Abstract: il contributo si sofferma sull’interesse del minore figlio di un genitore detenuto, approfondendo il quadro normativo sovranazionale, il contesto normativo nazionale e la giurisprudenza italiana.
Abstract: the paper focuses on the interest of the child with a parent in prison deepening the international and national legislation and the national jurisprudence.
Sommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. L’interesse del minore figlio di un genitore detenuto: a) nel quadro normativo sovranazionale. – 3. b) nel contesto normativo nazionale. – 4. c) nella giurisprudenza italiana. – 5. Rilievi critici.
1. Considerazioni introduttive.
Affrontare la questione “carcere” vuol dire anche occuparsi di quella piccola, ma non affatto trascurabile, porzione di “mondo” carcerario composta da detenute madri con figli al seguito. Si tratta di una tematica particolarmente delicata, la quale tende a tornare sotto i riflettori tutte le volte in cui si verificano degli episodi ritenuti degni di essere posti in risalto.
Penso, innanzitutto, alle dichiarazioni rese pochi giorni fa, il 17 febbraio, dalla Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, in audizione parlamentare in Commissione Infanzia, nella quale ha riaffermato che è prioritario compiere uno sforzo per non avere “mai più bambini in carcere”[1].
Penso, poi, all’attenzione prestata al tema poche settimane addietro in occasione del terzo rinnovo della Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti, un protocollo di intesa tra il Ministero della Giustizia, l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza e Bambinisenzasbarre Onlus[2].
Penso, infine, all’accento posto sull’argomento, anche dagli organi di stampa, immediatamente dopo la tragedia di Rebibbia del 2018: mi riferisco al caso della donna, detenuta nel carcere di Rebibbia, la quale ha scaraventato giù dalle scale della sezione nido dell’istituto penitenziario i due figli, provocando la immediata morte della bambina nata da pochi mesi e, il giorno dopo, la morte cerebrale del bambino, poco più grande di età.
Tutte attenzioni che però, superati momenti simili a quelli appena richiamati, tendono a scolorire, facendo sì che la tematica – almeno per la gran parte dell’opinione pubblica- torni ad assumere un ruolo marginale, un ruolo forse determinato dalla consistenza numerica del fenomeno.
Dalle statistiche pubblicate pochi giorni fa sul sito del Ministero della Giustizia, le quali riflettono la situazione al 31 gennaio 2022[3], si ricava che le detenute madri con figli al seguito sono quindici: sei sono italiane e nove sono straniere. I figli al loro seguito sono sedici: sei sono figli di donne italiane e dieci sono figli di donne straniere. Tali detenute si trovano nella casa circondariale Panzera di Reggio Calabria e negli istituti a custodia attenuata per detenute madri Lorusso e Cutugno di Torino, San Vittore di Milano, Giudecca di Venezia e Lauro in Campania. L’istituto a custodia attenuata di Cagliari, invece, non ospita adesso detenute madri e, dunque, non compare nella tabella pubblicata.
I numeri appena richiamati rivelano una lieve flessione rispetto agli anni precedenti. Forse ne è complice, ancora una volta, la crisi sanitaria che – come messo in evidenza nell’ultimo Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione – ha sollecitato la magistratura di sorveglianza ad adottare con particolare solerzia misure volte ad aprire i cancelli degli istituti ai bambini[4]. Ma purtroppo non vi è alcuna ragione per ritenere che, terminata l’emergenza sanitaria, il numero di bambini in carcere con le madri non torni ad aumentare.
In ogni caso, la portata “quantitativa” del fenomeno non deve – o almeno non dovrebbe – incidere sulla valutazione della sua rilevanza. Non bisogna, infatti, trascurare che la condizione delle detenute madri si ripercuote inevitabilmente sui minori, vittime incolpevoli di un destino che non hanno concorso a determinare, provocando negli stessi particolari sofferenze sia nel caso in cui restino con la madre all’interno di istituti penitenziari, o di istituti ad essi assimilati, sia nel caso in cui vengano portati fuori dal carcere, subendo, dunque, il distacco dalla figura materna, alla quale viene impedita la possibilità di prestare assistenza e cura continue al figlio.
2. L’interesse del minore figlio di un genitore detenuto: a) nel quadro normativo sovranazionale.
In tale sede, la tematica sarà affrontata prendendo le mosse dal quadro europeo. È noto, infatti, che l’Unione europea, soprattutto negli ultimi anni, ha mostrato particolare sensibilità nei confronti del tema. Ma la cornice europea di riferimento non può essere letta trascurando il più ampio panorama internazionale. Questo è un settore, infatti, nel quale il contesto normativo europeo e quello internazionale dialogano tra loro, arricchendosi vicendevolmente. E, pur non fornendo una soluzione univoca al problema, essi prospettano linee e indicazioni simili per affrontarlo.
A ben vedere, tali indicazioni provengono sia da atti sovranazionali riguardanti, in generale, la protezione del bambino, sia da atti sovranazionali dedicati specificamente al rapporto che si instaura tra la madre detenuta ed il figlio minorenne.
Senza alcuna pretesa di esaustività, si pensi, ad esempio, all’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e recepita dall’Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848. L’art. 8 della Convenzione europea, infatti, nel sancire il diritto al rispetto della vita privata e familiare, impegna gli Stati membri dell’Unione a garantire il mantenimento dei legami familiari, anche in situazioni di separazione del genitore dal minore.
Si pensi, poi, all’art. 24, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966 e recepito dall’Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881, secondo il quale ogni fanciullo ha diritto alle misure protettive richieste dal proprio stato minorile, le quali devono essere predisposte non solo dalla famiglia ma anche dalla società e dallo Stato.
Ma soprattutto ci si soffermi sull’art. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, e ratificata dall’Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, in forza del quale in tutte le decisioni riguardanti i fanciulli, siano esse di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente, nonché sull’art. 9, comma 3, della stessa Convenzione, il quale riconosce al fanciullo separato da uno o da entrambi il diritto di intrattenere regolarmente con gli stessi rapporti personali e contatti diretti, salvo il caso in cui ciò risulti contrario all’interesse preminente del fanciullo.
Si tratta di profili poi richiamati dall’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000/C 364/01), proclamata ufficialmente a Nizza nel dicembre del 2000.
