The “new” relevance of incitement to crime in the digital age
Sommario: 1. I termini della questione – 2. Accordo per commettere un reato: l’istigazione – 3. Istigazione a delinquere: genesi ed evoluzione – 4. Il requisito della pubblicità – 5. Le “nuove” modalità di istigazione alla luce della rivoluzione digitale – 5.1 L’istigazione o apologia pubblica di delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità – 5.2 L’istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia – 5.3 Istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa – 5.3.1 L’aggravante del negazionismo – 6. Considerazioni conclusive
ABSTRACT
L’istigazione a delinquere, disciplinata dall’art. 414 c.p., è tornata al centro del dibattito giuridico a causa dell’ampia diffusione dei social network, che hanno esteso le modalità di propagazione di contenuti potenzialmente pericolosi per l’ordine pubblico. Se in passato si auspicava la sua rimozione dal Codice penale per evitare limitazioni alla libertà di espressione, l’evoluzione tecnologica ha invece portato all’introduzione di nuove ipotesi di reato, come la propaganda e l’istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa. L’Autrice, dopo aver esaminato le attuali ipotesi di rilevanza penale dell’istigazione a delinquere, le criticità applicative e le sfide poste dall’evoluzione tecnologica, riflette sull’opportunità di riformare il quadro normativo, riducendo la sovrappunibilità e garantendo una risposta giuridica proporzionata ed efficace.
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The offense of incitement to commit a crime, as regulated by Article 414 of the Italian Criminal Code, has regained prominence in legal discourse due to the widespread proliferation of social networks, which have expanded the means of disseminating content potentially dangerous to public order. While in the past, its removal from the Criminal Code was advocated to prevent undue restrictions on freedom of expression, technological developments have instead led to the introduction of new criminal offenses, such as propaganda and incitement to crime based on racial, ethnic, or religious discrimination.The Author, after examining the current instances of criminal liability for incitement to commit a crime, the related interpretative challenges, and the issues arising from technological evolution, considers the opportunity for a reform of the legal framework, aiming to reduce the risk of overlapping criminal provisions and ensure a proportionate and effective legal response.
- I termini della questione
L’istituto dell’istigazione a delinquere, disciplinato dall’art. 414 c.p., pur risalente al Codice penale del 1930 e originariamente concepito in un contesto di marcata ideologizzazione totalitaria, ha visto una rinnovata centralità nell’attuale scenario giuridico – sociale, principalmente a causa della capillare diffusione dei social networks. Questi ultimi, infatti, hanno ampliato le possibilità di diffusione di contenuti potenzialmente idonei a turbare l’ordine pubblico, determinando il riaffermarsi della rilevanza penale dell’istigazione come reato di pericolo. Così, se fino a qualche decennio fa si auspicava la dismissione di detta fattispecie incriminatrice dal circuito penale, in quanto considerata sintomo di un controllo totale delle opinioni, tale evoluzione ha spinto il legislatore a introdurre nuove ipotesi di reato, come la propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa[1], volte a disciplinare specifiche condotte legate al contesto digitale.
In tale scenario, non sono mancate pronunce giurisprudenziali, in particolare dalla Cassazione, che in più occasioni ha ribadito come la divulgazione di contenuti sui social media possa integrare il reato di cui all’art. 414 c.p., evidenziandone la pericolosità quale strumento di propaganda. È stata, ad esempio, riconosciuta la sussistenza del reato di apologia di delitti di terrorismo (comma 4, art. 414 c.p.) nella condivisione online di contenuti inneggianti allo Stato islamico o alle attività dell’Isis, data la natura terroristica delle organizzazioni jihadiste (art. 270-bis c.p.) e l’indefinita potenzialità diffusiva della rete [2]. In una più recente sentenza[3], inoltre, la Cassazione ha qualificato espressamente Twitter come “mezzo di propaganda”, estendendo tale definizione ad altre piattaforme digitali, sottolineando che la pubblicazione di un messaggio accessibile a un vasto pubblico integra gli estremi dell’art. 414 c.p.
La moderna rilettura dell’istigazione, dunque, pur radicata in una concezione giuridica superata, risponde all’esigenza di prevenire fenomeni lesivi di diritti fondamentali e di incentivazione a condotte delittuose, riaffermando la necessità di un controllo penalistico sulla diffusione incontrollata di messaggi istigatori. D’altro canto, però, il problema della legittimazione della punizione delle moderne forme di manifestazione del pensiero, già oggetto di ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale nel contesto dell’accesa conflittualità istituzionale degli anni Settanta,[4] costituisce tutt’oggi uno snodo centrale del diritto penale[5].
La tutela penalistica si inserisce in un delicato equilibrio tra la salvaguardia della libertà di espressione e la protezione di altri diritti fondamentali, richiedendo una valutazione critica sia sull’opportunità dell’intervento legislativo sia sulle modalità di applicazione del diritto penale[6]. Sebbene il dibattito dottrinale resti aperto, è evidente che il “nuovo volto” dei reati d’opinione, trasformato dall’avvento dei social media, impone una riflessione approfondita[7]. Questi strumenti, infatti, hanno rivoluzionato la diffusione delle informazioni, permettendo a ogni individuo di diventare creatore e propagatore di contenuti, con un potenziale diffusivo amplificato da meccanismi algoritmici come le filter bubble[8] e le echo chambers[9], che favoriscono la radicalizzazione delle opinioni e la propagazione di idee discriminatorie.
Nei paragrafi seguenti si analizzeranno le attuali ipotesi di rilevanza penale dell’istigazione a delinquere, con un focus particolare sulle sfide poste dallo sviluppo tecnologico e sulle criticità interpretative e applicative che ne derivano. L’analisi critico-dottrinale si concentrerà sull’opportunità di semplificare e riformare il quadro normativo, attraverso un approccio innovativo che ridimensioni l’intervento penale, evitando la sovrapunibilità e garantendo la certezza del diritto.
- Accordo per commettere un reato: l’istigazione
L’istigazione, nei suoi molteplici e sfuggenti aspetti, costituisce un problema di indiscussa attualità ed importanza crescente per il rilievo assunto nei più complessi settori della vita sociale. Allo scopo di individuare le caratteristiche del concetto di istigazione, è opportuno osservare preliminarmente che non sempre la condotta istigatrice ha per oggetto un fatto costituente reato: l’istigazione all’odio fra le classi sociali (art. 415 c.p.), l’istigazione al suicidio (art 580 c.p.), sono esempi di induzione a commettere un fatto penalmente irrilevante. Si assolve in tal modo ad una funzione anticipatoria dell’intervento penale, consentendo l’irrogazione di una sanzione, anche quando il comportamento tenuto non sia altrimenti tipico[10].
L’indagine avente ad oggetto l’istigazione può essere condotta su due direttive: la prima incentrata sull’ interpretazione dell’art. 115 c.p. e la seconda relativa alla condotta istigatrice come fattispecie autonoma. Se quest’ultima costituirà la direttrice d’indagine di tutto l’elaborato a seguire, si ritiene, invece, opportuno trattare preliminarmente l’ipotesi di accordo a commettere un reato. Nel nostro ordinamento, il concorso di persone nel reato presuppone che i compartecipi pongano in essere un fatto penalmente rilevante. Tale principio è sancito, in particolare, dall’art. 115 c.p., il quale esclude ogni forma di responsabilità penale in caso di mero accordo finalizzato alla commissione di un reato, laddove questo non venga realizzato, neppure nella forma del tentativo. Potrà eventualmente applicarsi una misura di sicurezza in via residuale. La medesima sanzione è prevista nell’ipotesi in cui l’istigazione sia stata accolta, ma il reato incitato non venga commesso[11].
In merito alla funzione dell’art. 115 c.p., si sono delineati diversi orientamenti interpretativi che hanno inquadrato la tematica dell’istigazione nell’ambito del tentativo e del concorso di persone [12]. Tale norma è stata vista, ora, come proiezione normativa della teoria dell’accessorietà nel nostro sistema penale[13]; ora, come espressione del principio generale che sancisce la non punibilità degli atti preparatori[14]; ora – al contrario – come espressione di un’eccezionale assoggettabilità a misura di sicurezza di taluni atti preparatori[15]; infine, come limite esegetico alla configurabilità del tentativo in una manifestazione plurisoggettiva[16].
L’orientamento prevalente ritiene tuttavia che dall’art. 115 c.p. non si possa ricavare un principio di portata generale, limitandosi tale disposizione a escludere la punibilità delle sole condotte di accordo e istigazione prive di efficacia. [17] Il legislatore avrebbe dunque inteso sottrarre eccezionalmente alla rilevanza penale tali condotte, che altrimenti, in base all’art. 56 c.p., potrebbero risultare idonee e univoche, considerata l’ampia configurazione del tentativo prevista dal codice del 1930. [18] Sebbene questa interpretazione sia più coerente con la genesi storica e la ratio della disciplina del tentativo[19], essa lascia irrisolta la questione dei limiti applicativi dell’istigazione inefficace. Se infatti è indubbio che, in alcuni casi, la condotta istigatoria possa integrare gli estremi del tentativo punibile, resta più controverso stabilire quale sia il livello minimo oltre il quale certe manifestazioni possano assumere rilevanza ai fini dell’accertamento della pericolosità sociale. In altri termini, l’interpretazione prevalente dell’art. 115 c.p. consente di individuare il massimo grado di sviluppo della «complicità tentata», ma non fornisce criteri chiari per determinare il livello minimo di articolazione che istigazione e accordo devono raggiungere per giustificare l’applicazione di una misura di sicurezza[20].
Per elaborare una possibile soluzione, come suggerito da una parte della dottrina, è opportuno analizzare distintamente le diverse ipotesi di illecito previste dall’art. 115 c.p.[21] Invero, l’efficacia applicativa della norma è circoscritta da due clausole fondamentali: l’atipicità della condotta rispetto ad altre disposizioni normative e la mancata commissione del reato oggetto dell’azione istigatoria. La prima, sancita con la formula “se il reato non è commesso”, non si riferisce esclusivamente al reato oggetto dell’istigazione, ma si estende a qualsiasi fatto criminoso derivante dalla condotta istigatoria, purché siano presenti tutti gli elementi che consentano di attribuire all’istigatore la responsabilità penale dell’evento. La clausola di riserva contenuta nell’incipit dell’art. 115 c.p. («salvo che la legge disponga altrimenti») consente, invece, la punibilità dell’accordo e dell’istigazione non seguiti dalla realizzazione del reato nei casi espressamente previsti dalla legge[22]. Tali deroghe mirate all’art. 115 c.p. sono spesso oggetto di critiche, in quanto comportano la punizione di mere condotte preparatorie, in contrasto con il principio sancito dal brocardo “cogitationis poenam nemo patitur“[23].
Un esempio è rappresentato dall’accordo per la cessione di sostanze stupefacenti. Infatti, l’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990 prevede, tra le condotte penalmente rilevanti, l'”offerta” di droga, qualificata come reato di pericolo presunto per scelta di politica criminale del legislatore. Questa previsione esclude l’applicazione dell’art. 115 c.p., rientrando tra le eccezioni legislative da esso espressamente salvaguardate. Analogamente, il reato di cospirazione politica mediante accordo punisce la mera intesa tra più soggetti di attuare un determinato proposito criminoso a scopo politico.
Tuttavia, dottrina e giurisprudenza evidenziano come le effettive deroghe all’art. 115 c.p. siano molto limitate. In molti casi, le fattispecie considerate come reati autonomi di istigazione o di accordo non costituiscono reali eccezioni alla norma generale, ma solo apparenti[24]. Ciò si verifica nei seguenti casi:
a) quando l’accordo o l’istigazione hanno ad oggetto fatti non necessariamente criminosi. Ad esempio, nell’ambito dell’associazione mafiosa, disciplinata dall’art. 416 bis c.p., la sola adesione all’associazione esclude l’applicabilità dell’art. 115 c.p. a numerose condotte;
b) quando le disposizioni incriminatrici prevedono elementi ulteriori rispetto a quelli richiesti per configurare il concorso di persone nel reato. Un esempio è rappresentato dalla necessità dell’elemento della pubblicità negli artt. 414 e 415 c.p., o dal requisito associativo nelle fattispecie degli artt. 305, 416, 416-bis c.p. e 74 del d.P.R. n. 309/1990;
c) quando la condotta tipica del reato è rigidamente determinata dalla norma incriminatrice (reato a forma vincolata). Ad esempio, nell’art. 377 c.p. (intralcio alla giustizia), la condotta non si risolve in una semplice istigazione, come quella disciplinata dall’art. 115 c.p., bensì in una condotta specifica e determinata, distinta dall’istigazione generica.
