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La giurisprudenza creativa

(qualche considerazione a margine della Winter School di Asiago)

Si è svolta, dal 30 gennaio al 2 febbraio, nella splendida cornice di Asiago, la Winter School 2025, dedicata al “Processo penale e giurisprudenza creativa”, organizzata dalla prof.ssa Donatella Curtotti in collaborazione con diverse Università italiane.

         L’iniziativa ha riscosso grande successo non solo sotto il profilo scientifico, per le prestigiose relazioni di illustri cattedratici e i promettenti interventi di giovani dottorandi, ma per l’atmosfera di condivisione e amicizia  che si è creata tra le diverse generazioni di studiosi della materia.

Il tema era accattivante. Infatti, il fenomeno della giurisprudenza creativa è di stretta attualità, ma antico e risalente nel tempo, ed è notorio che la magistratura  da sempre è tentata da pronunce che, per necessità o per altre ragioni, ambirebbero a svolgere il ruolo riservato al legislatore.

Ovviamente, il risultato di tale giurisprudenza creativa sfocia in un  “diritto giudiziario” che però cozza contro principi fondanti del nostro sistema costituzionale, quali la divisione dei poteri, ma anche i principi di legalità, della certezza del diritto e della conoscibilità e prevedibilità della legge e della soggezione dei giudici alla legge, principi che oggi soffrono di una crisi senza precedenti.

Il giudice, che per Costituzione è “soggetto soltanto alla legge” (art. 101 Cost.), si rivolta contro la legge e ne crea una diversa: è la ribellione del giudice alla legge, è un attentato alla Costituzione consumato attraverso la violazione del principio di legalità.

Cercare le cause di questa supplenza  non è facile.

Ma, sicuramente, gli spazi della discrezionalità interpretativa nell’esercizio della giurisdizione sono nel tempo cresciuti, a causa, da una parte, dell’inflazione delle leggi e della struttura multilivello della legalità, ma, dall’altra, della scarsa iniziativa e modesta capacità normativa del Parlamento, che troppo spesso o è inerte o subisce i suggerimenti della giurisprudenza.

Sappiamo che si sono verificati nel corso della storia alterni “corsi e ricorsi”, con varie invasioni di campo: dapprima, con l’avvento del fascismo e durante il ventennio fascista, si verificò un progressivo svuotamento delle funzioni del potere legislativo e un maggiore accentramento dell’attività legislativa in capo al potere esecutivo; è nota la frase di Mussolini sul Parlamento: “Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli”. Ma è a partire dagli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso che cominciò a prendere piede un fenomeno opposto, con l’iniziativa giurisprudenziale dei “pretori d’assalto”, che, per supplire all’inerzia del legislatore e ad una normativa costituzionalmente inadeguata, cominciarono ad emettere sentenze “politiche”, spesso per dare attuazione alla Costituzione ma comunque sostituendosi al legislatore.

Da allora la giurisprudenza creativa non è mai cessata, talvolta per adeguare la legge alla Costituzione o al diritto europeo, più spesso con interpretazioni in malam partem, qualche volta addirittura degenerando in una vera e propria  “fantasia incriminatrice”.

         La giurisprudenza creativa è cresciuta e si è affermata grazie ad un equivoco di fondo.  Infatti, Hans Kelsen  sosteneva una concezione della giurisdizione come creazione del diritto in senso forte. Egli, infatti, affermava che «la creazione di una norma giuridica è, normalmente, una applicazione di una norma superiore, che regola tale creazione, e l’applicazione di una norma superiore è, normalmente, la creazione di una norma inferiore determinata dalla superiore. Una decisione giudiziaria, ad esempio, è un atto mediante cui è applicata una norma generale, una legge formale, ma è al tempo stesso creata come norma individuale che obbliga una o entrambe le parti della controversia» (H. KELSEN, Teoria generale del diritto, 1945, trad. it. di S. Cotta e di G. Treves, Edizioni di Comunità, Milano, 1952, p. 135).

Purtroppo, la tesi del ruolo creativo della giurisdizione e della sua natura di “fonte del diritto” è stata progressivamente accettata anche dall’odierna cultura giuridica, pur se, di solito, nell’accezione impropria e debole del termine “creativo”.

Ad esempio, Francesco Galgano scrive che «Il diritto giudiziario è un’ulteriore fonte di produzione del diritto, alternativa a quelle che si modellano secondo le procedure democratiche di formazione delle leggi negli Stati nazionali» (La globalizzazione nello specchio del diritto, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 202) e, addirittura, di fatto a queste sopraordinata (op. cit., pp. 98 e 149); ma questa tesi viene da Galgano basata soltanto sulla larga discrezionalità di quelle che sono pur sempre scelte interpretative operate dai giudici (ivi, p. 150).