Ma di particolare interesse risultano soprattutto quegli atti normativi riguardanti direttamente la relazione tra la detenuta madre ed i figli minori.
Anzitutto, va ricordato il punto 8.15 della Carta europea dei diritti del fanciullo (Risoluzione A3-0172/92), per il quale ogni fanciullo, i cui genitori si trovino a scontare una pena detentiva, deve poter mantenere con gli stessi contatti adeguati; e, con riferimento ai fanciulli in tenera età che convivono con la madre in carcere, si aggiunge che questi devono poter godere di infrastrutture e cure adeguate.
Bisogna poi richiamare la raccomandazione del Consiglio d’Europa n. 1469 del 2000 su madri e bambini in carcere. Detta raccomandazione richiede di ricorrere alla pena detentiva solo quale ultima ratio allorché si tratti di donne incinte o di madri di bambini in tenera età.
Ma l’attenzione dell’Unione europea nei confronti del tema si ricava anche dalla Regole penitenziarie europee, adottate nel 2006 e aggiornate nel 2020. Degna di essere menzionata in tale sede è la regola 36, la quale non solo ribadisce che i bambini possono stare in prigione con un genitore qualora ciò soddisfi il loro interesse superiore ma aggiunge che, nel caso in cui i minori restino in carcere con il genitore, non possano essere trattati come detenuti.
È necessario richiamare anche la Risoluzione del Parlamento europeo del 13 marzo 2008 sulla particolare situazione delle donne detenute e l’impatto dell’incarcerazione dei genitori sulla vita sociale e familiare (2007/2116 (INI)). Tale risoluzione non solo raccomanda di ricorrere alla detenzione delle donne incinte e delle madri di minori in tenera età quale ultimo rimedio esperibile ma insiste sulla necessità che l’amministrazione giudiziaria si informi circa l’esistenza di bambini prima di decidere in merito alla detenzione della madre, così assicurando una sorta di individualizzazione del trattamento.
Un cenno meritano le Regole delle Nazioni Unite relative al trattamento delle donne detenute e alle misure non privative della libertà per le donne autrici di reato (c.d. Regole di Bangkok).
Da ultimo, deve richiamarsi la Raccomandazione n. 5 del 2018 del Comitato dei Ministri degli Stati membri della Unione europea relativa ai figli delle persone detenute. Va subito ricordato che tale raccomandazione è stata adottata nell’ambito della Strategia per i diritti dell’infanzia che ha caratterizzato l’attività del Consiglio d’Europa per il quinquennio 2016-2021.
Essa si applica a tutti i bambini figli di persone detenute: quindi, sia ai bambini con genitori in carcere sia ai bambini in carcere al fianco dei genitori. Si ribadisce anche in tale sede che i bambini possono restare in carcere solo se ciò soddisfa il loro interesse. Ove poi risulti opportuno e possibile, occorre prediligere le alternative alla detenzione. E in ogni caso – tiene a sottolineare l’Unione europea – i bambini figli di detenuti devono essere trattati nel rispetto dei diritti umani.
Ora, dal sintetico quadro appena disegnato può certamente ricavarsi la tendenza dell’Unione europea e della intera comunità internazionale ad occuparsi della delicata questione. Ma è possibile anche affermare che tutti tali atti normativi, benché tentino di cogliere diverse sfaccettature del rapporto tra detenute madri e figli minori, sono avvinti da una sorta di filo rosso, talvolta esplicitamente richiamato, altra volta implicitamente sotteso: mi riferisco all’interesse prevalente del minore.
3. b) nel contesto normativo nazionale.
Proprio tale filo rosso sembrerebbe aver guidato il legislatore italiano nel percorso volto ad adattare alle esigenze dei minorenni il differenziato regime penale, processuale penale e penitenziario previsto per le detenute madri[5].
Si tratta di un regime che, per la verità, inizia a delinearsi nei suoi caratteri essenziali già decenni addietro. Solo di recente, però, esso sembra aver assunto dei tratti tali da assicurare una rinnovata tutela del minore, ormai considerato non più quale oggetto da salvaguardare, ma quale soggetto titolare di diritti.
Non può certo trascurarsi che il codice penale del 1930, già nella sua tessitura originaria, rivolge alcune cure al delicato rapporto tra detenute madri e figli. Ed infatti, nel disciplinare il rinvio della esecuzione della pena tiene in considerazione la condizione della donna incinta e della madre di prole in tenera età: il riferimento è alla disciplina contenuta nell’art. 146 c.p.[6] e nell’art. 147 c.p.[7]
E in linea di continuità con il codice penale del 1930 si poneva il regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 787: esso, invero, prevedeva per i bambini sino ai due anni di età la possibilità di rimanere in carcere al fianco delle madri (art. 43 del regolamento citato).
Successivamente, ad aver rivolto attenzione alla maternità e all’infanzia è stata la legge 26 luglio 1975, n. 354 (da qui in poi: ord. penit.). Tale legge, infatti, già nella formulazione originaria, prevede che in ogni istituto penitenziario per donne siano in funzione servizi speciali per l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere, sottolineando che le madri possono tenere i figli presso di sé fino all’età di tre anni e aggiungendo che per la cura e l’assistenza dei bambini sono organizzati appositi asili nido (art. 11, comma 8, e art. 14, comma 7, ord. penit.)[8].
Da tale quadro normativo, tuttavia, sembra ancora ricavarsi l’idea di un minorenne quale oggetto da proteggere, quasi “costretto” a seguire la madre.
Negli anni successivi, invece, il complesso degli “strumenti” tesi a salvaguardare il rapporto tra la madre detenuta ed il figlio minore viene ampliato. Anzitutto, interviene la legge 10 ottobre 1986, n. 663, intitolata «Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà», la quale introduce – per quanto qui rileva – una nuova misura alternativa alla detenzione, inserendo tra i destinatari tipici della stessa anche la madre di prole in tenera età.
In particolare, l’art. 13 della legge appena menzionata inserisce l’art. 47 ter ord. penit., e con esso la detenzione domiciliare. Secondo la formulazione dell’art. 47 ter, comma 1, lett. a), ord. penit. oggi in vigore, «la donna incinta o la madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente»[9] può espiare la pena della reclusione non superiore a quattro anni[10], anche se parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’arresto, nella propria abitazione o in un altro luogo di privata dimora, ovvero in un luogo pubblico di cura, di assistenza o di accoglienza, ovvero in una casa famiglia protetta[11]: dunque, fuori dal carcere.