L’art. 115, pur non prevedendo l’applicazione di una pena, consente in determinate circostanze e al verificarsi di specifiche condizioni l’imposizione di una misura di sicurezza. A tal proposito, Autorevole dottrina ha introdotto il concetto di “quasi-reato”[25], richiamando in particolare l’art. 202, comma 2, secondo cui «la legge determina i casi nei quali […] possono essere applicate misure di sicurezza per un fatto non preveduto dalla legge come reato».
Tuttavia, un diverso e altrettanto autorevole orientamento dottrinale ritiene che il termine “quasi-reato” possa risultare fuorviante, poichè non esiste un’autonoma categoria intermedia tra il reato e gli altri illeciti che possa essere qualificata in tal modo. Tale affermazione trova fondamento non solo nella limitata casistica applicabile – che si riduce essenzialmente all’ipotesi del reato impossibile (art. 49, comma 2) e alle fattispecie previste dall’art. 115 – ma soprattutto nel principio secondo cui anche le misure di sicurezza rientrano tra le sanzioni penali. La loro applicabilità implica dunque la sussistenza di un reato[26].
La sottoposizione di un soggetto a misura di sicurezza è prevista, innanzitutto, nel caso di accordo per commettere un delitto (art. 115, comma 2)[27]. Inoltre, può essere disposta anche quando l’istigazione viene accolta, purché l’istigazione riguardi un reato, applicandosi sia all’istigatore che all’istigato[28]. Diversamente, se l’istigazione non viene accolta, solo l’istigatore—e non anche l’istigato—può essere sottoposto a misura di sicurezza, ma esclusivamente se l’istigazione riguardava un delitto. Sul punto, la dottrina offre due interpretazioni riguardo al richiamo operato dall’art. 115, comma 3: secondo un orientamento, esso si riferisce unicamente alla disciplina sanzionatoria[29], secondo un’altra posizione, invece, richiama la distinzione tra delitti e contravvenzioni già operata nei commi precedenti. [30] In ogni caso, il presupposto per l’applicazione di una misura di sicurezza non è la consumazione di un reato, bensì la pericolosità del soggetto agente.
- Istigazione a delinquere: genesi ed evoluzione
Come anticipato, la clausola di riserva contenuta nell’art. 115 c.p. ha legittimato la proliferazione di un ampio novero di fattispecie istigatorie e apologetiche autonome ed autosufficienti [31]. Si tratta di ipotesi criminose disseminate nel codice tra i delitti contro la personalità dello Stato e l’ordine pubblico, nonché in numerose leggi speciali [32]. Nonostante la diversità – soprattutto sotto il profilo dell’oggetto – delle varie forme in cui tali reati si manifestano, è possibile ricondurli a un’unitaria categoria di fattispecie, avendo riguardo al modello delineato dall’art. 414 c.p.[33]
Il delitto di istigazione a delinquere trova il proprio fondamento nella progressiva autonomizzazione delle condotte istigatorie rispetto alla partecipazione criminosa. Nel diritto romano, così come mancava un concetto autonomo di tentativo, l’istigazione non era considerata penalmente rilevante se non quale mero segmento della compartecipazione al reato. Anche nelle epoche successive, il principio generale è rimasto quello della irrilevanza penale dell’istigazione, salvo che essa fosse seguita dalla commissione del reato. Tuttavia, con l’evolversi delle esigenze di politica criminale, si è assistito all’introduzione di fattispecie autonome di reato volte a reprimere tanto l’istigazione quanto l’apologia di delitto[34].
Il primo riconoscimento normativo di tali figure si ebbe con il codice Zanardelli del 1889[35], che già prevedeva l’istigazione a delinquere e l’apologia, collocandoli tra i reati contro l’ordine pubblico e, al contempo, risentendo delle esigenze di controllo politico, in particolare nei confronti delle ideologie anarchiche e socialiste rivoluzionarie[36]. Questa tendenza repressiva trovò la sua massima estensione con il codice Rocco del 1930, espressione della concezione totalitaria dello Stato fascista, che configurò l’istigazione e l’apologia come reati di pericolo presunto, strumentali alla prevenzione di qualsiasi minaccia all’ordine pubblico inteso come adesione ideologica al regime[37]. In tale contesto, il controllo delle opinioni divenne uno strumento essenziale di repressione, determinando la punizione dell’istigazione indipendentemente dai mezzi utilizzati o dall’effettiva idoneità a provocare la commissione di reati[38]. L’assetto normativo vigente, pur avendo superato l’impostazione autoritaria del passato, continua a riconoscere l’autonoma rilevanza dell’istigazione a delinquere quale strumento di tutela dell’ordine pubblico, interpretato in chiave garantista e conforme ai principi democratici[39].
L’art. 414 c.p. prevede due distinte fattispecie: l’istigazione a delinquere (commi 1 e 2) e l’apologia di delitto (comma 3)[40]. In particolare, la condotta dell’istigazione consiste nell’indurre pubblicamente taluno a commettere un reato, sia determinando un proposito criminoso prima inesistente (c.d. istigazione primaria), sia rafforzando la decisione o rimuovendo eventuali freni inibitori (c.d. istigazione secondaria)[41]. L’ apologia, invece, si sostanzia nella manifestazione pubblica di un giudizio positivo sull’illecito o sul suo autore [42], non necessariamente declinato in termini di esaltazione o glorificazione, essendo sufficiente una forma di approvazione che ne implichi una valorizzazione positiva [43].
Dal punto di vista strutturale, le figure criminose in esame rientrano nella più ampia categoria dei c.d. reati di opinione, nei quali la punibilità rischia di collidere col diritto alla libera manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.). In quest’ambito, l’offensività del fatto rispetto al bene tutelato può risultare di difficile afferrabilità. Si tratta in effetti di una categoria di reati dove si rischia di punire l’autore per le sue idee, per l’atteggiamento infedele e il pericolo di emulazione che diffonde. La necessità di evitare una simile deriva ha indotto dottrina e giurisprudenza a interrogarsi sulla legittimità costituzionale delle ipotesi previste dall’art. 414 c.p., cercando di individuare eventuali limiti da contrapporre alla norma costituzionale, oltre a quello del “buon costume” già previsto dall’Assemblea Costituente [44].
A partire dagli anni Sessanta, la giurisprudenza costituzionale, sia pure con pronunce eterogenee per dispositivo ed efficacia formale, ha preservato la compatibilità delle norme impugnate con la Carta costituzionale, fissandone al contempo i requisiti di legittimità[45]. Tale opera di “salvataggio” si è concretizzata attraverso due principali modalità ermeneutiche. Da un lato, in alcune sentenze si è provveduto a interpretare le fattispecie in chiave di pericolo concreto, soluzione che garantisce il rispetto del principio di offensività, ma che solleva questioni di determinatezza, attribuendo al giudice il compito di complesse valutazioni. Punto di riferimento di tale orientamento è costituito dalla sentenza n. 65 del 1970 in materia di apologia di reato, che ha ricondotto tale comportamento all’istigazione, restringendone la rilevanza penale alle sole ipotesi in cui, in concreto, sia idoneo a provocare la commissione del delitto oggetto di esaltazione. La Consulta ha così reinterpretato il divieto in chiave di istigazione indiretta, ritenendo penalmente rilevante non la mera difesa elogiativa di un reato, ma solo «quella che per le sue modalità integri un comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti»[46]. Analoga impostazione è stata adottata con riferimento all’apologia di fascismo e alle manifestazioni fasciste, ricondotte alle sole ipotesi idonee in concreto a favorire la ricostituzione del disciolto partito fascista, in linea con la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione.[47]. Quanto alle fattispecie di istigazione, la Corte, ha seguito un criterio analogo, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’istigazione all’odio fra le classi sociali (art. 415 c.p.), nella parte in cui non specificava che la condotta dovesse essere attuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità, altrimenti rischiando di incriminare la mera propaganda ideologica [48].
Dall’altro lato, in altre pronunce, le fattispecie sono state ricostruite come reati di pericolo presunto, facendo riferimento a beni giuridici astratti e ideali, con il rischio di punire l’espressione del pensiero sulla base di presunzioni normative[49]. A ben vedere, il Giudice delle leggi, alternando interpretazioni restrittive e dichiarazioni di illegittimità parziali, ha individuato i requisiti minimi, affinché le fattispecie di istigazione e apologia possano dirsi compatibili con la Carta fondamentale. Valorizzando il principio di offensività in concreto, reati di pericolo presunto sono stati reinterpretati in chiave di pericolo concreto (implicito). In tal senso la legittimità dell’istigazione e dell’apologia, intesa quale forma indiretta della prima, è stata ancorata alla loro idoneità a determinare una concreta azione delittuosa.
L’ orientamento della Corte ha fortemente valorizzato la dimensione ermeneutica della libertà di espressione, quale criterio di interpretazione costituzionalmente orientata. Tale libertà, essendo un principio cardine di ogni società democratica e pluralista, non ammette limitazioni di carattere presuntivo, neppure al fine di tutelare altri beni di rilievo costituzionale[50]. Più di recente, la medesima impostazione è stata confermata anche dalla Corte EDU, che ha accolto un significato particolarmente garantista della libertà riconosciuta dall’art. 10 CEDU[51], riconoscendo la protezione anche per le «informazioni o idee che offendono, indignano o turbano» [52].
In definitiva, il fulcro della valutazione rimane l’accertamento del pericolo concreto, da intendersi non come semplice accoglimento dell’istigazione, bensì come effettiva idoneità della condotta a determinare la realizzazione del reato istigato. Sul punto, a differenza della giurisprudenza, la dottrina ha fornito indicazioni chiare e significative: « il contenuto offensivo del fatto – per l’ordine pubblico inteso quale “assenza di pericolo di reati” – non può essere ravvisato nel mero contenuto di pensiero o nella forza argomentativa, ossia nei caratteri intrinseci della manifestazione espressiva, ma si identifica nell’impatto del messaggio sui destinatari, con la sua concreta idoneità a innescare un “corte circuito” fra pensiero e azione. Il pericolo va quindi accertato in concreto, caso per caso, tenendo conto del contesto»[53].
Sulla base di tali premesse, non sorprende che, con la legge n. 85/2006, nel procedere a una revisione organica dei reati di opinione, laddove non si sia ritenuto opportuno procedere alla loro abrogazione – come avvenuto, ad esempio per gli artt.269, 272, 292-bis, 293 e 406 c.p. – le soluzioni adottate abbiano riguardato non solo la rimodulazione delle sanzioni edittali, ma anche l’introduzione di ulteriori elementi strutturali volti a garantirne una più rigorosa tipizzazione. In tale prospettiva, si è previsto, da un lato, il carattere necessariamente violento degli atti oggetto di incriminazione (artt.241, 283 e 289 c.p.) e, dall’altro, in conformità all’orientamento espresso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 65/1970, l’esplicita idoneità offensiva della condotta (artt. 241, 270 e 283 c.p.). [54]
Secondo autorevole dottrina, tale idoneità non deve essere riferita direttamente alla commissione del delitto istigato, bensì alla capacità della condotta di far sorgere nella mente dei destinatari l’idea e il proposito di compiere il reato, determinandone così l’ “accoglimento”[55]. In questa prospettiva, l’«accoglimento» della istigazione segnerebbe una nuova e più netta «linea di demarcazione fra la libertà di manifestazione del pensiero e i delitti di istigazione e di apologia», risolvendosi nella prova dell’idoneità della condotta a indurre un’effettiva adesione al messaggio illecito[56]. Tuttavia, se la fattispecie di pubblica istigazione ex art. 414 c.p., analogamente a quanto previsto dall’ abrogato art.303 c.p., mira a prevenire «il pericolo che masse di uomini comincino a rafforzarsi nella concezione e nella determinazione attorno alla concreta possibilità di commettere il delitto»[57], allora sarebbe necessaria una pluralità di testimoni per provarne l’«accoglimento» e, dunque, la sua efficacia causale. In caso contrario, la valutazione dell’idoneità della condotta rischierebbe di tradursi in un esercizio di pura astrazione, scivolando nell’«abisso che solo la fantasia può misurare» della probatio diabolica della causalità psichica (e prognostica!)[58]. Si impone, dunque, una riflessione critica sulla reale effettività della fattispecie di pubblica istigazione, interrogandosi se la condivisibile interpretazione dottrinale non ne determini, in concreto, un’inevitabile e implicita abrogazione.
- Il requisito della pubblicità
Ai fini della nostra indagine, merita un approfondimento specifico l’elemento della pubblicità, requisito caratterizzante la condotta descritta dall’ art.414 c.p. Agli effetti della legge penale, secondo quanto disposto dal quarto comma dell’art. 266 c.p., un reato si considera commesso pubblicamente, quando si realizzi: 1) mediante la stampa o altro mezzo di propaganda, 2) in luogo pubblico o aperto al pubblico e alla presenza di più persone, 3) in una riunione che, per il luogo, il numero dei partecipanti o il suo scopo, abbia carattere non privato. Queste ipotesi delineano un contesto criminogeno idoneo a enfatizzare la pericolosità della manifestazione istigativa, soprattutto laddove la compresenza fisica dei destinatari favorisca un’atmosfera emotiva propizia a possibili sviluppi criminosi. Tuttavia, la formulazione normativa presenta alcuni limiti: il riferimento alla “presenza di più persone” nel caso del luogo pubblico o aperto al pubblico appare eccessivamente generico, mentre la nozione di “riunione non privata” solleva dubbi in relazione al principio di tassatività, specie per quanto attiene al legame tra il carattere pubblico dell’incontro e il suo oggetto o scopo.
