Abstract
Il contributo offre un primo commento alle modifiche al codice di procedura penale previste nel testo del “D.d.l. Nordio”, attualmente all’esame della Commissione Giustizia del Senato, che si articolano in quattro aree di intervento: rideterminazione del divieto di pubblicazione del contenuto delle intercettazioni; misure cautelari (con l’estensione del contraddittorio preventivo e l’introduzione della competenza collegiale per l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere durante le indagini preliminari); regime temporale e contenutistico dell’informazione di garanzia (con annesso intervento in tema di pubblicazione dell’atto ex art. 369 c.p.p.); inappellabilità da parte del pubblico ministero delle sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’art. 550, commi 1 e 2, c.p.p.
The essay offers a first comment on the amendments to the criminal procedure code provided for in the text of the “D.d.l. Nordio”, currently under examination by the Senate Justice Commission, which are divided into four areas of intervention: redetermination of the ban on the publication of the content of the wiretaps; precautionary measures (with the extension of the preventive hearing and the introduction of collective jurisdiction for the application of the measure of precautionary custody in prison during the preliminary investigations); temporal regime and content of guarantee information (with related intervention on the subject of publication of the deed pursuant to article 369 of the criminal procedure code); unappealability by the public prosecutor of acquittals for the crimes referred to in art. 550, paragraphs 1 and 2, c.p.p.
Sommario.
1.Introduzione – 2. La prima area di intervento: il regime di riservatezza del contenuto delle intercettazioni – 3.1. La seconda area di intervento: le misure cautelari – l’interrogatorio di garanzia anticipato (rispetto all’applicazione della misura) – 3.2. (segue in tema di misure cautelari) la composizione collegiale del giudice per le indagini preliminari che decide l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere – 4. Terza area di intervento: la “nuova” informazione di garanzia – 5. Quarta area di intervento: l’inappellabilità, per il Pubblico Ministero, delle sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’art. 550, commi 1 e 2.
1. Introduzione
È attualmente all’esame della Commissione Giustizia del Senato il D.d.l. (S. n. 808) presentato dal Guardasigilli Carlo Nordio e dal Ministro della Difesa Guido Crosetto, recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare”[1].
Il D.d.l. – ennesimo intervento di riforma settoriale nel “cantiere permanente”[2] della giustizia penale – si compone di otto articoli: il primo contiene modifiche al codice penale, fra le quali la più rilevante (anche in termini di diffusione mediatica) appare l’abrogazione dell’art. 323 c.p. e, dunque, l’abolitio criminis del delitto di abuso d’ufficio; l’art. 3 contiene “Modifiche all’ordinamento giudiziario”; l’art. 4 prevede un aumento del ruolo organico del personale della magistratura ordinaria (anche per soddisfare le esigenze determinate dalla modifica in tema di composizione collegiale del giudice chiamato a pronunciarsi, nella fase delle indagini preliminari, sulla richiesta di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere, sulla quale v. infra); l’art. 5 contiene una norma di interpretazione autentica dell’art. 9 della legge 10 aprile 1951, n. 287, mentre l’art. 6 reca modifiche al codice dell’ordinamento miliare; gli artt. 7 e 8, infine, contengono, rispettivamente, disposizioni finanziarie e sull’entrata in vigore di talune norme di nuovo conio.
Le modifiche alla disciplina processuale penale sono compendiate nell’art. 2, coerentemente rubricato “Modifiche al codice di procedura penale”.
Le aree di intervento, con riferimento al solo codice di rito, risultano sostanzialmente quattro: la prima attiene al regime di riservatezza del contenuto delle conversazioni oggetto di intercettazione; la seconda riguarda la materia delle misure cautelari personali e consiste in un duplice ordine di modifiche: da un lato, nell’introduzione (rectius: nell’estensione del perimetro applicativo, prima circoscritto alla misura interdittiva di cui all’art. 289 c.p.p.[3]) del contraddittorio ante cautela, ovvero dell’interrogatorio di garanzia “anticipato” (istituto che peraltro, anche nella nuova configurazione, soffre di limiti ed eccezioni che ne inibiscono la forza espansiva); dall’altro lato, sempre con riferimento al tema delle misure cautelari, nella prescrizione della composizione collegiale del giudice per le indagini preliminari chiamato a decidere sull’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere; la terza area d’intervento concerne il contenuto, il contesto temporale e il regime di riservatezza dell’informazione di garanzia; la quarta, infine, riguarda l’inappellabilità, da parte del Pubblico Ministero, delle sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’articolo 550, commi 1 e 2, c.p.p., ovvero per i reati (che potrebbero definirsi di medio-bassa gravità, ovvero nella categoria immediatamente superiore rispetto alla fascia dei reati di competenza del Giudice di pace), in ordine ai quali si procede con citazione diretta a giudizio dinanzi al Tribunale in composizione monocratica.
2. La prima area di intervento: il regime di riservatezza del contenuto delle intercettazioni.
Il tema del rapporto fra pubblicità e segretezza nel processo penale[4] si arricchisce di un nuovo tassello normativo.
Attualmente il comma 2-bis dell’art. 114 c.p.p. stabilisce che “È sempre vietata la pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni non acquisite ai sensi degli articoli 268, 415 bis o 454”.
Il D.d.l. si propone di sostituire tale riferimento alle intercettazioni non acquisite ai sensi delle richiamate disposizioni, prevedendo il divieto di pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni «se non è riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento».
La regola generale che ne scaturisce è il divieto generalizzato di pubblicazione del contenuto delle intercettazioni, indipendentemente dal regime di segretezza delle stesse (attualmente l’art. 269, comma 1, secondo periodo, stabilisce che “Non sono coperti da segreto solo i verbali e le registrazioni delle comunicazioni e conversazioni acquisite al fascicolo di cui all’articolo 373, comma 5, o comunque utilizzati nel corso delle indagini preliminari”).
L’eccezione a detta regola riguarda le ipotesi (solo eventuali) in cui il contenuto delle intercettazioni sia «riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento».
Si tratta, dunque, di due diverse eccezioni:
- la prima si verifica, come detto, laddove il giudice riproduca il contenuto dell’intercettazione nella motivazione di un provvedimento, sulla base (implicita ma logicamente necessaria) della rilevanza della suddetta intercettazione ai fini dell’iter motivazionale del provvedimento stesso: a mero titolo esemplificativo, potrebbe trattarsi, dunque, di un’intercettazione che viene riprodotta in un’ordinanza applicativa di una misura cautelare al fine di far emergere la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza o delle esigenze cautelari (tenendo conto del limite posto dall’art. 292, comma 2-quater, in forza del quale “Quando è necessario per l’esposizione delle esigenze cautelari e degli indizi, delle comunicazioni e conversazioni intercettate sono riprodotti soltanto i brani essenziali”[5]), oppure di un’intercettazione riprodotta nella motivazione della sentenza in quanto ritenuta rilevante ai fini dell’accertamento del fatto.
- La seconda eccezione risulta integrata laddove il contenuto di un’intercettazione sia «utilizzato nel corso del dibattimento»: si tratta di una previsione alquanto generica, in quanto l’utilizzo (non la mera utilizzabilità) nel corso del dibattimento potrebbe emergere anche in base al mero inserimento della relativa trascrizione nel fascicolo per il dibattimento, oppure in base alla circostanza che la stessa venga impiegata per formulare una domanda o ancora in sede di discussione. Sarebbe forse più opportuno un riferimento più chiaro e dai confini meno incerti, anche se appare evidente l’intenzione di restringere ulteriormente gli spazi di pubblicabilità del contenuto delle intercettazioni, estendendolo il divieto rispetto alla previsione attualmente in vigore (voluntas palesata nella stessa Relazione al D.d.l., ove si osserva che la limitazione già contemplata all’art. 114, comma 2-bis «viene ora resa più stringente»).
Contestualmente, nel tentativo di rendere effettivo il divieto testé esaminato, si inibisce (soltanto) la fonte informativa “istituzionale”, rappresentata dalla richiesta di copie da parte dei terzi interessati (e dunque anche da parte degli operatori dell’informazione, che tuttavia, come è noto, dispongono di ben altri canali per acquisire la copia delle intercettazioni di loro interesse): in concreto, viene modificato l’art 116 c.p.p., nel cui comma 1, dopo il primo periodo è aggiunto il seguente: «Non può comunque essere rilasciata copia delle intercettazioni di cui è vietata la pubblicazione ai sensi dell’articolo 114, comma 2-bis, quando la richiesta è presentata da un soggetto diverso dalle parti e dai loro difensori».
Con riferimento all’art. 268 c.p.p., invece, nella prospettiva di potenziare i presidi di garanzia della privacy dei soggetti estranei al procedimento, si interviene sul comma 2-bis, prevedendo che il pubblico ministero dia indicazioni e vigili affinché nei verbali non siano riportate non soltanto (come già previsto) espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge, salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini, ma anche dati personali «relativi a soggetti diversi dalle parti», sempre che non risultino rilevanti ai fini delle indagini: il riferimento alle “parti”, specie nel corso delle indagini (e dunque in una fase antecedente all’esercizio dell’azione), appare tecnicamente improprio e deve ragionevolmente intendersi come comprensivo di persona sottoposta alle indagini e persona offesa.
Analoga modifica viene inserita nel comma 6 dell’art. 268 c.p.p., ove si prevede che il giudice proceda anche d’ufficio allo stralcio non soltanto (come già previsto) delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l’utilizzazione e di quelli che riguardano categorie particolari di dati personali, sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza, ma anche delle registrazioni e dei verbali che riguardano «soggetti diversi dalle parti», sempre che – anche in questo caso – non ne sia dimostrata la rilevanza.
Una serie di interventi limitati, accomunati, per un verso, dalla finalità di scongiurare la propalazione del contenuto di intercettazioni non rilevanti ai fini del procedimento ma potenzialmente di grande interesse per gli organi d’informazione; e, per altro verso, dalla perdurante assenza di credibili presidi sanzionatori idonei a esplicare una seria funzione preventiva e repressiva delle violazioni: lacuna che non appare colmata dall’intervento novellistico in esame[6], ove difetta un intervento (davvero auspicabile) sul testo dell’art. 684 del codice penale[7].
3.1. La seconda area di intervento: le misure cautelari – l’interrogatorio di garanzia anticipato (rispetto all’applicazione della misura).
Come è noto, l’interrogatorio di garanzia, a dispetto del nomen assegnato all’istituto (in contrapposizione all’interrogatorio con finalità marcatamente investigative), nel corso dei decenni successivi alla sua introduzione[8] non ha dato buona prova sotto il profilo dell’effettiva utilità per il soggetto destinatario dell’applicazione di una misura cautelare.
Una delle più evidenti criticità evidenziate dalla dottrina consiste, infatti, nella posizione di debolezza (anche psicologica) che caratterizza l’intervento dell’indagato, già destinatario del provvedimento restrittivo, nonché nel limitato intervallo temporale concesso alla difesa per apprestare (eventualmente) un’utile strategia nella prospettiva di ribaltare o quantomeno modificare gli assunti posti alla base dell’ordinanza cautelare, sia sotto il profilo dei gravi indizi di colpevolezza, sia sotto il profilo delle esigenze cautelari, sia, infine, con riferimento alla scelta della misura[9].
Parte di questi aspetti problematici troverebbero rimedio nella previsione dell’interrogatorio ante cautela[10].
L’art. 2, comma 1, lett. d), n. 2 del D.d.l. dispone che all’art. 291 c.p.p. «dopo il comma 1-ter, sono inseriti i seguenti: “1-quater. Fermo il disposto dell’articolo 289, comma 2, secondo periodo, prima di disporre la misura, il giudice procede all’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini preliminari con le modalità indicate agli articoli 64 e 65, salvo che sussista taluna delle esigenze cautelari di cui all’articolo 274, comma 1, lettere a) e b), oppure l’esigenza cautelare di cui all’articolo 274, comma 1, lettera c), in relazione ad uno dei delitti indicati nell’articolo 407, comma 2, lettera a), o nell’articolo 362, comma 1-ter, ovvero a gravi delitti commessi con uso di armi o con altri mezzi di violenza personale»[11].
La disposizione, esordendo con la clausola di salvezza relativa a quanto disposto dall’art. 289, comma 2, secondo periodo, c.p.p., lascia intatta la (più ampia) portata applicativa dell’interrogatorio anticipato nell’ipotesi in cui venga richiesta dal Pubblico Ministero, nel corso delle indagini preliminari, l’applicazione della misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio. Con riferimento a quest’ultima, infatti, l’interrogatorio dovrà essere disposto in anticipo rispetto alla decisione del G.i.p. (salvo che la sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio sia disposta dal giudice in luogo di una misura coercitiva richiesta dal pubblico ministero[12]) anche laddove le esigenze cautelari sottese alla richiesta del P.M. siano quelle contemplate alle lettere a) e b) dell’art. 274, comma 1 (anche se in concreto appare difficilmente ipotizzabile l’applicazione di una misura interdittiva per prevenire un pericolo di fuga).
Proprio la sussistenza di tali esigenze, nel quadro normativo che dovrebbe scaturire dalla novella in esame, rappresenta il criterio che inibisce l’operatività dell’istituto con riferimento a tutte le altre misure cautelari personali. Più precisamente, l’interrogatorio anticipato non dovrebbe avere luogo qualora sussista taluna delle esigenze cautelari di cui all’articolo 274, comma 1, lettere a) e b) (ovvero le esigenze cautelari consistenti, rispettivamente, nel “pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova” e nella circostanza che “l’imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto e attuale pericolo che egli si dia alla fuga”), oppure l’esigenza cautelare di cui all’articolo 274, comma 1, lettera c) (definita con espressione di sintesi – anche se in parte tecnicamente impropria – come pericolo di reiterazione del reato), in relazione ad uno dei delitti indicati nell’articolo 407, comma 2, lettera a)[13], o nell’articolo 362, comma 1-ter[14], ovvero a gravi delitti commessi con uso di armi o con altri mezzi di violenza personale: «Restano pertanto suscettibili di interrogatorio anticipato le situazioni di reiterazione di reati della stessa specie con i relativi limiti di pena per la misura applicabile. Si tratta, a ben vedere, delle ipotesi per le quali si era celebrato il referendum che tuttavia non aveva raggiunto il quorum»[15].
La previsione di tali “eccezioni” all’applicabilità dell’interrogatorio anticipato (eccezioni che di fatto, data la loro “vastità”, invertono l’ordine regola-eccezione al punto da mantenere l’interrogatorio anticipato nella categoria degli istituti di potenziale scarsa frequenza applicativa) ridimensiona fortemente la portata innovativa della novella, atteso che, al netto delle menzionate circostanze ostative, la nuova previsione dovrebbe trovare applicazione soltanto laddove sussista esclusivamente l’esigenza cautelare di cui alla lett. c) dell’art. 274, comma 1 (giacché la ricorrenza di almeno una delle esigenze di cui alle lettere a) e b) sarebbe di per sé sufficiente a escludere l’applicabilità della norma in esame) e sempre che la menzionata esigenza di cui alla lett. c) non sia riferibile alle (molteplici) fattispecie richiamate (tramite un rinvio mobile agli artt. 407, comma 2, lett. a) e 362, comma 1-ter, c.p.p.).
