bis, 289-bis c.p.), la mancanza di tale previsione nell’art. 270-sexies può provocare ripercussioni sul  rispetto dei principi di garanzia: infatti, autorevole dottrina[14] evidenzia che in una prospettiva di riforma sussista il rischio che, laddove vengano introdotte nuove fattispecie senza tipizzare il requisito della violenza, vengano puniti fatti consistenti nel mero esercizio di un diritto. Inoltre, l’omessa menzione della natura violenta delle condotte potrebbe influire sull’operatività dell’aggravante ex art. 1 della l. n. 15/1980 (oggi sostituita dal nuovo art. 270-bis.1 c.p.), nel senso di consentirne l’applicazione anche a fatti non violenti che, tuttavia, rispettino gli altri requisiti richiesti dall’art. 270-sexies c.p.[15]

Inoltre, il requisito oggettivo non contiene un chiaro indice di idoneità, dal momento che l’espressione ‘possono arrecare’, affetta da «evidente gigantismo» e da una certa «vaghezza semantica»[16], non è in grado di assicurare il rispetto di una soglia minima di offensività, con conseguenti problemi di accertamento e rischi di interpretazioni estensive.

Resta poi da precisare il significato della locuzione «grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale»: si tratta, infatti, di una formula del tutto imprecisa, che apparentemente consente di far rientrare nella propria portata applicativa le condotte più disparate. Poiché non risulta espressamente la natura del bene giuridico che deve essere posto in pericolo dalla condotta terroristica, il danno potrà essere sia di tipo patrimoniale che personale, ma d’interesse collettivo. Quest’ultimo aspetto, desumibile dal richiesto riferimento ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale, è particolarmente problematico[17]. Se, infatti, non si discute che nell’omicidio di un importante uomo politico tale requisito sia facilmente riscontrabile, in virtù delle ricadute del fatto sul governo del Paese, più complessa è la questione in caso di distruzione di un edificio pubblico, poiché lo Stato dispone di risorse economiche e di strutture alternative. Altrettanto controversa è l’ipotesi della lesione della vita o dell’integrità fisica di un singolo cittadino ‘comune’: costituisce sempre e comunque un grave danno per il Paese, poiché viene leso un bene fondamentale, oppure deve ritenersi che la morte o il ferimento di un singolo cittadino non sia in grado di incidere sensibilmente sulla vita di un intero Stato?[18]. Ulteriori problemi sono posti dal rilievo attribuito alla finalità di costringere i poteri pubblici a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, considerata in via autonoma. In particolare, non si esclude che a tale finalità siano ricondotti atti di danneggiamento di infrastrutture strategiche diretti a coartare la volontà dei poteri pubblici.[19]

In conclusione, si segnala l’incongruenza esistente tra la nozione europea confluita nell’ordinamento nazionale e le manifestazioni ‘reali’ del terrorismo. Infatti, gli attentati realizzati a partire dal 2001 non sembrano diretti a realizzare precisamente nessuna delle tre finalità presa in considerazione dalla definizione esaminata: essi non possono dirsi verosimilmente finalizzati a costringere Stati o organizzazioni a compiere o meno un determinato atto; spargere il terrore nella popolazione rappresenta, più che un obiettivo, un metodo o un ‘effetto collaterale’ delle attività delle organizzazioni terroristiche, voluto in vista di scopi ulteriori, magari religiosi; infine, l’eversione degli ordinamenti può considerarsi più un effetto che una finalità delle stragi. Le stragi compiute appaiono prevalentemente motivati dall’odio nei confronti dell’imperialismo e dei valori occidentali, e dunque fini a sé stesse.[20]


[1]Così la definisce Fasani, Terrorismo islamico e diritto penale, CEDAM 2016, pag. 232., il quale ne sottolinea la scarsissima tassatività e l’inadeguatezza innanzi al nuovo fenomeno terroristico internazionale, aprendo così la strada a patenti contrasti giurisprudenziali.

[2]Cass. Pen., Sez. I, 30.10.1987, n. 3130, in C.E.D. Cassazione.