Nonostante tali incertezze interpretative, l’elencazione delle ipotesi di pubblicità è tassativa e non consente un’applicazione analogica, bensì solo una lettura estensiva conforme al principio di legalità. A tal proposito, si è dibattuto in dottrina se tra i mezzi di propaganda possano rientrare anche la televisione e internet, strumenti evidentemente non contemplati dal legislatore storico, o se un’ interpretazione in tal senso configuri un’ipotesi di analogia in malam partem.[59] È ormai pacifico che tale estensione interpretativa non violi il dato letterale della disposizione, poiché non appare irragionevole ricondurre tali strumenti alla categoria dei mezzi di propaganda, sebbene non espressamente previsti dal legislatore dell’epoca. Anche la giurisprudenza è dello stesso parere. In più occasioni la Corte di cassazione ha ribadito che i social network sono descritti come una sorta di “piazza virtuale” in cui solitamente gli utenti del web – salve eventuali restrizioni – hanno libero accesso. Essi, dunque, in virtù del fatto che i contenuti ivi pubblicati hanno una larghissima diffusione – raggiungendo un numero elevato ed indeterminabile di persone – rappresentano un mezzo idoneo a soddisfare il requisito di pubblicità richiesto dall’art.414 c.p.[60]
Gli strumenti telematici e informatici, tra cui siti web e social network, dunque, soddisfano per loro natura intrinseca il requisito di pubblicità richiesto dalla norma, in quanto il messaggio veicolato attraverso di essi è destinato a una pluralità di destinatari. Tale considerazione ha trovato un riconoscimento normativo con l’intervento del legislatore del 2015, che ha modificato l’art. 414 c.p., introducendo una circostanza aggravante per il caso in cui l’istigazione sia commessa mediante strumenti informatici o telematici.
A tal proposito, non si è mancato di evidenziarne l’irrazionalità sul piano politico-criminale e la logica d’autore. In particolare, la norma non risponderebbe alle tradizionali funzioni delle circostanze, per lo più ravvisate nell’individualizzazione della pena in relazione alla gravità del fatto, alla colpevolezza del soggetto agente e alla sua pericolosità, ma sarebbe, in realtà, espressione di quella tendenza a incriminare più gravemente l’agente per il possesso di un certo bagaglio di nozioni e competenze e, dunque, per le sue capacità soggettive; tendenze che fanno affiorare ancora una volta la deprecabile dimensione di un diritto penale d’autore. Su quest’ultimo versante, si tratta, in realtà, di un argomento superabile, ove si tenga conto che, notoriamente, gli strumenti informatici e telematici determinano una capillare e indefinita potenzialità diffusiva del messaggio istigatorio, incrementando, quindi, la probabilità di un effetto suggestivo su una massa generalizzata di persone[61].
La nozione di pubblicità contenuta nell’art. 266 c.p. ha, dunque, una portata generale e si applica a tutte le fattispecie in cui la pubblicità del fatto rileva ai fini della legge penale, inclusa l’istigazione a delinquere. A tale proposito, la dottrina maggioritaria, evidenziando che la scelta terminologica del legislatore – “istiga pubblicamente” anziché “istiga il pubblico” – conferma che il reato sussiste anche qualora l’istigazione sia rivolta a un solo soggetto, purché avvenga in un contesto rispondente ai criteri di pubblicità delineati dall’art. 266 c.p.
Le modalità attraverso cui si realizza la pubblicità della condotta possono variare a seconda che il carattere diffusivo dell’istigazione prescinda dalla compresenza fisica dell’autore e dei destinatari oppure implichi un’interazione diretta e immediata tra essi. Resta controverso, tuttavia, se la pubblicità della condotta sia da considerarsi elemento costitutivo del reato o condizione obiettiva di punibilità. L’orientamento prevalente, che valorizza il requisito dell’offesa all’ordine pubblico, propende per la prima opzione, con la conseguenza che il soggetto agente deve avere consapevolezza del carattere pubblico della propria azione[62]. Viceversa, secondo una diversa interpretazione, la pubblicità rappresenterebbe una condizione obiettiva di punibilità, con la conseguenza che sarebbe irrilevante non solo l’ignoranza da parte dell’agente dell’illiceità penale del fatto, ma anche la sua intenzione di esaltare o approvare un determinato reato al fine di spingere altri a commetterne di ulteriori[63].
La giurisprudenza ha inoltre chiarito che, affinché la condotta possa considerarsi istigazione penalmente rilevante, essa deve possedere un’intrinseca attitudine a incidere sulla sfera volitiva dei destinatari, sia attraverso la persuasione razionale sia mediante la forza della suggestione. In quest’ottica, non integra il reato di istigazione a delinquere la mera pubblicazione, su un periodico, di un elenco di persone facoltose nell’ambito di un’inchiesta giornalistica sui sequestri di persona, poiché una simile condotta non presenta un’efficacia istigatoria concreta e diretta.
- Le “nuove” modalità di istigazione alla luce della rivoluzione digitale
Come anticipato in apertura, la recente proliferazione – quantomeno sotto il profilo quantitativo – di manifestazioni espressive potenzialmente lesive del vivere civile, favorita dalla diffusione dei nuovi strumenti digitali, primi fra tutti i social network[64], ha determinato un ampliamento della tendenza alla criminalizzazione delle condotte di istigazione a delinquere. Tale orientamento trova plurime esemplificazioni in diverse ipotesi delittuose, quali la pubblica istigazione e apologia di genocidio (art. 8, L. n. 962/1967), la propaganda e l’istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa (art. 3, L. n. 654/1975, oggi art. 604-bis, comma 1, c.p.)[65], il negazionismo (art. 604-bis, comma 3, c.p.)[66], l’istigazione o apologia pubblica di delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità (art. 414, comma 4, c.p.), l’istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia (art. 414-bis c.p.), nonché la propaganda di viaggi verso territori esteri finalizzati al compimento di atti con finalità di terrorismo (art. 270-quater.1 c.p.).
Al di là dell’ eterogeneità dell’oggetto giuridico tutelato – che varia a seconda delle singole fattispecie, individuandosi, ad esempio, nell’art. 604-bis c.p. nella tutela da condotte discriminatorie fondate su razza, origine etnica o religione, nell’art. 414-bis c.p. nella protezione del “sentimento collettivo di sicurezza” rispetto ai reati prodromici alla pedofilia e così via – le ipotesi richiamate, ad eccezione del negazionismo, rientrano nel paradigma dell’istigazione, la cui peculiarità risiede, come noto, nella punibilità di condotte consistenti in una manifestazione del pensiero.
La funzione amplificatrice dei social media(dai social network in particolare) è stata di recente valorizzata dalla giurisprudenza per sostenere la configurabilità dei reati qui in esame. Ad esempio, il settaggio della bacheca personale di Facebook in “modalità pubblica”, dunque visibile a tutti, e la partecipazione di un numero comunque elevato di persone alle chat Telegram e WhatsApp «rendono evidente il pericolo di diffusione dei messaggi pubblicati tra un numero indeterminato di persone». Ciò perché – richiamando una recente sentenza della Corte di cassazione[67] – «l’algoritmo di funzione dei “social network” aumenta il numero di interazioni tra gli utenti» e, pertanto, amplifica la portata diffusiva dei contenuti. Ne sarebbe dunque derivata la connotazione propagandistica della condotta, poiché idonea a raggiungere un numero potenzialmente indeterminato di persone (nella prassi si parla di idee idonee a influenzare un «vasto pubblico»), nonché a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori.
Tale meccanismo, favorendo l’arretramento della soglia di punibilità sino a ricomprendere condotte significativamente distanti da una concreta lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato – in deroga ai principi generali dell’ordinamento, quali ad esempio quelli sanciti dall’art. 115 c.p., nonché ai principi di offensività e materialità – solleva rilevanti questioni di legittimità e opportunità sotto il profilo della politica criminale. Rinviando ad altra sede l’analisi completa di tutte le ipotesi di istigazione a delinquere, analizzeremo di seguito le fattispecie che, a nostro parere, sono state maggiormente influenzate dalla rivoluzione digitale, evidenziandone le principali criticità interpretative e applicative.
5.1 L’istigazione o apologia pubblica di delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità
La propaganda delle organizzazioni terroristiche di matrice islamista, ma non solo, si avvale da anni della rete per finalità di reclutamento, addestramento e istigazione alla commissione di atti violenti. Le modalità operative dei gruppi terroristici si sono evolute in virtù dell’eccezionale efficacia della comunicazione sul web, dando origine a una nuova tipologia di adepti, i cosiddetti “lupi solitari”, i quali, addestratisi e radicalizzatisi attraverso contenuti diffusi su piattaforme digitali riconducibili a tali organizzazioni, hanno perpetrato attentati di rilevanza internazionale [68]. Lo spostamento sul web di gran parte delle attività prodromiche o strumentali alla commissione di atti terroristici ha imposto agli Stati la necessità di contrastare la minaccia in un ambito caratterizzato da una natura ibrida e complessa, in bilico tra la tutela della libertà di espressione e la repressione del proselitismo penalmente rilevante [69]. In tale contesto, l’Unione europea ha adottato un piano volto a promuovere misure di prevenzione e contrasto del terrorismo internazionale, articolato su due direttrici: da un lato, l’armonizzazione delle norme di diritto penale sostanziale e processuale tra gli Stati membri; dall’altro, il rafforzamento dei meccanismi di cooperazione giudiziaria e di scambio di informazioni[70]. Di particolare rilievo, ai fini della presente analisi, risultano la Decisione quadro 2002/475/GAI (successivamente modificata dalla Decisione quadro 2008/919/GAI), che ha introdotto disposizioni comuni per l’ incriminazione delle condotte terroristiche; la Direttiva 2017/541 che ha imposto agli Stati membri l’adozione di misure per la prevenzione della propaganda terroristica online, attraverso la rimozione tempestiva dei contenuti illeciti ovvero, in caso di impossibilità, il blocco dell’accesso, nel rispetto dei diritti fondamentali alla libertà di informazione; nonché il Regolamento UE 2023/2131, volto a disciplinare lo scambio digitale di informazioni nei procedimenti relativi ai reati di terrorismo. Sul piano internazionale, tali strumenti si affiancano alle iniziative del Consiglio d’Europa in attuazione delle direttive delle Nazioni Unite, tra cui la Convenzione per la prevenzione del terrorismo del 2005 e il relativo Protocollo Addizionale del 2015.
L’inasprimento della minaccia terroristica a partire dal 2001 ha determinato un intervento normativo anche da parte del legislatore italiano, con particolare riguardo al terrorismo di matrice jihadista [71]. Sul piano del diritto penale sostanziale[72], i principali interventi normativi si riscontrano nel D.L. 18 ottobre 2001, n. 374, diretto a introdurre “disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale”[73], nel D.L. 27 luglio 2005, n. 144, recante “misure urgenti per il contrasto al terrorismo internazionale”[74]; nel D.L. 18 febbraio 2015, n. 7, contenente, tra l’altro, “misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale”; [75] e, da ultimo, nella L. 28 luglio 2016, n. 153, contenente ulteriori “norme per il contrasto al terrorismo”[76].
Tuttavia, per quanto concerne specificamente la disciplina dell’istigazione a delinquere, si deve osservare come nessuna delle modifiche introdotte dal legislatore abbia innovato in modo significativo il quadro normativo previgente. Allo stato attuale, infatti, la giurisprudenza consolidata ritiene configurabile il reato nella condotta di chi condivida sui social network link a materiale terroristico di propaganda, anche senza pubblicarli autonomamente. Ciò in quanto tale condotta, potenziando la diffusione di tale materiale, accresce il pericolo non solo di emulazione di atti di violenza, ma anche di adesione, in forme aperte e fluide, all’associazione terroristica che li promuove[77]. Tuttavia, permane un’inadeguata e anacronistica disciplina per contrastare efficacemente tali fenomeni.
Già prima del 2001, infatti, l’ordinamento italiano prevedeva due disposizioni volte a reprimere l’istigazione a commettere reati in materia di terrorismo: il già citato art. 414 c.p., che, come detto, punisce chiunque pubblicamente istiga taluno a commettere uno o più delitti, nonché chi fa apologia di uno o più delitti, e l’art. 302 c.p., che, con riferimento ai soli delitti contro la personalità dello Stato, sanziona anche l’istigazione privata, rivolta a una o più persone determinate.