In astratto, la ratio delle eccezioni de quibus appare condivisibile[16]: invero, ricorrendo un pericolo di inquinamento probatorio o un pericolo di fuga, l’avviso all’indagato della fissazione dell’interrogatorio di garanzia (propedeutico all’eventuale applicazione di una misura cautelare e non posticipato rispetto ad essa) sarebbe certamente percepito come un segnale di “allarme” che, anziché preservare le esigenze cautelari emergenti nel caso concreto, imprimerebbe un’accelerazione alla relativa compromissione. In altri termini, ove fosse effettivamente sussistente (dunque non solo ipotizzato) un concreto e attuale pericolo per l’acquisizione e la genuinità della prova, la consapevolezza della possibilità (recte:della probabilità) di un’imminente limitazione delle proprie libertà potrebbe spingere il soggetto interessato a concretizzare proprio il suddetto pericolo (id est: ad attivarsi, personalmente o per interposta persona, al fine di eliminare e/o modificare quegli elementi di prova eventualmente a suo carico). Analogamente, ove fosse realmente sussistente un pericolo di fuga, questa si concretizzerebbe ben prima dell’interrogatorio e (anche) in ragione dell’avviso dello stesso, che escluderebbe qualsiasi dubbio circa la sussistenza di indagini a proprio carico. Come si osserva nella Relazione al D.d.l., dunque, il contraddittorio anticipato è stato imposto in quelle situazioni in cui, «nel corso delle indagini preliminari, non risulti necessario che il provvedimento cautelare sia adottato “a sorpresa”. In tal modo, quindi, ove consentito dalle concrete circostanze, da un lato si evita l’effetto dirompente sulla vita delle persone di un intervento cautelare adottato senza possibilità di difesa preventiva, dall’altro si mette il giudice nelle condizioni di poter avere un’interlocuzione (e anche un contatto diretto) con l’indagato prima dell’adozione della misura»[17].
In concreto, però, come già segnalato, le eccezioni testé esaminate rischiano di vanificare il senso della novella: invero, nella prassi le disposizioni che disciplinano le due esigenze in parola è oggetto di un’interpretazione scarsamente selettiva e dunque idonea a far ritenere integrati i pericoli ivi contemplati con eccessiva frequenza. E proprio il rapporto di reciproca esclusione fra la sussistenza di tali esigenze e l’interrogatorio anticipato priverebbe quest’ultimo di un’ampia fascia di potenziali occasioni applicative[18].
Non è chiaro, inoltre, se l’interrogatorio debba essere disposto ogniqualvolta il Pubblico Ministero formuli una richiesta di applicazione di misure cautelari (fondate sulle esigenze di cui alla lett. c) dell’art. 274, con le eccezioni già descritte) o soltanto laddove il G.i.p., dopo un primo esame (e prima dell’interrogatorio), non escluda la possibilità di accogliere la suddetta richiesta[19].
Sotto il profilo delle modalità di svolgimento dell’interrogatorio in esame, poi, giova anzitutto premettere che lo stesso debba essere preceduto, a norma del nuovo comma 1-sexies dell’art. 291 c.p.p., dalla notificazione dell’invito a presentarsi alla persona sottoposta alle indagini e al suo difensore, «almeno cinque giorni prima di quello fissato per la comparizione, salvo che, per ragioni d’urgenza, il giudice ritenga di abbreviare il termine, purché sia lasciato il tempo necessario per comparire. Il giudice provvede comunque sulla richiesta del pubblico ministero quando la persona sottoposta alle indagini preliminari non compare senza addurre un legittimo impedimento, oppure quando la persona sottoposta alle indagini preliminari non è stata rintracciata e il giudice ritiene le ricerche esaurienti, anche con riferimento ai luoghi di cui all’articolo 159, comma 1».
Il termine dilatorio concesso, qualora vengano ravviste ragioni d’urgenza (ipotesi che si preannuncia alquanto frequente dato il “contesto cautelare”), risulta dunque indeterminato nel minimo, posto che il generico riferimento al «tempo necessario per comparire» appare dotato di scarsa capacità definitoria e rimesso – di fatto – al prudente apprezzamento del giudice. Se dunque appare auspicabile la previsione di un più preciso riferimento temporale minimo (quantomeno in grado di evitare inviti ad horas), ove così non fosse si dovrebbe opportunamente parametrare il termine concesso alla consistenza degli atti depositati nella cancelleria del giudice ai sensi dell’art. 291, comma 1: infatti, il nuovo comma 1-octies del medesimo articolo prevede che l’invito a comparire, funzionale all’interrogatorio anticipato, contenga «l’avviso di deposito nella cancelleria del giudice della richiesta di applicazione della misura cautelare e degli atti presentati ai sensi dell’articolo 291, comma 1, nonché della facoltà di prendere visione ed estrarre copia di tutti gli atti depositati, ivi compresi i verbali delle comunicazioni e conversazioni intercettate, con diritto alla trasposizione delle relative registrazioni su supporto idoneo alla riproduzione dei dati»[20].
Proprio al fine di consentire alla difesa un esame completo degli atti depositati, sarebbe anzi opportuna la previsione della facoltà di richiedere un differimento dell’interrogatorio, purché, ovviamente, tale dilazione non comporti un grave pregiudizio per le esigenze cautelari emergenti nel caso di specie[21].
Quanto eventualmente emerso nel corso dell’interrogatorio anticipato si riverbera, poi, nelle motivazioni dell’ordinanza applicativa della misura: si prevede, infatti, attraverso una modifica dell’art. 292, comma 2-ter, che l’ordinanza sia nulla non solo qualora (come già previsto fino ad ora) non contenga la valutazione degli elementi a carico e a favore dell’imputato, di cui all’articolo 358, nonché all’articolo 327-bis, ma anche laddove non contenga, nel caso di cui all’articolo 291, comma 1-quater (e cioè quando debba essere disposto l’interrogatorio anticipato), «una specifica valutazione degli elementi esposti dalla persona sottoposta alle indagini nel corso dell’interrogatorio».
Tale specifica comminatoria di nullità si aggiunge a quella che il D.d.l. si propone di introdurre al comma 3-bis dell’art. 292, secondo cui «L’ordinanza è nulla se non è preceduta dall’interrogatorio nei casi previsti dall’articolo 291, comma 1-quater, nonché quando l’interrogatorio è nullo per violazione delle disposizioni di cui ai commi 1-septies e 1-octies», ovvero per violazione delle disposizioni che disciplinano il contenuto dell’invito a comparire (con la conseguenza, forse non opportunamente valutata, che ogni violazione relativa al contenuto dell’invito dovrebbe integrare una causa di nullità dell’interrogatorio e conseguentemente della successiva ordinanza) e l’avviso di deposito nella cancelleria del giudice della richiesta di applicazione della misura cautelare e degli atti presentati ai sensi dell’articolo 291, comma 1, nonché della facoltà di prendere visione ed estrarre copia di tutti gli atti depositati, ivi compresi i verbali delle comunicazioni e conversazioni intercettate, con diritto alla trasposizione delle relative registrazioni su supporto idoneo alla riproduzione dei dati.
Infine, laddove venga disposto l’interrogatorio anticipato, non si provvede all’interrogatorio di garanzia “posticipato” (rispetto all’applicazione della misura), che dovrebbe svolgersi ai sensi dell’art. 294 c.p.p.[22]. Nella medesima ipotesi, qualora venga proposta la richiesta di riesame a norma dell’art. 309 c.p.p., l’autorità giudiziaria procedente dovrà trasmettere al Tribunale della libertà non solo (come già previsto) gli atti presentati a norma dell’articolo 291, comma 1, c.p.p. nonché tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini, ma altresì, «in ogni caso, le dichiarazioni rese dalla persona sottoposta alle indagini ai sensi dell’articolo 291, comma 1-quater».
Occorre segnalare come non siano previste eccezioni al contraddittorio preventivo nel caso in cui i presupposti per lo stesso emergano soltanto in relazione ad alcuni degli indagati, con il rischio di vanificare “l’effetto sorpresa” anche nei confronti di coloro per i quali sussistano, ad esempio, le esigenze di cui alle lett. a) e b) dell’art. 274 c.p.p. o di cui alla lett. c) in ordine ai reati per i quali è escluso l’interrogatorio ante cautela: come suggerito dai primi commentatori, per evitare tale indiscutibile criticità, che minerebbe alla radice l’effetto a sorpresa tipico del giudizio cautelare, il pubblico ministero, nell’ambito dello stesso procedimento, dovrebbe operare con richieste da trasmettere al giudice delle indagini preliminari in tempi sfasati, anticipando la valutazione, applicazione ed esecuzione di quelle a sorpresa, procedendo solo successivamente alla richiesta di misura cautelare nei confronti degli altri indagati che non rientrano nei casi di cui alle lettere a) e b) sopra citate per le quali il giudice dovrà procedere all’interrogatorio preventivo[23].
3.2. (segue in tema di misure cautelari) la composizione collegiale del giudice per le indagini preliminari che decide sull’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere.
La modifica all’art. 328 c.p.p., nel cui testo viene aggiunto un comma 1-quinquies, a norma del quale «Il giudice per le indagini preliminari decide in composizione collegiale l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere»[24], nonché l’analoga modifica in materia di misure di sicurezza detentive[25], appaiono ispirate all’esigenza di garantire che la custodia cautelare in carcere preservi la sua natura di extrema ratio nel ventaglio delle misure cautelari previste dal codice e dunque di implementare le garanzie che ne accompagnano l’applicazione[26].
Invero, la collegialità è (o almeno dovrebbe essere) un presidio di garanzia per la persona sottoposta alle indagini, in quanto assicura una maggiore ponderazione della decisione rispetto a quanto potrebbe garantire la natura monocratica del giudice, immune da sollecitazioni e osservazioni critiche rispetto ai suoi intendimenti (almeno fino all’applicazione della misura, a seguito della quale la proposizione del riesame o dell’appello garantisce un controllo per l’appunto collegiale con perimetri cognitivi differenti a seconda del mezzo d’impugnazione proposto).
Si viene in questo modo a costituire una (quasi[27]) inedita figura di collegio-G.i.p., che imporrà adattamenti per un ufficio che attualmente risulta organizzato su attività di giudici monocratici[28].
Al fine di garantire la piena esplicazione della portata garantistica della modifica sarebbe stato tuttavia più opportuno estendere la prescrizione della collegialità (quando venga richiesta l’applicazione della custodia in carcere) al giudice chiamato ad effettuare l’interrogatorio preventivo che, in base alla proposta di modifica già esaminata, dovrebbe precedere l’applicazione di tutte le misure cautelari personali: al contrario, il nuovo art. 291, comma 1-quinquies, c.p.p. prevede (nel testo “prospettato” dal D.d.l.), che «Nel caso di cui all’articolo 328, comma 1-quinquies» (e cioè nel caso in cui venga richiesta l’applicazione della misura cautelare più afflittiva) «all’interrogatorio procede il presidente del collegio o uno dei componenti da lui delegato»: il rischio è infatti di far degradare la garanzia della collegialità, rendendo gli altri due componenti del collegio che non hanno partecipato all’interrogatorio anticipato debitori (sotto il profilo cognitivo) del volume di informazioni, valutazioni e percezioni raccolte dal giudice che ha condotto l’interrogatorio.
E criticità analoghe valgono per l’interrogatorio di garanzia “tradizionale” (ovvero successivo all’applicazione della misura): invero, benché sia prevista (a prescindere dalla necessità di procedere all’interrogatorio anticipato a norma dell’art. 291, comma 1-quater) la garanzia della collegialità per l’applicazione della misura della custodia in carcere, tale garanzia non riguarda l’interrogatorio di garanzia, in quanto allo stesso dovrà provvedere (stando al “nuovo” testo dell’art. 294, comma 4-bis) il presidente del predetto collegio o un componente da questi delegato (al pari di quanto avviene nei casi in cui la misura cautelare sia stata disposta dalla corte di assise o dal tribunale).
Indubbiamente la previsione della “collegialità cautelare” rappresenta una soluzione apprezzabile nella prospettiva di innalzare lo standard delle garanzie per la persona indagata, benché, anche in ordine a tale proposta, non vanno trascurate le possibili criticità nella prassi giudiziaria: in particolare, l’estensione del numero dei magistrati dell’ufficio g.i.p. chiamati a pronunciarsi sull’applicazione della custodia in carcera comporterà, quale effetto inevitabile, l’incremento della platea dei giudici incompatibili per le successive fasi (udienza preliminare, giudizio, impugnazioni). Problema che sarà trascurabile solo per gli uffici giudiziari di maggiori dimensioni (sotto il profilo organico), ma di non poco momento per le sedi più piccole e sguarnite, nelle quali saranno necessarie misure organizzative idonee ad evitare il verificarsi dei rischi testé paventati, tenendo conto, peraltro, che l’eventuale proposizione del riesame avverso la misura custodiale da parte della difesa (evento statisticamente molto frequente), comporta la definitiva “eliminazione”, dalla “cerchia” dei magistrati che possono essere chiamati a svolgere funzioni di G.u.p. o di giudici nella fase del giudizio di almeno sei giudici (tre che, in base alla riforma, si pronunceranno sull’applicazione originaria, tre che compongono il tribunale della libertà, la cui sede ex art. 309 comma 7 c.p.p. potrebbe coincidere con quella del Giudice che ha emesso l’ordinanza impugnata).
Proprio tenendo conto di tali probabili risvolti problematici il D.d.l. si premura opportunamente di stabilire che le disposizioni che impongo la composizione collegiale nelle ipotesi testé esaminate si applicano decorsi due anni dall’entrata in vigore della legge, proprio al fine di consentire il reclutamento straordinario dei magistrati[29].
4. Terza area di intervento: la “nuova” informazione di garanzia.
La prima modifica in materia di informazione di garanzia riguarda il momento in cui tale atto deve essere notificato[30]: l’attuale formulazione letterale prevede che l’informazione di cui all’art. 369 c.p.p. debba essere notificata “solo quando deve compiere un atto al quale il difensore ha diritto di assistere”; nella versione prospettata dal D.d.l., invece, l’esordio della disposizione in esame elimina l’avverbio “solo” e lo sostituisce con l’espressione «A tutela del diritto di difesa».
L’esplicitazione della finalità dell’informazione di garanzia (la «tutela del diritto di difesa») non era probabilmente necessaria, atteso che la ratio risultava sufficientemente delineata anche senza tale chiarimento expressis verbis.
Più rilevante può risultare l’eliminazione dell’avverbio di esordio (“Solo quando deve compiere un atto al quale il difensore ha diritto di assistere”).
Per comprendere appieno la modifica appare necessario risalire alla genesi della versione della disposizione attualmente in vigore e, in particolare, proprio all’introduzione dell’avverbio in esame: come è noto il testo originario dell’art. 369 c.p.p. prevedeva che l’informazione di garanzia fosse notificata “sin dal compimento del primo atto cui il difensore ha diritto di assistere”. Con l’art. 19 della legge 8 agosto 1995, n. 332[31], il legislatore, preso atto dell’eterogenesi dei fini che aveva compromesso il proposito garantistico della comunicazione, recepita come «stimmate sociale di una responsabilità già accertata e, dunque, di una condanna anticipata sul piano della riservatezza e dell’integrità morale»[32] dell’indagato, ha sostituito la predetta formula con quella attualmente in vigore (“solo quando deve compiere un atto al quale il difensore ha diritto di assistere”), «con la conseguenza che, mentre in base alla normativa previgente, l’invio dell’atto era sempre possibile e diveniva doveroso al compimento di un “atto garantito”, nel sistema attuale la prospettiva risulta esattamente ribaltata: l’invio dell’atto è oggi sempre vietato, salvo che non si compiano “atti garantiti” […]. In breve: pacifica la funzione di strumento di difesa dell’informazione di garanzia, al fine di evitarne esecrabili distorsioni, se ne vieta un uso improprio ed anticipato da parte del p.m., limitandone l’invio alle sole evenienze investigative necessarie e, dunque, ritardandolo il più possibile»[33].