[3]In particolare, l’art. 2, par. 1, lett. b) della Convenzione di New York del 1999 definisce come terroristico ogni «atto destinato ad uccidere o a ferire gravemente un civile o ogni altra persona che non partecipa direttamente alle ostilità in una situazione di conflitto armato quando, per sua natura o contesto, tale atto sia finalizzato ad intimidire una popolazione o a costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere, un atto qualsiasi». Invece, la decisione quadro 2002/475/GAI nell’art. 1, par. 1 qualifica come ‘reati terroristici’ un elenco tassativo di atti intenzionali che «per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno a un paese o a un’organizzazione internazionale» e sono commessi al fine di «intimidire gravemente la popolazione, costringere indebitamente i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, destabilizzare gravemente o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche o sociali di un paese o di un’organizzazione internazionale».

[4] Cass. Pen., Sez. I, 11/10/2006, n. 1072, imp. Bouyahia Maher e a., in Cass. pen., 2007, p. 1462 ss.

[5] Tale esclusione è confermata nella direttiva UE/2017/541, che sostituisce la decisione quadro del 2002, al «considerando» n. 37.

[6] Valsecchi, I requisiti oggettivi della condotta terroristica ai sensi dell’art. 270 sexies c.p. (prendendo spunto da un’azione dimostrativa dell’Animal Liberation Front), in Diritto penale contemporaneo, febbraio 2013, pp. 8-9. In questo senso v. anche Fasani, Terrorismo islamico e diritto penale, op. cit., pag. 234.

[7] In dottrina e in giurisprudenza, in assenza di un’esplicita definizione legislativa di terrorismo, si era profilato infatti un intenso dibattito circa la distinzione o l’assimilazione tra finalità terroristica ed eversiva. La dottrina e la giurisprudenza prevalenti tendevano a riconoscere la dicotomia tra i due concetti, posta l’indubitabile differenza intercorrente tra le modalità di realizzazione e la natura degli atti terroristici e di quelli eversivi. Infatti, il terrorismo può non essere accompagnato dall’eversione, in quanto il ricorso alla violenza finalizzato a spargere il terrore nella collettività può non essere allo stesso tempo diretto a sovvertire l’ordinamento democratico dello Stato, ma essere piuttosto rivolto ad altri fini. Lo scopo eversivo, del resto, può essere perseguito anche ricorrendo a metodi non violenti o, comunque, non riconducibili al terrorismo. V. al riguardo Masarone, Politica criminale e diritto penale nel contrasto al terrorismo internazionale, ESI, 2013, p. 210 ss.; De Francesco, Commento all’art. 3, l. 6 febbraio 1980, n. 15, in Legisl. Pen., 1981, I, p. 49 ss.; Gallo, Musco, Delitti contro l’ordine costituzionale, Patron editore, 1984, p. 41 ss.; Bauccio, L’accertamento del fatto reato di terrorismo internazionale, Giuffrè, 2005, p. 20 ss.

[8] Masarone, La “lotta” al terrorismo, in Cavaliere, Masarone (a cura di), L’incidenza di decisioni quadro, direttive e convenzioni europee sul diritto penale italiano, ESI, 2018, pag. 40. Sul punto v. l’interpretazione proposta da Gamberini, Delitti contro la personalità dello Stato, in Canestrari, Gamberini, Insolera, Mazzacuva, Sgubbi, Stortoni, Tagliarini, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, 4ª ed., Monduzzi, 2006, pag. 77, secondo il quale il dolo specifico definito nell’art. 270-sexies c.p. attraverso il riferimento alle tre finalità indicate, «non può essere inteso letteralmente in un’ottica disgiuntiva. In realtà lo scopo di intimidire la popolazione costituisce l’asse portante, coessenziale alla stessa nozione di terrorismo: come tale attraversa e conferisce significato anche alle altre finalità descritte. In tal modo si evita di dare alla norma un significato del tutto contraddittorio con il nostro sistema costituzionale […]. Ipotizzare di applicare la categoria dell’eversione alla nuova definizione ha come conseguenza aberrante quella di equiparare la tutela degli ordinamenti democratici a quella degli Stati dittatoriali e autoritari, che nel mondo sono ancora in forte maggioranza. In realtà ciò che giustifica l’applicazione della norma a tali ultimi contesti è rappresentato dal fatto che, quale sia la meritevolezza del fine, non possono mai essere usati mezzi che spargano panico nella popolazione civile, facendo della persona umana il puro strumento per l’affermazione di finalità politiche o ideologiche». Una simile impostazione, pur avendo il pregio di ovviare all’assimilazione della finalità eversiva a quella terroristica, non risulta tuttavia confermata dalla lettera della norma, che presenta palesemente i tre scopi menzionati come alternativi.