Successivamente, l’art. 4 della legge 27 maggio 1998, n. 165, recante «Modifiche all’art. 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni», include tra i possibili beneficiari della misura alternativa alla detenzione anche il «padre, esercente la responsabilità genitoriale di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole» (art. 47 ter, comma 1, lett. b, ord. penit.)[12].
Inoltre, la citata legge del 1998 introduce una ulteriore figura di detenzione domiciliare, la quale si propone di tutelare la maternità e l’infanzia avendo cura di garantire l’esercizio della potestà punitiva statale: la detenzione domiciliare sostitutiva del differimento obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena. Più segnatamente, secondo l’art. 47 ter, comma 1 ter, ord. penit., aggiunto dall’art. 4, comma 1, lett. a), legge cit., laddove possa essere disposto il rinvio obbligatorio o il rinvio facoltativo della esecuzione della pena detentiva, disciplinati, rispettivamente, dagli artt. 146 e 147 c.p., il Tribunale di sorveglianza, anche nel caso in cui la pena da espiare superi il limite edittale previsto dall’art. 47 ter, comma 1, ord. penit. (vale a dire, la pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’arresto), può disporre l’applicazione della detenzione domiciliare, prevedendo un termine di durata di tale applicazione.
In un contesto normativo così composto, certamente più attento alle esigenze dei minori, ma forse non ancora in grado di apprestare una tutela adeguata, si inserisce la legge 8 marzo 2001, n. 40, emblematicamente intitolata «Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori»[13].
L’obiettivo della legge appena richiamata appare, prima facie, l’eliminazione della carcerazione degli infanti.
Perseguendo tale finalità, l’art. 1 della legge 8 marzo 2001, n. 40, amplia l’àmbito di operatività del rinvio obbligatorio e del rinvio facoltativo della esecuzione della pena detentiva per le donne incinte e per le madri di prole in tenera età (artt. 146 e 147 c.p.)[14].
Poi, l’art. 3 della medesima legge introduce una ulteriore ed innovativa misura alternativa alla detenzione, la detenzione domiciliare speciale, la quale trova la propria sede nell’art. 47 quinquies ord. penit. Secondo detta disposizione, qualora non vi siano le condizioni per concedere la detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter ord. penit., la condannata madre di prole di età non superiore ad anni dieci, «se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli», può scontare la pena in un luogo diverso dal carcere «al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli», dopo aver espiato almeno un terzo della pena ovvero quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo. E, quasi segnalando una sorta di deminutio della figura paterna, prevede che la stessa misura può essere concessa pure al padre detenuto, «se la madre è deceduta e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre» (art. 47 quinquies, comma 7, ord. penit.)[15].
Con riferimento a tale misura alternativa alla detenzione, occorre svolgere qualche breve considerazione. Deve, infatti, segnalarsi la centralità assunta da uno dei requisiti richiesti dal legislatore affinché il beneficio possa essere concesso al genitore: la possibilità di ripristinare la convivenza con la prole. A ben vedere, tale requisito rivela lo scopo della detenzione domiciliare speciale, che mira al ripristino del rapporto tra il genitore ed il figlio, offrendo al genitore la possibilità di un reinserimento sociale attraverso la cura della prole e prediligendo anche l’interesse del minore ad un rapporto continuativo con il genitore. Inoltre, nel richiedere un accertamento in ordine alla possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, il legislatore sembra aver voluto scongiurare le possibili strumentalizzazioni del ruolo genitoriale da parte di coloro i quali, pur essendo genitori di minori di età non superiore a dieci anni, non siano in condizioni di ripristinare una effettiva relazione con i figli.
Ancora, seguendo lo scopo di garantire la continuità della funzione genitoriale, l’art. 5 della legge del 2001 offre alla madre detenuta (e al padre in presenza di determinate condizioni) la possibilità di assistere all’esterno i figli minori tramite l’inserimento dell’art. 21 bis ord. penit. L’assistenza all’esterno dei figli minori rappresenta un istituto inedito, la disciplina del quale trae ispirazione da quella dettata per il «lavoro all’esterno» (art. 21 ord. penit.). È prevista, infatti, per le condannate e per le internate, la possibilità di «essere ammesse alla cura e all’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci, alle condizioni previste dall’articolo 21» (art. 21 bis, comma 1, ord. penit.).
La stessa possibilità è riconosciuta al padre detenuto «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre». Si tratta di una previsione normativa che suscita qualche perplessità: invero, pur essendo forse condivisibile il ruolo primario assegnato dal legislatore alla madre nella cura e nell’assistenza dei figli, appare opinabile l’aver stabilito che il padre detenuto possa assistere all’esterno i figli minori di anni dieci soltanto laddove altri soggetti non possano provvedervi.
Infine, l’esigenza di tutelare l’interesse del minore si ricava anche dall’ultima legge intervenuta in materia: la legge 21 aprile 2011, n. 62, recante «Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori»[16].
Mediante tale legge, infatti, sono stati predisposti strumenti di tutela aggiuntivi per le madri detenute e per i loro figli in tenera età, innanzitutto, durante la delicata fase cautelare.
In particolare, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, della legge appena citata, l’art. 275, comma 4, c.p.p. stabilisce che, qualora imputati siano una donna incinta o una madre di prole di età non superiore a sei anni con lei convivente, ovvero padre, nel caso in cui la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, non può essere disposta né mantenuta la misura cautelare coercitiva della custodia in carcere, salvo che sussistano «esigenze cautelari di eccezionale rilevanza». Dunque, secondo detta previsione, il divieto di disporre la custodia cautelare in carcere viene meno qualora vi siano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.
Sul punto, tuttavia, occorre una precisazione, poiché persino nell’ipotesi in cui sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza il giudice può disporre la custodia della madre in un luogo diverso dal carcere. Ed infatti, ai sensi dell’art. 285 bis c.p.p., inserito dall’art. 1 della citata legge del 2011, nelle ipotesi richiamate, se la persona da sottoporre a carcerazione preventiva sia «donna incinta o madre di prole di età non superiore a sei anni», il giudice può disporre la custodia presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri, ove le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza lo consentano. Tale disciplina si estende anche al padre – ancora una volta – «qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole».