Il D.d.l. Nordio, dunque, da un lato torna alla versione originaria, consentendo di anticipare la notificazione dell’informazione di garanzia (certamente utile al fine di esercitare le facoltà difensive che non appaiono subordinate, anche sotto il profilo cronologico, alla scelta del pubblico ministero di disporre un atto garantito); dall’altro lato, tuttavia, tramite un nuovo regime di riservatezza, mira a evitare che si generino quegli effetti perversi (specie sotto il profilo mediatico) che avevano contribuito alla riforma del 1995[34].
Il nuovo comma 1-quinquies dell’art. 369 c.p.p., in particolare, interviene a regolare il regime di pubblicabilità dell’informazione di garanzia: si prevede infatti che a quest’ultima si applichi «l’articolo 114, comma 2»: tale disposizione prevede il divieto di pubblicazione, «anche parziale[35], degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare, fatta eccezione per l’ordinanza indicata dall’articolo 292».
La previsione di tale rinvio all’art. 114, comma 2, assume significato soltanto muovendo dal presupposto che l’informazione di garanzia non rientri fra gli atti “non più coperti dal segreto”, giacché, in caso contrario, sarebbe già stata applicabile, senza la necessità di alcuna modifica, la previsione di cui al menzionato art. 114, comma 2, c.p.p. (la quale per l’appunto individua il suo perimetro oggettivo negli “atti non più coperti dal segreto”).
Come è noto, gli atti segreti sono definiti dall’art. 329 c.p.p., il quale, al primo comma, stabilisce che “Gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, le richieste del pubblico ministero di autorizzazione al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”: se, come detto, la modifica contenuta nel D.d.l. muove dal presupposto che non sia già applicabile all’informazione di garanzia – secondo il quadro normativo vigente – l’art. 114, comma 2, c.p.p. (che si riferisce agli “atti non più coperti dal segreto”), significa che il D.d.l. muove (altresì e contestualmente) dal presupposto che l’informazione di garanzia non rientri fra gli “atti di indagine compiuti dal pubblico ministero” (i quali, a norma dell’art. 329 c.p.p. sarebbero segreti almeno fino a quando l’indagato non possa averne conoscenza).
In altre parole: secondo la tesi alla base del D.d.l. Nordio l’informazione di garanzia non è un atto d’indagine e, dunque, non è qualificabile alla stregua di un atto coperto da segretezza a norma dell’art. 329, comma 1, c.p.p. (tesi che – giova precisarlo – non risulta unanimemente accolta nella dottrina[36]); in assenza di una norma ad hoc, pertanto, non sarebbe applicabile l’art. 114, comma 2, c.p.p.
In ogni caso, posto che non viene modificato il comma settimo dell’art. 114 c.p.p. (secondo cui è sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti da segreto), l’effettiva utilità del divieto di pubblicazione testuale dell’informazione di garanzia appare quantomeno dubbia, atteso che gli effetti pregiudizievoli per la reputazione dell’indagato possono certamente scaturire anche dalla mera notizia della notifica dell’atto di cui all’art. 369 c.p.p. o dalla pubblicazione del relativo contenuto (nell’accezione di cui all’art. 114, comma 7, c.p.p.), pur in assenza della riproduzione testuale dello stesso, che il D.d.l. intende vietare mediante il rinvio all’art. 114, comma 2, c.p.p.[37].
Viene inoltre modificato il contenuto dell’informazione di garanzia: il testo attualmente in vigore prevede che l’atto di esame debba recare l’indicazione “delle norme di legge che si assumono violate, della data e del luogo del fatto e con invito a esercitare la facoltà di nominare un difensore di fiducia”. La modifica prevede che l’informazione di garanzia debba contenere anche “la descrizione sommaria del fatto, comprensiva di data e luogo di commissione del reato”[38]: soluzione certamente condivisibile, atteso che la mera indicazione del titolo di reato, in assenza della descrizione del fatto materiale oggetto di contestazione, impedisce all’atto di cui all’art. 369 c.p.p. (ove non accompagnato, contestualmente, da altri atti recanti la suddetta descrizione) di porre l’indagato e il suo difensore nelle condizioni di comprendere effettivamente l’accusa formulata (arg. ex art. 111, comma 3, Cost., secondo il quale, nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico).
Ulteriore modifica riguarda le modalità di notificazione: ai sensi del comma 1-quater di nuova introduzione, la notificazione dell’informazione di garanzia, in deroga al disposto dell’articolo 148, comma 6, secondo periodo[39], può essere eseguita dalla polizia giudiziaria in presenza di situazioni di urgenza che non consentono il ricorso alle modalità ordinarie. In questi casi, fermo il rispetto dell’articolo 148, comma 8, secondo periodo[40], la consegna deve essere effettuata in modo tale da garantire la riservatezza del destinatario.
5. Quarta area di intervento: l’inappellabilità, per il Pubblico Ministero, delle sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’art. 550, commi 1 e 2.
Il quarto perno del D.d.l. Nordio è rappresentato dalla (re)introduzione (benché oggettivamente limitata rispetto alla precedente generalizzata previsione della legge Pecorella[41]) dell’inappellabilità – per il Pubblico Ministero – delle sentenze di proscioglimento relative ai reati di cui all’art. 550, commi 1 e 2, ovvero relative ai reati per i quali è prevista la citazione diretta a giudizio dinanzi al Tribunale in composizione monocratica[42].
Come rilevato dalla dottrina, «Si tratta di una disposizione che seppur limitata ai reati di competenza del giudice monocratico, ancorché ampliata dalla riforma Cartabia, completa la già prevista esclusione della legittimazione ad appellare del pubblico ministero le sentenze del giudice di pace (previsione ritenuta legittima dalla Corte costituzionale: Corte cost. 42/2009)»[43].
Inoltre, «La formulazione dovrebbe riguardare anche i reati ivi previsti in conseguenza di una eventuale derubricazione»[44]: si pensi, a mero titolo esemplificativo, ad un’imputazione per rapina derubricata in furto (per riscontrata carenza della minaccia e/o della violenza), in relazione alla quale, difettando la querela o ricorrendo la causa di non punibilità ex art. 649 c.p., viene pronunciata rispettivamente sentenza di non doversi procedere o sentenza di assoluzione. Anche in tale ipotesi, atteso che il furto rientra fra i reati per i quali si procede con citazione diretta a giudizio, sarebbe precluso il potere di proporre appello da parte del P.m.
Non si tratta, come anticipato, di una novità assoluta: come è noto, la legge 20 febbraio 2006, n. 46, recante “Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento”, meglio nota come Legge Pecorella, aveva modificato profondamente l’art. 593 c.p.p., prevedendo in particolare che l’imputato e il pubblico ministero potessero appellare contro le sentenze di proscioglimento (solo) nelle ipotesi di cui all’articolo 603, comma 2 – ossia quando fossero sopravvenute o scoperte nuove prove dopo il giudizio di primo grado – e sempre che tali prove fossero decisive.
La Corte costituzionale, tuttavia, con la sentenza n. 26/2007[45] (la cui trama argomentativa è stata successivamente confermata, in ordine alle sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato, con la sentenza n. 320/2007[46]), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della citata legge n. 46/2006, nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 c.p.p., escludeva che il pubblico ministero potesse appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva (nonché dell’art. 10, comma 2, della medesima legge n. 46/2006, nella parte in cui prevedeva che l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge fosse dichiarato inammissibile).
La Corte costituzionale, in quell’occasione, ha evidenziato preliminarmente che, nel processo penale, il principio di parità tra accusa e difesa (al quale la riforma dell’art. 111 Cost. ha conferito veste autonoma, benché si trattasse di un principio pacificamente già insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali[47]) non comporta necessariamente l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato, atteso che una disparità di trattamento può «risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia»[48].
Alla luce di tale consolidato indirizzo, le fisiologiche differenze che connotano le posizioni delle due parti necessarie del processo penale, correlate alle diverse condizioni di operatività e ai differenti interessi dei quali, anche alla luce dei precetti costituzionali, le parti stesse sono portatrici – essendo l’una un organo pubblico che agisce nell’esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi; l’altra un soggetto privato che difende i propri diritti fondamentali (in primis, quello di libertà personale), sui quali inciderebbe una eventuale sentenza di condanna – impediscono di ritenere che il principio di parità debba (e possa) indefettibilmente tradursi, nella cornice di ogni singolo segmento dell’iter processuale, in un’assoluta simmetria di poteri e facoltà. Alterazioni di tale simmetria – tanto nell’una che nell’altra direzione (ossia tanto a vantaggio della parte pubblica che di quella privata) – sono invece compatibili con il principio di parità, ad una duplice condizione: e, cioè, che esse, per un verso, trovino un’adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del pubblico ministero, ovvero in esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale, anche in vista del completo sviluppo di finalità esse pure costituzionalmente rilevanti; e, per un altro verso, risultino comunque contenute – anche in un’ottica di complessivo riequilibrio dei poteri, avuto riguardo alle disparità di segno opposto riscontrabili in fasi del procedimento distinte da quelle in cui s’innesta la singola norma discriminatrice avuta di mira – entro i limiti della ragionevolezza[49].
Secondo la Consulta la medesima chiave di lettura doveva ispirare l’analisi delle possibili dissimmetrie a sfavore del pubblico ministero in punto di poteri di impugnazione: invero, la disciplina delle impugnazioni, quale capitolo della complessiva regolamentazione del processo, si colloca anch’essa – sia pure con talune peculiarità – entro l’ambito applicativo del principio di parità delle parti. Pertanto, anche per quanto attiene alla disciplina delle impugnazioni, parità delle parti non significa, nel processo penale, necessaria omologazione di poteri e facoltà.
A tal proposito – sulla premessa che la garanzia del doppio grado di giurisdizione non fruirebbe, di per sé, di riconoscimento costituzionale[50] – la Corte ha in particolare rilevato come il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado da parte del pubblico ministero presenti margini di “cedevolezza” più ampi, a fronte di esigenze contrapposte, rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell’imputato. Il potere di impugnazione della parte pubblica trova, infatti, copertura costituzionale unicamente entro i limiti di operatività del principio di parità delle parti – “flessibile” in rapporto alle rationes dianzi evidenziate – non potendo essere configurato come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, di cui all’art. 112 Cost.[51]; mentre il potere di impugnazione dell’imputato viene a correlarsi anche al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa (art. 24 Cost.), che ne accresce la forza di resistenza di fronte a sollecitazioni di segno inverso[52].
Ciò non toglie, tuttavia, che le eventuali menomazioni del potere di impugnazione della pubblica accusa, nel confronto con lo speculare potere dell’imputato, debbano comunque rappresentare – ai fini del rispetto del principio di parità – soluzioni normative sorrette da una ragionevole giustificazione, nei termini di adeguatezza e proporzionalità: non potendosi ritenere, anche su questo versante – se non a prezzo di svuotare di significato l’enunciazione di detto principio con riferimento al processo penale – che l’evidenziata maggiore “flessibilità” della disciplina del potere di impugnazione del pubblico ministero legittimi qualsiasi squilibrio di posizioni, sottraendo di fatto, in radice, le soluzioni normative in subiecta materia allo scrutinio di costituzionalità.
In simile ottica, la Corte si è quindi ripetutamente pronunciata – tanto prima che dopo la modifica dell’art. 111 Cost. – nel senso della compatibilità con il principio di parità delle parti della norma che escludeva l’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di condanna emesse a seguito di giudizio abbreviato, anche nella sola forma dell’appello incidentale, salvo si trattasse di sentenza modificativa del titolo del reato (artt. 443, comma 3, e 595 c.p.p.[53]): al riguardo, si è infatti osservato come la soppressione del potere della parte pubblica di impugnare nel merito decisioni che segnavano «comunque la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere nel processo attraverso l’azione intrapresa» – essendo lo scarto tra la richiesta dell’accusa e la sentenza sottratta all’appello non di ordine «qualitativo», ma meramente «quantitativo» – risultasse razionalmente giustificabile alla luce dell’«obiettivo primario di una rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo grado secondo il rito alternativo di cui si tratta»[54]: rito che – sia pure per scelta esclusiva dell’imputato, dopo le modifiche attuate dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479 – «implica una decisione fondata, in primis, sul materiale probatorio raccolto dalla parte che subisce la limitazione censurata, fuori delle garanzie del contraddittorio»[55]. Tali caratteristiche del giudizio abbreviato – che conferiscono un particolare risalto alla dissimmetria di segno opposto, riscontrabile a favore del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari, le cui risultanze sono direttamente utilizzabili ai fini della decisione[56] – valevano, dunque, a rendere la scelta normativa in discorso «incensurabile sul piano della ragionevolezza in quanto proporzionata al fine preminente della speditezza del processo»[57]. Fine al quale non avrebbe potuto essere invece sacrificato – per la ragione dianzi indicata – lo speculare potere di impugnazione dell’imputato[58].
Ben diversa – ad avviso della Consulta – era la situazione nel caso della legge Pecorella.
Secondo il giudice delle leggi, al di sotto dell’assimilazione formale delle parti – «il pubblico ministero e l’imputato possono appellare contro le sentenze di condanna» (ergo, non contro quelle di proscioglimento) – la norma censurata racchiudeva una dissimmetria radicale. A differenza dell’imputato, infatti, il pubblico ministero veniva privato del potere di proporre doglianze di merito avverso la sentenza che lo vedesse totalmente soccombente, negando per integrum la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere con l’azione intrapresa, in rapporto a qualsiasi categoria di reati.
Né valeva, al riguardo, opporre che l’inappellabilità – sancita per entrambe le parti – delle sentenze di proscioglimento si prestava a sacrificare anche l’interesse dell’imputato, segnatamente allorché il proscioglimento presupponga un accertamento di responsabilità o implichi effetti sfavorevoli. Tale conseguenza della riforma non incideva comunque sulla configurabilità della rilevata sperequazione, per cui una sola delle parti, e non l’altra, è ammessa a chiedere la revisione nel merito della pronuncia a sé completamente sfavorevole.
Ad avviso della Corte tale sperequazione non veniva attenuata, se non in modo del tutto marginale, dalla previsione derogatoria di cui al comma 2 dell’art. 593 c.p.p., in forza della quale l’appello contro le sentenze di proscioglimento era ammesso nel caso di sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive dopo il giudizio di primo grado: previsione non presente nel testo originariamente approvato dal Parlamento, ma introdotta a fronte dei rilievi su di esso formulati dal Presidente della Repubblica con il messaggio trasmesso alle Camere il 20 gennaio 2006 ai sensi dell’art. 74, primo comma, Cost., nel quale si era segnalato, tra l’altro, come «la soppressione dell’appello delle sentenze di proscioglimento» determinasse – stante la «disorganicità della riforma» – una condizione di disparità «delle parti nel processo […] che supera quella compatibile con la diversità delle funzioni svolte dalle parti stesse». Secondo la Corte, infatti, l’ipotesi considerata – sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive nel corso del breve termine per impugnare – presentava connotati di eccezionalità tali da relegarla a priori ai margini dell’esperienza applicativa (oltre a non coprire, ovviamente, l’errore di valutazione nel merito).