Anche Aurelio Gentili concepisce la teoria dell’argomentazione come fonte formale di diritto oggettivo ( Il diritto come discorso, Giuffrè, Milano, 2013, cap. I, pp. 3-27), anche se  poi, con qualche contraddizione,  respinge « l’ipotesi di una giurisprudenza realmente creativa» (GENTILI, op. cit., p. 317) definendo «libertinaggio interpretativo» il creazionismo giurisprudenziale arbitrario (ivi, p. 86) e configura l’apporto del giudice nell’applicazione della legge come «né deduttivo, né creativo ma piuttosto selettivo» (ivi, p. 327).

Tra i penalisti,  Giovanni Fiandaca riconosce una «funzione lato sensu “creativa” dei giudici» e «un ridimensionamento conseguente sia del classico principio della separazione dei poteri, sia dei tradizionali principi-tabù (almeno rispetto all’area continentale) di legalità e riserva di legge» (G. FIANDACA, Diritto penale giurisprudenziale e spunti di diritto comparato, in Id. (a cura di), Sistema penale in transizione e ruolo del diritto giurisprudenziale, Cedam, Padova, 1997, p.2). L’Autorepropone di «distinguere (per dir così) tra diritto giurisprudenziale creativamente “legittimo” e prevedibile in termini di ragionevole certezza e diritto giurisprudenziale creativamente “abusivo” o capricciosamente anarchico» (G. Fiandaca, op. cit., p. 241) e afferma che «riconoscere la “creatività” giurisprudenziale non vuol dire, infatti, essere disposti ad avallare la discrezionalità interpretativa più spinta e disinvolta». Solo che, osserviamo noi, una volta che si accetta la giurisprudenza creativa, non è facile distinguere e accettare solo quella legittima e respingere quella più o meno spinta o disinvolta. 

Si assiste così ad un “ruolo creativo di nuovo diritto” affidato alla giurisdizione, inteso con “creazione” non già l’inevitabile interpretazione della legge esistente, ma la produzione di nuovo “diritto giurisprudenziale”.

Tra i pochi filosofi del diritto che hanno assunto una decisa opposizione alla giurisprudenza creativa va annoverato Luigi Ferrajoli, l’allievo di Norberto Bobbio ed ex magistrato, il quale chiarisce che “….. i limiti e i vincoli legali sono relativi, nel senso che non sono in grado di eliminare gli spazi della discrezionalità giudiziaria colmati sia dall’argomentazione probatoria che da quella interpretativa. Il legislatore, infatti, produce solo il diritto vigente, consistente in testi normativi che richiedono di essere interpretati. Tutto il diritto vivente, tutto il diritto in azione – tutte le norme, inteso con “norma” il significato di un enunciato normativo – è perciò, ripeto, un diritto di produzione giurisprudenziale, interamente frutto dell’argomentazione interpretativa. Ma in tanto il diritto vivente è altresì diritto valido in quanto sia appunto argomentato come interpretazione plausibilmente accettabile del diritto vigente di produzione legislativa. In breve, né il diritto vivente può essere prodotto dal legislatore, né il diritto vigente può essere prodotto dai giudici; né il legislatore può interferire nella produzione del diritto vivente, né il giudice può interferire nella produzione del diritto vigente. È questo il senso della separazione dei poteri” (L. FERRAJOLI, Contro la giurisprudenza creativa, in Questione Giustizia, n. 4/2016). E questa serrata critica alla giurisprudenza creativa, fatta proprio da chi è stato magistrato, ha un profondo significato.

La giurisprudenza creativa nel diritto penale.-

  1. La creazione del delitto di concorso esterno in associazione a delinquere.-

La giurisprudenza creativa ha inventato disposizioni persino incriminatrici, in spregio al principio di legalità, posto dall’art. 25 Cost. E’ nota la vicenda del “caso Contrada n. 3”,  che riguardava una condanna di un funzionario della Questura di Palermo per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, delitto creato dalla giurisprudenza successivamente alla condotta del ricorrente e comunque privo di una “base legale”. La Corte e.d.u. precisò che l’art. 7 Conv. e.d.u. non si limita a proibire la retroattività in malam partem,ma consacra il più generale principio di legalità penale, vietando altresì l’applicazione in via estensiva o analogica di una disposizione incriminatrice a fatti anteriormente non punibili. La Corte ritenne che, all’epoca dei fatti, a partire dalla lettera della legge e alla luce dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza, il ricorrente non fosse in grado di prevedere con precisione le conseguenze penali della propria condotta (Corte e.d.u, Sez. IV, 14 aprile 2015, Contrada c./ Italia (n.3) ). Con questa pronuncia la Corte e.d.u. precisò che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa è il risultato di un’evoluzione della giurisprudenza iniziata verso la fine degli anni ’80 e consolidatasi nel 1994 e quindi la legge non era sufficientemente chiara e prevedibile per il ricorrente nel momento in cui avrebbe commesso i fatti contestatigli, con conseguente impossibilità di conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti. Tuttavia, in Italia, le Sezioni Unite esclusero che tale pronuncia fosse una “sentenza pilota” e quindi conclusero che non potesse considerarsi espressione di una “giurisprudenza europea consolidata”. Pertanto, le Sezioni unite affermarono che i principi enunciati dalla citata sentenza della Corte e.d.u. non si estendono nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, in quanto la sentenza non sarebbe una “sentenza pilota” e non potrebbe considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata (Cass., Sez. un., 24 ottobre 2019, Genco, n. 8544/ 2020). La conseguenza è che tuttora la giurisprudenza ammette il concorso esterno in associazione, anche se tale tipo di partecipazione al reato non è prevista dalla legge.

