Il disegno di legge delega in materia penale attualmente oggetto dell’iter di approvazione parlamentare propone importanti modifiche che toccano i settori nevralgici del sistema penale sostanziale e procedurale.
Tra questi, offuscato dal clamore mediatico suscitato dalle disposizioni in materia di prescrizione del reato e improcedibilità dei giudizi, si colloca la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis c.p., per la quale si prevede una importante rivisitazione, che si caratterizza per la capacità di ricondurre a maggior coerenza quella microarea dell’ordinamento penale che risponde alla logica del principio di offensività.
Si riporta, per maggiore comodità e chiarezza di esposizione, il testo della norma qui di rilievo.
Articolo 1 comma 21, disegno di legge n. 2435-A – Modifiche all’art. 131 bis c.p.
Nell’esercizio della delega di cui al comma 1, i decreti legislativi recanti modifiche al codice penale in materia di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: a) per i reati diversi da quelli riconducibili alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul, l’11 maggio 2011, ratificata ai sensi della legge 27 giugno 2013, n. 77, prevedere come limite all’applicabilità della disciplina dell’articolo 131-bis del codice penale, in luogo della pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, sola o congiunta a pena pecuniaria; ampliare conseguentemente, se ritenuto opportuno sulla base di evidenze empirico-criminologiche o per ragioni di coerenza sistematica, il novero delle ipotesi in cui, ai sensi del secondo comma dell’articolo 131-bis del codice penale, l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità; b) dare rilievo alla condotta susseguente al reato ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell’offesa.
E’ dato ormai acquisito in ossequio alla sedimentazione dottrinale e giurisprudenziale sviluppatasi nel corso degli ultimi anni, che l’art. 131 bis c.p. costituisca, dal punto di vista dogmatico, una causa di non punibilità in senso stretto[1], e assuma la funzione di disinnescare la reazione punitiva quando il fatto, pur non essendo inoffensivo, sia caratterizzato da una offensività minima e trascurabile, in un’ottica di giusto contemperamento tra esigenze di pari rango: da un lato, l’obbligatorietà dell’azione penale e, dall’altro, interessi fondamentali quali la libertà personale, la funzione rieducativa della pena e la celerità della macchina giudiziaria[2] .
In buona sostanza, il legislatore ha rimesso al prudente apprezzamento del giudice la verifica in merito alla offensività in concreto della condotta, così da lasciare esente da responsabilità quei fatti connotati da uno scarso disvalore.
Accanto all’istituto del reato impossibile contemplato dall’art. 49, comma 2, c.p. – teso a sottrarre da sanzione penale i fatti sguarniti di offensività – il sistema penale si è dunque arricchito di un nuovo strumento volto a deflazionare la risposta giudiziaria in relazione a tutti quei fatti che, seppure non radicalmente inoffensivi, realizzino una lesione del bene giuridico protetto dalla fattispecie incriminatrice di minima gravità[3].
La norma, nel tessuto positivo vigente, è strutturata su un primo comma che detta le linee generali dell’istituto e fornisce una preliminare, sommaria, delimitazione del suo spazio operativo; un secondo comma che ne circoscrive ulteriormente, in negativo, il perimetro, escludendo da quest’ultimo alcune ipotesi criminose e alcune forme di manifestazione del reato; ulteriori tre commi con funzione eminentemente esplicativa in ordine agli step di computo dei quadri edittali rilevanti e di ragionamento giuridico sulla morfologia degli elementi strutturali dell’esimente.
Va subito precisato che il primo comma perimetra il novero delle ipotesi cui la norma si applica escludendo quelle punite con un “massimo edittale” che superi la soglia dei cinque anni di pena detentiva (sola o congiunta a pena pecuniaria).
Esso prevede, subito dopo, i criteri in relazione ai quali il giudice dovrà svolgere la valutazione sulla particolare tenuità del fatto: “per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma […]”.