Secondo la Consulta, inoltre, la riforma censurata aveva alterato il rapporto paritario tra i contendenti con modalità tali da determinare anche una intrinseca incoerenza del sistema. Per effetto della riforma, infatti, mentre il pubblico ministero totalmente soccombente in primo grado restava privo del potere di proporre appello, detto potere veniva invece conservato dall’organo dell’accusa nel caso di soccombenza solo parziale, vuoi in senso “qualitativo” (sentenza di condanna con mutamento del titolo del reato o con esclusione di circostanze aggravanti), vuoi anche in senso meramente “quantitativo” (sentenza di condanna a pena ritenuta non congrua).
Non è improbabile che vengano riproposte, a seguito dell’eventuale entrata in vigore della riforma in fieri, questioni di legittimità costituzionale analoghe a quelle sollevate in ordine alle disposizioni della legge Pecorella. In particolare, si potrebbe assistere ad una “riedizione aggiornata” delle questioni fondate sulle asserite lesioni al principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost.: consentire, infatti, all’imputato di proporre appello nei confronti delle sentenze di condanna senza concedere al pubblico ministero lo speculare potere di appellare contro le sentenze di assoluzione, significherebbe – secondo la tesi che fu alla base delle censure sollevate con riferimento alla legge Pecorella – porre l’imputato in «una posizione di evidente favore nei confronti degli altri componenti la collettività»; questi ultimi vedrebbero fortemente limitato, in tal modo, il diritto-dovere del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, che tutela i loro interessi[59].
Potrebbero altresì riproporsi le censure fondate sugli art. 111 Cost. e 112 Cost. (considerato che la questione di legittimità, nel 2007, era stata ritenuta fondata proprio con riferimento al principio di parità fra le parti di cui all’art. 111, comma 2, Cost.): da un lato perché l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento per il Pubblico Ministero non permetterebbe all’accusa di far valere le sue ragioni con modalità e poteri simmetrici a quelli di cui dispone la difesa; dall’altro lato, con riferimento all’art. 112 Cost., perché la sottrazione all’organo dell’accusa del potere di proporre appello avverso le sentenze assolutorie eluderebbe i vincoli posti dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, considerata nella sua interezza (benché la stessa sentenza n. 26/2007 abbia ribadito che il potere d’impugnazione da parte del pubblico ministero non può essere configurato come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, di cui all’art. 112 Cost.).
D’altro canto, posto che non viene eliminato il potere di appello delle sentenze di proscioglimento ad opera della parte civile (benché ai soli effetti civili), potrebbe essere nuovamente denunciato un ulteriore profilo di disuguaglianza, venendo il pubblico ministero a trovarsi in posizione deteriore anche rispetto a tale parte privata.
Quale potrebbe essere, a distanza di sedici anni anni, la posizione della Consulta in ordine a tali (non improbabili) censure[60]?
Per tentare di fornire una risposta (comunque limitata al perimetro del presente commento), si deve evidenziare che, nella sentenza n. 26/2007, la Corte non aveva categoricamente escluso la compatibilità fra i principi costituzionali del giusto processo e una previsione che limitasse i poteri di impugnazione del pubblico ministero, ma aveva evidenziato la necessità che tali eventuali menomazioni rappresentassero «soluzioni normative sorrette da una ragionevole giustificazione, nei termini di adeguatezza e proporzionalità»[61].
Alla luce di tali premesse si può ritenere che la previsione del D.d.l. Nordio non si ponga in contrasto con il principio della parità fra le parti.
Invero, posto che il potere impugnazione del pubblico ministero non costituisce estrinsecazione necessaria dei poteri inerenti all’esercizio dell’azione penale, una asimmetria tra accusa e difesa, su tale versante, è compatibile con il principio di parità delle parti ove contenuta nei limiti della ragionevolezza, in rapporto ad esigenze di tutela di interessi di rilievo costituzionale: alla stregua di detta premessa la Consulta ha già escluso l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che non consentono al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento pronunciate dal Giudice di pace[62], evidenziando che tale limitazione «non è affatto “generalizzata”. Essa concerne, al contrario, i soli reati di competenza del giudice di pace, ossia un circoscritto gruppo di figure criminose di minore gravità e di ridotto allarme sociale: figure espressive, in buona parte, di conflitti a carattere interpersonale e per le quali è comunque esclusa l’applicabilità di pene detentive»[63]. Pertanto, «la scelta del legislatore di escludere la proponibilità di censure di merito, da parte del pubblico ministero, avverso le sentenze di proscioglimento del giudice di pace non può ritenersi eccedente i limiti di compatibilità con il principio di parità delle parti, trovando una sufficiente ratio giustificatrice sia nella ritenuta opportunità di evitare un secondo giudizio di merito, ad iniziativa della parte pubblica, nei confronti di soggetti già prosciolti per determinati reati “di fascia bassa”, all’esito di un procedimento improntato a marcata rapidità e semplificazione di forme; sia – almeno in parte – nell’ottica del riequilibrio dei poteri rispetto ad un assetto nel quale ad essere collocato in posizione di svantaggio era, sotto certi aspetti, l’imputato: ossia, proprio la parte il cui diritto d’appello ha una maggiore “forza di resistenza” rispetto a spinte di segno soppressivo»[64].
A nostro avviso, anche l’asimmetria che deriva dalla proposta contenuta nel D.d.l. Nordio risulta assistita da una idonea ratio giustificatrice, che vale a renderla compatibile con il principio di parità delle parti nel processo, in rapporto ad esigenze di tutela di altri valori di rango costituzionale: invero, la finalità è quella di garantire l’efficienza del sistema giurisdizionale, evitando di impegnare risorse umane ed economiche al fine di perseguire una fascia di reati di gravità medio-bassa anche a seguito del “fallimento” della pretesa punitiva in primo grado e tenendo conto della facoltà della parte civile di proporre appello agli effetti della responsabilità civile ex art. 576 c.p.p. ove sussistano interessi privati ritenuti (dai diretti interessati) meritevoli di tutela. La stessa Corte costituzionale, del resto, in una pronuncia più recente, ha riconosciuto (con particolare riferimento ai limiti all’appellabilità delle sentenze di condanna da parte del p.m., ma sulla base di principi che assumono valenza più generale) che la «limitazione del potere di appello della parte pubblica persegue, infatti, l’obiettivo – di rilievo costituzionale (art. 111, secondo comma, Cost.) – di assicurare la ragionevole durata del processo, deflazionando il carico di lavoro delle corti d’appello. […] In un sistema ad azione penale obbligatoria, non può ritenersi, infatti, precluso al legislatore introdurre limiti all’esercizio della funzione giurisdizionale intesi ad assicurare la ragionevole durata dei processi e l’efficienza del sistema punitivo. […] Che poi il “peso” della rinuncia venga a gravare solo sul pubblico ministero, senza che sia prefigurata una contrapposta limitazione, di analogo spessore, dal lato dell’imputato, rientra nella logica della diversa quotazione costituzionale del potere di impugnazione delle due parti necessarie del processo penale: privo di autonoma copertura nell’art. 112 Cost. – e, dunque, più “malleabile”, in funzione della realizzazione di interessi contrapposti – quello della parte pubblica; intimamente collegato, invece, all’art. 24 Cost. – e, dunque, meno disponibile a interventi limitativi – quello dell’imputato. […] Non si può trascurare, d’altro canto, il fatto che, in altre fasi del procedimento, è il pubblico ministero a fruire di una posizione di indubbio vantaggio: come nella fase delle indagini preliminari, ove la ricchezza degli strumenti investigativi a disposizione dell’organo dell’accusa, anche sul piano del carattere “invasivo” e “coercitivo” di determinati atti di indagine, non trova un riscontro paragonabile dal lato della difesa»[65].
Un passaggio in particolare della sentenza n. 26/2007 può assumere rilevanza per comprendere, in prospettiva, la posizione che potrebbe assumere la Consulta ove chiamata ad esprimersi sulla nuova previsione (e sempre che, ovviamente, gli attuali giudici vogliano assicurare una tendenziale continuità rispetto all’esegesi già precedentemente accolta): nella sentenza del 2007 la Corte censurò la rimozione del potere di appello del pubblico ministero (fra le altre ragioni) in quanto la stessa risultava «generalizzata e “unilaterale”. È generalizzata, perché non è riferita a talune categorie di reati, ma è estesa indistintamente a tutti i processi: di modo che la riforma, mentre lascia intatto il potere di appello dell’imputato, in caso di soccombenza, anche quando si tratti di illeciti bagatellari – salva la preesistente eccezione relativa alle sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda (art. 593, comma 3, cod. proc. pen.; si veda, altresì, per i reati di competenza del giudice di pace, l’art. 37 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274) – fa invece cadere quello della pubblica accusa anche quando si discuta dei delitti più severamente puniti e di maggiore allarme sociale, che coinvolgono valori di primario rilievo costituzionale. È “unilaterale”, perché non trova alcuna specifica “contropartita” in particolari modalità di svolgimento del processo – come invece nell’ipotesi già scrutinata dalla Corte in relazione al rito abbreviato, caratterizzata da una contrapposta rinuncia dell’imputato all’esercizio di proprie facoltà, atta a comprimere i tempi processuali – essendo sancita in rapporto al giudizio ordinario, nel quale l’accertamento è compiuto nel contraddittorio delle parti, secondo le generali cadenze prefigurate dal codice di rito»[66].
Nel caso del D.d.l. Nordio, invece, l’inappellabilità per il p.m. non è generalizzata (in quanto riguarda soltanto una categoria di reati di gravità medio-bassa) e, stando all’opzione lessicale della Consulta, non è “unilaterale”, posto che riguarda fattispecie di reato per le quali l’imputato soffre una riduzione delle proprie garanzie rispetto al rito ordinario, tramite la mancata celebrazione dell’udienza preliminare[67].
Né vale obiettare, con riferimento a tale ultimo aspetto, che la nuova “udienza predibattimentale” ex art. 554-bis c.p.p. rende di fatto identici i due riti (ordinario e con citazione diretta)[68], giacché l’udienza predibattimentale (nonostante diverse innegabili similitudini) non appare strutturalmente e funzionalmente identica all’udienza preliminare. D’altra parte, non devono trascurarsi gli ulteriori limiti all’appellabilità delle sentenze da parte dell’imputato introdotti dalla Riforma Cartabia, pur non sfociati nella previsione della tassatività dei motivi di appello proposta dalla Commissione Lattanzi[69].
Peraltro, con riferimento al profilo in esame (id est il carattere unilaterale dell’inappellabilità), la Consulta ha chiarito – più di recente – che non può ritenersi significativa, ai fini del giudizio di legittimità costituzionale, «la circostanza che, nel frangente, discutendosi del giudizio ordinario, manchi una specifica “contropartita” in termini di rinuncia dell’imputato all’esercizio di proprie facoltà e di correlato “privilegio” del pubblico ministero sul piano probatorio, quale quella riscontrabile nell’ambito del giudizio abbreviato. L’esistenza di una simile “contropartita” è stata evocata, bensì, da questa Corte come fattore che concorre a giustificare la limitazione al potere di appello della parte pubblica previsto dall’art. 443, comma 3, cod. proc. pen. Ma ciò non vuol dire che essa rappresenti una condizione imprescindibile – l’unica condizione – per il riconoscimento della legittimità costituzionale di dissimmetrie tra le parti in subiecta materia, come attesta, ad esempio, la decisione che ha ritenuto legittima l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento del giudice di pace (sentenza n. 298 del 2008)»[70].
In ogni caso, restano attuali le perplessità (benché a suo tempo ritenute non condivisibili o non rilevanti dalla Consulta[71]) derivanti da un sistema, quale quello attualmente vigente, che, in caso di condanna in secondo grado (a seguito di appello proposto dal Pubblico Ministero avverso la sentenza di proscioglimento), non consente all’imputato di fruire di un doppio grado di giudizio di merito[72] nonostante una pronuncia liberatoria in primo grado, ove peraltro i principi di oralità e immediatezza trovano una tutela ben maggiore rispetto al grado di appello (nonostante la previsione di cui all’art. 603, comma 3-bis, c.p.p.[73]): «a fronte di un proscioglimento che risulti correttamente disposto – da cui la previsione della ricorribilità in cassazione della relativa sentenza da parte del pubblico ministero – una eventuale decisione di segno contrario e opposto nel giudizio di secondo grado potrebbe confliggere con la logica del ragionevole dubbio ed entrerebbe in tensione con il diritto dell’imputato che risulterebbe condannato per la prima volta in appello senza possibilità di impugnare la decisione nel merito. […] Invero, a fronte dell’iniziativa del PM che avendo esercitato azione penale ancorché non filtrata dal giudice dell’udienza preliminare e da quello dell’udienza predibattimentale abbia visto rigettata la sua iniziativa nel merito, si espande il diritto dell’imputato che nel caso della condanna è tutelato dal divieto della reformatio in peius difettando appello del PM e nel caso del proscioglimento dalla sola ricorribilità per cassazione»[74].
Si tratta, indubbiamente, di criticità di portata generale e non circoscritte ai procedimenti per i reati di cui all’art. 550, commi 1 e 2, c.p.p.: l’impressione, peraltro, è che l’intervento in commento (la cui incidenza concreta sarà probabilmente limitata, data la scarsa frequenza degli appelli della parte pubblica per questa fascia di reati) sia soltanto il preludio per un nuovo tentativo, articolato per step, volto ad eliminare integralmente l’appellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del p.m.: anche questa volta, ovviamente, Consulta permettendo[75].
[1] Il testo è disponibile all’indirizzo https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01383804.pdf; il D.d.l. è stato assegnato alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente il 1º agosto 2023 (annuncio nella seduta n. 94 del 1º agosto 2023); fra i primi commentatori v. G. Spangher, Pacchetto Nordio: timidi ma significativi segnali di cambio di prospettiva, in questa Rivista, 27 giugno 2023; E. Maccora, Il cantiere sempre aperto della giustizia penale. Primissime osservazioni al DDL Nordio ed all’impatto sulle sezioni gip-gup, in Quest. Giust., 6 luglio 2023; E. Andolina, La riforma della giustizia proposta dal ministro Carlo Nordio (informazione provvisoria), in Proc. pen. e Giust., 15 giugno 2023.
[2] L’espressione trae spunti da E. Maccora, op. cit., la quale parla di «intervento molto settoriale espressione di una bulimia legislativa già conosciuta, sul solco della scelta di mantenere un cantiere sempre aperto in materia di giustizia penale, al punto che le riforme si succedono continuamente e spesso senza aver verificato gli effetti prodotti dalle modifiche precedentemente intervenute. Nessuno studio né di verifica dell’impatto di quanto proposto né sugli esiti delle riforme già attuate viene effettuato; ogni ministro e governo propone la propria ricetta salvifica spesso senza ponderare ciò che serve veramente per ottenere una giustizia efficace e tempestiva».
[3] Si tratta, come è noto, della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio: il comma secondo, secondo periodo, dell’art. 289 c.p.p. dispone infatti che “Nel corso delle indagini preliminari, prima di decidere sulla richiesta del pubblico ministero di sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio, il giudice procede all’interrogatorio dell’indagato, con le modalità indicate agli articoli 64 e 65. Se la sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio è disposta dal giudice in luogo di una misura coercitiva richiesta dal pubblico ministero, l’interrogatorio ha luogo nei termini di cui al comma 1-bis dell’articolo 294”.
[4] Sul tema, da ultimo, Aa.Vv., Informazione e giustizia penale. Dalla cronaca giudiziaria al “processo mediatico”, a cura di N. Triggiani, Cacucci Editore, 2022, passim; volendo anche F. Porcu, Pubblicità e segretezza nel processo penale. Tra indicazioni normative e profili attuativi, Wolters Kluwer-Cedam, 2019.