La legge del 2011 apporta, poi, alcune modifiche alla disciplina concernente le misure alternative alla detenzione.
Più precisamente, l’art. 3 della legge del 2011 estende le maglie della detenzione domiciliare prevedendo per le madri la possibilità di espiare la pena anche all’interno di case famiglia protette[17]. Inoltre, la medesima disposizione incide sulla detenzione domiciliare speciale, inserendo nell’art. 47 quinquies ord. penit. il comma 1 bis, secondo il quale, «salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4 bis», l’espiazione della prima porzione di pena (vale a dire, un terzo della pena o almeno quindici anni nell’ipotesi di condanna all’ergastolo) può avvenire presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri ovvero, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga, nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli. Qualora sia impossibile espiare la pena nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, la stessa può essere espiata nelle case famiglia protette, ove istituite.
Da ultimo, l’art. 2 della legge del 2011 inserisce l’art. 21 ter ord. penit., il quale prevede un nuovo istituto volto al riconoscimento del diritto di visitare il minore infermo. Più precisamente, l’art. 21 ter ord. penit. prevede una regolamentazione differentemente articolata per il caso di «imminente pericolo di vita o di gravi condizioni di salute» del figlio (art. 21 ter, comma 1, ord. penit.) e per l’ipotesi di assistenza del figlio «durante le visite specialistiche, relative a gravi condizioni di salute» (art. 21 ter, comma 2, ord. penit.).
Il primo comma della disposizione stabilisce, infatti, che la madre condannata, imputata o internata, ovvero il padre che versi nelle stesse condizioni della madre, in caso di imminente pericolo di vita o di gravi condizioni di salute del figlio minore, anche non convivente, ovvero nel caso in cui il figlio sia affetto da handicap in situazione di gravità, possono visitare, previa autorizzazione, l’infermo «o il figlio affetto da handicap grave»[18]. Come si evince dal dettato normativo, non è prevista alcuna particolare limitazione connessa a determinate soglie di età del figlio minore infermo: quindi, la tutela dell’interesse del minore è particolarmente ampia.
Il secondo comma dell’art. 21 ter ord. penit. prevede, invece, per la condannata, l’imputata o l’internata madre di un bambino di età inferiore a dieci anni, anche se non convivente, o di un figlio affetto da handicap grave, nonché per il padre condannato, imputato o internato, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, la possibilità di essere autorizzati ad assistere il minore durante le visite specialistiche, relative a gravi condizioni di salute[19].
4. c) nella giurisprudenza italiana.
Ma l’interesse del minore sembrerebbe aver indirizzato anche la giurisprudenza, soprattutto costituzionale. Esso, infatti, si ricava da alcune decisioni della Corte costituzionale, le quali hanno riguardato – per quanto qui forma oggetto di interesse – il diritto penitenziario.
Particolarmente importante risulta la pronuncia del 1990 per mezzo della quale la Corte costituzionale, valorizzando il ruolo del padre nell’interesse del figlio minorenne, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47 ter, comma 1, n. 1, ord. penit., nella parte in cui non stabiliva che la detenzione domiciliare prevista per la madre di prole in tenera età, con la stessa convivente, potesse essere concessa, nelle medesime condizioni, anche al padre detenuto, qualora la madre fosse deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole[20].
Nell’interesse del minore, poi, nel 2003 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47 ter, comma 1, lett. a), ord. penit., nella parte in cui non prevedeva la concessione della detenzione domiciliare pure nei confronti della madre condannata e, nei casi previsti dall’art. 47 ter, comma 1, lett. b), ord. penit., del padre condannato, conviventi con un figlio portatore di handicap totalmente invalidante. Così decidendo, la Consulta ha posto fine alla differenza di trattamento tra la situazione del genitore di un figlio incapace perché minore degli anni dieci, ma con un certo margine di autonomia almeno dal punto di vista fisico, e la condizione del genitore di un figlio disabile e incapace di provvedere alle sue elementari esigenze, il quale, indipendentemente dal limite di età, richiede una assistenza maggiore e continua[21].
Negli anni seguenti, è interessante osservare che i percorsi argomentativi della Consulta si arricchiscono di richiami espressi all’indeterminata clausola «interesse del minore»[22].
Nel 2009, ad esempio, chiamata ad occuparsi della differenza di trattamento, prevista in materia di allontanamento dal domicilio senza giustificato motivo, tra le madri ammesse alla detenzione domiciliare e le madri ammesse alla detenzione domiciliare speciale, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47 ter, comma 1, lett. a), e comma 8, ord. penit., nella parte in cui non limitava la punibilità per il delitto di evasione al solo allontanamento che si protraesse per più di dodici ore, così come stabilito per la madre ammessa alla detenzione domiciliare speciale, purché non vi fosse il concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti[23]. In altri termini, facendo leva sulla identità di ratio che caratterizza la detenzione domiciliare e la detenzione domiciliare speciale, la Consulta ha equiparato le conseguenze derivanti dal ritardo nel rientro da parte della detenuta madre. Inoltre, focalizzandosi sulla possibilità prevista dal legislatore del 2001 di concedere la detenzione domiciliare anche alle madri condannate per delitti che destano particolare allarme sociale, la Consulta ha espressamente richiamato l’«interesse dei bambini, che non devono essere eccessivamente penalizzati dalla differenza di situazione delle rispettive madri in riferimento alla gravità dei reati commessi ed alla quantità di pena già espiata»[24]. Alcuni passaggi dell’iter argomentativo sono stati ripercorsi dalla Corte costituzionale nel 2018, quando è stata chiamata ad occuparsi della disciplina dell’allontanamento dal domicilio, senza giustificato motivo, del detenuto-padre[25].
Inoltre, la considerazione dell’interesse del minore ha consentito di “indebolire” alcuni automatismi legislativi che, sorretti da esigenze securitarie, subordinavano la concessione di benefici penitenziari alla collaborazione con la giustizia o alla previa espiazione di una determinata frazione di pena.