Va altresì rilevato che il richiamato articolo 133 co. 1 c.p., apparentemente applicabile con solo riferimento ai nn. 1 e 2, unici segmenti normativi in grado di riferirsi univocamente alle nozioni di “modalità della condotta” e di “danno o pericolo”, è in realtà ritenuto integralmente adoperabile, secondo la più accorsata opinione giurisprudenziale, anche nella parte relativa all’intensità del dolo e al grado della colpa; a tal fine, infatti, soccorrerebbe il rinvio che l’art. 131 bis c.p. fa, senza ulteriori specificazioni o limitazioni, all’art. 133 co. 1 c.p., norma che include l’elemento soggettivo tra gli indici valutabili[4].
Tali premesse pongono le basi per il discostamento dell’istituto in parola dalla scia dell’offensività in senso stretto – che richiama la produzione o comunque la tipicità dell’evento dannoso o pericoloso cagionato (cfr. art. 49 co. 2 c.p.) – e per l’assunzione di un fondamento a maglie ampie, in grado di contemplare le sfumature oggettive e soggettive del fatto[5].
Detto altrimenti, se l’atipicità del fatto per inoffensività deriva strettamente dalla impossibilità di ritenere configurato l’evento in senso giuridico, la non punibilità per particolare tenuità dell’offesa ex art. 131 bis c.p. consegue, diversamente, ad una più articolata valutazione che, compendiando le sfaccettature oggettive e soggettive del reato (da vagliare unitamente), consenta di ritenere l’intero “fatto” non meritevole di sanzione penale.
Come inciderebbero i principi e i criteri direttivi della legge delega su questo primo comma?
È qui che, a parere di chi scrive, viene proposto il restyling più innovativo ed apprezzabile.
Se l’art. 131 bis c.p. si fonda sulla offensività o, meglio, sul disvalore trascurabile del fatto (globalmente inteso nelle sue componenti), che rende sovrabbondante l’adozione dello strumento penale nell’ottica deflattiva e di bisogno rieducativo dell’agente, esso – in maniera non difforme dalla diffusa ermeneutica in materia di offensività – costituisce comunque una questione da valutare in concreto e non in astratto.
Pare allora ragionevole la scelta del legislatore di correggere il tiro rispetto all’attuale formulazione lessicale della norma, ancorando il parametro ostativo non al massimo ma al minimo edittale (due anni di pena detentiva, sola o congiunta a pena pecuniaria), previsto per il reato, che rappresenta una indicazione affidabile di quanto l’entità del disvalore promanante dal fatto possa volgere verso il basso a seconda delle contingenze, cioè delle concrete potenzialità esplicative del comportamento umano nella vicenda storica in cui esso si incanala.
Difatti, non può escludersi che anche un reato astrattamente punito con un massimo edittale importante possa in concreto assumere un disvalore blando e trascurabile.
In questa apprezzabile logica, il minimo edittale superiore ad una determinata soglia denota un disvalore minimo, astrattamente concretizzabile nella realtà fattuale, che il legislatore ritiene ex se bisognoso di punizione, e dunque sottratto alla valutazione di tenuità ai fini della esclusione della sanzione penale. Di conseguenza, per andare esente da pena, occorre in questi casi più rigorosamente dimostrare, nella logica del reato impossibile, la totale inoffensività, mentre l’esistenza dell’offesa, qualora ritenuta meritevole di un certo minimum di sanzione, sarà sottratta dall’alveo operativo dell’esimente.
Con ogni probabilità, la nota sentenza della Corte costituzionale 25 giugno 2020 (dep. 21 luglio 2020), n. 156, ha contribuito al ripensamento dei meccanismi operativi dell’istituto, dichiarando l’incostituzionalità della norma nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati per i quali non sia espressamente previsto un minimo edittale di pena detentiva.
La Consulta ha infatti ritenuto applicabile la causa di non punibilità in esame ai casi in cui ad un massimo edittale superiore a cinque anni di pena detentiva faccia da contraltare un minimo edittale non previsto dalla norma, e dunque particolarmente blando, dovendosi ricorrere in via integrativa agli artt. 23 e 25 c.p., che fissano il minimo rispettivamente in quindici e cinque giorni.