[5] Sul punto v. G. Spangher, Pacchetto Nordio, op. cit.,secondo il quale «La previsione si ricollega a quanto già previsto dal comma 2 quater dell’art. 292 c.p.p. in relazione alla motivazione del provvedimento che applica una misura cautelare ove si fa riferimento ai brani essenziali. Viene fatta salva l’indispensabilità per la compiuta esposizione degli elementi rilevanti».
[6] G. Spangher, Pacchetto Nordio, cit., osserva che «Si tratta dell’ennesimo tentativo teso a limitare la diffusione del contenuto delle intercettazioni relativamente ad elementi ritenuti processualmente non rilevanti e che attengono alla sfera privata dei soggetti estranei alle indagini. Ancora una volta tuttavia mancano adeguate sanzioni essendo le attuali del tutto incapaci di indurre al rispetto di quanto si vorrebbe fosse osservato. Allo stato, quindi, non si interviene sui presupposti e sulle modalità tecniche delle captazioni, rinviate ad un provvedimento successivo, ma solo sulla diffusione delle stesse».
[7] Proprio sul punto si concentra anche la critica rivolta dall’Unione delle Camere penali nel documento del 15 giugno 2023 intitolato “La Giunta UCPI sul DDL Nordio”, 2: «Del tutto deludente, invece, la riforma in tema di intercettazioni, limitata alla questione della loro pubblicazione, senza peraltro intervenire sulla tematica principale: la sanzione di quei divieti, che rimane irrisoria e dunque di fatto inesistente».
[8] Nella dottrina, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, v. L. Giuliani, Sub Art. 294 c.p.p., in Commentario breve al codice di procedura penale, diretto da G. Illuminati – L. Giuliani, Wolters Kluwer-Cedam, 2020, 1309 ss.; M. Montagna, Sub Art. 294 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, a cura di A. Giarda – G. Spangher, Wolters Kluwer, 2023,Tomo II, 410 e ss.
[9] Cfr., al riguardo, le osservazioni critiche di C. Valentini, Com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire: note sparse sul futuribile interrogatorio ante cautela, in AP., 2023, 1 ss., la quale osserva: «Triste manifestazione tipica dei diritti apparenti di cuiè cosparso il nostro codice di rito, conosciamo bene l’istituto amichevolmentenoto come interrogatorio di garanzia, tratteggiato dall’art. 294 c.p.p. Cordero lo definirà – ancora “fresco di stampa” – nei termini di “istituto ignoto” al previgente codice, e non per caso, posto che sin da subito si è letta inesso l’ispirazione ad un’autentica congerie di principi di elevatissimo valore: diritto di difesa, ovviamente, e presunzione di non colpevolezza, ma anche ildiritto di ogni persona arrestata o detenuta ad essere tradotta al più prestodinanzi ad un giudice, secondo i termini dell’art. 5, par. 3, CEDU. E invece, nei molti anni trascorsi dall’entrata in vigore, nel 1989, ad oggi, l’interrogatorio ex art. 294 c.p.p. ha mostrato in pieno le sue fattezze di garanzia apparente; sarebbe sufficiente chiedere ad un qualsivoglia rappresentante della classe forense che ne abbia fatto esperienza in un processo di altrettanto qualsivoglia livello, per comprendere appieno la conclamata inutilità di un orpello normativo ormai buono solo per ragioni, diciamo così, culturali, ovvero per tentare di imprimere in giovani menti studentesche il concetto che la privazione di libertà di un essere umano non può avvenire senza che questo essere umano abbia avuto una reale occasione di colloquio con il suo Giudice. Purtroppo, per quanto a conoscenza di chi scrive, mancano statistiche ministeriali sul punto ed anzi duole notare che non si riscontra traccia dell’argomento neppure nell’ultima Relazione al Parlamento ex L. 16 aprile 2015, n. 47 del Ministero della Giustizia, aggiornata ad aprile 2022. Il possesso di dati numerici sarebbe interessante, poiché varrebbe a dimostrare l’assoluta sterilità di una norma condannata dalla prassi al limbo dell’inefficacia: non si va lontani dal vero, probabilmente, nell’immaginare che in trent’anni a stento sia rintracciabile una sola ipotesi di revoca o attenuazione della misura cautelare disposta a seguito di interrogatorio di garanzia. Insomma, l’art. 294 c.p.p. potrebbe sottotitolarsi: ode ad un istituto inesistente. Del resto, sono stati molteplici, negli stessi anni, i rilievi degli studiosi sul punto. Fondato com’è su di una piattaforma conoscitiva formata solo da atti dell’inquirente, per di più uno ormai prasseologicamente inottemperante all’obbligo di approfondire anche tutti gli eventuali fondali ridondanti a discarico, come pure impostogli dall’art. 358 c.p.p., l’interrogatorio di garanzia muove proprio da questa debolezza intrinseca, per poi mostrarla, sfaccettata sotto plurimi aspetti: l’inesistenza di un obbligo giudiziale di emettere un provvedimento motivato dopo l’interrogatorio; la violazione dei tempi imposti dalla CEDU per l’accesso ad un giudice; per converso, l’inflessibilità di quei cinque giorni, che non tollerano rinvii su richiesta della difesa; l’ineffettività di un contraddittorio che, in buona sostanza, avviene in condizioni di totale sbilanciamento: da una parte l’inquirente, che richiede la privazione della libertà sulla scorta di un compendio probatorio raccolto per mesi, se non anni; dall’altra l’individuo in custodia, sconvolto dalla frattura psicologica dell’entrata nell’ “istituzione totale”, anzi inebetito e dunque per lo più incapace di attendere a quell’aspetto troppo spesso sottovalutato del diritto di difesa, che consiste nella cooperazione tra la difesa personale e la difesa tecnica. Insomma, la crassa inutilità dell’istituto disciplinato dall’art. 294 c.p.p., anzi il suo atteggiarsi come vera e propria garanzia canzonatoria, fa tornare forzosamente alla mente i noti strali filosofici lanciati, proprio all’alba del nuovo codice, contro il persistere dell’istituto medesimo della custodia cautelare: “Io penso … che la stessa ammissione in via di principio della carcerazione ante iudicium, qualunque fine le si voglia associare, contraddice alla radice il principio di giurisdizionalità: che non consiste nel poter essere arrestati solo per ordine di un giudice, ma per poterlo essere sulla base di un giudizio”, giudizio tanto inesistente, nel caso di specie, da lasciar dire appresso che “il tratto inconfondibilmente poliziesco dell’istituto… resta il carattere arbitrario e in tutti i casi non cognitivo ma potestativo dei suoi presupposti”».
[10] Cfr. C. Valentini, op. cit., 4 ss.: «Immaginiamo che, laddove questo testo diventasse legge, i commenti in termini di “rivoluzione copernicana” sarebbero d’obbligo, ed è difficile negare che sia così: una vera misura di civiltà entrerebbe nel nostro ordinamento. L’accortezza di preannunciare all’interessato che esistono a suo carico gravi indizi di commissione di un reato e che – anche se presunto innocente – lo si ritiene potenzialmente pericoloso qualora lasciato in libertà, invitandolo ad esprimere la propria difesa, segna una cesura nettissima col passato, sotto una pluralità di profili. Scompare, in primis dalla nostra cultura, l’immagine dell’indagato chiamato ad esprimersi a propria difesa nello stato di sudditanza psicologica dell’individuo appena introdotto nel penitenziario; è chiamato a difendersi da libero. Come si diceva, è sufficiente già questo ribaltamento prospettico a denotare l’importanza del possibile nuovo istituto».
[11] Sul tema v. C. Valentini, op. cit., passim.
[12] Con riferimento a tale ipotesi l’art. 289, comma 2, ult. periodo, c.p.p. stabilisce che “l’interrogatorio ha luogo nei termini di cui al comma 1-bis dell’articolo 294”.
[13] Si tratta, come è noto, dei delitti in ordine ai quali la durata massima delle indagini preliminari è di due anni, ovvero, nel dettaglio:
- delitti di cui agli articoli 285, 286, 416 bis e 422 del codice penale, 291-ter, limitatamente alle ipotesi aggravate previste dalle lettere a), d) ed e) del comma 2, e 291-quater, comma 4, del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43;
- delitti consumati o tentati di cui agli articoli 575, 628, terzo comma, 629, secondo comma, e 630 dello stesso codice penale;
- delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416 bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo;
- delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, nonché delitti di cui agli articoli 270, terzo comma, e 306, secondo comma, del codice penale;
- delitti di illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, cessione, detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, di esplosivi, di armi clandestine nonché di più armi comuni da sparo, escluse quelle previste dall’articolo 2, comma terzo, della legge 18 aprile 1975, n. 110;
- delitti di cui agli articoli 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 80, comma 2, e 74 del Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni;
- delitto di cui all’articolo 416 del codice penale nei casi in cui è obbligatorio l’arresto in flagranza;7-bis) dei delitti previsti dagli articoli 600 600 bis, comma 1, 600 ter, primo e secondo comma, 601, 602, 609 bis nelle ipotesi aggravate previste dall’articolo 609 ter, 609 quater, 609 octies del codice penale, nonché dei delitti previsti dagli articoli 12, comma 3, e 12 bis del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni”.
- 7-bis) dei delitti previsti dagli articoli 600 600 bis, comma 1, 600 ter, primo e secondo comma, 601, 602, 609 bis nelle ipotesi aggravate previste dall’articolo 609 ter, 609 quater, 609 octies del codice penale, nonché dei delitti previsti dagli articoli 12, comma 3, e 12 bis del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni”.
[14] A norma del quale “Quando si procede per il delitto previsto dall’articolo 575 del codice penale, nella forma tentata, o per i delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli 572, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies e 612 bis del codice penale, ovvero dagli articoli 582 e 583 quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del medesimo codice, il pubblico ministero assume informazioni dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia, querela o istanza, entro il termine di tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, salvo che sussistano imprescindibili esigenze di tutela di minori di anni diciotto o della riservatezza delle indagini, anche nell’interesse della persona offesa”.
[15] Così G. Spangher, Pacchetto Nordio, op. cit.; in effetti il quesito n. 2 del Referendum del 12 giugno 2022 risultava così formulato: «Volete voi che sia abrogato il Decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447 (Approvazione del codice di procedura penale), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: articolo 274, comma 1, lettera c), limitatamente alle parole: “o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché’ per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni”?».
[16] In tale prospettiva v. anche G. Spangher, Pacchetto Nordio, cit.: «Non sono pochi i problemi che questa nuova procedura prospetta. È evidente che la possibilità di procedere all’interrogatorio anticipato nei limiti indicati non sia possibile in presenza di una delle esigenze di cui alle lett. a) e b) dell’art 274 c.p.p. Dovrebbe essere consentito al giudice richiesto della misura del carcere di concedere gli arresti domiciliari e le altre misure. Sembrerebbe che indagato svolga l’interrogatorio anticipato in stato di libertà».
[17] Relazione al D.d.l., par. 2.2., 5.
[18] V., in una prospettiva in parte analoga, le critiche rivolte dall’Unione delle Camere penali nel documento del 15 giugno 2023 intitolato “La Giunta UCPI sul DDL Nordio”, 1: «Sicuramente positiva, in linea di principio, è la introduzione dell’interrogatorio preventivo che precede la emissione della misura cautelare in carcere, segno di una concreta attenzione al tema della libertà personale e dell’abuso della custodia cautelare. Tuttavia non si può non sottolineare la natura sostanzialmente eccezionale di questa novità, esclusa del tutto per i reati di maggiore allarme sociale, e limitata per il resto alla sola esigenza cautelare del pericolo di reiterazione del reato. Dunque un segnale importante, ma ancora molto timido: anche qui, un primo passo».
[19] Dubbi analoghi sembrano paventati da G. Spangher, Pacchetto Nordio, op. cit.: «Non è chiaro se il giudice debba sempre procedere all’interrogatorio ovvero solo nel caso in cui valuti la possibilità della sua applicazione. Quid iuris in caso di richiesta di attenuazione del carcere ovvero di arresti domiciliari disposti invece del carcere? Il conservato riesame pone problemi in caso di doppia conforme in quanto disposta collegialmente, nonché quelli relativi al rischio di confessioni e di collaborazioni effettuate per evitare la misura cautelare inframuraria».
[20] Sul punto v. le considerazioni di C. Valentini, op. cit., 5, la quale osserva: «Poiché per le norme di procedura penale pare spesso vero che il diavolo abita nei dettagli, vi è da congratularsi con l’accorto redattore della disposizione per una littera legis che non consente equivoci: il diritto alla conoscenza degli atti sembra qui pieno e garantito, incluso il particolare – mai troppo scontato – emergente dal diritto alla copia, incluso il diritto alla trasposizione su supporto digitale delle conversazioni captate»; l’Autrice, ivi, 5, nt. 10, richiama, con accento critico, l’orientamento giurisprudenziale secondo cui «in presenza di un procedimento con termini particolarmente stringenti quale quello del riesame delle misure cautelari personali, l’esercizio del diritto della difesa ad esaminare gli atti dell’indagine si esercita mediante il materiale accesso del difensore presso la cancelleria del tribunale. L’estrazione, in tutto o in parte, di copia degli atti medesimi costituisce invece semplicemente un modo di agevolare il lavoro dell’avvocato» (Cass., Sez. II, 5.4.2016, n. 16387); sul tema v. anche A. Gaito – C. Valentini, Forme di privazione del diritto di difesa nello Stato senza diritto (ovvero: come un gioco di parole diventa realtà), in AP, 2020, fasc. 2, passim.
[21] Cfr. le osservazioni di C. Valentini, op. cit., 5 s.: «Il dubbio vira tutto sul timing: anzitutto, nella vita reale cinque giorni di tempo dalla notifica dell’avviso significano appunto un tot di tempo che deve materialmente includere quanto meno l’accesso in cancelleria, una prima disamina del fascicolo, la richiesta di copia e la restituzione della medesima, cose tutte certamente fattibili con un solo giorno in tempi digitali (e con un po’ di fortuna). Restano, però, comunque solo quattro giorni, durante i quali l’indagato e il suo difensore saranno chiamati al compito di esaminare gli atti addotti a carico dell’indagato e (magari) ad approvvigionarsi di primi elementi probatori a discarico; attività tutte fattibili, in quel lasso di tempo residuo, solo a patto di aver a che fare con un fascicolo di dimensioni moderate, ma del tutto escluse nel non peregrino caso di fascicoli superiori alle mille pagine di affoliazione. Diciamo allora che la nuova disposizione perderebbe parte del suo indubbio appeal, laddove non fosse prevista la possibilità di chiedere una dilazione del termine nell’interesse della difesa alla conoscenza degli atti, o – in poche parole – nell’interesse ad una difesa effettiva».
[22] Viene infatti interpolato il testo dell’art. 294 c.p.p., aggiungendo, all’ipotesi già contemplata (interrogatorio già eseguito nel corso dell’udienza di convalida dell’arresto o del fermo di indiziato di delitto), un ulteriore caso in cui, fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, il giudice che ha deciso in ordine all’applicazione della misura cautelare, non procede all’interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare in carcere immediatamente e comunque non oltre cinque giorni dall’inizio dell’esecuzione della custodia, salvo il caso in cui essa sia assolutamente impedita.
[23] E. Maccora, op. cit., la quale osserva criticamente che ciò rappresenta un «ulteriore aggravio per uffici già molto sofferenti».