La giurisprudenza creativa nel diritto processuale penale.-

Ma i casi più frequenti di giurisprudenza creativa si registrano nel diritto processuale penale.

  1. Le Sezioni unite verso un sistema di stare decisis ? –

Le Sezioni unite hanno riconosciuto la portata vincolante del precedente giudiziario anche alle decisioni intervenute precedentemente all’entrata in vigore del comma 1-bis dell’art. 618 c. p. p., che, com’è noto, impone alla sezione semplice della Corte che non condivida il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite di rimettere a queste ultime la decisione del ricorso. La sentenza motiva osservando che il valore di «precedente» è identificabile con la peculiare fonte di provenienza della decisione, indipendentemente dalla collocazione temporale di quest’ultima (Cass., Sez. Un., 19 aprile 2018, Botticelli, n. 36072,Rv. 273549-01).

Anche le Sezioni unite Rizzi, in tema di “confisca allargata”, hanno affermato che il precedente delle Sezioni unite Repaci (Cass., Sez. un., 29.5.2014, n. 33451) sarebbe  stata una “regola di stabilizzazione” ancor prima dell’introduzionedel comma 1-bis dell’art. 618 c. p. p. ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103, e di conseguenza a tale precedente  andrebbe attribuita una valenza non solo “di tipo essenzialmente persuasivo”, disvelando la potenzialità semantica del testo della disposizione normativa, ma  che, dopo l’inserimento del citato comma 1-bis, avrebbe avuto anche una valenza di “precedente relativamente vincolante” (Sez. un. 26.10.2023, n. 8052/2024, Rizzi).

  • Lo “sdoganamento” giurisprudenziale del captatore informatico.-

Ma l’esempio più eclatante di giurisprudenza creativa proviene dalla sentenza delle Sezioni unite Scurato, che ammise l’impiego del captatore informatico, che non era previsto dalla legge e quindi in violazione dell’art. 15 Cost.: in questo caso, veramente, la giurisprudenza ha creato un nuovo “modo” di intercettazione in sostituzione del legislatore, che è intervenuto a ratificarlo solo l’anno dopo con la riforma Orlando.

Le Sezioni unite consentirono, anche nei luoghi di privata dimora ex art. 614 cod. pen., pure non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa, l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti, mediante l’installazione di un “captatore informatico” in dispositivi elettronici portatili (ad es., personal computer, tablet, smartphone ecc.), limitatamente a procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata, anche terroristica (a norma dell’art. 13 d.l. n. 152 del 1991), intendendosi per tali quelli elencati nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., nonché quelli comunque facenti capo a un’associazione per delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato» (Cass., Sez. Un.,  28.4. 2016, Scurato).

In questo modo la Corte creò una nuova disposizione di legge che consente l’impiego del trojan in violazione dell’art. 15 Cost. che, a tutela della segretezza delle comunicazioni, prescrive la riserva di legge. La Corte si sostituì così al legislatore, suggerendogli come legiferare e infatti l’anno successivo la riforma Orlando recepì esattamente il suggerimento giurisprudenziale, introducendo il comma 2-bis dell’art. 266 con il d. lgs. n. 216/2017.