In particolare, nel 2014 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, ord. penit., nella parte in cui non escludeva dal divieto di concessione dei benefici penitenziari la detenzione domiciliare speciale, prevista dall’art. 47 quinquies ord. penit., nonché – in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 – nella parte in cui non escludeva dal divieto di concessione dei benefici penitenziari la detenzione domiciliare ordinaria prevista dall’art. 47 ter, comma 1, lett. a) e b), ord. penit., ferma restando la condizione della insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti[26]. Secondo la Consulta, infatti, subordinare l’accesso alle misure alternative alla detenzione alla collaborazione con la giustizia – «indice legale del “ravvedimento” del condannato» – può risultare giustificabile in relazione a misure che perseguono in via esclusiva lo scopo di reinserire il reo nella società. Di contro, non lo è quando entra in gioco un interesse «esterno»: appunto, l’interesse del minore. Non può, infatti, traslarsi il «costo» della strategia di lotta al crimine organizzato sul minorenne, soggetto terzo.
Ancòra, nel 2017, la Consulta ha ritenuto non conforme al dettato costituzionale l’art. 47 quinquies, comma 1 bis, ord. penit., nella parte in cui impediva alle detenute madri condannate per uno dei delitti indicati nell’art. 4 bis ord. penit. di accedere alle modalità agevolate di espiazione della prima porzione di pena. Anche in tale occasione, quindi, la Corte costituzionale ha censurato un automatismo legislativo basato su indici presuntivi, il quale sacrificava totalmente l’interesse del minore[27].
Su tale scia si pone anche una pronuncia del 2018 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 21 bis ord. penit., nella parte in cui, attraverso il rinvio al precedente art. 21 della medesima legge, con riferimento alle detenute condannate alla pena della reclusione per uno dei delitti di cui all’art. 4 bis, commi 1, 1 ter e 1 quater, ord. penit., non consentiva l’accesso all’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore ai dieci anni oppure lo subordinava alla previa espiazione di una porzione di pena, salvo che fosse stata accertata la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 58 ter ord. penit.[28]
In aggiunta, può ricordarsi la pronuncia per mezzo della quale, nel 2020, la Corte costituzionale ha dichiarato la non conformità al dettato costituzionale dell’art. 47 quinquies, comma 1, ord. penit., nella parte in cui non prevedeva la concessione della detenzione domiciliare speciale pure alle condannate madri di figli affetti da handicap grave, ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, accertato secondo quanto previsto dalla medesima legge[29].
Da ultimo, occorre richiamare una interessante pronuncia del 2022, per mezzo della quale la Consulta ha consentito al magistrato di sorveglianza di disporre l’applicazione della detenzione domiciliare speciale in via provvisoria ove dalla protrazione dello stato di detenzione del genitore derivi al minore un grave pregiudizio[30]. E ciò dopo avere affermato che la mancata previsione di una delibazione urgente nell’interesse del minore, ai fini dell’anticipazione cautelare della detenzione domiciliare speciale, impedisce bilanciare l’interesse del minore con le esigenze di difesa sociale e rischia di determinare l’ingresso dei bambini in istituti per minori nella attesa non breve di una decisione collegiale[31].
In tutte tali decisioni è interessante osservare che la Corte costituzionale evidenzia la speciale rilevanza dell’interesse del figlio minore. Tuttavia, la Consulta tiene a ricordare che detto interesse, certo di rango elevato, non forma oggetto di una tutela assoluta, dovendo, invece, essere bilanciato, volta per volta, con esigenze contrapposte, pure esse di rilievo costituzionale, quali le esigenze di difesa della società, sottese alla necessaria esecuzione della pena[32].
L’influenza di tale orientamento, peraltro, emerge ormai con evidenza anche in alcune sentenze della Corte di cassazione. Qualche settimana fa, ad esempio, è stata depositata una pronuncia della Suprema Corte, la quale, dopo avere effettuato il bilanciamento tra l’interesse del minore e le esigenze di sicurezza connesse al regime differenziato previsto dall’art. 41 bis ord. penit., ha consentito ad un condannato sottoposto al regime richiamato di consegnare determinati oggetti (dolci, giocattoli) ai figli e ai nipoti minori di 12 anni, con i quali svolgeva un colloquio senza vetro divisorio[33]. Nella specie, infatti, le ragioni di sicurezza sono state ritenute soddisfatte poiché: il detenuto aveva comprato al sopravvitto generi, dolci, giocattoli, scelti secondo le ordinarie regole; si trattava di beni di dimensioni medio-piccole e di modico valore; gli stessi erano poi stati conservati al magazzino senza che l’interessato vi entrasse in contatto; nessuna manipolazione era intervenuta e nessun biglietto o altro oggetto pericoloso per l’ordine era stato in essi occultato[34].
5. Rilievi critici
Alla luce del quadro tratteggiato non possono certo negarsi i significativi passi in avanti compiuti dal nostro ordinamento giuridico nel percorso volto alla valorizzazione dell’interesse del minore figlio di un genitore detenuto. E ciò in linea con le indicazioni date dall’Unione europea e dalla comunità internazionale.
Tuttavia, su alcuni profili occorrerebbe tornare a riflettere. Tra questi, in tale sede, vorrei sinteticamente soffermarmi su alcune criticità emerse nella prassi poco dopo l’approvazione dell’ultima legge intervenuta in materia: la legge 21 aprile 2011, n. 62.
Come è stato inizialmente segnalato, la legge del 2011 ha esteso il novero dei luoghi dove le madri di minori possono espiare misure cautelari o pene, inserendo il riferimento in apposite disposizioni agli istituti a custodia attenuata per detenute madri e alle case famiglia protette per detenute madri (supra, parag. 3).
Richiamando i dati pubblicati sul sito del Ministero della Giustizia, è stato evidenziato come gli istituti a custodia attenuata per detenute madri, ad oggi, siano stati istituiti a Torino, a Milano, a Venezia, a Lauro e a Cagliari (supra, parag. 1). Invece, nonostante siano trascorsi più di dieci anni dalla entrata in vigore della legge del 2011, stentano ancora ad affermarsi le case famiglia protette per detenute madri.