- La previsione della composizione collegiale del giudice si estende all’ipotesi in cui si verifichi un aggravamento delle esigenze cautelari e il giudice ritenga che l’aggravamento debba comportare l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere: in tal caso, infatti il giudice per le indagini preliminari rimette la decisione al collegio di cui all’articolo 328, comma 1-quinquies, c.p.p.
- L’art. 2, lett. i) del D.d.l. prevede infatti che all’articolo 313, al comma 1, dopo il secondo periodo, è aggiunto il seguente: «Il giudice per le indagini preliminari procede nella composizione collegiale di cui all’articolo 328, comma 1-quinquies, quando deve essere applicata una misura di sicurezza detentiva».
[26] Cfr. la Relazione al D.d.l., ove si evidenzia che la collegialità riguarderà solo la più grave delle misure cautelari e non la misura degli arresti domiciliari, «per sottolineare (e rendere l’intervento coerente con) il carattere di extrema ratio della misura restrittiva carceraria»; critica, sul punto, E. Maccora, op. cit., la quale parla di «Una norma innanzitutto discutibile se si considera la filosofia di fondo dell’attuale codice di procedura penale che consente al giudice monocratico la decisione sulla responsabilità penale per reati puniti con una pena massima non superiore ai dieci anni di reclusione e nel caso di rito abbreviato o di proscioglimento ex art. 425 c.p.p. anche per reati puniti con pene maggiori. Il progetto riformatore ritiene che una cura maggiore deve essere rivolta al giudizio cautelare custodiale rispetto a quello di cognizione».
[27] Come rammenta la Relazione al D.d.l., già l’art. 3 del d.l. 23 maggio 2008, n. 90 (Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella regione Campania e ulteriori disposizioni di protezione civile), convertito con modificazioni dalla legge 14 luglio 2008, n. 123, nel contesto dell’emergenza rifiuti in Campania, stabiliva, ai commi 1 e 2, quanto di seguito trascritto: “1. Nei procedimenti relativi ai reati consumati o tentati, riferiti alla gestione dei rifiuti ed ai reati in materia ambientale nella regione Campania, nonché in quelli connessi a norma dell’articolo 12 del codice di procedura penale, attinenti alle attribuzioni del Sottosegretario di Stato, di cui all’articolo 2 del presente decreto, )) le funzioni di cui al comma 1, lettera a), dell’articolo 51 del codice di procedura penale sono attribuite al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, il quale le esercita anche in deroga a quanto previsto dall’articolo 2 del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, e successive modificazioni. 2. Nei procedimenti indicati al comma 1 le funzioni di giudice per le indagini preliminari e dell’udienza preliminare sono esercitate da magistrati del Tribunale di Napoli. Sulle richieste di misure cautelari personali e reali decide lo stesso tribunale in composizione collegiale. Non si applicano le previsioni dell’articolo 321, comma 3-bis, del codice di procedura penale”.
[28] Cfr. l’osservazione dell’Unione delle Camere penali nel documento del 15 giugno 2023 intitolato “La Giunta UCPI sul DDL Nordio”, p. 1: «Anche l’assegnazione ad un giudice collegiale delle richieste custodiali in carcere risponde evidentemente al riflesso -in sé positivo – di presidiare con maggiore forza la privazione della libertà personale nella sua forma più grave. E tuttavia – a prescindere dalle preoccupazioni circa la sostenibilità di questa innovazione in termini di organici – lascia perplessi la prospettiva di formazione artificiosa di compagini collegiali costituite da giudici strutturalmente e culturalmente monocratici quali sono i GIP».
[29] Al riguardo G. Spangher, Pacchetto Nordio, op. cit., osserva che «Il primo profilo, scontando la mancanza di un numero adeguato di giudici poste le situazioni di incompatibilità che inevitabilmente si determinerebbero, ai sensi dell’art. 8, è differito di due anni per consentire il necessario espletamento del reclutamento straordinario di magistrati (art. 8 in relazione agli artt. 3, 4 e 5)»; critica sul punto E. Maccora, op. cit.: «Né appare risolutivo l’aumento di organico previsto dall’art. 4 del DDL in esame, che peraltro non è destinato solo agli uffici gip-gup ma genericamente alle funzioni giudicanti di primo grado. I tempi tecnici per bandire ed espletare un concorso (nomina della commissione da parte del Consiglio Superiore della Magistratura, svolgimento dello stesso, correzione degli elaborati scritti e svolgimento delle prove orali, formulazione delle graduatorie, scelta della sede e svolgimento del tirocinio) comportano che anche se il concorso fosse bandito nell’anno 2023 prima dell’inizio del 2026 non si avrebbe l’ingresso di nuovi magistrati che peraltro non potrebbero, nei primi due anni di carriera, essere destinati alle sezioni gip-gup. Analogamente l’uso della tabella infradistrettuale previsto dal DDL all’art. 3 lettera a) n. 1, per far fronte alle esigenze degli uffici piccoli (spesso composti da 2/3 magistrati), appare alquanto problematico se si considera la distanza tra gli uffici che appartengono allo stesso distretto di Corte Appello. Potrebbe accadere ad esempio che un gip del tribunale di Milano debba comporre il collegio cautelare a Lodi o a Busto Arsizio o a Varese per decidere una misura cautelare o un aggravamento. Si rischia seriamente la paralisi degli uffici, la creazione di importanti arretrati e il mancato raggiungimento degli obiettivi del PNRR. Peraltro la stessa attuazione della Legge n. 104/2021 e del D.Lgs. n. 150/2022, indispensabile per raggiungere gli obiettivi del PNRR, rischierebbe di essere seriamente compromessa».
[30] Cfr. G. Spangher, Pacchetto Nordio, op. cit., il quale rileva che «Con la lett. m), nn. 1 e 2 dell’art. 2 si sono previste delle modifiche all’informazione di garanzia in relazione al suo contenuto, per un verso sganciando l’avviso dal momento (esclusivo) legato al compimento di un atto che richiede la presenza del difensore, per un altro inserendo la necessita di precisare seppur sommariamente il fatto per il quale si procede ribadendo i limiti del contenuto delle intercettazioni, nonché precisando che la notificazione sarà effettuata dalla polizia giudiziaria assicurando la riservatezza del destinatario».
[31] Cfr., al riguardo, A. Caselli Lapeschi, Commento all’art. 19, l. 8 agosto 1995, n. 332, in LP, 1995, 751; L. Caraceni, Tutta da rivedere l’informazione di garanzia, in DPP, 1996, 634 ss.; V. Grevi, Più ombre che luci nella l. 8 agosto 1995 tra istanze garantistiche ed esigenze del processo, in Aa.Vv., Misure cautelari e diritto di difesa nella Legge 8 agosto 1995, n. 332, a cura di V. Grevi, Giuffrè, 1996, 47 ss.; F. Peroni, Commento all’art. 19, l. 8 agosto 1995 n. 332, in Aa.Vv., Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, Cedam, 1995, 269 ss.; C. Riviezzo, Art. 19: l’invio dell’informazione di garanzia, in Custodia cautelare e diritto di difesa. Commento alla Legge 8 agosto 1995, n. 332, Giuffrè, 1995, 151.
[32] P. Gaeta – A. Picardi, Sub Art. 369 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, a cura di A. Giarda – G. Spangher, op. cit., 2033
[33] P. Gaeta – A. Picardi, op. cit., 2034; cfr., sul tema delle modifiche di cui alla legge n. 332/1995, anche N. Triggiani, Le investigazioni difensive, Giuffrè, 2002, 199 s.: «mentre in precedenza la previsione del compimento di un atto “garantito” fungeva da limite ultimo per l’invio dell’informazione, in quanto tale non oltrepassabile, ma legittimamente anticipabile – almeno secondo la prassi –, la modifica lessicale apportata al testo dell’art. 369 c.p.p. vieta tale conclusione, ponendo un nesso ineludibile tra compimento dell’atto e (previo) invio dell’informazione di garanzia, per il quale non è più ipotizzabile alcuna retrocessione temporale».
[34] Cfr., in tale prospettiva, la Relazione al D.d.l., par. 2.4., 8: «Sebbene posta a tutela della persona sottoposta alle indagini, l’informazione di garanzia si è spesso trasformata nell’esposizione dell’indagato alla notorietà mediatica, con effetti stigmatizzanti. L’intervento ha lo scopo: – da un lato di arricchire la funzione di garanzia dell’informazione, specificando che in essa debba essere contenuta una “descrizione sommaria del fatto”, oggi non prevista; dall’altro, di stabilire che la notificazione avvenga con modalità che tutelino l’indagato da ogni conseguenza impropria. Per tale secondo aspetto, nel ribadire la regola generale secondo cui la consegna dell’atto anche quando effettuata con modalità tali da garantire la riservatezza di quest’ultimo, si è limitata la possibilità di impiego della polizia giudiziaria alle sole situazioni di urgenza che non consentano il ricorso alle modalità ordinarie».
[35] Ferma la liceità della “pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto” (e dunque, a nostro avviso, ferma la possibilità di dare notizia quantomeno della notifica dell’informazione di garanzia e del relativo contenuto, trattandosi di atto che, almeno una volta notificato, non risulta certamente segreto, anche accogliendo un’interpretazione estensiva del comma 1 dell’art. 329 c.p.p. che regola per l’appunto il perimetro degli atti segreti: invero, anche ammettendo che l’informazione di garanzia “nasca” come atto segreto, tale qualità viene meno nel momento in cui l’indagato ne acquista conoscenza, giusta la previsione del menzionato art. 329, comma 1, c.p.p., che estende la segretezza “fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”).
[36] Cfr. V. Maffeo, Sub Art. 329 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, op. cit., Tomo II, 1500, la quale osserva che vi è «contrasto in dottrina tra chi sostiene non rientri nella previsione dell’art. 329 – appunto, perché non è atto di indagine – l’informazione di garanzia, e chi, invece, la ritiene non più coperta dal segreto solo dal momento in cui venga a conoscenza del destinatario. Altri preferiscono parlare in simili ipotesi – come anche nel caso dell’invito a comparire – di atti “a doppio titolo” non segreti e, quindi, pubblicabili»; secondo G. Ruello (agg. G.P. Voena), Sub Art. 329 c.p.p., in Commentario breve al codice di procedura penale, op. cit., 1589, rimane «estranea all’obbligo del segreto l’informazione di garanzia: essa infatti non costituisce un atto di indagine […] e, comunque, dovrebbe ritenersi non più coperta dal segreto almeno dal momento in cui possa averne conoscenza il destinatario». Diversa la posizione di G. Mantovani, Informazione, giustizia penale e diritti della persona, Jovene, 2011, 75 s., la quale, prendendo spunto dalla funzione dell’informazione di garanzia, che la configura non come «atto autonomo», ma come «l’antecedente logico-giuridico di ogni attività il cui espletamento richiede l’intervento difensivo», afferma che anche l’informazione di garanzia «partecipa di una finalità investigativa, in quanto preludio a un’attività diretta alla ricerca e alla raccolta degli elementi conoscitivi necessari “per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale”»; secondo l’A. si tratterebbe, quindi, di un atto la cui segretezza dovrebbe venir meno soltanto quando l’informazione sia conoscibile per l’indagato, ovvero dal momento dell’arrivo a destinazione secondo le modalità prescritte dall’art. 369 c.p.p., risultando preclusa (e penalmente sanzionata), prima di tale momento, la pubblicazione della notizia in forza dell’art. 114, comma 1, c.p.p.; contra P.P. Paulesu, La presunzione di non colpevolezza dell’imputato, Giappichelli, 2009, 164, nt. 103, il quale osserva che, sotto il profilo della stigmatizzazione sociale derivante dalla notizia relativa alla ricezione dell’informazione di garanzia, «si è rivelato finora poco utile l’intervento operato dalla legge n. 332 del 1995, che ha drasticamente ridimensionato il potere del pubblico ministero di inviare l’informazione di garanzia allo scopo di scongiurare le “fughe di notizie”, soprattutto se si considera che l’informazione di garanzia, non integrando un atto di indagine ma un atto che viene compiuto durante le indagini, si sottrae al divieto di pubblicazione di cui agli artt. 114, comma 1 e 329 c.p.p. In ogni caso, le frequenti distorsioni applicative sembrerebbero aver indotto il legislatore costituzionale a dare un segnale in questo delicatissimo settore, precisando che l’accusato ha diritto di essere informato riservatamente dei motivi dell’accusa elevata a suo carico (art. 111 comma 3 Cost.)». Nella giurisprudenza si segnala G.i.p. Trib. L’Aquila, 30.6.1993, Vitanza, in Dir. inf., 1994, 530, con nota di M.G. Lodato, Prime (dis)applicazioni del divieto di rivelazione degli atti processuali penali, secondo cui «l’aver comunicato ad un giornalista […] i nominativi di indagati per i quali il magistrato aveva già firmato informazioni di garanzia depositate in segreteria per la materiale spedizione a mezzo posta […] non comporta violazione dell’obbligo del segreto per effetto della prima parte dell’art. 329 c.p.p. […] trattandosi di atti già emessi dal P.M. e per loro stessa natura conoscibili dai diretti interessati anche se di fatto non ancora conosciuti».
[37] Sull’argomento, volendo, cfr. quanto da già evidenziato in F. Porcu, op. cit., 211 s.: «in ordine all’interesse dell’indagato a mantenere riservato il suo status, è innegabile che la pubblicazione anche del solo contenuto (per quanto si intenda interpretare tale nozione in senso restrittivo), perfettamente lecita (a prescindere dalla qualificazione dell’atto come originariamente segreto o meno), provoca di per sé lo stesso effetto pregiudizievole che potrebbe derivare dalla pubblicazione dell’atto ufficiale: una volta che è noto il nome della persona sottoposta alle indagini, il reato che le è attribuito con le relative coordinate spazio-temporali, la propalazione integrale dell’atto potrebbe aggiungere ben poco».
[38]Sarebbe dunque opportuno disporre contestualmente l’eliminazione delle parole “della data e del luogo del fatto”, per evitare che la stessa disposizione faccia riferimento sia alla “data e luogo di commissione del reato” (parte introdotta dal D.d.l.), sia alla “indicazione … della data e del luogo del fatto” (inciso attualmente in vigore, in relazione al quale non sono previste specifiche modifiche).
[39] Secondo cui le notificazioni richieste dal pubblico ministero possono essere eseguite dalla polizia giudiziaria nei casi di atti di indagine o provvedimenti che la stessa polizia giudiziaria è delegata a compiere o è tenuta ad eseguire.
[40] In forza del quale “Quando la notifica non può essere eseguita in mani proprie del destinatario, l’organo competente per la notificazione consegna la copia dell’atto da notificare, fatta eccezione per il caso di notificazione al difensore o al domiciliatario, dopo averla inserita in busta che provvede a sigillare trascrivendovi il numero cronologico della notificazione e dandone atto nella relazione in calce all’originale e alla copia dell’atto”.
[41] Il riferimento è alla legge 20 febbraio 2006, n. 46, recante “Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento”, meglio nota come Legge Pecorella, sulla quale v. infra in questo paragrafo.
[42] La modifica è salutata con particolare favore dall’Unione delle Camere penali nel documento del 15 giugno 2023 intitolato “La Giunta UCPI sul DDL Nordio”, p. 1: «Molto positiva la introduzione del divieto di impugnazione delle sentenze di assoluzione, ancorché limitato ai soli reati a citazione diretta. Si tratta di un primo passo verso la piena realizzazione di una delle più antiche battaglie dei penalisti italiani. C’è ancora molto da fare, ma la novità deve essere salutata con grande soddisfazione».
[43] G. Spangher, Pacchetto Nordio, cit.