  • Le riprese visive di comportamenti non comunicativi in ambiente privato.-

Altro caso di giurisprudenza creativa deriva dalla sentenza delle Sezioni unite Prisco in tema di riprese visive di comportamenti non comunicativi in ambiente privato. Con questa pronuncia le Sezioni Unite ammisero le riprese visive di comportamenti non comunicativi  nel privè,  affermando che il concetto di domicilio non può essere esteso fino a farlo coincidere con un qualunque ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza; ciò in quanto «il rapporto tra la persona e il luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche quando la persona è assente. In altre parole, la vita personale che vi si svolge, anche se per un periodo di tempo limitato, fa sì che il domicilio diventi un luogo che esclude violazioni intrusive, indipendentemente dalla presenza della persona che ne ha la titolarità, perché il luogo rimane connotato dalla personalità del titolare, sia o meno questi presente […]. Solo il requisito della stabilità anche se intesa in senso relativo, può trasformare un luogo in un domicilio, nel senso che può fargli acquistare un’autonomia rispetto alla persona che ne ha la titolarità», escludendo la configurabilità del domicilio nei c.d. privés dei locali pubblici. Pertanto, ilprivè di un locale pubbliconon fu considerato ambiente tutelato dall’art. 14 Cost. ma più semplicemente luogo riservato (Cass., Sez. un., 28.3.2006, Prisco). Nell’occasione la Corte di cassazione inventò pure la norma secondo cui  per effettuare riprese visive negli ambienti che godono di semplice riservatezza, e non del carattere di domicilio, è sufficiente un decreto del P.M. anziché del G.I.P.: maggiore creatività della giurisprudenza non potrebbe esservi; si inventa addirittura una disciplina e si individua nel P.M. il soggetto legittimato a limitare un diritto fondamentale della persona, perché se non è libertà domiciliare è almeno riservatezza, comunque sempre un diritto fondamentale la cui limitazione non spetta alla magistratura ma al potere legislativo.

La giurisprudenza è giunta persino a considerare le riprese audio-video delle effusioni amorose e dei rapporti sessuali intercettati all’interno del domicilio, spacciandoli come comunicazioni, ancorché di tipo non verbale, “espressivi di interazione ed idonei a trasmettere contenuti del pensiero e stati d’animo” e quindi intercettabili (Cass., Sez. III, 22.7.2020, n. 31515, in Cass.pen., 2021, p. 1348). Con questa pronuncia la giurisprudenza ha stravolto il concetto di comunicazione, ricorrendo alla nozione di prova atipica. In questo modo si è creata una norma che consente le riprese visive nel domicilio di comportamenti non comunicativi, attività che il legislatore non consente, con la duplice violazione dell’art. 14 e dell’art. 15 Cost.

  • La causa di inutilizzabilità  della prova incostituzionale per “lesa maestà”.-

In deroga al principio di tassatività delle sanzioni processuali, la Corte di cassazione riconosce l’incostituzionalità della prova acquisita dopo che il giudice ne aveva dichiarato la nullità. Si tratta del primo caso in cui il disprezzo per la decisione del giudice, il contempt of Court, è riconosciuto causa di inutilizzabilità della prova. Peraltro, la prova era stata assunta in violazione sia della riserva di legge, sia del diritto di difesa, sia della segretezza delle comunicazioni, ma nella sentenza ha prevalso, come causa di inutilizzabilità, il mancato rispetto della decisione del giudice. Infatti, la Corte di cassazione, investita del ricorso, ha buon gioco nell’osservare che tale modus procedendi ha integrato una violazione del provvedimento giurisdizionale, “neutralizzandone” gli effetti attraverso l’utilizzo – peraltro improprio – dell’ispezione del cellulare.

Si tratta di una chiara presa di posizione, da parte del supremo Collegio, di rispetto del provvedimento giurisdizionale, che non può essere “bypassato” dal Pubblico Ministero ricorrendo all’escamotage di riacquisire, peraltro con un mezzo di ricerca della prova non previsto dal codice e incidente su una libertà fondamentale, ciò che era stato dichiarato nullo dal Tribunale. Si trattava di una fattispecie in cui il P.M., con un maldestro tentativo, aveva tentato di eludere la dichiarazione di nullità dei decreti di sequestro dei cellulari, già riconosciuta dal tribunale del riesame, richiedendo, tamquam iudex non esset, una misura cautelare sulla base dei messaggi presenti nei cellulari già dissequestrati dal giudice ma da lui trattenuti e “ispezionati” per acquisirne il contenuto. La Corte afferma che tale modus procedendi ha integrato una violazione del provvedimento giurisdizionale che aveva dichiarato nullo il sequestro del cellulare e ordinato la restituzione ,  “neutralizzandone” gli effetti con l’ “ispezione informatica” (Cass., Sez. VI, n.31180/2024).

  • L’ “agente segreto attrezzato per il suono”.-

Mancando una disciplina legislativa in tema di “agente segreto attrezzato per il suono”, la giurisprudenza si è sbizzarrita.