Pertanto, le innovazioni normative introdotte dal legislatore italiano in attuazione degli obblighi sovranazionali si sono limitate all’introduzione di due circostanze aggravanti: la prima, prevista dal D.L. n. 144 del 2005, comporta un aumento di pena fino alla metà se l’istigazione o l’apologia riguardano delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità; la seconda, introdotta con il D.L. n. 7 del 2015, prevede un aggravamento fino a un terzo in relazione agli artt. 302 e 414, commi 1 e 2, c.p., e fino a due terzi per l’ipotesi di cui all’art. 414, comma 4, c.p., laddove la condotta sia realizzata mediante strumenti informatici o telematici.
Queste previsioni, tese ad anticipare la soglia della tutela penale e ad aggravare il rigore sanzionatorio, non solo non risolvono il problema della diffusione capillare sul web di contenuti istigatori, ma sollevano questioni di compatibilità con i principi di proporzionalità della pena e di determinatezza della fattispecie incriminatrice. In particolare, con riferimento all’art. 414, comma 4, primo periodo, c.p., parte della dottrina ha rilevato criticità in relazione al principio di legalità, in ragione della genericità del riferimento ai “delitti di terrorismo” e ai “crimini contro l’umanità”[78]. I primi, infatti, dovrebbero essere individuati nei delitti commessi con finalità di terrorismo ai sensi dell’art. 270-sexies c.p., la cui definizione risulta, tuttavia, caratterizzata da elementi di vaghezza e indeterminatezza[79]; i secondi, invece, non trovano un’esplicita tipizzazione nel nostro ordinamento, essendo individuabili solo sulla base delle norme internazionali, con il rischio di un’applicazione incerta dell’aggravante in assenza di un adeguamento puntuale delle disposizioni interne alle fonti sovranazionali di riferimento[80].
Per quanto concerne, invece, l’aggravante relativa all’uso di strumenti informatici e telematici, la ratio dell’inasprimento sanzionatorio risiede nella maggiore diffusività del messaggio istigatorio, che può raggiungere un numero indeterminato di destinatari [81].Tuttavia, se da un lato tale elemento può giustificare un aggravamento di pena, dall’altro impone un’attenta valutazione del nesso causale e dell’effettiva pericolosità della condotta, al fine di evitare un’applicazione indiscriminata e sproporzionata della norma, in contrasto con i principi di legalità, individualizzazione della pena e proporzionalità della sanzione.
5.2 L’istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia
Le criticità relative all’inadeguatezza della tutela penale a far fronte ai mutamenti socio-tecnologici derivanti dalla diffusione delle nuove tecnologie digitali risultano ancor più evidenti nel delitto di cui all’art. 414-bis c.p. in quanto proprio il contesto digitale ha amplificato l’esposizione dei soggetti più vulnerabili a fenomeni criminali connessi alla rete.
Come è noto, la geolocalizzazione automatica di immagini e contenuti sui social network, la prassi diffusa di condividere informazioni personali e la connessione continuativa alla rete hanno contribuito a esporre i giovani a rischi sempre più concreti nell’ambito della navigazione e della socializzazione online. In particolare, la forte attrattiva esercitata da tali piattaforme sui minori ha favorito la crescente diffusione, tramite i canali digitali, di condotte penalmente rilevanti quali l’adescamento, gli abusi e, per quanto qui di interesse, l’istigazione alla pedopornografia, sollevando rilevanti questioni in termini di tutela preventiva e repressione penale[82].
La questione principale risiede nel fatto che la fattispecie de quo, introdotta con l’intento di tutelare l’ordine pubblico mediante la repressione di condotte che, attraverso qualsiasi mezzo espressivo, promuovano o esaltino pratiche pedofiliche e pedopornografiche, appare finalizzata alla protezione di un bene giuridico già adeguatamente salvaguardato dalla fattispecie generale di istigazione a delinquere. Invero, la condotta sanzionata dall’art. 414 bis c.p. non solo non si discosta in modo significativo da quella prevista dall’art. 414 c.p., ma vi è già interamente ricompresa, atteso che quest’ultima incrimina l’istigazione a commettere qualsiasi delitto, ivi compresi quelli di natura sessuale ai danni di minori. La differenza risiede esclusivamente nell’inasprimento del minimo edittale della pena: l’art. 414 c.p. prevede un minimo di un anno di reclusione, mentre l’art. 414 bis c.p. lo eleva a un anno e sei mesi, mantenendo invariato il massimo edittale[83].
A fronte, quindi, di un pericolo sempre maggiore di diffusione di condotte istigatorie tramite il web, la risposta dell’ordinamento si limita a un aumento della sanzione, senza introdurre elementi realmente innovativi sotto il profilo della tipizzazione della condotta. L’inasprimento del minimo edittale, infatti, non incide sulla struttura della fattispecie né sulla sua capacità di intercettare nuove forme di criminalità connesse all’ambiente digitale, risultando piuttosto una mera duplicazione rispetto alla norma generale di cui all’art. 414 c.p. Ne consegue un intervento normativo che, oltre a sollevare dubbi di coerenza sistematica, rischia di determinare un’applicazione sproporzionata della sanzione, senza peraltro garantire una maggiore efficacia nella prevenzione del fenomeno.
A ciò si aggiunga che la norma in questione, come rilevato in dottrina, suscita perplessità nella misura in cui incrimina condotte di istigazione a comportamenti che, pur moralmente riprovevoli, non integrano di per sé un abuso diretto sui minori, ma si limitano alla detenzione di materiale pedopornografico ovvero all’espressione (o sublimazione) di fantasie pedofile attraverso la parola scritta (chat), rappresentazioni fumettistiche o pratiche, ad oggi ancora lecite, di Age Play fra adulti. Ciò comporta il rischio non solo di non garantire una più efficace protezione del bene giuridico tutelato, ma, paradossalmente, di generare effetti criminogeni. Sebbene tali criticità non siano ancora state dimostrate in modo univoco, non può omettersi di rilevare che spetta al diritto penale fondare la criminalizzazione su solide basi empiriche, piuttosto che giustificare esclusivamente la restrizione della libertà individuale [84]. Con riferimento, infine, al terzo comma dell’art. 414-bis c.p., che esclude espressamente la possibilità di invocare, a propria difesa, finalità artistiche, letterarie, storiche o di costume, non può sostenersi che tale previsione si ponga in contrasto con l’art. 21 Cost.. Come chiarito dalla Corte costituzionale[85], infatti, la libertà di espressione incontra limiti nella necessità di tutelare altri beni giuridici di rango costituzionale e nell’esigenza di prevenire turbative all’ordine pubblico, la cui salvaguardia costituisce un obiettivo immanente del sistema[86]. In tal senso, deve ribadirsi che l’istigazione penalmente rilevante è esclusivamente quella connotata da una concreta ed effettiva idoneità a determinare in terzi la volontà di commettere il reato, nonché dalla piena consapevolezza, da parte dell’istigatore, della capacità del proprio messaggio di produrre tale effetto[87].
Tuttavia, tale requisito deve essere valutato alla luce del contesto comunicativo, il quale, nell’era attuale, si caratterizza per un’estesa e immediata diffusione dei contenuti. L’amplificazione offerta dai mezzi digitali, infatti, rende il messaggio potenzialmente accessibile a un pubblico eterogeneo, non sempre dotato di normali capacità critiche e di adeguati freni inibitori, con il rischio di raggiungere più facilmente soggetti predisposti a interpretazioni devianti. E’ su quest’ultimo aspetto che, a nostro parere, il legislatore dovrebbe focalizzarsi. In particolare, sarebbe opportuno un intervento che tenga conto delle peculiarità del contesto digitale, introducendo criteri più precisi per valutare l’idoneità istigatoria di una determinata condotta e per differenziare le ipotesi meritevoli di tutela da quelle che giustificano una risposta repressiva.
5.3 Istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa
Un’altra forma di istigazione a delinquere, significativamente influenzata dall’espansione del Web e dall’avvento dei social network come modalità di diffusione del messaggio, è quella commessa per motivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa, accostata – seppur in via secondaria – al negazionismo. Tralasciando, per il momento, quest’ultima ipotesi, disciplinata nell’ultimo comma dell’art. 604-bis c.p., ci concentreremo sulle fattispecie relative alla discriminazione, evidenziandone le peculiarità e le criticità connesse alla diffusione digitale delle condotte istigative.
L’attuale disposizione incriminatrice, descritta per l’appunto dall’ art. 604 bis c.p., ha origini che risalgono all’art. 3 della l. 7 marzo 1966, n. 654 (c.d. legge Scelba), con la quale fu recepita nel nostro ordinamento la Convenzione di New York del 7 marzo 1966, successivamente modificato dalla legge Mancino del 1993 [88]. Originariamente, tale norma sanciva come condotte tipiche : a) la diffusione, in qualsiasi modalità, delle idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale; b) l’incitamento a commettere atti di violenza per i medesimi motivi.
Con l’emanazione della l. 24 febbraio 2006, n. 85 [89], le fattispecie sono state rimodulate nella forma attuale e, in attuazione della riserva di codice prevista dal d. lgs. 1° marzo 2018, n. 21[90], la norma è stata spostata nel codice penale, costituendo la nuova sezione dei Delitti contro l’uguaglianza (Sez. I-bis inserita tra i delitti contro la libertà individuale).
Sebbene l’operazione normativa si limiti a una ricollocazione sistematica di alcune fattispecie – con la disciplina ancora frammentata tra disposizioni codicistiche e legislazione complementare – risulta indubbia l’ intenzione di valorizzare il principio di uguaglianza quale nuovo bene giuridico tutelato[91]. Tale bene, il cui referente costituzionale è rinvenibile nell’art. 2 Cost., assume particolare importanza in una società pluralista, in cui convivono modelli culturali e codici morali diversificati, e si rivela essenziale dinanzi alle forme di “neorazzismo”[92], capaci di compromettere il rispetto dei diritti umani e di indebolire la solidarietà sociale, specialmente in un contesto di progressivo allentamento della memoria storica delle tragedie derivanti dal razzismo nel secolo passato.
Nel contesto attuale, in cui la comunicazione istigatoria si diffonde sempre più attraverso i social network, la disciplina dei reati contro l’uguaglianza assume un rilievo ancor maggiore, poiché l’uso dei mezzi digitali consente una diffusione ampia e immediata dei messaggi, con il rischio concreto di alimentare comportamenti discriminatori. In tale scenario emergono due problematiche strutturali: da un lato, il deficit di determinatezza delle condotte incriminate; dall’altro, la difficoltà di inquadrare il rapporto con il principio di necessaria offensività, elemento imprescindibile per la legittimità dell’intervento penale.
Sotto il primo profilo, si rileva una vera e propria lacuna normativa con riferimento alla definizione di “discorso d’odio” (hate speech), una delle manifestazioni più frequenti della fattispecie de quo[93]. Tale vuoto viene in parte colmato facendo riferimento alla normativa comunitaria[94]. In particolare, la Raccomandazione (97)20 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa definisce il discorso d’odio come «qualunque forma di espressione che diffonda, inciti, promuova o giustifichi l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio basate sull’intolleranza, incluse l’intolleranza espressa attraverso il nazionalismo aggressivo e l’etnocentrismo, la discriminazione e l’ostilità contro le minoranze, i migranti e le persone di origine migrante»[95]. Inoltre, la decisione quadro 2008/913/GAI4 parla di «ogni comportamento consistente nell’istigazione pubblica alla violenza o all’odio nei confronti di un gruppo di persone, o di un suo membro, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica».
La dottrina italiana ha altresì proposto criteri per individuare le caratteristiche essenziali del discorso incriminabile. Secondo una prima tesi, per configurarsi il discorso d’odio occorre che la manifestazione del pensiero susciti una reazione ostile nella generalità degli ascoltatori, rappresentanti di una parte consistente della società[96]. Tuttavia, poichè sempre i destinatari reagiscono in maniera astiosa alle provocazioni, l’attenzione si è poi spostata sul contenuto delle affermazioni, che devono essere deprecabili per essere qualificate come hate speech[97]. A tale posizione si oppone la constatazione che un discorso, pur apparendo d’odio, non esprima necessariamente sentimenti ostili in modo chiaro e che le manifestazioni d’odio possano assumere forme indefinibili; di conseguenza, non è sempre possibile individuare con certezza le motivazioni che hanno condotto l’autore a formulare determinate espressioni, né escludere che, anche in assenza di un proposito deliberato di diffondere odio, un messaggio possa innescare una propagazione inconscia dello stesso[98].