[44] G. Spangher, in DDL Nordio: abrogare la legittimazione del PM ad appellare la sentenza di proscioglimento?, in www.altalex.com, 26 luglio 2023.
[45] C. cost., 6.2.2007, n. 26, con note di F. Caprioli, Inappellabilità delle sentenze di proscioglimento e “parità delle armi” nel processo penale, in GCost, 2007, 250; M. Ceresa Gastaldo, Non è costituzionalmente tollerabile la menomazione del potere di appello del pubblico ministero, in CP, 2007, 1894; F. Chiaia, L’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento davanti alla Corte costituzionale, in www.forumcostituzionale.it; A. De Caro, L’illegittimità costituzionale del divieto di appello del pubblico ministero tra parità delle parti e diritto al controllo di merito della decisione, in DPP, 2007, 618; P. Ferrua, La sentenza costituzionale sull’inappellabilità del proscioglimento e il diritto al “riesame” dell’imputato, in DPP, 2007, 611; A. Gaito, Il ritorno della Consulta alla cultura processuale inquisitoria (a proposito della funzione del p.m. nelle impugnazioni penali), in GCost, 2007, 240; R. Gambini, Ancora un abuso del parametro della ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in DPP, 2007, 630; F. Liaci, L’efficacia temporale della declaratoria di illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 10, comma 2, l. n. 46 del 2006, in CP, 2008, 4198; E.A. Marzaduri, La parità delle armi nel processo penale, in QCost, 2007, 378; L. Pulito, Incostituzionale l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del p.m.: una decisione che non va oltre ogni ragionevole dubbio, in ANPP, 2007, 312; M. Vessichelli, Possibili effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 26 del 2007, in CP, 2007, 1982; v. anche M. Betzu, Pubblico ministero e imputato nella sentenza n. 26 del 2007: la parità e il suo mito, in www.forumcostituzionale.it; sul tema v. anche A. De Caro, Riflessioni sulla legittimità costituzionale dell’appello alla vigilia del dibattito parlamentare sulla riforma di parte del processo penale, in www.archiviopenale.it, 2020, num. 2; G.M. Flick, Costituzione e processo penale tra principio di ragionevolezza e uno sguardo verso l’Europa, in Questione giustizia, 2010, num. 1, 9.
[46] Con la sentenza C. cost., ud. pubbl. 10.7.2007, dep. 20.7.2007, n. 320, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, modificando l’art. 443, comma 1, c.p.p., esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato, nonché dell’art. 10, comma 2, della citata legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui prevede che l’appello proposto dal pubblico ministero, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, contro una sentenza di proscioglimento emessa a seguito di giudizio abbreviato, è dichiarato inammissibile. Nella motivazione della sentenza in esame di osserva che «Vale evidentemente, anche in rapporto alla norma oggi censurata, quanto preliminarmente osservato dalla citata sentenza n. 26 del 2007: e, cioè, che al di sotto dell’assimilazione formale delle parti – “l’imputato e il pubblico ministero non possono proporre appello contro le sentenze di proscioglimento” (così il novellato art. 443, comma 1, cod. proc. pen.) – detta norma racchiude “una dissimmetria radicale”. A differenza dell’imputato – il quale resta abilitato ad appellare le sentenze che affermino la sua responsabilità – il pubblico ministero viene, infatti, totalmente privato del simmetrico potere di proporre doglianze di merito avverso la pronuncia che disattenda in modo integrale la pretesa punitiva. Menomazione, questa, che non può ritenersi compensata dall’ampliamento dei motivi del ricorso per cassazione, parallelamente operato – peraltro a favore di entrambe le parti – dall’art. 8 della stessa legge n. 46 del 2006 (modificativo dell’art. 606, comma 1, cod. proc. pen.): giacché – quale che sia l’effettiva portata dei nuovi e più ampi casi di ricorso – il rimedio non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito, consentito dall’appello. È altrettanto evidente, d’altronde, come le considerazioni, sulla cui scorta questa Corte ha reiteratamente affermato la legittimità dell’originario limite all’appello della parte pubblica nel giudizio abbreviato, di cui al comma 3 dell’art. 443 cod. proc. pen., non possano valere con riguardo alla preclusione che al presente interessa. Come già ricordato, difatti, la dissimmetria conseguente all’inappellabilità, da parte del pubblico ministero, delle sentenze di condanna che non modifichino il titolo del reato, è stata ritenuta “incensurabile sul piano della ragionevolezza in quanto proporzionata al fine preminente della speditezza del processo”, sotteso al giudizio abbreviato: e ciò perché si tratta di sentenze che – sia pure con una difformità di ordine “quantitativo” rispetto alle richieste dell’accusa – implicano comunque la realizzazione della pretesa punitiva azionata. Analoga valutazione non potrebbe essere ovviamente operata rispetto alla radicale ablazione del potere di appellare le sentenze di proscioglimento, che quella pretesa punitiva disattendono viceversa in toto. Ma, anche a voler prescindere dalle indicazioni ricavabili dalla pregressa giurisprudenza costituzionale ora ricordata, deve comunque escludersi che la suddetta ablazione possa venir giustificata dall’obiettivo di assicurare una maggiore celerità nella definizione dei processi svoltisi in primo grado con il rito abbreviato. Maggiore celerità che peraltro – come già rimarcato – non risulta evocata, a fondamento della norma impugnata, nei lavori parlamentari; e che neppure è detto si verifichi, stante la possibilità che la natura, di regola solo rescindente, del giudizio di cassazione determini – nel caso di impugnazione di una sentenza di proscioglimento viziata – un incremento dei gradi di giudizio occorrenti per pervenire alla sentenza definitiva. In proposito, resta infatti assorbente il rilievo che, per costante affermazione di questa Corte, il valore costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.) – cui si raccordano le previsioni normative intese a realizzare economie di tempi e di energie processuali – va contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali (ex plurimis, sentenza n. 219 del 2004; ordinanze n. 420 e n. 418 del 2004) e non può essere comunque perseguito «attraverso la totale soppressione di rilevanti facoltà di una sola delle parti» (sentenza n. 26 del 2007). Tale conclusione appare tanto più valida a fronte della fisionomia, già per il resto sensibilmente sbilanciata sul versante della parte pubblica, che – a seguito dell’evoluzione dianzi ripercorsa – ha attualmente assunto l’istituto del giudizio abbreviato: con conseguente significativa attenuazione – rispetto all’assetto d’origine – della valenza del “sacrificio” insito nella rinuncia al contraddittorio nella formazione della prova, ad opera dell’imputato. […] Ne deriva, in conclusione, un quadro d’assieme antitetico rispetto alla possibilità di giustificare l’integrale ablazione del potere di appello del pubblico ministero, avverso le sentenze di proscioglimento, in una prospettiva di riequilibrio complessivo dei poteri accordati alle parti nell’ambito del rito de quo. A ciò va aggiunto che la disposizione denunciata ha determinato anche una intrinseca incoerenza nella disciplina delle impugnazioni del pubblico ministero, similare a quella indotta – con riferimento al rito ordinario – dall’art. 1 della stessa n. 46 del 2006 e già censurata da questa Corte (sentenza n. 26 del 2007). A seguito della modifica normativa in esame, infatti, il pubblico ministero resta privo del potere di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, che disattendono completamente le istanze dell’accusa; mentre mantiene il potere di appellare le sentenze di condanna che mutino il titolo del reato, le quali invece recepiscono, sia pure parzialmente, le predette istanze, affermando la responsabilità dell’imputato». Sulla sentenza in questione v., nella dottrina, F. Caprioli, Limiti all’appello del pubblico ministero e parità delle parti nel giudizio abbreviato, in GCost, 2007, 3112; A. Matteucci, La declaratoria di illegittimità costituzionale per i limiti all’appellabilità delle sentenze di proscioglimento nel giudizio abbreviato, in L’indice penale, 2008, 625.
[47] Cfr., ex plurimis, C. cost., 24.3.1994, n. 98, con nota di G. Spangher, Giudizio abbreviato ed appello incidentale del pubblico ministero, in GCost, 1994, 894 e di A. Marandola, I limiti dell’appello incidentale del pubblico ministero nel rito abbreviato tra le Sezioni unite e la Corte costituzionale, in CP, 1994, 2375, la quale ha dichiarato non fondata non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 443 e 595 del codice di procedura penale – nella parte in cui non consentono al pubblico ministero, in esito al giudizio abbreviato, di proporre impugnazione incidentale nel caso in cui l’imputato proponga appello avverso la sentenza di condanna – sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, osservando in motivazione che «Questa Corte, pur avendo affermato (sentenza n. 177 del 1971) che, in riferimento all’art. 112 della Costituzione, il potere di impugnazione “è un’estrinsecazione ed un aspetto dell’azione penale, un atto conseguente ( ..) al promovimento dell’azione penale”, ha tuttavia escluso (arg. ex sent. n. 363 del 1991) che esso debba configurarsi in modo simmetrico rispetto al diritto di difesa dell’imputato. Difatti nell’ultima delle sentenze citate, mentre si è affermato che il potere di impugnazione riconosciuto in via di principio all’imputato quale esplicazione del diritto di difesa e dell’interesse a far valere la propria innocenza non può essere sacrificato in vista delle finalità deflattive cui si affida la previsione del giudizio abbreviato, non si è ritenuto che tale riconoscimento ne comporti uno corrispondente per il pubblico ministero, le cui funzioni non sono assistite da garanzie di intensità pari a quelle assicurate all’imputato dall’art. 24 della Costituzione il quale non riguarda l’organo di accusa. La configurazione dei poteri del pubblico ministero rimane perciò affidata alla legge ordinaria, che potrebbe essere censurata per irragionevolezza solo se i poteri stessi, nel loro complesso, dovessero risultare inidonei all’assolvimento dei compiti previsti dall’art. 112 della Costituzione. D’altronde non può disconoscersi come la vigente disciplina preveda, in alcune fasi del procedimento penale, talune posizioni di vantaggio per l’organo d’accusa, il che non fa apparire irragionevole che il legislatore, per realizzare a pieno il diritto di difesa costituzionalmente garantito e ristabilire la parità processuale, munisca in altre fasi l’imputato di altri poteri cui non debbano necessariamente corrispondere simmetrici poteri per il pubblico ministero, fatte salve ovviamente le posizioni a questi costituzionalmente garantite ai fini del complessivo assolvimento delle sue attribuzioni. Né può dimenticarsi, comunque, che è l’art. 24 della Costituzione ad assumere nella disciplina processuale valore preminente, essendo il diritto di difesa inserito nel quadro dei diritti inviolabili della persona, talché, anche secondo l’indirizzo costante di questa Corte (in cui la riaffermazione del principio della “parità delle armi” tra accusa e imputato si è modulata non solo e tanto sull’identità delle rispettive posizioni, quanto sul raccordo con l’esigenza di non comprimere poteri e facoltà dell’imputato riconducibili al precetto dell’art. 24 della Costituzione), esso non potrebbe essere sacrificato in vista di altre esigenze, come quella relativa alla speditezza del processo. Diverso è il valore dell’art. 112 della Costituzione, invocato nell’ordinanza di rinvio, in quanto esso, nell’attribuire al pubblico ministero l’esercizio dell’azione penale, configura un potere che legittimamente può cedere di fronte ad esigenze del tipo di quella indicata, che non potrebbero invece condizionare, al di là dell’indispensabile, il diritto di difesa, senza per questo porre in discussione neppure il principio di uguaglianza, anch’esso invocato dal giudice a quo. Difatti la diversità dei poteri spettanti, ai fini delle impugnazioni, all’imputato ed al pubblico ministero è giustificata dalla differente garanzia rispettivamente loro assicurata dagli artt. 24 e 112 della Costituzione. Per quel che riguarda in particolare la questione oggetto dell’incidente di costituzionalità, devesi osservare che non spetta a questa Corte prendere posizione sul nesso tra potere di impugnazione principale e potere di impugnazione incidentale. Se il giudice penale ritenga, nell’interpretare le norme vigenti, che il secondo non possa essere riconosciuto ad una parte processuale che non sia titolare del primo, ciò non pone problemi di costituzionalità perché, sia in base alla precedente giurisprudenza (sent. n. 363 del 1991) che alle ragioni esposte in precedenza, il trattamento che risulta in tal modo diversificato relativamente alle parti del processo penale, avrebbe rilevanza sotto tale profilo soltanto se venisse messo in qualche modo in discussione l’art. 24 della Costituzione il quale, però, come si è detto, non riguarda i poteri del pubblico ministero»; v. anche, sempre sul principio di parità tra accusa e difesa prima della riforma dell’art. 111 Cost., C. cost., 10.11.1992, n. 432, con nota di M. Scaparone, Parità di armi nel procedimento di riesame, in GCost 1992, 4039,nella quale si ribadisce che «il principio di parità tra accusa e difesa non comporta necessariamente identità fra la posizione ed i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato e del suo difensore, dal momento che “la natura di organo giudiziario, propria del pubblico ministero, può giustificare modalità di esercizio del diritto di azione regolate in rapporto alla struttura stessa dell’organo” (v. sentt.n. 155 del 1974 e n. 363 del 1991). Il principio di parità tra accusa e difesa sanzionato nell’art 2 n. 3 della legge-delega deve, pertanto, ritenersi rispettato quando la disciplina del procedimento sia tale da garantire una partecipazione dell’organo della pubblica accusa alle varie fasi del processo secondo forme adeguate e con modalità rispondenti alla natura particolare dell’organo. Tale principio non comporta, invece, che l’ufficio del pubblico ministero debba rimanere immutato nei vari gradi del procedimento»; C. cost., 23.7.1991, n. 363; C. cost., 23.12.1998, ord. n. 426; C. cost., 20.7.1994, ord. n. 324; C. cost., 24.6.1992, ord. n. 305.
[48] C. cost., 6.2.2007, n. 26, cit., nella parte in cui richiama le seguenti ordinanze: C. cost., 27.1.2004, ord. n. 46, con nota di G. Spangher, Resta ianppellabile per il p.m. – anche in via incidentale – la sentenza di condanna del giudizio abbreviato, in GCost 2004, 637 e di G. Mantovani, Giudizio abbreviato e appello incidentale del p.m., in LP, 2004, 341; C. cost., 9.5.2003, ord. n. 165; C. cost., 16.7.2002, ord. n. 347; C. cost., 21.12.2001, ord. n. 421, con nota di G. Spangher, Restano inappellabili per il p.m. le sentenze di condanna del rito abbreviato, in GCost 2001, 4008.
[49] C. cost., 6.2.2007, n. 26, cit., che peraltro richiama la sua precedente giurisprudenza (si vedano le sentenze C. cost., 9.5.2001, n. 115 e C. cost., e C. cost., 24.3.1994, n. 98, cit.).
[50] Cfr. C. cost., 28.6.1995, n. 280, con nota di F. Peroni, Infondati i dubbi di incostituzionalità sull’appello incidentale del P.M., in DPP, 1996, 54, nella quale si afferma che «il doppio grado di giurisdizione, così diffuso e tradizionale nell’ordinamento italiano, non è oggetto di un diritto elevato a rango costituzionale, sì che ogni scelta circa l’adozione o meno dell’appello incidentale nel processo penale non può che essere riservata al legislatore»; C. cost., 4.7.2002, ord. n. 316, secondo la quale «la garanzia del doppio grado di giurisdizione, che peraltro non ha ricevuto riconoscimento costituzionale, non va intesa, ove prevista dall’ordinamento, nel senso che “tutte le questioni debbono essere decise da due giudici di diversa istanza, ma nel senso che deve essere data la possibilità di sottoporre tali questioni a due giudici di diversa istanza, anche se il primo non le abbia tutte decise”».