Infatti, è ancora particolarmente controverso, sia in dottrina che in giurisprudenza, il problema relativo all’impiego dell’agente segreto “attrezzato per il suono”, ovvero di quel soggetto, appartenente o no alla polizia giudiziaria, che quest’ultima incarica di avvicinare una certa persona per indurla al colloquio ed ottenere dichiarazioni, compromettenti per sé o per altri, da impiegare nel processo. L’agente segreto può registrare tali dichiarazioni oppure farle ascoltare in diretta (e registrare) dalla polizia giudiziaria grazie ai congegni registratori o radiotrasmittenti che egli occulta sulla propria persona e, proprio in base alle differenti capacità operative dello strumento impiegato, la giurisprudenza distingue il regime processuale. La Corte e.d.u, ha sempre censurato tali operazioni di polizia ritenendole  contrastanti con il diritto alla riservatezza tutelato dall’art. 8 C.e.d.u. [Corte e.d.u., Grande Camera, 10.3.2009, Bykov c. Russia; Corte e.d.u. 23.11.1993, A. c./Francia ; Corte e.d.u., II, 8.4.2003, M.M. c./Paesi Bassi; Corte e.d.u., II, 31.5.2005, Vetter c./Francia; Corte e.d.u., sez. V, 1.3.2007, Heglas c./Repubblica Ceca; Corte e.d.u., III, 25.10.2007, Van Vondel c./Paesi Bassi] o con il diritto al silenzio di cui all’art. 6, c. 1, Conv. e.d.u. [Corte e.d.u., IV, 5.11.2002, Allan c./ Regno Unito]. In Italia le Sezioni Unite Torcasio del 2003 affermarono che la registrazione fonografica di conversazioni o comunicazioni realizzata, anche clandestinamente, da soggetto (non appartenente alla polizia giudiziaria) partecipe di dette comunicazioni, o comunque autorizzato ad assistervi, costituisce – sempre che non si tratti della riproduzione di atti processuali – prova documentale secondo la disciplina dell’art. 234 c.p.p. Ma le stesse Sezioni unite avevano precisato che non è acquisibile al processo né, ove acquisita, è utilizzabile come prova la registrazione fonografica realizzata occultamente da appartenenti alla polizia giudiziaria, nel corso di operazioni investigative, durante colloqui da loro intrattenuti con indagati, confidenti o persone informate sui fatti quando si tratti rispettivamente: di dichiarazioni indizianti raccolte senza le garanzie indicate all’art. 63 c.p.p.; di informazioni confidenziali inutilizzabili per il disposto dell’art. 203 c.p.p.; di dichiarazioni sulle quali sia preclusa la testimonianza in applicazione degli artt. 62 e 195, comma 4, c.p.p. (Cass., Sez. un., 28.5.2003, Torcasio, in Cass. pen.,2004, 2094). Successivamente la Corte costituzionale ribadì quanto affermato dalle Sezioni unite Torcasio, confermando che la registrazione fonografica eseguita da uno degli interlocutori, d’intesa con la polizia giudiziaria e con strumenti da essa forniti, non costituisce più un “documento”, ma la documentazione di un’attività di indagine (Corte cost. 30.11. 2009, n.320).

In giurisprudenza si sono consolidati nel tempo diversi orientamenti. Si registra quindi un profondo e risalente contrasto giurisprudenziale, che, a causa della mancanza di qualsiasi disciplina legislativa, distingue a seconda del soggetto operante e pure in base alle diverse capacità operative dello strumento utilizzato, cioè se esso si limita a registrare la conversazione oppure ne consente l’ascolto in diretta alla polizia giudiziaria e/o a terzi. Secondo un primo orientamento, sarebbero inutilizzabili, in assenza di un provvedimento motivato di autorizzazione del giudice o di decreto dispositivo del p.m., le registrazioni fonografiche di conversazioni occultamente effettuate da uno degli interlocutori d’intesa con la polizia giudiziaria e attraverso strumenti di captazione dalla stessa forniti (Sez. IV, 11.7. 2017, B., n. 48084, in CED 271059, in Cass.pen., 2018, p. 595; Sez. III, 23.3.2016, n. 39378; Sez. VI, 26.11.2008, Napolitano e altri, in Dir. pen. e proc., 2009, 1274, e in Guida dir., 2009, 3, 94).  Ma un secondo indirizzo afferma invece che la registrazione fonografica di una conversazione effettuata da uno dei partecipi al colloquio costituirebbe una forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, anche nell’ipotesi in cui sia stata effettuata su suggerimento o incarico della polizia giudiziaria, ed è utilizzabile in dibattimento quale prova documentale, rispetto alla quale la trascrizione rappresenta una mera trasposizione del contenuto del supporto magnetico contenente la registrazione (Sez.  II 23.2.2022, n. 14287, Martinelli, in Guida dir.,2022, n. 18, p. 80; Sez. V, 29.9.2015, Pepi, n. 4287, in CED 265624; Sez. I, 22.1.2013, Pagliaro, n. 6339, in CED 254814; Sez. III, 4.12.2013, n. 7767, P.G., in Dir. pen. e proc., 2014, p. 1073; Sez. VI, 16.3.2011, Renzi, n. 31342, in CED 250534; Sez. II, 24.2.2010, n. 9132; Sez. IV, 11.6.2009, n. 41799; Sez. VI, 7.9.2005, Dottino, in Guida dir.,2005, 39, 99; Sez. I, 12.12.2007, D.G., in CED 238488; Sez. I, 23.1.2002, CED 222085).