Con riferimento al rapporto tra le fattispecie di istigazione alla discriminazione razziale e il principio di necessaria offensività, assume fondamentale rilievo l’esigenza di bilanciare i principi enunciati dagli artt. 2 e 3 della Costituzione – relativi al riconoscimento dei diritti inviolabili e alla pari dignità e uguaglianza davanti alla legge – con il principio della libera manifestazione del pensiero ex art. 21 della medesima Carta. A tal proposito, la giurisprudenza, in armonia con le indicazioni della Corte europea dei diritti umani, ha stabilito che «nel possibile contrasto fra la libertà di manifestazione del pensiero e la pari dignità dei cittadini, va data preminenza a quest’ultima solo in presenza di condotte che disvelino una concreta pericolosità per il bene giuridico tutelato» (Cass. Pen. 36906/2015).
Con riferimento al ruolo che il diritto penale può svolgere nel contrasto alle forme di razzismo e discriminazione, si ritiene giustificata la repressione penale della propaganda fondata sull’odio razziale ed etnico, nonché dell’istigazione alla discriminazione[99]. Tale approccio appare pienamente coerente con le scelte incriminatorie adottate nel periodo 1975-1993 e attualmente cristallizzate nei delitti contro l’uguaglianza. L’ipotesi che la libertà di espressione possa essere limitata in presenza di discorsi d’odio trova un solido sostegno nella recente ordinanza della Corte Costituzionale, che ha rimesso al Parlamento la revisione delle pene per il reato di diffamazione a mezzo stampa, al fine di introdurre pene non detentive, rimedi civilistici e sanzioni disciplinari, disponendo espressamente che «il legislatore potrà eventualmente sanzionare con la pena detentiva le condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, fra le quali si iscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi un’istigazione alla violenza o convogli messaggi d’odio» (Corte cost., ord., n. 132/2020). In conclusione, si ritiene che l’intervento penale debba configurarsi come uno strumento essenziale per la tutela dell’uguaglianza e la salvaguardia della convivenza civile, qualora i messaggi d’odio raggiungano livelli di concreta pericolosità sociale.
5.3.1 L’aggravante del negazionismo
Con la legge 16 giugno 2016, n. 115, il legislatore italiano, dando attuazione alla decisione quadro 2008/913/GAI in materia di lotta contro alcune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale, ha optato per una scelta moderata nell’incriminazione del negazionismo[100].
Con tale termine si intende un atteggiamento di minimizzazione, scetticismo o addirittura negazione di verità storiche inerenti a gravi episodi di discriminazione, spesso connotati dall’uso della violenza ai danni di specifiche comunità etniche, religiose o sociali. In quest’ambito, le dichiarazioni a contenuto negazionista non costituiscono un fatto di reato autonomo, bensì si configurano come circostanze aggravanti dei delitti di propaganda razzista, istigazione e incitamento.
A decorrere dal 12 dicembre 2017, data di entrata in vigore della novella, non si puniscono più soltanto le affermazioni di “negazione” della Shoah o di altri crimini contro l’umanità, di guerra o di genocidio, ma anche le condotte di “minimizzazione grave” e di “apologia”[101]. Si osserva, altresì, che, anche dopo la modifica del 2017, nel nostro ordinamento, non è penalmente rilevabile qualsiasi discorso negazionista, ma soltanto quello che si innesta su di una comunicazione già caratterizzata dai tratti del hate speech, tale da mettere in pericolo la pacifica convivenza sociale. La circostanza in questione, infatti, costituisce un’aggravante speciale applicabile esclusivamente ai delitti di propaganda di idee razziste e di istigazione alla commissione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
Anche questo intervento normativo, come quelli analizzati in precedenza, ha suscitato numerose critiche da parte della dottrina, in particolare per il rischio di contrastare con le libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) e di ricerca scientifica (art. 33 Cost.), nonché con il principio di legalità (art. 25, co. 2, Cost.), in ragione della difficoltà di definire in termini univoci il concetto di negazione di un fatto storico e di distinguere, con criteri certi, tra negazione e revisione[102].
Le questioni più rilevanti sollevate riguardano: a) l’impossibilità, ai fini dell’applicazione della legge penale, di definire in maniera soddisfacente la condotta di “minimizzazione grave” (art. 604-bis, ultimo comma, c.p.); b) la difficoltà di armonizzare il nuovo precetto, che attribuisce rilevanza all’apologia, con le norme che trattano l’apologia di genocidio (art. 8, comma 2, L. n. 962/1967) e di crimini contro l’umanità (art. 414, ult. co., c.p.), già puniti nel nostro ordinamento. Con riferimento al primo profilo di criticità, si è osservato che definire con precisione i contorni della condotta penalmente rilevante di “minimizzazione grossolana” risulta un’impresa esegetica pressoché impossibile in sede giudiziaria, in quanto richiede l’applicazione di canoni propri della disciplina storica, il cui accesso deve rimanere precluso al giudice, onde evitare l’utilizzo strumentale della memoria storica a beneficio del potere costituito[103]. Con riguardo poi alla difficile armonizzazione tra le diverse norme che puniscono l’apologia di genocidio o di crimini contro l’umanità, il problema è delineato nei seguenti termini.
L’ultimo comma dell’art. 604 bis c.p. configura l’apologia di questi crimini come un’aggravante di delitti di istigazione o propaganda razzista, mentre altre norme (art. 8, co. 2, legge n. 962/1967 e art. 414, co. 4 c.p.) trattano l’apologia di genocidio e dei crimini contro l’umanità come reati autonomi. Tale disparità risulta problematica, in quanto, confrontando le pene previste, si nota che l’apologia di genocidio quale reato autonomo è sanzionata più severamente (da 3 a 12 anni) rispetto a quella che, quale aggravante, integra i delitti di istigazione o propaganda al razzismo, benché quest’ultima ipotesi appaia di fatto più pericolosa e offensiva. Inoltre, la coesistenza di norme differenti comporta notevoli difficoltà interpretative nell’individuare quale disposizione applicare in concreto, con il rischio di incorrere in una violazione del principio del ne bis in idem sostanziale, che vieta di punire due volte lo stesso fatto. Tale sovrapposizione normativa, pertanto, contribuisce a generare incertezza giuridica e potenziali incoerenze nel trattamento dei reati.
6.Considerazioni conclusive
Dall’analisi condotta, emerge che le sfide poste dallo sviluppo tecnologico al diritto penale, con particolare riferimento al delitto di istigazione a delinquere, hanno alimentato un dibattito ancora aperto, incentrato sulla necessità di adeguare le categorie giuridiche tradizionali ai nuovi mezzi di comunicazione e alle peculiari modalità di diffusione del reato nell’ecosistema digitale. Da un lato, esse hanno indotto il legislatore a un vaglio critico della normativa vigente, volto a colmare le eventuali lacune mediante l’adozione di nuove disposizioni ritenute necessarie per fronteggiare comportamenti illeciti o socialmente dannosi che si manifestano attraverso le nuove tecnologie o, addirittura, in loro danno. Dall’altro, hanno sollecitato, sul piano dottrinale, una riflessione sulla tenuta delle categorie dogmatiche su cui si fonda l’attribuzione o la modulazione della responsabilità penale, di fronte a fenomeni che potrebbero richiedere un adattamento o persino un parziale superamento delle stesse, a favore di nuovi schemi d’imputazione.
Il dilemma inizialmente posto riguardava la possibilità di rinunciare alla tutela penale, considerando il contenuto delle categorie tradizionali quale limite invalicabile dell’intervento punitivo e ricorrendo, eventualmente, a tecniche di tutela alternative di natura civile o amministrativa, ovvero la necessità di una revisione concettuale delle stesse, preservandone la funzione sistematica entro i limiti in cui esse esprimano principi di garanzia e certezza non rinunciabili.
Come si è avuto modo di evidenziare, la disciplina dell’istigazione a delinquere appare anacronistica e caratterizzata da una molteplicità di fattispecie, spesso ridondanti. Inoltre, il riferimento agli strumenti informatici e telematici quale mezzo di commissione del reato incide esclusivamente sul trattamento sanzionatorio, determinando un aggravamento della pena. Si potrebbe all’uopo ipotizzare un sistema normativo più snello, che preveda un numero inferiore di fattispecie, ma descritte in maniera dettagliata e sistematicamente coerente.
Ad esempio, l’istigazione o l’apologia pubblica di delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità, nonché quella relativa a pratiche di pedofilia e di pedopornografia, potrebbero essere ricondotte alla disciplina di cui all’art. 414 c.p..Il reato di istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa, invece, appare destinato a rimanere nell’ordinamento, in ragione del crescente numero di crimini motivati dall’odio nei confronti di chi risulta diverso per razza, religione, genere o orientamento sessuale.
Una soluzione di questo tipo potrebbe avviare un rinnovamento normativo che consenta al diritto penale di rispondere in modo efficace alle sfide poste dallo sviluppo tecnologico, pur mantenendo il rigoroso rispetto dei principi di certezza e garanzia. Un approccio innovativo, basato sulla semplificazione e sull’aggiornamento delle fattispecie incriminatorie, è essenziale per assicurare una risposta giuridica proporzionata e mirata. Solo attraverso una revisione attenta ed equilibrata, che concili la necessità di prevenire comportamenti illeciti e socialmente dannosi con la tutela delle libertà fondamentali, si potrà garantire una convivenza civile improntata alla giustizia e all’equità.
[1] Fattispecie prevista all’art. 604 bis c.p., inserito dall’art. 2 del D. Lgs. 01/03/2018, n. 21 concernente “Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103”, con decorrenza dal 06/04/2018. Cfr. infra, nota 76.
[2] Cass. pen., Sez. I, 25/03/2021 (ud. 27/01/2021), n. 11581.
[3] Cass. pen., Sez. III, 13/02/2024, n. 14953, in C.E.D. Cass., n. 286136-01.
[4] Ex multis, G. Bettiol, Sui limiti penalistici alla libertà di manifestazione del pensiero, in Aa.Vv., Legge penale e libertà del pensiero, Padova, 1966; C. Fiore, I reati di opinione, Padova, 1972.
[5] P. Cirillo, Istigazione e apologia nei recenti (dis)orientamenti giurisprudenziali, in Dir. Pen. proc., 9/2019, 1292; A. Gullo, Eguaglianza, libertà di manifestazione del pensiero e tutela differenziata dell’onore: un equilibrio ancora sostenibile?, in Criminalia (2014), pp. 435-454.
[6] La bibliografia sul tema è particolarmente vasta. Si veda ex plurimis, a C. Fiore, I reati di opinione, cit.; A. Galluccio, Punire la parola pericolosa? Pubblica istigazione, discorso d’odio e libertà di espressione nell’era di internet, Milano, Giuffrè, 2020; M. Pelissero, La parola pericolosa. Il confine incerto del controllo penale del dissenso, in QG, 4/2015, pp. 37 ss.; D. Pulitanò, Libertà di pensiero e pensieri cattivi, in Quale giustizia, 1970, 187 ss.; più di recente Ead., Essere Charlie, o politicamente corretto? Manifestazioni espressive e diritto penale, in Sistema penale, 20.01.2021. Con specifico riferimento ai delitti contro l’eguaglianza, sono altresì di interesse gli studi di G. Puglisi, La parola acuminata. Contributo allo studio dei delitti contro l’eguaglianza, tra aporie strutturali e alternative alla pena detentiva, in Riv. ita. dir. proc. pen., 3/2018, pp. 1325 ss.; A. Spena, Libertà di espressione e reati di opinione, in Riv. Ita. Dir. Proc. Pen., vol. 2/3, 2017, p. 68; A. Tesauro, La propaganda razzista tra tutela della dignità umana e danno ad altri, in Riv. ita. dir. proc. pen., 2/2016, pp. 961 ss..
[7] Sul rapporto tra delitti contro l’eguaglianza e social media, si veda P. Caroli, Dei post e delle pene. Considerazioni su eguaglianza, social network e giustizia penale, in La giustizia penale tra ragione e prevaricazione. Dialogando con Gaetano Insolera, Roma, Aracne, 2021, pp. 81 ss.. Di interesse, inoltre, il commento a una sentenza della Corte di cassazione di B. Fragasso, Like su Facebook ed hate crimes: note a margine di una recente sentenza della Cassazione, in Sistema penale, 20.05.2022.
[8] Particolare fenomeno in ragione del quale la persona che naviga sui social tende perlopiù a visualizzare contenuti affini ai propri interessi. Sull’argomento si veda il lavoro di E. Pariser, The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You, New York, Penguin Books, 2011.
[9] R. Montaldo, La tutela del pluralismo informativo nelle piattaforme online, in Rivista di Diritto dei Media, 2020, 224 ss.. L’effetto echo chambers rappresenta la diretta conseguenza della realtà “filtrata” dei social: venendo meno il pluralismo delle opinioni, il convincimento personale dell’utente rispetto a un determinato argomento – in ipotesi: la negazione dell’Olocausto – andrà necessariamente a rafforzarsi.