Al riguardo, non va sottaciuto che la loro realizzazione, sin dal 2011, si è scontrata principalmente con un ostacolo di natura economica: mentre, infatti, la legge del 2011 ha posto la realizzazione degli istituti a custodia attenuata per detenute madri a carico dello Stato (art. 5, legge cit.), in relazione alle case famiglia protette la stessa legge ha disposto che «il Ministro della giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, può stipulare con gli enti locali convenzioni volte ad individuare le strutture idonee ad essere utilizzate come case famiglia protette» (art. 4, legge cit.). Dunque, lo Stato non ha destinato alcuna somma alla realizzazione delle case famiglia protette per detenute madri. Da qui, il loro numero esiguo sul territorio nazionale: ad oggi, infatti, ne risultano soltanto due, una a Roma e l’altra a Milano[35].
Per superare questa situazione di stallo, tentando di dare concreta attuazione alle previsioni contenute nella legge del 2011, l’11 dicembre del 2019 è stata presentata una interessante proposta di legge, la numero 2298, nota quale proposta Siani, dal nome del primo firmatario della stessa, recante «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e alla legge 21 aprile 2011, n. 62, in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori»[36].
Tale proposta di legge prende atto della connotazione tipicamente detentiva degli istituti a custodia attenuata per detenute madri, optando per il ricorso agli stessi solo nei casi più gravi. Ma soprattutto essa mira a promuovere l’esperienza delle case famiglia tramite l’eliminazione dei vincoli economici posti dalla legge del 2011. In particolare, la proposta di legge prevede «un obbligo (e non più una facoltà) per l’amministrazione di stipulare convenzioni con gli enti locali per l’individuazione di luoghi da destinare a case famiglia protette». Ed aggiunge che «agli oneri derivanti dalla realizzazione delle case famiglie protette si fa fronte con i fondi della casse delle ammende che, tra gli scopi istituzionali individuati dalla legge istitutiva, ha quello di finanziare progetti di edilizia penitenziaria finalizzati al miglioramento delle condizioni carcerarie».
Occorre anche ricordare che su tale proposta si era espressa in senso favorevole pure l’Unione delle Camere Penali Italiane, audita dinanzi alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati il 10 marzo 2021[37]. Ma ad oggi essa risulta ancora all’esame del Parlamento[38].
Poche settimane fa poi è stata depositata la Relazione finale della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, istituita con d.m. 13 settembre 2021 dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia e presieduta dal Professore Marco Ruotolo, la quale, pur occupandosi del tema delle detenute madri, non dedica allo stesso lo spazio che avrebbe meritato[39].
Ed allora, forse sarebbe il caso di tornare ad adoperarsi per far sì che l’interesse del minore sia ulteriormente salvaguardato.
* È il testo, riveduto e corredato di note, della Relazione tenuta il 19 febbraio 2022 in occasione dell’incontro sul tema «La “questione” carcere: dal sovraffollamento all’ergastolo ostativo», tenutosi nell’ambito del secondo ciclo di seminari su «La tutela dei diritti umani alla luce del diritto europeo», organizzato dalla Camera Penale G. Bellavista di Palermo.
[1] L’intera audizione della Ministra della Giustizia Marta Cartabia è reperibile in www.gnewsonline.it, 17 febbraio 2022.
[2] La Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti può essere integralmente consultata in www.giustizia.it, 16 dicembre 2021.
[3] I dati richiamati nel testo sono reperibili in www.giustizia.it.
[4] Il riferimento è al XVII Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, nella parte dedicata a Donne e bambini: esso si riferisce alla situazione al 31 gennaio 2021 e può essere integralmente consultato in www.rapportoantigone.it. Il Rapporto relativo all’anno successivo non è stato ancora pubblicato.
[5] In argomento, per esigenze di economia espositiva, mi permetto di rinviare (anche per gli ulteriori riferimenti bibliografici) a: D.M. Schirò, Detenute madri, in Digesto pen., Agg., vol. IX, Utet, Torino, 2016, p. 242; Id., L’interesse del minorenne ad un rapporto quanto più possibile “normale” con il genitore: alcune considerazioni a margine della sentenza della Corte costituzionale n. 174 del 2018, in Dir. pen. cont., fasc. 11/2018, p. 105; Id., Profili critici del trattamento penitenziario, in Arch. pen., 2019, n. 2, 1.
[6] Deve segnalarsi che, a seguito delle modifiche dovute all’art. 1, comma 1, della legge 8 marzo 2001, n. 40, l’art. 146, comma 1, n. 1 e n. 2, c.p., rubricato «Rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena», dispone che l’esecuzione di una pena, non pecuniaria, venga differita se deve aver luogo nei confronti di donna incinta, oppure se deve aver luogo nei confronti di madre di infante di età inferiore ad anni uno.
[7] Secondo quanto disposto dall’art. 147, comma 1, n. 3, c.p., nella formulazione dovuta all’art. 1, comma 2, della legge 8 marzo 2001, n. 40, l’esecuzione di una pena restrittiva della libertà personale può essere differita qualora debba essere eseguita nei confronti di una madre di prole di età inferiore ad anni tre.
[8] Le disposizioni richiamate nel testo, nella formulazione dovuta agli artt. 1 e 11 d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 123, recante «Riforma dell’ordinamento penitenziario, in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 85, lettere a), d), i), l), m), o), r), t), e u), della legge 23 giugno 2017, n. 103», rappresentano oggi la sede della disciplina prima racchiusa nell’art. 11, commi 8 e 9, ord. penit.
[9] Tali condizioni oggettive sono state più volte modificate anche al fine di garantire una maggiore protezione del figlio minorenne. Secondo la formulazione originaria, infatti, la misura era fruibile dalla «donna incinta o che allatta la propria prole ovvero madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente»; in seguito, per effetto delle modifiche dovute all’art. 3, comma 1, d.lg. 14 giugno 1993, n. 187, convertito dalla legge 12 agosto 1993, n. 296, è stata ammessa alla misura anche la madre di prole di età inferiore a cinque anni con lei convivente; e, da ultimo, la legge 27 maggio 1998, n. 165, ha disposto che possano beneficiare della misura la «donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci, con lei convivente».