Secondo altre pronunce, palesemente contrastanti con il principio di legalità processuale, la registrazione fonografica occultamente eseguita da uno degli interlocutori d’intesa con la polizia giudiziaria e con apparecchiature da questa fornite non costituirebbe documento, utilizzabile ai sensi dell’art. 234, ma rappresenterebbe la documentazione di un’attività di indagine, che non implica la necessità di osservare le forme previste dagli artt. 266 ss., richiedendo comunque un provvedimento motivato di autorizzazione del Pubblico ministero (Sez. II, 20.3.2015, Pitzulu, in Guida dir., 2015, n. 26, p. 91, e in Cass. pen., 2015, p. 3646; Sez. II, 13.2.2014, Polito, n. 7035, in Cass. pen.,2014, 3374, in CED 258551; Sez. VI, 7.4.2010, Angelini, in Cass. pen., 2011, 3505, CED 247384, e in Guida dir., 2010, n. 38, p. 75, e in Giust. pen.,2011, III, 708; Sez. II, 10.10.2012, Zupo e altri, in Giust. pen., 2013, III, 435). 

  • L’ammissibilità della geo-localizzazione.-

Le moderne tecnologie consentono la geolocalizzazione del dispositivo elettronico in uso al soggetto controllato (come lo smartphone o il tablet) attraverso diverse modalità e cioè sia con l’uso del captatore informatico, sia a mezzo di satellite (GPS), sia analizzando le App del dispositivo elettronico sequestrato, sia acquisendo i dati di localizzazione ed ubicazione delle celle telefoniche (tracciamento telefonico -c.d. positioning– possibile sia nel corso di una comunicazione, cd. dati di localizzazione, sia in assenza, cd. dati di ubicazione: in argomento v. MURRO,  La geolocalizzazione tramite celle telefoniche. Soluzioni percorribili in un mondo digitale in trasformazione, in Dir. pen. e proc. n. 8/2023, 1079).

Per tutte tali prassi investigative, che incidono sulla riservatezza della persona ex art. 2 Cost., manca in Italia una disciplina legislativa e tale carenza le priva di una “base legale” che ne legittimi l’uso, come prescritto dall’art. 8 Conv. e.d.u., secondo l’interpretazione della Corte giust. U.E. Grande Camera,  2.3.2021, H. K. c./ Prokuratuur, la quale esige la riserva di legge e di giurisdizione, nonché la proporzionalità dell’ingerenza nella vita privata.  Infatti, la menzionata sentenza della Corte giust. U.E. ha stabilito principi e garanzie non solo per i dati telefonici e telematici, ma anche per i dati di ubicazione, tutti tutelati dall’art. 8 Conv. e.d.u. Pertanto, poiché le violazioni della Conv. e.d.u. costituiscono anche violazioni dell’art. 117 Cost., sia il positioning, sia il GPS,  devono ritenersi prove incostituzionali e quindi inammissibili nel processo penale.