[9]Masarone, Politica criminale e diritto penale, op. cit., pag. 223.

[10]Mantovani, Le condotte con finalità di terrorismo, in Kostoris, Orlandi (a cura di), Contrasto al terrorismo internazionale, Giappichelli, 2007, pag. 81.

[11] Masarone, ult. op. cit., pag. 222; Per le censure sotto il profilo del mancato rispetto del principio di determinatezza, v. Donini, Il diritto penale di fronte al “nemico”, in Cass. pen., n. 2/2006, pp. 694-735.

[12] Masarone, ult. op. cit., pag. 217.

[13] Roberti, Le nuove fattispecie di delitto in materia di terrorismo, in Dalia (a cura di), Le nuove norme di contrasto al terrorismo, Giuffrè, 2006, pag. 514.

[14] Bartoli, Lotta al terrorismo internazionale. Tra diritto penale del nemico, jus in bello del criminale e annientamento del nemico assoluto, Giappichelli, 2008, pp. 103-104.

[15] Roberti, Le nuove fattispecie di delitto in materia di terrorismo, cit., pag. 515, il quale sottolinea che «l’art. 270-sexies, ponendosi nel solco della decisione quadro 475/2002, non poteva non tenere conto che non tutte le condotte ivi elencate sono direttamente violente, ma alcune lo sono soltanto in via mediata, come quelle relative alle armi e agli esplosivi, ed altre non lo sono affatto, come la minaccia di realizzare comportamenti terroristici».

[16] Masarone, ult. op. cit., pag. 220.

[17] Intendendo il termine Paese equivalente a quello di Stato, la lesione può colpire le entità sulle quali si basa lo Stato-istituzione (territorio, sovranità e popolo), le funzioni e gli organi proprio dello Stato-apparato, nonché la collettività i cui s’identifica lo Stato-comunità ed il patrimonio di cui essa dispone. Da parte sua, un’organizzazione internazionale può essere danneggiata da condotte che ne impediscano o ne ostacolino l’attività normativa, esecutiva, giurisdizionale e di controllo o che si frappongano al perseguimento dei suoi scopi istituzionali. V. Masarone, Politica criminale e diritto penale, cit., pag. 220; cfr. sul punto anche Leccese, Il codice penale si allinea a Bruxelles. Ora chi predica l’odio rischia grosso, in D&G, 2005, n. 33, pag. 91.

[18] Questione posta da Valsecchi, art. 270-sexies, in Dolcini, Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, vol. I, Giuffrè, 2006, pp. 1968-1969, che pone anche il problema se il grave danno ad un paese possa consistere finanche in un danno d’immagine, come quello eventualmente riconducibile a manifestazioni no-global svolte nelle ‘zone rosse’, in occasione id importanti eventi internazionali, qualora volte a costringere i poteri pubblici a compiere o astenersi dal compiere un determinato atto.

[19] Segnala tale rischio Cavaliere, L’influenza sull’ordinamento italiano del diritto penale europeo delle organizzazioni criminali, in Mir Puig, Corcoy Bidasolo, Gómez Martín (a cura di), Garantías constitucionales y derecho penal europeo, Marcial Pons, 2012, pag. 253, il quale pone come esempio la possibilità di qualificare come terroristi gli aderenti al movimento ‘No-TAV’.

[20] Masarone, ult. op. cit., pp. 221-222.

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