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L’art. 716 c.p.p. non è applicabile alla procedura cautelare per la consegna di una persona ricercata dalla Corte penale internazionale. Un appunto in controtendenza sul caso Almasri.

App. Roma, 21 gennaio 2025, Monteleone, Presidente, Monteleone – Neri – Morgigni, Estensori, P.g. (concl. conf.)

1. L’ordinanza con la quale la Corte d’Appello di Roma ha scarcerato Najeem Osema Almasri Habish, colpito da un mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale, è stata bersaglio di critiche molto aspre (Caianiello – Meloni, Caso Almasri: una discutibile interpretazione della legge di cooperazione dell’Italia con la CPI ha portato alla scarcerazione del primo ricercato arrestato sul suolo europeo nell’ambito delle indagini in Libia, in www.sistemapenale.it, 24 gennaio 2025; Vanacore, La scarcerazione del generale libico Elmasry. Nota critica alla interpretazione resa dalla Corte di Appello di Roma sull’art. 11 della legge di cooperazione tra l’Italia e la Corte Penale Internazionale, ivi, 27 gennaio 2025; Bolici – Di Martino, La pagliuzza e la trave: il caso «Almasri», in www.questionegiustizia.it, 25 gennaio 2025; Nappi, Fare chiarezza sul caso Almasri, ivi, 3 febbraio 2025; Parsi, Un volo di stato chiude il caso Al Masri?, in www.giustiziainsieme.it, 25 gennaio 2025). 

Rimanendo sul versante giuridico, tra queste compare la censura sulla applicabilità dell’art. 716 c.p.p. che, in materia di estradizione, disciplina l’arresto del ricercato da parte della polizia giudiziaria, la successiva convalida e l’applicazione di misure cautelari in attesa della decisione sulla consegna. Si tratta di un rodato meccanismo del congegno estradizionale, replicato anche nel mandato d’arresto europeo, che assicura un intervento celere per la cattura dei latitanti, poichè consente di intervenire tempestivamente con l’applicazione di un vincolo alla libertà personale del ricercato (sull’istituto nell’estradizione, Marchetti, voce Estradizione, in Enc. dir., Annali, vol. III, Giuffrè, 2010, p. 316; sull’istituto nel mandato d’arresto europeo, Colaiacovo, Il sistema delle misure cautelari nel mandato d’arresto europeo, II ed., Cedam, 2019, p. 116).

La Corte d’appello, tuttavia, nell’apparato normativo con il quale l’Italia ha dato seguito alla sua adesione al sistema di giustizia delineato dallo Statuto di Roma (l. 20 dicembre 2012, n. 237 contenente le «norme per l’adeguamento alle disposizioni dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale) non ha individuato una previsione simile, che consentisse di ratificare l’operato della polizia, e ha escluso che la lacuna potesse essere colmata con l’innesto della previsione codicistica. Per tali ragioni e in mancanza di una formale richiesta di applicazione di una misura cautelare, ha dichiarato il non luogo a provvedere sull’arresto, rimettendo in libertà il ricercato.

Al di là della perplessità sulla formula utilizzata (se l’arresto è eseguito fuori dei casi previsti dalla legge, l’iter dovrebbe concludersi con un provvedimento che espressamente dichiara di non convalidare la cattura), il ragionamento seguito dalla Corte romana è lineare e aderente al dato legislativo: la l. 20 dicembre 2012, n. 237 detta autonome previsioni sulla applicazione di misure cautelari che impediscono di far uso delle disposizioni codicistiche in materia di estradizione. Più precisamente, le previsioni del codice di rito, in virtù del richiamo a tale compendio contenuto nell’art. 3, sono applicabili soltanto se non diversamente disposto dalla legge e poiché la legge, agli artt. 11 e ss., regola la materia cautelare è preclusa qualsiasi integrazione.

Quella appena descritta è un’impostazione rigorosa, che la Corte d’appello ha giustificato evocando l’art. 13, comma 3, Cost., che, prescrive la tassatività dei casi che giustificano l’adozione, da parte delle autorità di pubblica sicurezza, di provvedimenti provvisori sulla libertà personale e non ammette manovre interpretative che abbiano come effetto quello di ampliare le iniziative precautelari.