[10] Si veda, nell’ambito di una vasta letteratura, A. Martufi, L’istigazione inefficace tra irrilevanza penale e pericolosità sociale, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 24 gennaio 2024; V. Mormando, L’istigazione. I problemi generali della fattispecie e i rapporti con il tentativo, Padova, 1995; L. Risicato, Combinazione e interferenza di forme di manifestazione del reato. Contributo a uno studio delle clausole generali di incriminazione suppletiva, Milano, 2001; R. Palmieri, Profili essenziali della condotta istigatoria, Milano, 1968, p. 130; P. Tonini, Istigazione, tentativo e partecipazione al reato, in Studi Delitala, III, Milano, 1985, 1601.; L. Violante, voce Istigazione, in Enc. dir., Vol. XXII, Milano, 1972, p. 991.
[11] Sul punto, cfr. nota n. 28.
[12] Per una sintesi delle posizioni dottrinali relative a questo controverso tema, si veda L. Risicato, La causalità psichica tra determinazione e partecipazione, Torino, 2007, p. 2 ss. In giurisprudenza è prevalso l’orientamento secondo cui la commissione di un reato costituisce presupposto indispensabile per configurare una partecipazione penalmente rilevante. Si è altresì ribadito il principio fondamentale secondo cui il reato, in quanto fatto umano punibile, non può giammai consistere nella mera intenzione, mai punita dalla legge penale. In tale prospettiva, occorre distinguere l’ipotesi del tentativo di accordo criminoso (di cui all’art. 115) da quella di un accordo criminoso sfociato in atti di tentativo, punibile ai sensi dell’art. 56 c.p. Cfr. Cass. pen., Sez. II, 06/12/1972; Cass. pen., Sez. II, 30/01/1980, Cass. pen., Sez. I, 24/09/2008, n. 40081, in C.E.D. Cass. n. 241651.
[13] Secondo la teoria dell’accessorietà, infatti, l’incriminazione del concorrente nel reato, trova il suo fondamento non perché il suo comportamento sia ripetuto all’interno della norma incriminatrice, bensì, perché detto comportamento ha una relazione di dipendenza con quella realizzata dall’autore. M. Helfer, Il concorso di più persone nel reato, Torino, 2013, p. 63. Con riferimento più propriamente all’istigazione cfr. C. Pedrazzi, Il concorso di persone nel reato, Palermo, 1952, 50; L. Violante, Istigazione (nozioni generali), in ED, XXII, Milano, 1972, 990; rif. anche in G. Vassalli, voce Accordo, in Enc. dir.,Vol. I, Milano, 1958, p. 302.
[14] B. Petrocelli, Il delitto tentato, Padova, 1955, 77 ss.. Secondo cui: «accordo e istigazione rappresenterebbero «la sintesi e, insieme, il punto di arrivo di una serie di atti, i quali vanno dal primo manifestarsi all’esterno di un proposito di accordo o di istigazione sino all’incontro finale delle volontà».
[15] R. Latagliata, I principi del concorso di persone nel reato, Pompei, 1964, p. 21 ss. il quale osserva come la non punibilità degli atti prodromici non discenda dall’art. 115 c.p. ma da un più generale principio di «irrilevanza giuridico-penale degli atti di semplice preparazione». In questo senso, dunque, l’art. 115 c.p. apporterebbe una deroga alla regola appena enunciata, prevedendo la possibilità di applicare una misura di sicurezza per le sole ipotesi di accordo e istigazione inefficaci.
[16] In tal senso v. tra gli altri G. Vassalli, voce Accordo, cit., p. 302; M. Gallo, Lineamenti di una teoria sul concorso di persone nel reato, Milano, 1957, 46; P. Tonini, Istigazione, tentativo e partecipazione al reato, in Studi Delitala, III, Milano, 1985, 1601. Sostanzialmente isolata, sia pur simile all’impostazione a suo tempo prospettata da Latagliata, è invece la posizione di V. Mormando, L’istigazione. I problemi generali della fattispecie e i rapporti con il tentativo cit., 108, secondo il quale : «la natura e la funzione dell’art. 115 c.p. deve individuarsi …nella esigenza di apprestare una tutela giuridica più avanzata rispetto a condotte che non potrebbero altrimenti qualificarsi né a titolo di concorso, né come fattispecie di tentativo». Da ultimo, merita attenzione l’originale posizione di L. Risicato, Combinazione e interferenza di forme di manifestazione del reato. Contributo a uno studio delle clausole generali di incriminazione suppletiva, cit., e S. Camaioni, Riflessioni su «tentativo di concorso nel reato» e «tentativo di reato in concorso», in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 1069 ss. i quali ritengono che l’art. 115 c.p. operi – almeno per quanto riguarda i primi tre commi – quale limite generale alla punibilità del concorso nel delitto tentato.
[17] A. Martufi, L’istigazione inefficace tra irrilevanza penale e pericolosità sociale, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, p. 18. cui si rinvia per ulteriori riferimenti bibliografici e giurisprudenziali.
[18] Relazione sul libro I del Progetto, in Lav. prep., V, I, Roma, 1929, 173: «non si nega che l’accordo, come la istigazione, sia una forma di attività non meramente cogitativa ma fisica: ma si è proposto soltanto di mettere un limite espresso alla norma generale sul tentativo, limite tanto più necessario in un sistema che conferisce all’istituto del tentativo punibile la maggiore estensione.»
[19] Sul punto si veda, per tutti, P. TONINI, Istigazione, tentativo, partecipazione, cit., p. 1596 ss
[20] A. Martufi, L’istigazione inefficace tra irrilevanza penale e pericolosità sociale, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, p. 18.
[21] In questo senso, L. Risicato, Combinazione e interferenza di forme di manifestazione del reato, cit., p. 221 ss.
[22] Generalmente, si ritiene che le deroghe siano dovute alla particolare importanza dei beni da tutelare: A. De Marsico, Premessa dommatica all’esame dei reati di istigazione, cospirazione e banda armata, in Scritti giuridici in onore di F. Carnelutti, IV, Padova, 1950, p. 473; P. Tonini, Istigazione, tentativo, e partecipazione al reato, cit., 1591.
[23] A. Gajotti, Istigazione e determinazione nella teoria del reato, Genova, 1948, 54.
[24] B. Romano, Le apparenti deroghe all’articolo 115 c. p. alla luce del principio di specialità e le differenze tra accordo non punibile, concorso di persone e reato associativo, in Cass. Pen., 1997, 3391;
[25] G. Vassalli, Quasi-reato, in ED, XXXVIII, Milano, 1987, 35, che riconduce l’espressione alla paternità di Gennaro Escobedo.
[26] B. Romano, Diritto penale, Parte gen., 4a ed., Milano, 2020, 240; V. Mormando, L’istigazione. I problemi generali della fattispecie e i rapporti con il tentativo cit., 108.
[27] R. Palmieri, Profili essenziali della condotta istigatoria, Milano, 1968, p. 130, il quale osserva come l’applicazione della misura di sicurezza potrebbe giustificarsi non già in base a una condotta che si limiti a offrire la prova di un mero atteggiamento psicologico, ma solo a fronte di un comportamento che di «quell’atteggiamento […] fornisca una prova per così dire qualificata proprio dalla circostanza di esserne l’esteriore estrinsecazione, cioè il complesso fenomenologico più immediatamente e inequivocabilmente riconducibile a quell’atteggiamento medesimo, alla scelta dell’agente». A questa stessa conclusione, del resto, altri autori pervengono valorizzando un’interpretazione sistematica degli artt. 199, 202 e 203 c.p., a mente dei quali il giudice, per apprezzare la pericolosità sociale del soggetto e irrogare la misura, dovrebbe sempre fare riferimento a un «fatto» di quasi reato valutato alla stregua dei criteri di cui all’art. 133 c.p., cfr. I. Caraccioli, I problemi generali delle misure di sicurezza, Milano, 1970, pp. 304-305; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, II, 5a ed., Torino, 1981, 543, V. Mormando, L’istigazione. I problemi generali della fattispecie e i rapporti con il tentativo, Padova, 1995, p. 63; B. Romano, Diritto penale, Parte gen., 4a ed., Milano, 2020, 390.
[28] V. Manzini, Trattato di Diritto Penale Italiano Vol. II – Ed. UTET – 1950, 560.
[29] B. Olivero, Apologia e istigazione (reati di), in EC, II, 1958, 618, nt. 2.
[30] B. Cavalieri, La posizione logico-sistematica dell’istigazione nel codice penale, in Arch.Pen., 1953, I, 324.
[31] G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, I, 2012, 478.
[32] Per l’istigazione: artt. 266, 302, 414, 414 bis, 415, 604 bis e ter c.p.; art. 82, D.P.R. n. 309/1990. Per l’apologia: artt. 266 e 414, comma 3, c.p.; artt. 4 e 5, L. n. 645/1952; art. 8, L. n. 962/1967. È peraltro da rilevare che l’odierno sistema penale presenta ulteriori fattispecie istigatorie: si pensi all’istigazione alla corruzione (art. 322c.p.), all’istigazione al suicidio (art.580c.p.) e all’istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura (art. 613 ter c.p.). Tuttavia, queste ultime ipotesi delittuose, poste a tutela di beni quali la pubblica amministrazione, la vita e la libertà morale, non condividono tratti identitari della categoria dei reati di opinione e, dunque, non saranno oggetto di approfondimento in questa sede. In argomento, cfr. A. Gargani, Le modifiche apportate alla fattispecie di istigazione alla corruzione (commento all’art.1 comma 75 lettera m) l.6.11.2012, n.190), in La Legisl. Pen., vol. 1/2013, p. 647-650).
[33] V., per tutti, F. Consulich, Reati contro l’ordine pubblico, in F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, II, a cura di C.F. Grosso, Milano, 2016, 100 ss. ; G. De Vero, voce Istigazione a delinquere e a disobbedire alle leggi, in Dig.Pen, vol. VII, Torino, 1993; C. Fiore, I reati di opinione, cit., passim; A. Gargani, Sub art. 414, in T. Padovani (a cura di), Codice penale, Tomo II, 5ª ed., Milano, 2011, 3051; Mormando, Sub art. 414, in M. Ronco, B. Romano (a cura di), Codice penale commentato, 4ª ed., Torino, 2012, 2023; M. Pelissero, Delitti di istigazione e apologia, in T. Padovani (a cura di), Codice penale, Reati contro la personalità dello stato e contro l’ordine pubblico, Torino, 2010, 233 ss.; F. Schiaffo, Istigazione e ordine pubblico. Tecnicismo giuridico ed elaborazione teleologica nell’interpretazione delle fattispecie, Napoli, 2004; Id., Reati di opinione, offensività e problemi probatori. in Iuraand Legal Systems, 2021, 41 ss.; V. Zagrebelsky, I delitti contro l’ordine pubblico, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale. Codice penale, PS, diretta da F. Bricola e V. Zagrebelsky, vol. IV, 2ª ed., Torino, 1996.
[34] In argomento, ex multis, G. Bognetti, Apologia di delitto punibile ai sensi della Costituzione e interpretazione della norma dell’art. 414 c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 1971, 18. D. Notaro, Neofascismo e dintorni: la “resistenza” della dimensione offensiva del tipo criminoso, in www.lalegislazionepenale.eu, 17.02.2020; L. Stortoni, L’incostituzionalità dei reati di opinione: una questione “liquidata”?, in Foro.it, 1/1979, 18; C. Trucco, Brevi note sui più recenti atteggiamenti giurisprudenziali in tema di apologia di reato, in Riv.Ita.Dir.Pen.Proc., 1982, 737 ss.
[35] Mentre altri codici preunitari preferivano titolare alla pace pubblica o alla tranquillità pubblica. Per un più ampio esame cfr. G. Francolini, L’harm principle del diritto angloamericano nella concezione di Joel Feinberg, in Riv.it.dir.proc.pen., 2008, p. 985, S. Aleo, I delitti contro l’ordine pubblico e di criminalità organizzata, in S. Aleo – G. Pica ( a cura di), Diritto penale. I reati del codice penale e le disposizioni collegate. Parte speciale. Vol. 2, 2012, 112 ss.; A. Cadoppi – P. Veneziani, Elementi di diritto penale. Parte speciale, Padova, 2016, 166.
[36] Il riferimento va al criminalista tedesco Karl Binding (riportato da G. Insolera, Delitti contro l’ordine pubblico, in AA.VV., Diritto penale, lineamenti di parte speciale, VII ed., Bologna, 2016, 294), il quale nel 1922, a fronte dell’analogo titolo previsto nel codice germanico del 1871, non esitava a definire la categoria dei delitti contro l’ordine pubblico come il ripostiglio (Rumpelkammer) di concetti in cui collocare quanto risulta difficile sistemare altrove.