[51] Cfr. C. cost., 28.6.1995, n. 280, cit.; C. cost., 9.5.2003, ord. n. 165, cit.; C. cost., 16.7.2002, ord. n. 347; C. cost., 21.12.2001, ord. n. 421, cit.; C. cost., 23.12.1998, ord. n. 426, cit.
[52] Cfr. C. cost., 24.3.1994, n. 98, cit.
[53] Come è noto, l’art. 4 del D. Lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, ha escluso il pubblico ministero dalla titolarità dell’appello incidentale.
[54] Cfr. C. cost., 23.7.1991, n. 363, cit.; C. cost., 24.6.1992, ord. n. 305, cit.; C. cost., 23.7.1991, ord. n. 373.
[55] Cfr. C. cost., 27.1.2004, ord. n. 46, cit.; C. cost., 9.5.2003, ord. n. 165, cit.; C. cost., 16.7.2002, ord. n. 347, cit.; C. cost., 21.12.2001, ord. n. 421, cit.
[56] Al riguardo, si veda la sentenza C. cost., 24.3.1994, n. 98, cit.
[57] Cfr. la sentenza C. cost., 23.7.1991, n. 363, cit.
[58] C. cost., 24.3.1994, n. 98, cit.
[59] In tal senso sono sintetizzate le censure mosse dai Giudici rimettenti nella sentenza C. cost. 6.2.2007, n. 26, cit.
[60] Cfr. G. Spangher, Pacchetto Nordio, cit.: «Si è invero da subito prospettata l’ipotesi della declaratoria di incostituzionalità richiamando il precedente della legge Pecorella e della sentenza n. 26 del 2007. Va però detto che proprio nella motivazione di quella decisione nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 593 c.p.p., da un lato si evidenziava come l’esclusione fosse operante globalmente relativamente alle sentenze di proscioglimento e dall’altro non poteva escludersi una diversa valutazione nel caso in cui l’esclusione fosse circoscritta a situazioni di minor allarme sociale. E deve essere comunque sottolineato che si tratta di una novità significativa considerate le possibili decisioni (tra le quali la particolare tenuità del fatto) che vengono sottratte all’appello del pubblico ministero. La riforma non tocca la disciplina del rito abbreviato e le decisioni di non doversi procedere emesse nell’udienza preliminare e nell’udienza predibattimentale. Si ricorderà che la commissione Lattanzi aveva già escluso in senso ampio la legittimazione del p.m. ad appellare le sentenze di proscioglimento, seppur raccordandola alla tassatività dei motivi di appello dell’imputato (già previsti come specifici). Deve comunque ritenersi che il percorso che porta alla generale inappellabilità da parte del p.m. delle sentenze di proscioglimento sia tracciata. La Cartabia peraltro ridimensiona la rinnovazione probatoria nell’appello del p.m. (ove attivabile)».
[61] C. cost., 6.2.2007, n. 26, cit.
[62] C. cost., 13.2.2009, ord. n. 42, la quale ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 36 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), come modificato dall’art. 9, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di Sondrio; v. anche, in precedenza, C. cost., 25.7.2008, n. 298.
[63] C. cost., 25.7.2008, n. 298.
[64] C. cost., 13.2.2009, ord. n. 42, cit.; C. cost., 25.7.2008, n. 298, cit.
[65] C. cost., 26.2.2020, n. 34, la quale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in ordine all’art. 593 c.p.p., come sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera a), del D. Lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, recante “Disposizioni di modifica della disciplina in materia di giudizi di impugnazione in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 84, lettere f), g), h), i), l) e m), della legge 23 giugno 2017, n. 103”, nella parte in cui prevede che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di condanna “solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato”; sulla pronuncia v. i commenti di V. Aiuto, La ragionevole inappellabilità delle condanne per il pubblico ministero, in RIDPP,2020, 1137; E.Aprile, Osservazioni alla sentenza n. 34 del 2020, in CP, 2020, 1957; A. Barbieri, L’appello del pubblico ministero tra obbligatorietà dell’azione penale ed efficienza giudiziaria, in www.sistemapenale.it, 2020, 17; J. Della Torre, La Corte costituzionale promuove i limiti all’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di condanna dell’imputato, in RDP, 2020, 1331; A. Marandola, Non è illegittima la preclusione per il pubblico ministero di contestare, in appello, il trattamento sanzionatorio stabilito nella sentenza di condanna, in GCost, 2020, 286;G. Spangher, La pena resta inappellabile per il p.m.: “decisione corretta” motivazione inadeguata, in CP, 2020, 2358; L. Tavassi, I limiti costituzionali all’appello del pubblico ministero, in www.archiviopenale.it, 2020, num. 3.
[66] C. cost., 6.2.2007, n. 26, cit.
[67] In tale prospettiva – nella consapevolezza di dover confrontarsi con il precedente della Consulta – si esprime anche la Relazione al D.d.l., ove si osserva che «L’intervento mira a ridisegnare il potere d’impugnazione del pubblico ministero, tenendo conto – nel limitarlo – di quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 26 del 6 febbraio 2007: in particolare si dà carico dell’esigenza che la rimodulazione del potere di appellare del pubblico ministero non risulti né “generalizzata” né “unilaterale”, considerati – a tale ultimo riguardo – i limiti del potere di appello dell’imputato introdotti dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150».
[68] G. Pestelli, DDL Nordio: abrogare la legittimazione del PM ad appellare la sentenza di proscioglimento?, in www.altalex.com, 26 luglio 2023.
[69] Sul tema v. O. Murro, I nuovi limiti all’appello. Tra ambizioni e compromessi, in Aa.Vv., La riforma Cartabia. Codice penale – Codice di procedura penale – Giustizia riparativa, a cura di G. Spangher, Pacini Giuridica, 2022,595 ss. e in particolare il par. § 3 intitolato Le ambiziose proposte della Commissione Lattanzi: l’abolizione dell’appello del pubblico ministero, ivi, 601, ove si evidenzia che «nella proposta, infatti, si paventa la radicale abolizione dell’appello del pubblico ministero e l’impugnazione a critica vincolata per l’imputato, oltre alla previsione di inappellabilità – per l’imputato – delle sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa e della sentenza di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità».
[70] C. cost., 26.2.2020, n. 34, cit.
[71] V. infatti l’orientamento assunto al riguardo da C. cost., 6.2.2007, n. 26, cit.: «A sostegno della soluzione normativa censurata, si è rilevato, anzitutto, che l’avvenuto proscioglimento in primo grado – rafforzando la presunzione di non colpevolezza – impedirebbe che l’imputato, già dichiarato innocente da un giudice, possa essere considerato da altro giudice colpevole del reato contestatogli “al di là di ogni ragionevole dubbio”, secondo quanto richiesto, ai fini della condanna, dall’art. 533, comma 1, cod. proc. pen., come novellato dall’art. 5 della stessa legge n. 46 del 2006. In simile situazione, la reiterazione dei tentativi dello Stato per condannare un individuo già risultato innocente verrebbe dunque ad assumere una connotazione “persecutoria”, contraria ai “principi di uno Stato democratico” (in questo senso, in particolare, l’illustrazione della proposta di legge A.C. 4604 da parte dei relatori alla Commissione giustizia della Camera dei deputati). Al riguardo, è peraltro sufficiente osservare come la sussistenza o meno della colpevolezza dell’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio” rappresenti la risultante di una valutazione: e la previsione di un secondo grado di giurisdizione di merito trova la sua giustificazione proprio nell’opportunità di una verifica piena della correttezza delle valutazioni del giudice di primo grado, che non avrebbe senso dunque presupporre esatte, equivalendo ciò a negare la ragione stessa dell’istituto dell’appello. In effetti, se il doppio grado mira a rafforzare un giudizio di “certezza”, esso non può non riflettersi sui diversi approdi decisori cui il giudizio di primo grado può pervenire: quello di colpevolezza, appunto, ma, evidentemente, anche quello – antitetico – di innocenza. In tale ottica, l’iniziativa del pubblico ministero volta alla verifica dei possibili (ed eventualmente, anche evidenti) errori commessi dal primo giudice, nel negare la responsabilità dell’imputato, non può qualificarsi, in sé, “persecutoria”; essa ha, infatti, come scopo istituzionale quello di assicurare la corretta applicazione della legge penale nel caso concreto e – tramite quest’ultima – l’effettiva attuazione dei principi di legalità e di eguaglianza, nella prospettiva della tutela dei molteplici interessi, connessi anche a diritti fondamentali, a cui presidio sono poste le norme incriminatrici. […] Si pone l’accento, da ultimo, sul rapporto solo “mediato” che il giudice dell’appello ha con le prove (in tale ottica, si veda nuovamente la citata illustrazione dei relatori della proposta di legge A.C. 4604): reputandosi, in specie, che comporti una situazione di diminuita garanzia – in rapporto ai principi di oralità e immediatezza, ispiratori del processo penale nel modello accusatorio – un assetto nel quale la decisione di proscioglimento di un giudice (quello di primo grado), che ha assistito alla formazione della prova nel contraddittorio fra le parti, può essere ribaltata da altro giudice (quello di appello), che fonda invece la sua decisione su una prova prevalentemente scritta. Ai fini della risoluzione dell’odierno incidente di costituzionalità, non è peraltro necessario scrutinare la condivisibilità o meno di tale affermazione, la quale evoca tensioni interne al vigente ordinamento processuale, connesse al mantenimento di impugnazioni di tipo tradizionale nell’ambito di un processo a carattere tendenzialmente accusatorio. A prescindere, difatti, dal rilievo che l’ipotizzata distonia del sistema – ove effettivamente riscontrabile – sussisterebbe anche in rapporto alle sentenze di condanna, per le quali il pubblico ministero mantiene il potere di appello, avuto riguardo alla possibile modifica in peius della decisione da parte del giudice di secondo grado come conseguenza di divergenti valutazioni di fatto (le quali portino, ad esempio, al mutamento del titolo del reato o al riconoscimento di una circostanza aggravante); è assorbente la considerazione che il rimedio all’eventuale deficit delle garanzie che assistono una parte processuale va rinvenuto – in via preliminare – in soluzioni che escludano quel difetto, e non già in una eliminazione dei poteri della parte contrapposta che generi un radicale squilibrio nelle rispettive posizioni».
[72] Come è noto, l’art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98, stabilisce al par. n. 1 che “Chiunque venga dichiarato colpevole di una infrazione penale da un tribunale ha
il diritto di sottoporre ad un Tribunale della giurisdizione superiore la dichiarazione di colpa o la condanna. L’esercizio di questo diritto, ivi inclusi i motivi per cui esso può essere invocato, sarà stabilito per legge”; il par. 2, tuttavia, prevede che “Tale diritto potrà essere oggetto di eccezioni in caso di infrazioni minori come stabilito da legge o in casi nei quali la persona interessata sia stata giudicata in prima istanza da un Tribunale della giurisdizione più elevata o sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento”; l’art. 14, par. 5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, stabilisce invece che “ Ogni individuo condannato per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità della legge”. Sulla rilevanza di tali previsioni cfr. la posizione assunta da C. cost., 6.2.2007, n. 26, cit.: «A fondamento della scelta legislativa in esame viene allegata, per altro verso, l’esigenza di uniformare l’ordinamento italiano alle previsioni dell’art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98; nonché dell’art. 14, paragrafo 5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881. Tali norme internazionali pattizie prevedono che ogni persona condannata per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza o la condanna siano riesaminati da un tribunale superiore o di seconda istanza: principio che – si sostiene – verrebbe vulnerato nel caso di condanna dell’imputato in secondo grado, conseguente all’appello del pubblico ministero avverso la sentenza di proscioglimento emessa in primo grado (in questa prospettiva, si veda la relazione del proponente alla proposta di legge A.C. 4604). Con riguardo ad entrambe le norme, questa Corte ebbe, peraltro, già in precedenza a rilevare come il riesame ad opera di un tribunale superiore, da esse previsto a favore dell’imputato, non debba necessariamente coincidere con un giudizio di merito, anziché con il ricorso per cassazione; e ciò perché l’obiettivo perseguito è quello di “assicurare comunque un’istanza davanti alla quale fare valere eventuali errori in procedendo o in iudicando commessi nel primo giudizio, con la conseguenza che il riesame nel merito interverrà solo ove tali errori risultino accertati” (sentenza n. 288 del 1997; si veda, altresì, la sentenza n. 62 del 1981). Al riguardo, non è, d’altro canto, senza significato la circostanza che il legislatore costituzionale del 1999 – nel riformulare l’art. 111 Cost., nell’ottica di un suo adeguamento ai principi del “giusto processo” – non sia intervenuto sul tema delle impugnazioni, continuando a riferirsi al ricorso per cassazione per violazione di legge come unico rimedio impugnatorio costituzionalmente imposto. Dirimente è, peraltro, il rilievo che, alla luce della disciplina – più recente ed analitica di quella del Patto internazionale – dell’art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 alla Convezione europea (su cui soprattutto fanno leva i lavori parlamentari), il diritto della persona dichiarata colpevole di un reato al riesame della “dichiarazione di colpa o di condanna”, da parte di un tribunale superiore, può essere oggetto di eccezioni – oltre che “in caso di infrazioni minori” e “in casi nei quali la persona interessata sia stata giudicata in prima istanza da un tribunale della giurisdizione più elevata” – anche quando essa “sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento” (paragrafo 2 del citato art. 2). Quest’ultima eccezione presuppone, evidentemente, che la legge interna contempli un potere di impugnazione contra reum, e quindi a favore dell’organo dell’accusa; essa implica pertanto il riconoscimento che tale potere – anche quando si tratti di impugnazione di merito – è compatibile con il sistema di tutela delineato dalla Convenzione e dallo stesso Protocollo, come del resto conferma la legislazione vigente in buona parte dei Paesi dell’Europa continentale».
[73] Ove si prevede che “Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice, ferme le disposizioni di cui ai commi da 1 a 3, dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio dibattimentale di primo grado o all’esito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato a norma degli articoli 438, comma 5, e 441, comma 5”.
[74] G. Spangher, DDL Nordio: abrogare la legittimazione del PM ad appellare la sentenza di proscioglimento?, op. cit.
[75] Cfr. le impressioni di G. Spangher, DDL Nordio: abrogare la legittimazione del PM ad appellare la sentenza di proscioglimento?, op. cit.: «È evidente che la riforma ha un forte significato di messaggio e di indirizzo nella progressione verso la più ampia esclusione della legittimazione del PM ad appellare le sentenze di proscioglimento»; Id., Pacchetto Nordio, op. cit.: «Pur nella frammentarietà dell’intervento riformatore è possibile trarre qualche riflessione, se non proprio di sistema, certamente di indicazione della finalità perseguita dal legislatore. L’ambito dell’intervento, prevalentemente incentrato nella fase delle indagini preliminari (esclusa cioè la questione della legittimazione del pubblico ministero) si incentra sul rafforzamento del ruolo del giudice cercando di evitare le situazioni patologiche più evidenti di lesione dei diritti personali in relazione a situazioni non necessitate dalle attività di accertamento sia dei soggetti sottoposti a procedimento penale sia di soggetti del tutto estranei. Il profilo significativo della riforma è legato, come detto, alla fascia medio bassa della criminalità e in questo contesto ad alcune posizioni soggettive (colletti bianchi e persone omologabili). Il segnale politico è quello di una visione, seppur timida, di recupero delle tutele individuali, senza pregiudicare l’accertamento dei reati ma marcando comunque una inversione di tendenza».