  • Il  Code catcher.-

La giurisprudenza ammette da sempre, anche se non previsto dalla legge, l’impiego dell’ IMSI Catcher (International Mobile Subscriber Identity) è un dispositivo portatile, di ridotte dimensioni, che può essere facilmente sistemato ovunque, capace di infilarsi nelle reti di comunicazione, simulando un ponte radio, con l’effetto di individuare i cellulari che si trovano nei dintorni e ne ricava il codice numerico identificativo che contrassegna la SIM Card. Negli U.S.A. è impiegato dalla polizia, previo order del giudice,  da diversi decenni per registrare le informazioni provenienti da tutti i cellulari che si trovano in una certa area  e anche in Italia, pur in assenza di qualsiasi disciplina legislativa, è usato da molto tempo. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che la richiesta della polizia, senza autorizzazione del giudice, al gestore delle telecomunicazioni e l’utilizzo da parte sua delle informazioni sull’utenza dell’abbonato che hanno portato alla sua identificazione costituiscono un’ingerenza nei suoi diritti ai sensi dell’art. 8 Conv. e.d.u., che tutela il rispetto della vita privata (Corte e.d.u., Sez. IV,  24.4.2018, Benedik c. Slovenia).Nonostante la pronuncia della Corte e.d.u. la Corte di cassazione da anni elude il problema perché  afferma che il provvedimento del G.I.P. che autorizza le intercettazioni delle conversazioni legittimerebbe la polizia giudiziaria anche al compimento delle operazioni tecniche necessarie alla individuazione delle utenze da intercettare. Pertanto, trattandosi di una operazione tecnica strumentale alla individuazione delle “utenze bersaglio”, non sarebbe necessario un autonomo provvedimento autorizzativo, trovando la sua legittimazione nel precedente decreto di autorizzazione delle intercettazioni (Cass., Sez. VI, 18.6.2024 (dep. 5.8.2024), Della Monica, n. 31938/2024;Cass., Sez. IV, 12.6.2018, n. 41385, Chirico e altro, CED 273929). Di recente la Corte ribadisce tale orientamento, precisando che l’acquisizione delIMSI Catcher non attiene a conversazioni o comunicazioni, ma solamente al soggetto utente. Esso infatti rappresenta uno strumento di identificazione e geolocalizzazione, mediante un’attività di individuazione dell’utenza da sottoporre a intercettazione telefonica con monitoraggio delle utenze presenti in una determinata area, che non è, dunque, di per sé esecutiva di un’intercettazione di conversazioni, ma è ad essa necessariamente prodromica. Si tratterebbe pertanto di un’attività di individuazione che si rivolge esclusivamente all’identità del singolo apparecchio telefonico e che neppure è finalizzata ad acquisire elementi sugli eventuali contatti telefonici che tale apparecchio intrattiene in un determinato arco temporale, cosicchè non potrebbe parlarsi di attività assimilabile all’acquisizione di tabulati telefonici, potendo essere ricondotta tra gli atti che la polizia giudiziaria compie di propria iniziativa ai fini di cui all’art. 55 c.p.p., in vista di successive attività investigative e non potrebbe quindi essere assimilato ad un mezzo di ricerca della prova. Ne deriverebbe che per l’effettuazione del monitoraggio teso ad individuare le utenze da sottoporre a intercettazione non è necessario un decreto autorizzativo, che è invece indispensabile – e condizione di utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni – per poter captare le conversazioni che transitano sull’utenza da monitorare dopo che quest’ultima è stata individuata. In realtà, le potenzialità operative dell’IMSI Catcher sono assai più invasive di quelle rappresentate dalla Corte di cassazione, in quanto tale strumento si sostituisce alla cella telefonica (perciò è chiamato anche cell-site simulator)  e quindi non solo individua e localizza l’utilizzatore del dispositivo ma capta le comunicazioni in corso che vengono fatte transitare in una cella fake  e, se i messaggi non sono criptati end to end, possono anche essere intercettati. Si tratta perciò di un mezzo di ricerca della prova non disciplinato dalla legge ma che incide sui dati personali, sulla riservatezza e potrebbe anche intaccare la segretezza delle comunicazioni, in contrasto con gli artt. 15 Cost e 8 Conv. europea dei diritti dell’uomo. Il Parlamento, quindi, dovrebbe quanto prima disciplinare la materia, nel rispetto della riserva di legge e di giurisdizione, prevedendo con legge i “casi” e i “modi” di impiego di questo invasivo strumento e riservandone al giudice l’autorizzazione (Cass., Sez. III, 26.9.2024, n. 44047, Morabito).

  • L’inutilizzabilità della prova inaffidabile.-

Si afferma, talvolta, l’inutilizzabilità, anziché la semplice inaffidabilità,  della prova scientifica non rispettosa dei protocolli scientifici.

Infatti, in tema di inutilizzabilità della prova, la Corte di cassazione si cimenta nella giurisprudenza creativa, nonostante il principio di tassatività delle sanzioni processuali. Infatti, la giurisprudenza riguardo all’inutilizzabilità della prova scientifica si è divisa sull’interpretazione dell’art. 191 c.p.p. che, com’è noto, esige la violazione di un divieto probatorio.

È risaputo che la violazione delle modalità acquisitive della prova non dà luogo a inutilizzabilità ma semmai ad una inaffidabilità della prova stessa. Eppure, si è riconosciuta l’inutilizzabilità a causa della violazione di modalità acquisitive della prova (Sez. II, n. 38184 del 6 luglio 2022, C., Rv.283904-04; Sez. V, n. 36080 del 27 marzo 2015, K.,  Rv. 264863;  Sez. II, n. 27813 del 20 giugno 2024, N., Rv 286745), affermandosi che l’analisi comparativa del D.N.A. svolta in violazione delle regole procedurali prescritte dai protocolli scientifici internazionali in materia di repertazione e conservazione dei supporti da esaminare, nonché di ripetizione delle analisi, priva di certezza gli esiti cui perviene, sicchè non è possibile conferire ad essi una valenza indiziante, costituendo, piuttosto, un mero dato processuale, sprovvisto di autonoma capacità dimostrativa e suscettibile di apprezzamento solo in chiave di eventuale conferma di altri elementi probatori. D’altra parte, in senso parzialmente difforme, si afferma che la violazione o l’errata applicazione di protocolli di indagine in materia di repertazione e analisi degli elementi di prova, che contengono regole condivise di carattere tecnico-scientifico, non costituisce motivo di nullità o inutilizzabilità della prova acquisita, potendo, al più, incidere sull’attendibilità degli esiti della stessa, valutazione insindacabile in cassazione se non nei limiti della manifesta illogicità della motivazione (Sez. V n. 8893 dell’11 gennaio 2021, L., Rv.280623). Si è aggiunto che l’inosservanza delle regole procedurali prescritte dai protocolli scientifici  internazionali in materia di repertazione e prelievo del DNA non comporta, di per sé, l’inutilizzabilità del dato probatorio ove non si dimostri che la violazione abbia condizionato in concreto l’esito dell’esame genetico comparativo fondante il giudizio di responsabilità (Sez. VI  n. 15140 del 24 febbraio 2022, N., Rv.283144).