[37] Sul punto cfr. G. Fornasari – S. Riondato, Reati contro l’ordine pubblico, Torino, XVII; P. Cirillo, Istigazione e apologia nei recenti (dis)orientamenti giurisprudenziali, in Dir. Pen. proc., 9/2019, 1293.
[38] Sulla struttura dei reati di opinione nel codice rocco M. Sbriccoli, Crimen laesae maiestatis, Milano, 1974. Cfr. anche M. Pelissero, Reato politico e flessibilità delle categorie dogmatiche, Napoli, 2000, 112 ss.
[39] F. Schiaffo, Istigazione e apologia nei delitti contro l’ordine pubblico, in S. Moccia ( a cura di) Delitti contro l’ordine pubblico, Napoli, 2007, p. 154; in senso analogo, A. Algostino, Le parole e il dissenso fra libertà di manifestazione del pensiero e reato di istigazione a delinquere: note intorno al processo a Erri De Luca, in Giur. cost., V, 2014, 4147 ss. Nella giurisprudenza costituzionale, Corte cost., 21/03/1968 (dep. 23/03/1968), n. 11, in www.giurcost.org; Corte cost., 05/07/1971 (dep. 08/07/1971), n. 168, ivi; Corte cost., 04/02/1965 (dep. 19/02/1965), n. 9, ivi; Corte cost., (02/04/1969) 17/04/1969, n. 84; Corte Cost., n. 126 del 1985, ivi. La letteratura sul diritto di libera manifestazione del pensiero è amplissima. Tra i contributi più significativi, anche se meno recenti, P. Barile, Libertà di manifestazione del pensiero, Milano, 1975, 79 ss.; C. Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, 1958, 31 ss.
[40] In generale sui profili delle condotte previste nell’art. 414, si possono vedere ancora V. Mormando, Prime riflessioni sulla condotta di istigazione, in Riv.Ita.Dir.Proc.Pen., 1994, 538; R. Palmieri, Osservazioni in tema di istigazione a delinquere, in Riv.Ita.Dir.Proc.Pen., 1968, 996; B. Olivero, Apologia e istigazione (reati di), p. 618; G. Piffer, In tema di istigazione a delinquere, in Jus, 1977, 431.
[41] M. Pelissero, Reati contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, in AA.VV., Trattato teorico pratico di diritto penale, a cura di F.C. Palazzo – E.C. Paliero, IV, Torino, 2010, 232. Sulla assenza di rilevanza dogmatica della distinzione tra determinazione e istigazione in una prospettiva generale, per tutti, L. Violante, voce Istigazione (nozioni generali), cit., 986 ss.; contra, L. Risicato, La causalità psichica tra determinazione e partecipazione, cit., 11ss. Con specifico riferimento all’art. 414 c.p., F. Schiaffo, Istigazione e ordine pubblico. Tecnicismo giuridico ed elaborazione teleologica nell’interpretazione delle fattispecie, cit., 178 ss.
[42] V. Zagrebelsky, I delitti contro l’ordine pubblico, cit., 537.
[43] Cass. pen., Sez. Unite, 18/11/1958, n. 10 (rv. 098030), Colorni, in Riv. it. dir. proc. pen., 1960, 189.
[44] Sul rapporto tra libertà di espressione e istigazione a delinquere, cfr. per tutti, A. Cerri, Libertà di manifestazione del pensiero, propaganda, istigazione ad agire, in Giur. Cost., 1969, 1178; L.D. Cerqua, Condotta apologetica e idoneità concreta a provocare la commissione di delitti, in Giur. Mer., 2/1987, 457; G. De Vero, Istigazione, libertà di espressione e tutela dell’ordine pubblico, in Arch. Pen., 2/1976, 8; U. Ferrante, Istigazione a delinquere e manifestazione di pensiero costituzionalmente garantita, in Giur. Mer., 1976; C. Fiore, Libertà di espressione politica e reati di opinione, in Pol. Dir., 1970, 48; D. Pulitanò, Libertà di manifestazione del pensiero, delitti contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, in G. Vassalli, Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, ESI, Napoli, 2006, 239; F. Schiaffo, Istigazione e apologia nei delitti contro l’ordine pubblico, in S. Moccia (a cura di) Delitti contro l’ordine pubblico, cit., 152. Con riferimento, più in generale, ai cc.dd. reati di opinione, per tutti, C. Fiore, I reati di opinione, Padova, 1972.
[45] In tale prospettiva, l’orientamento più risalente (c.d. concezione dei limiti logici alla libertà di espressione), avallato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, ha riconosciuto la legittimità costituzionale delle condotte istigatrici e apologetiche attraverso un’interpretazione restrittiva della sfera di operatività dell’art. 21 Cost., la cui garanzia veniva limitata alle sole manifestazioni di pensiero “pure”, cioè orientate esclusivamente a sollecitare altrettante attività di mero pensiero, escludendo invece le forme “attivizzanti”, vale a dire le condotte consistenti nella sollecitazione all’azione o nell’eccitamento di momenti emotivi e irrazionali. Corte cost., sent. n. 87 del 1966, in www.giurcost.org, con riferimento alla propaganda; Corte cost., sent. n. 65 del 1970, cit., sull’apologia; Corte cost., sent. n. 16 del 1973, cit., sull’art. 266 c.p.
[46] Corte cost., 23/04/1970 (dep. 04/05/1970), n. 65. Con nota di A.C. Jemolo, Lo stato può difendersi, in Giur. cost., 1970, 957; V. pure G. Bognetti, Apologia di delitto punibile ai sensi della Costituzione e interpretazione della norma dell’art. 414 c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 1971, 18.
[47] Corte cost. 26/01/1957 n. 1 (apologia di fascismo) e nn. 74 del 1958 e 15 del 1973 (manifestazioni fasciste). In argomento cfr. in dottrina, tra tutti L. Alesiani, I reati di opinione. Una rilettura in chiave costituzionale, Milano, 2006, 194 ss.; D. Notaro, Fascismo, in F. Palazzo e C.E. Paliero ( a cura di) Commentario breve alle leggi penali complementari, Padova, 2007, 1329 ss.; Id Neofascismo e dintorni: la “resistenza” della dimensione offensiva del tipo criminoso, in www.lalegislazionepenale.eu, 17.02.2020.
[48] Corte cost., 05/04/1974 ( dep. 23/04/1974), n. 108, in Riv. it. dir. proc. pen., 1974, 444 ss., con nota di C. Pedrazzi, Sentenze manipolative in materia penale? in Riv. it. dir. proc. pen., 1974, 444 ss.
[49] Corte cost. 27/9/1991, Mazzucchelli, in Cass. Pen., 1993, 1715; per osservazioni critiche al riguardo, G. Insolera, Delitti contro l’ordine pubblico, cit., 304; per una più ampia ricostruzione di questa vicenda e del suo significato F. Schiaffo, Istigazione e ordine pubblico. Tecnicismo giuridico ed elaborazione teleologica nell’interpretazione delle fattispecie, cit., 125.
[50] Tale indicazione generale risulta chiaramente da Corte cost. 27/06/1975 (dep. 08/07/1975), n. 188, in Giur. cost., 1975, 1508 (vilipendio). Sul ruolo della libertà di espressione nella giurisprudenza costituzionale sui reati di istigazione e apologia cfr. D. Pulitanò, Libertà di manifestazione del pensiero, delitti contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, cit., 245ss.
[51] V. M. Oetheimer, Art. 10 – Libertà di espressione, in S. Bartole – P. De Sena – V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova, 2012, 397 ss.
[52] C. Edu, 23 settembre 1998, Lehideux et Isorni c. Francia.
[53] C. Fiore, I reati di opinione, cit., 127. Sul legame tra azione politica e manifestazione del pensiero, A. Cerri, Libertà di manifestazione del pensiero, propaganda, istigazione ad agire, in Giur. cost., 1969, 1178 ss.
[54] F. Schiaffo,La criminalizzazione della parola: considerazioni tra diritto e processo su un probabile ossimoro, in Pen. Dir. Proc., 10 febbraio 2020, 10.
[55] E. Gallo, Il principio di idoneità nel delitto di pubblica istigazione, cit., 1516 (il corsivo è dell’A.)
[56] Ibidem.
[57] Ibidem.
[58] F. Schiaffo,La criminalizzazione della parola: considerazioni tra diritto e processo su un probabile ossimoro, cit., 12.
[59] L. Alesiani, I reati di opinione. Una rilettura in chiave costituzionale, cit., 246).
[60] Da ultimo Cass. Pen., Sez. III, sent. 13/02/2024 (dep. 11/04/2024) n. 14953.
[61] In questo senso, C.D. Leotta, La repressione penale del terrorismo a un anno dalla riforma del D.L. 18 febbraio 2015, n. 7, conv. con modif. dalla L. 17 aprile 2015, n. 43, in Arch. Pen., 1/2016, p. 6 ss. Si tratta di un’interpretazione recentemente condivisa dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento a un caso di apologia via internet dello Stato Islamico: Cass. pen., sez. I, 6 ottobre 2015, n. 47489, H.E.M., in Dir. pen. cont., 14 dicembre 2015, con nota di S. Zirulia, Apologia dell’IS via internet e arresti domiciliari. Prime prove di tenuta del sistema penale rispetto alla nuova minaccia terroristica.
[62] G. Cocco – E. Ambrosetti-E. Mezzetti, I reati contro i beni pubblici. Stato, amministrazione pubblica e della giustizia, ordine pubblico, Padova, 2013, 530 ss.; F. Consulich, Reati contro l’ordine pubblico, cit., 100 ss.; G. De Vero, voce Istigazione a delinquere e a disobbedire alle leggi, cit. 297; M. Pelissero, Reati contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, 243 ss.; L. Violante, voce Istigazione (nozioni generali), cit., 1001.
[63] Cass. sez. I, 19 Gennaio 1979, n. 3863.
[64] Così, I. Guardaglione – D. Gal – T. Alvez – G. Martinez, Countering onlune hate speech, Parigi, 2015, 13 ss.
[65] Articolo inserito nel codice penale italiano in virtù del D.lgs. del 1 marzo 2018, n. 21,provvedimento finalizzato ad attuare le deleghe contenute nella riforma Orlando, dirette alla tendenziale attuazione del principio della riserva di codice e si colloca nella neo introdotta sezione I bis dedicata ai delitti contro l’eguaglianza.
[66] Il riferimento va alla L. n. 115 del 16 giugno 2016 che, già emendata dalla legge europea del 2017, inserisce un nuovo comma 3 bis nella L. n. 654 del 1975. Per un’analisi della nuova aggravante, cfr. nota n. 95.
[67] Cass. pen., sez. I, 6 dicembre 2021 (dep. 9 febbraio 2022), n. 4534, in Sistema penale, 20 maggio 2022, con nota di Fragasso B., Like su Facebook, op. cit., ivi.
[68] A. Cisterna, Il contrasto al terrorismo online e la tutela delle infrastrutture informatiche, in Dir. Pen. e Proc., n. 11, 1 novembre 2023, p. 1431.
[69] M. Romanelli, Intelligenza artificiale, influenza sul mercato politico e reati contro la personalità dello stato. La criminalità terroristica, in Sistema penale, 29 giugno 2023. Più in generale, in tema di rapporti tra intelligenza artificiale e sistema penale, F. Basile, Intelligenza artificiale e diritto penale: quattro possibili percorsi di indagine, in Diritto penale contemporaneo, 29 settembre 2019.
[70] In tema di doppia tutela (nazionale ed europea) dei diritti soggettivi in materia penale cfr. A. Abukar Hayo, Obblighi e limiti della tutela penale dei diritti soggettivi nel dialogo tra le Corti, in Nullum Crimen, 7 gennaio 2025, passim.
[71] G. Faillaci, Associazione con finalità di terrorismo e istigazione a delinquere alla luce dei principi di materialità e offensività della condotta, in www.njus.it,30 giugno 2022.
In argomento anche, A. Abukar Hayo, La inadeguatezza del sistema sanzionatorio somalo alla luce del fenomeno del terrorismo dello “Shabab”, Marduuf Publisher, Mogadiscio, 2013, pag. 1-294.
[72] Si segnala che in materia processuale, è stato adottato recentemente il D.Lgs. n. 107/2023, che reca l’adeguamento dell’ordinamento interno alle disposizioni contenute nel Reg. UE 2021/784 sul contrasto della diffusione di contenuti terroristici online. Per una riflessione approfondita su tale normativa cfr. A. Cisterna, Il contrasto al terrorismo online e la tutela delle infrastrutture informatiche, in Dir. Pen. e Proc., 1433.
[73] Convertito con modificazioni nella L. 15 dicembre 2001, n. 374.
[74] Convertito nella L. 31 luglio 2005, n. 155.