[10] Il limite edittale richiamato nel testo è stato più volte sottoposto a modifiche: in particolare, è stato ampliato da due anni di reclusione – così nella formulazione originaria della disposizione – a tre anni di reclusione per effetto della legge 12 agosto 1993, n. 296, e, in seguito, da tre anni a quattro anni di reclusione dalla legge 27 maggio 1998, n. 165.
[11] Per le donne incinte e per le madri di prole di età inferiore ad anni dieci la possibilità di espiare il quantum di pena indicato nel testo presso le case famiglia protette è stata riconosciuta dall’art. 3, comma 1, della legge 21 aprile 2011, n. 62.
[12] Il termine «potestà», contenuto nella originaria formulazione dell’art. 47 ter, comma 1, lett. b), ord. penit., è stato sostituito dall’espressione «responsabilità genitoriale», per effetto dell’art. 105, comma 1, d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154.
[13] Per alcune considerazioni relative alla legge richiamata nel testo, si vedano P. Canevelli, Misure alternative al carcere a tutela delle detenute madri. Il commento, in Dir. pen. e processo, 2001, p. 807, e L. Cesaris, Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori (l. 8.3.2001 n. 40), in Legisl. pen., 2002, p. 547.
[14] Si vedano supra le note 7 e 8.
[15] Con l’espressione «ad altri», difatti, possono anche intendersi soggetti terzi rispetto a coloro i quali fanno parte del contesto affettivo di regola composto da parenti ed affini. Va, peraltro, segnalato che la disciplina di cui all’art. 47 quinquies, comma 7,ord. penit. è stata sottoposta al vaglio della Corte costituzionale, ma la questione, con ordinanza 8 luglio 2009, n. 211, è stata ritenuta manifestamente inammissibile. Il testo dell’ordinanza richiamata è consultabile in Giur. cost., 2009, p. 2442, con nota di C. Fiorio, Detenzione domiciliare speciale e padre detenuto: una pronuncia di manifesta inammissibilità che lascia irrisolte le questioni di fondo, ivi, p. 2447.
[16] In generale, sulla legge 21 aprile 2011, n. 62, cfr.: G. Dosi, Migliorano le condizioni delle mamme detenute ma la partita si gioca sulle strutture alternative, in Guida al dir., 2011, n. 17, p. 9; F. Fiorentin, La misura dell’affidamento presso le case famiglia pienamente operativa solo dopo il 31 dicembre 2013, in Guida al dir., 2011, n. 23, p. 46; Id., Tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, in Giurisprudenza di merito, 2011, p. 2616; S. Marcolini, Legge 21 aprile 2011, n. 62 (Disposizioni in tema di detenute madri), in Dir. pen. cont., 5 maggio 2011; P. Pittaro, La nuova normativa sulle detenute madri. Il commento, in Dir. pen. e processo, 2011, p. 870; L. Scomparin, Una “piccola” riforma del sistema penitenziario nel segno della tutela dei diritti dell’infanzia, in Legisl. pen., 2011, p. 597.
[17] Si tratta di profilo già segnalato supra nella nota 13.
[18] L’inciso «ovvero nel caso in cui il figlio sia affetto da handicap in situazione di gravità, ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, accertata ai sensi dell’art. 4 della medesima legge», nonché l’espressione «o il figlio affetto da handicap grave», sono stati aggiunti dall’art. 14, comma 1, lett. a) e b), della legge 16 aprile 2015, n. 47.
[19] Anche in tale ipotesi il richiamo al figlio affetto da handicap grave è stato inserito dall’art. 14, comma 1, lett. c), della legge 16 aprile 2015, n. 47.
[20] Corte cost., 13 aprile 1990, n. 215, in Giur. cost., 1990, p. 1206.
[21] Corte cost., 5 dicembre 2003, n. 350, in Giur. cost., 2003, p. 3634, con nota di L. Filippi, La Corte costituzionale valorizza il ruolo paterno nella detenzione domiciliare, ivi, p. 3643, e di G. Repetto, La detenzione domiciliare può essere concessa anche alla madre di figlio disabile, ovvero l’irriducibile concretezza del giudizio incidentale, ivi, 2004, p. 754.
[22] Sulla indeterminatezza della clausola «interesse del minore», cfr.: L. Ferla, Status filiationis ed interesse del minore: tra antichi automatismi sanzionatori e nuove prospettive di tutela, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, p. 1590; A. Tesauro, Corte costituzionale, automatismi legislativi e bilanciamento in concreto: “giocando con le regole” a proposito di una recente sentenza in tema di perdita della potestà genitoriale e delitto di alterazione di stato, in Giur. cost., 2012, p. 4945; M. Bertolino, I diritti dei minori fra delicati bilanciamenti penali e garanzie costituzionali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 28 ss.
[23] Corte cost., 12 giugno 2009, n. 177, in Giur. cost., 2009, p. 1977, con nota di C. Fiorio, Detenzione domiciliare e allontanamento non autorizzato: una decisione nell’interesse del minore, ivi, p. 1986.
[24] Corte cost., 12 giugno 2009, n. 177, cit.
[25] Corte cost., 24 ottobre 2018, n. 211, in: Giur. cost., 2018, p. 2516, con osservazioni di E. Olivito, Incidentalità e reiezione dell’eccezione di costituzionalità in un giudizio di eguaglianza sulla detenzione domiciliare, ivi, p. 2522; Dir. pen. cont., 11 dicembre 2018, con osservazioni di D. Sibilio, Detenzione domiciliare ‘ordinaria’ del padre di prole di età inferiore a 10 anni ed evasione: la Corte costituzionale limita la rilevanza penale del fatto all’allontanamento superiore a 12 ore, come nell’ipotesi della detenzione domiciliare ‘speciale’, ivi; Cass. pen., 2019, p. 984, con osservazioni di E. Aprile, ivi, p. 988; Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 630, con nota di G. Mantovani, Dopo le madri è la volta dei padri: la sentenza n. 211 “completa” il cammino avviato nel 2009 in tema di allontanamento del genitore ammesso alla detenzione domiciliare ordinaria per accudire i figli, ivi; Famiglia e diritto, 2019, p. 129, con nota di P. Pittaro, La Consulta estende al padre in detenzione domiciliare ordinaria quanto già sancito riguardo alla madre, ivi, 132; Diritto pen. e proc., 2019, p. 478, con nota di D.M. Schirò, L’allontanamento del detenuto-padre dal domicilio al vaglio della Corte costituzionale, ivi.