  1. L’ammissibilità della prova dalla genesi sconosciuta.-

Sono recenti le sentenze “gemelle” delle Sezioni unite sull’ acquisizione dall’estero delle chat Sky ECC (la n. 23755/2024, e la n. 23756/2024, entrambe pronunciate il 29 febbraio e depositate il 14 giugno 2024).

Anch’esse hanno dato mostra di giurisprudenza creativa laddove ammettono una prova formata all’estero con modalità tenute volutamente  sconosciute perché coperte dal segreto di Stato,  che quindi privano il difensore del diritto di difesa e impongono al giudice di giudicare su una prova la cui genesi è sconosciuta. E’ ovvio che il procedimento di formazione della prova, se non avviene nel contraddittorio, deve almeno essere conoscibile al giudice e alle parti, al fine di procedere all’eventuale falsificazione o verificazione di essa. Di fronte a sentenze del genere, che compiono un atto fideistico sulla genesi della prova, Karl Popper si rivolterebbe nella tomba.

l) L’inammissibilità del ricorso che non si cimenta con la “prova di resistenza”.-

Ancora più singolare la giurisprudenza  che impone la necessità di esperire la c.d. prova di resistenza con il ricorso che deduce una nullità o inutilizzabilità della prova. È evidente, infatti, che la regola è la tassatività delle sanzioni processuali e che non esiste alcuna disposizione di legge che esiga, a pena di inammissibilità per aspecificità del ricorso, la necessità che il ricorrente sviluppi nel ricorso la prova di resistenza.

Tra l’altro, tale prova di resistenza consiste nella valutazione delle prove residue e utilizzabili, attività valutativa di fatto, che è preclusa in cassazione e comunque è riservata al giudice, anzi è la tipica funzione giurisdizionale.

Eppure, la Corte di cassazione decide la maggior parte dei ricorsi dichiarandoli inammissibili o rigettandoli perché, pur essendovi una nullità o inutilizzabilità manifesta, il ricorrente, quasi sempre il difensore, non ha sviluppato nel ricorso la prova di resistenza.

Conclusioni.-

In definitiva, la Corte di cassazione utilizza la giurisprudenza creativa a seconda del risultato che vuol raggiungere nel caso concreto, più spesso in malam partem, raramente nel senso del favor rei.

Talvolta, poi, il legislatore recepisce i suggerimenti della giurisprudenza e li trasforma in legge, dimostrando la sua modesta autonomia e capacità  di legiferare.

Ma è ovvio che, in un sistema di civil law come il nostro,  la giurisprudenza non possa essere una fonte del diritto e non può pretendere di diventarlo perché sono in gioco i poteri dello Stato,  la divisione dei poteri e i principi intangibili di legalità, della certezza del diritto  e quello della soggezione dei giudici alla legge: il sistema processuale sarebbe trasformato in uno di common law per mano della giurisprudenza.

Il Parlamento deve, perciò, riappropriarsi della sua funzione tipica, se non vuole essere definitivamente spogliato dalla magistratura.

In conclusione, si può dire, semplificando al massimo il discorso, che ognuno deve rispettare il suo ruolo:  il legislatore deve produrre “disposizioni” di legge o di regolamento (che è il diritto vigente), che devono essere interpretate dal giudice per ricavarne la “norma”, cioè la regola ivi contenuta (che è il diritto vivente) la quale, ovviamente, non può stravolgere la disposizione. Quello che spesso è chiamato “diritto giudiziario” è un ossimoro perché le sentenze devono rispecchiare la legge e non deformarla.

Se ogni potere dello Stato svolgesse il suo ruolo, senza invasioni di campo, non solo sarebbe rispettata la divisione dei poteri, ma non sarebbero nemmeno violati i supremi principi di legalità, della certezza del diritto e della conoscibilità e prevedibilità della legge, nonché  della soggezione dei giudici alla legge.

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