[75] Convertito nella L. 17 aprile 2015, n. 43, con il quale il legislatore italiano ha introdotto diverse norme incriminatrici che riproducono il contenuto della proposta di direttiva. Tra queste, vengono in rilievo l’aggiunta di un nuovo comma all’art. 240 quater c.p. – già introdotto con il D.L. 27 luglio 2005, n. 144, convertito nella L. 31 luglio 2005, n. 155, in attuazione della Decisione Quadro 2002/475/GAI e della Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione del terrorismo del 2005 -, che prevede la punibilità della persona arruolata, accanto a quella, già prevista, di colui che arruola; l’introduzione dell’art. 240 quater.1 c.p., che punisce “chiunque organizza, finanza o propaganda viaggi in territorio estero finalizzati al compimento delle condotte con finalità di terrorismo”; infine, è stato modificato il primo comma dell’art. 270 quinquies c.p. – anch’esso già introdotto nel 2005 ̶ , estendendo la punibilità alla persona addestrata, ma soprattutto alla «persona che avendo acquisito, anche autonomamente, le istruzioni per il compimento degli atti di cui al primo periodo, pone in essere comportamenti finalizzati alla commissione delle condotte di cui all’art. 270 sexies». A ben vedere, la normativa italiana risulta antesignana di quella proposta dalle istituzioni eurounitarie, in quanto entrambe intendono, in realtà, dare attuazione alle indicazioni contenute nella Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 2178 del 24 settembre 2014 e nel Protocollo addizionale del 2015 alla Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione del terrorismo. Sulle modifiche introdotte con il D.L. 18 febbraio 2015 n. 7 , cfr. fra i molti, A. Balsamo, Decreto antiterrorismo e riforma del sistema delle misure di prevenzione, in Dir. pen. cont., 2 marzo 2015; A. Cavaliere, Considerazioni critiche intorno al d.l. antiterrorismo, n. 7 del 18 febbraio 2015, in Dir. pen. cont., 2/2015, p. 226 ss.; S. Colaiocco, Le nuove norme antiterrorismo e le libertà della persona: quale equilibrio?, in Arch. pen, 2/2015, p. 2 ss.; F. Fasani, Le nuove fattispecie antiterrorismo: una prima lettura, in Dir. Pen. Proc. 2015, p. 926 ss. ; G. Leo, (voce) Nuove norme in materia di terrorismo, in Libro dell’anno del diritto 2016 Treccani (pubblicato anche in Dir. pen. cont., 18 dicembre 2015).
[76] È d’obbligo segnalare, in materia processuale, il D.Lgs. n. 107/2023, che reca l’adeguamento dell’ordinamento interno alle disposizioni contenute nel Reg. UE 2021/784 sul contrasto della diffusione di contenuti terroristici online. Per una riflessione approfondita su tale normativa cfr.
[77] Cass. pen., sez. V, 25 luglio 2008 n. 31389; Cass. pen., sez. V, 12 dicembre 2017, n. 55418;Cass. pen., Sez. I, 25 marzo 2021 (ud. 27/01/2021), n. 11581; Cass. pen., n. 24940 del 15 febbraio 2022 (dep. 30 giugno 2022), Cass. pen., sez.V, 14 Gennaio 2025, n. 1700. Soltanto per citarne alcune.
[78] M. Pelissero, Reati contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, cit., p. 242.
[79] Una definizione normativa espressa delle “condotte con finalità di terrorismo” è stata prevista solo con il D.L. 27 luglio 2005, n. 144, convertito con modificazioni dalla L. 31 luglio 2005, n. 155, che ha introdotto nel codice penale l’art. 270 sexies, al fine di colmare la lacuna fino a quel momento esistente nell’ordinamento italiano. Tuttavia, pur dovendosi valutare positivamente la scelta del legislatore di dare un’esplicita definizione di terrorismo – anche al fine di allinearsi alle indicazioni provenienti dalle fonti internazionali -, permangono non poche perplessità in ordine alla distinzione intercorrente tra la finalità terroristica e quella eversiva: sul punto, F. Viganò, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica, cit., p. 3956 ss. Sulla nozione di terrorismo, ex plurimis, M. Mantovani, Le condotte con finalità di terrorismo, in R. Kostoris – R. Orlandi (a cura di), Contrasto al terrorismo interno e internazionale, Torino, 2006, p. 77 ss.; V. Masarone, Politica criminale e diritto penale nel contrasto al terrorismo internazionale, ESI, Napoli, 2013; A. Valsecchi, Il problema della definizione di terrorismo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 1127 ss; Id., La definizione di terrorismo dopo l’introduzione del nuovo art. 270 sexies c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 1103 ss.; Id., Art. 270 sexies c.p., in E. Dolcini – G. Marinucci (a cura di), Codice Penale Commentato, vol. 1, p.1958 ss.; L.D. Cerqua, La nozione di “condotte con finalità di terrorismo” secondo le fonti internazionali e la normativa interna, in C. De Maglie – S. Seminara (a cura di), Terrorismo internazionale e diritto penale, Padova, 2007, p. 1580 ss.
[80] V. Masarone, Politica criminale e diritto penale, cit. p. 278 ss.
[81] V. Nardi, La punibilità dell’istigazione nel contrasto al terrorismo internazionale. Il difficile bilanciamento tra esigenze di sicurezza e libertà di espressione, in Dir. Pen. cont., 1/2017, 124.
[82] È stato ritenuto sussistente il delitto di istigazione alla pedofilia nella condotta di chi descrive in maniera dettagliata sul web rapporti sessuali intrattenuti con un minore. Cass. pen., III sez., 18 giugno 2021, n. 23943.
[83] A. Vallini, Un ulteriore intervento a tutela dei minori (I parte) – Nuove norme a salvaguardia del minore, della sua libertà (integrità) sessuale e del minore nella “famiglia”, in Dir. Pen. Proc., n. 2, 1 febbraio 2013, p. 137.
[84] P. Caroli, Quando guardare è un reato. Accesso intenzionale a materiale pedopornografico e novità normative in materia di reati sessuali nei confronti di minori, in Dir. Pen. proc., 7/2022, p. 981.
[85] Corte cost. 4 maggio 1970, n. 65, in Giur. Costit., 1970, 955.
[86] P. Pittaro, Ratificata la Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale: le modifiche al codice penale, in Famiglia e Diritto, 4/2013, p. 404.
[87] Sul (problematico) requisito dell’idoneità nella pubblica istigazione cfr. M. Pelissero, Delitti di istigazione e apologia, cit., 238 ss.
[88] D.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito in l. 25 giugno 1993, n. 205 (in G.U. 26/06/1993, n.148) “Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa”.
[89] Recante “Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione” (GU n.60 del 13-03-2006), entrata in vigore il 28/3/2006.
[90] Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103. (GU n.68 del 22-03-2018). Per un commento alla normativa cfr. ex multis, S. Seminara, Codice penale, riservata di codice e riforma dei delitti contro la persona, in Riv. Ita. Dir. Proc.pen., Vol. 63, Nº 2, 2020, p. 423 ss. Con particolare riferimento al fenomeno del doping cfr. A. Abukar Hayo, Eterodoping, autodoping e commercio illecito di sostanze anabolizzanti: il legislatore attua il principio della riserva di codice in materia di tutela sanitaria dell’attività sportiva ed introduce l’art. 586-bis c.p., in Diritto Penale della Globalizzazione, 3/2018, pp. 273 ss.;
[91] M. Pelissero, Discriminazione, razzismo e il diritto penale fragile, in Dir. Pen. e Proc., n. 8, 1 agosto 2020, p. 1017.
[92] L’espressione è ripresa da M. Pelissero, ibidem, p. 1020. L’Autore fa una distinzione tra razzismo biologico, che si fonda sulla connessione deterministica tra caratteristiche biologico somatiche ed elementi culturali e razzismo culturale, o neorazzismo, che si fonda esclusivamente su basi culturali che riesce ad attecchire in modo pervasivo attraverso “ossessione identitaria”: il mito dell’ identità e della tradizione autoctona, il richiamo ad un passato rielaborato alla luce delle esigenze del presente consolidano la contrapposizione rispetto a chi si ritiene essere Altro a fronte di chi costruisce l’identità.
[93] In argomento cfr. I. Alagna, Hate speech: non sempre costituisce lesione della reputazione la stigmatizzazione sui social,in Il Quotidiano giuridico, 27.06.2023; F. Cerqua, Hate speech: l’istigazione alla violenza per motivi religiosi tramite i messaggi Facebook, in Il Quotidiano giuridico, 27.02.2023; A. Vallini, Criminalizzare l’hate speech per scongiurare la collective violence? Ipotesi di lavoro intorno al reato di “propaganda razzista”, in Studi sulla questione criminale, 2020, p. 33-64.
[94] V. G. Ziccardi, L’odio online. Violenza verbale e ossessione in rete, Milano, 2016, 19. Così G. Gometz, L’odio proibito: la repressione giuridica dello hate speech, in www.statoechiese.it, n. 32/2017, 4, «Quando questi fenomeni sono considerati nella loro dimensione comunicativo-espressiva, allora è d’uso parlare di “hate speech”, una nozione tanto popolare nei dibattiti quanto sciagurata dal punto di vista analitico: tutti deplorano le condotte espressive a cui tale espressione si riferisce ma nessuno sa esattamente quali siano, dato l’inusitato grado di genericità e vaghezza che contraddistingue ciascuna delle sue varie definizioni».
[95] V. pure S. Walker, Hate Speech: The History of an American Controversy, University of Nebraska Press, 1994, 17 ss.
[96] A. Vitale, “Hate speech” e contrasto penale delle manifestazioni che diffondono l’odio, in Ordines, 2020, 1, 267.
[97] Ibidem.
[98] Cfr. A. Spena, La parola odio – sovraesposizione, criminalizzazione e interpretazione dello hate speech, in Discrimen, 04.09.2018; Id., La dimensione pubblica del discorso d’odio, in S. Di Piazza – A. Spena (a cura di), Parole cattive: la libertà di espressione tra linguaggio, diritto e filosofia, Macerata, 2022, 115 ss.
[99] Dello stesso avviso M. Pelissero, Discriminazione, razzismo e il diritto penale fragile, cit., p. 1017.
[100] Art. 1 della Decisione Quadro 2008/913/GAI del Consiglio dell’Unione Europea, prevede che «gli Stati adottino misure necessarie affinché siano punite, con sanzioni penali efficaci, proporzionate e dissuasive, … le condotte di apologia, di negazione o minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità, dei crimini di guerra come definiti agli articoli 6, 7 e 8 dello Statuto della Corte penale internazionale, dei crimini di cui all’articolo 6 dello Statuto del Tribunale militare internazionale .» Sul punto, per tutti, cfr. E. Fronza, Il negazionismo come reato, Milano, 2012, p. 69 ss.; P. Lobba, La lotta al razzismo nel diritto penale europeo dopo Lisbona. Osservazioni sulla decisione quadro 2008/913/GAI e sul reato di negazionismo, in Ius17@unibo.it, n. 3/2011, pp. 154 ss. In effetti, prima della modifica introdotta dalla l. 167/2016, la disposizione non faceva riferimento alle condotte di apologia e minimizzazione. L’implementazione dell’aggravante è plausibilmente la conseguenza di una procedura pre-contenziosa avviata dall’Unione nei confronti dell’Italia – attraverso lo strumento ad hoc dell’EU Pilot (faccio qui riferimento al Caso EU Pilot 8184/15/JUST) – per incompleto recepimento della decisione quadro. Sul punto, per tutti, cfr. A. Galluccio, Modificata l’aggravante di negazionismo e inserito l’art. 3 c. 3-bis l. 654/1975 nel novero dei reati presupposto ex d.lgs. 231/2001, in Dir. pen. cont., 20 dicembre 2017. Ampiamente, per una ricostruzione del complesso iter che ha poi condotto all’attuale quadro normativo, v. A.S. Scotto Rosato, Osservazioni critiche sul nuovo “reato” di negazionismo, in Dir. pen. cont., 3/2016, p. 287 ss.
[101] G. Balbi, Il negazionismo tra falso storico e post-verità, in Discrimen 11.02.2029,
[102] Tra gli altri G. Balbi, op. ult. cit., A. Cavaliere, La discussione intorno alla punibilità del negazionismo. I principi di offensività e libera manifestazione del pensiero e la funzione della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, f. 2, p. 1004; E. Fronza, Prime osservazioni critiche sulla nuova aggravante di negazionismo, in Parola alla difesa, 2016, 1, 63-71; G. Della Morte, Sulla legge che introduce la punizione delle condotte negazionistiche nell’ordinamento italiano: tre argomenti per una critica severa, in Sidiblog. Blog della Società it. Dir. intern. e Dir. Unione europea, 22 giugno 2016, A.S. Scotto Rosato, Osservazioni critiche sul nuovo “reato” di negazionismo, cit., 280..
[103] C. D. Leotta, La legge europea 2017 estende la rilevanza penale dell’aggravante di negazionismo, in Quotidiano Giuridico, 29.06.2016.