2. Come accennato, la soluzione su questo punto è stata bersaglio delle critiche, pressoché unanimi, della dottrina, che, al contrario, sostiene che la previsione de qua possa essere utilizzata anche nelle relazioni di cooperazione con la Corte penale internazionale. Secondo alcuni Autori, una lettura sistematica addirittura imporrebbe l’applicazione dell’art. 716 c.p.p. al fine di colmare la lacuna della legge italiana ed assicurare speditezza ed efficacia nell’adempimento dell’obbligo assunto dall’Italia con l’adesione allo Statuto di Roma (in questo senso, in particolare, Caianiello – Meloni, Caso Almasri, cit., e Vanacore, La scarcerazione del generale libico, cit.).

C’è tuttavia da osservare che, in questo contrasto, un elemento – la conformazione dell’art. 716 c.p.p. – fa pendere l’ago della bilancia in favore della soluzione adottata dalla Corte d’appello di Roma. L’interpretazione restrittiva, infatti, trova un riscontro nella struttura della norma, dalla quale si evince che si tratta di una previsione tipica del diritto dell’estradizione che, pertanto, non può essere trasposta in altri settori dell’ordinamento, governati da logiche e principi affatto diversi: nell’estradizione, ad esempio, il Ministro della giustizia è titolare di poteri, anche in materia cautelare, che non gli sono accordati dalla l. 20 dicembre 2012, n. 237, che gli affida invece una diversa funzione di collegamento – se non di mero “passacarte” – tra la Corte penale internazionale e l’autorità giudiziaria italiana. 

In questa ottica, l’art. 716 c.p.p., letto nella sua interezza, lascia emergere piuttosto che, se fosse applicato nei rapporti con la Corte penale internazionale, determinerebbe un corto circuito. In effetti, se non pongono problemi i primi tre commi (che definiscono le modalità dell’arresto e della successiva convalida), è il comma finale – in cauda venenum – che rappresenta un ostacolo difficilmente superabile. L’art. 716 c.p.p., infatti, si conclude con l’attribuzione al Ministro della giustizia di un penetrante potere de libertate (la misura applicata a seguito della convalida è revocata se il Guardasigilli non ne chiede il mantenimento entro dieci giorni) e ciò determina un contrasto insanabile con i postulati teorici che escludono qualsiasi potere del Guardasigilli nella cooperazione con la Corte penale internazionale. 

Si tratta di un elemento che, proprio dal punto di vista sistematico, contribuisce a escludere la possibilità di seguire interpretazioni diverse da quella elaborata dalla Corte d’Appello di Roma, a meno che non si voglia sostenere che l’interprete possa selezionare a proprio piacimento le porzioni del testo normativo da applicare e, quindi, affermare che dell’art. 716 si applicano soltanto i primi tre commi. 

Resta da dire che, obiettivamente, rimane sul campo un difetto della legge di attuazione (peraltro già segnalato dalla dottrina: Chiavario – Perduca, Cooperazione giudiziaria internazionale in materia penale, Giappichelli, 2022, p. 281) che rischia di compromettere l’efficacia della cooperazione giudiziaria tra l’Italia e la Corte penale internazionale e, così, la repressione di crimini atroci. Ma la lacuna non può essere colmata in via interpretativa, allentando le maglie di una previsione costituzionale che proclama inviolabile la libertà personale e facendo uso di previsioni assolutamente estranee al contesto normativo e allo spirito che dovrebbe animare le relazioni di cooperazione con la Corte penale internazionale.

Dunque, la soluzione per evitare che in futuro si verifichino situazioni identiche è un intervento legislativo che introduca una previsione ad hoc, risolvendo ogni incertezza. 

Difficile metabolizzare una simile conclusione in una vicenda come quella trattata dalla Corte d’appello di Roma, ma è in queste situazioni che si misura la capacità di prestare ossequio ai principi costituzionali.

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