[26] Corte cost., 24 settembre 2014, n. 239, in: Cass. pen., 2014, p. 131, con osservazioni di E. Aprile, ivi, p. 141, e con nota di D.M. Schirò, La “carcerazione degli infanti” nella lettura della Corte costituzionale, ivi, 2015, p. 1067; Arch. pen., 2014, n. 3, p. 1, con nota di A.M. Capitta, Detenzione domiciliare per le madri e tutela del minore: la Corte costituzionale rimuove le preclusioni stabilite dall’art. 4-bis, co. 1, ord. penit. ma impone la regola di giudizio, ivi; Dir. pen. cont., 27 ottobre 2014, con osservazioni di F. Fiorentin, La Consulta dichiara incostituzionale l’art. 4 bis ord. penit. laddove non esclude dal divieto di concessione dei benefici la detenzione domiciliare speciale e ordinaria in favore delle detenute madri, ivi; Giur. cost., 2014, p. 3922, con nota di F. Siracusano, Detenzione domiciliare e tutela della maternità e dell’infanzia: primi passi verso l’erosione di automatismi preclusivi penitenziari, ivi, p. 3940, e di L. Pace, La “scure della flessibilità” colpisce un’altra ipotesi di automatismo legislativo. La Corte dichiara incostituzionale il divieto di concessione della detenzione domiciliare in favore delle detenute madri di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, ivi, p. 3948
[27] Corte cost., 8 marzo 2017, n. 76, in Giur. cost., 2017, p. 725, con osservazione di P. Sechi, Nuovo intervento della Corte costituzionale in materia di automatismi legislativi e detenzione domiciliare speciale, ivi, p. 733. Per ulteriori commenti alla sentenza da ultimo richiamata, si vedano: G. Leo, Un nuovo passo della Consulta per la tutela dei minori con genitori condannati a pene detentive, e contro gli automatismi preclusivi nell’ordinamento penitenziario, in Dir. pen. cont., fasc. 5/2017, p. 321; A. Menghini, Cade anche la preclusione di cui al comma 1 bis dell’art. 47 quinquies ord. penit., in Diritto pen. e proc., 2017, p. 1047; L. Pace, Preminente interesse del minore e automatismi legislativi alla luce della sentenza costituzionale n. 76 del 2017, in Studium Iuris, 2017, p. 1453.
[28] Corte cost., 4 luglio 2018, n. 174, in: Cass. pen., 2018, p. 3685, con osservazioni di E. Aprile, ivi, p. 3691; Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 1798, con nota di L. Cesaris, Un’ulteriore erosione degli automatismi preclusivi penitenziari per una più efficace tutela della genitorialità dei condannati detenuti, ivi; Dir. pen. cont., 2018, fasc. 11, p. 105, con nota di D.M. Schirò, L’interesse del minorenne ad un rapporto quanto più possibile “normale” con il genitore, cit.; Giur. cost., 2018, p. 1856, con nota di F. Siracusano, Tutela della continuità genitoriale e preclusioni penitenziarie: la Corte ne certifica l’assoluta incompatibilità, ivi, p. 1864; Diritto pen. e proc., 2019, p. 48, con nota di A. Menghini, L’esigenza di bilanciare in concreto l’interesse del minore con quello alla difesa sociale fa venire meno un’altra preclusione, ivi; Studium Iuris, 2019, p. 433, con nota di L. Pace, Assistenza ai figli minori e accesso ai benefici penitenziari. La sent. cost. n. 174 del 2018 rimuove un’altra preclusione, ivi.
[29] Corte cost., 15 gennaio 2020, n. 18, in Sistema penale, 17 febbraio 2020, con osservazioni di G. Leo, La madre di persona affetta da disabilità può accedere alla detenzione domiciliare speciale qualunque sia l’età del figlio svantaggiato, ivi. Sulla sentenza si veda anche A. Lorenzetti, La Corte costituzionale e il percorso di progressiva tutela alla madre detenuta nel suo rapporto con la prole. Note a margine della sentenza n. 18 del 2020, in www.associazionedeicostituzionalisti.osservatorio.it, fasc. 3/2020, 632.
[30] Corte cost., 11 gennaio 2022, n. 30, in www.cortecostituzionale.it.
[31] Corte cost., 11 gennaio 2022, n. 30, cit.
[32] In argomento, sia consentito, nuovamente, il rinvio a D.M. Schirò, L’interesse del minorenne ad un rapporto quanto più possibile “normale” con il genitore, cit., p. 105.
[33] Cass. pen., sez. I, 4 novembre 2021, n. 46432, inedita.
[34] Cass. pen., sez. I, 4 novembre 2021, n. 46432, cit.
[35] La Casa di Leda di Roma è una casa famiglia protetta per donne detenute con figli minori. Essa si trova in un villino all’EUR, confiscato a un boss mafioso; dispone di un giardino, di un salone, di una stanza con i giochi per i bambini e di ulteriori stanze. Si tratta di un luogo diverso dal carcere, privo di cancelli e di celle. I bambini possono giocare, leggere e frequentare la scuola. Sul punto, E. Cimmino, Bambini in carcere; bambini e carcere: un ossimoro tremendamente disumano, quanto attuale, in Diritto di Difesa, 23 luglio 2021.
[36] La proposta di legge richiamata nel testo è integralmente consultabile in www.camera.it.
[37] Sul punto si vedano le Osservazioni sulla proposta di legge C 2298 Siani recante modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e alla legge 21 aprile 2011, n. 62 in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori. Audizione Commissione Giustizia Camera dei Deputati del 10.3.2021, pubblicate il 12 marzo del 2021 nella sezione Documenti del sito dell’Unione delle Camere Penali Italiane (www.camerepenali.it).
[38] Dal sito della Camera dei Deputati (www.camera.it) si ricava, peraltro, che il provvedimento normativo è stato esaminato, da ultimo, il 15 luglio 2021.
[39] La Relazione richiamata nel testo è integralmente consultabile in Sistema penale, 11 gennaio 2022. In argomento, L. Pagano-C. Pecorella, Osservazioni a margine della Relazione finale della Commissione Ruotolo, ivi, 15 febbraio 2022.