Le argomentazioni profuse dal Giudice delle leggi nella sentenza richiamata svelano un monito, che si annida nei paragrafi 3.6. e 3.6.1. della motivazione in diritto, di cui si riportano i passaggi essenziali: «In linea generale, l’opzione del legislatore di consentire l’irrogazione della pena detentiva nella misura minima assoluta rivela inequivocabilmente che egli prevede possano rientrare nella sfera applicativa della norma incriminatrice anche condotte della più tenue offensività. Rispetto a queste ultime è dunque manifestamente irragionevole l’aprioristica esclusione dell’applicazione dell’esimente di cui all’art. 131-bis cod. pen., quale discende da un massimo edittale superiore ai cinque anni di reclusione.
3.6.1.– Il carattere generale dell’esimente di particolare tenuità di cui all’art. 131-bis cod. pen. impedisce a questa Corte di rinvenire nel sistema un ordine di grandezza che possa essere assunto a minimo edittale di pena detentiva sotto il quale l’esimente stessa potrebbe applicarsi comunque, a prescindere cioè dal massimo edittale. La stessa pena minima di sei mesi di reclusione, prevista per i reati menzionati dal giudice a quo come tertia comparationis, cioè furto, danneggiamento e truffa (artt. 624, primo comma, 635, primo comma, e 640, primo comma, cod. pen.), non è generalizzabile, neppure all’interno della categoria dei reati contro il patrimonio, ove solo si consideri la poliedricità del delitto di ricettazione. Ben potrà il legislatore, nell’esercizio della sua ampia discrezionalità in tema di estensione delle cause di non punibilità, fissare un minimo relativo di portata generale, al di sotto del quale l’applicazione dell’esimente di cui all’art. 131-bis cod. pen. non potrebbe essere preclusa dall’entità del massimo edittale».
La decisione sposta l’ago della bilancia, nel confronto tra il minimo e il massimo edittale quali fattori ostativi alla tenuità esimente, a favore del primo citato, ritenendosi, in estrema sintesi, che un minimo edittale significativamente basso compensi il (o possa tener luogo del) rigoroso massimo edittale astrattamente incompatibile con la causa di non punibilità.
La Riforma intende incidere sugli elementi strutturali del vigente primo comma dell’art. 131 bis c.p. anche sotto il profilo dei criteri di valutazione.
Attualmente, come innanzi esposto, il giudice verifica la particolare tenuità alla luce delle modalità della condotta e dell’esiguità dell’evento in senso giuridico, lette nella logica dell’art. 133, co. 1, c.p., ma non annovera la “condotta susseguente al reato”, la quale viene infatti menzionata soltanto dal seguente co. 2 dell’art. 133 cit.
Orbene, l’art. 133 co. 2, c.p. conserva, ai fini della elaborazione del trattamento sanzionatorio, una funzione di valutazione prognostica sul concreto bisogno rieducativo palesato dal reo, a propria volta ancorato al pericolo di ricaduta; laddove invece il co. 1 del medesimo articolo accede prevalentemente ad una logica retributiva per la colpevolezza palesata nella commissione del fatto-reato[6].
L’inserimento, nell’alveo dell’art. 131 bis c.p., della condotta successiva al fatto fornisce nuove possibili chiavi di lettura della esimente; o, plausibilmente, ne rafforza quella ratio che la dottrina e la giurisprudenza le hanno attribuito in sede di commento o di applicazione.
Il comportamento del reo successivo al fatto si caratterizza, ad una prima lettura, per due possibili direzioni, potendo esso esprimere tanto un indice del bisogno rieducativo, in un’ottica finalistica, quanto un indice della stessa offesa stricto sensu, in un’ottica riparativa.
Successivamente al commesso reato, infatti, il reo può tenere condotte che attestino un minor bisogno di rieducazione, poiché già emblematiche di una revisione critica di quanto realizzato; o può attuare comportamenti positivi tesi al ristoro per il danno cagionato, azioni che, mentre incidono sul piano dell’esigenza rieducativa, producono riverberi sugli effetti del fatto oggettivo con particolare riferimento alla riparazione del pregiudizio arrecato.
Da un lato, allora, la rimodulazione dell’art. 131 bis c.p. si pone in linea con quanto ritenuto dagli interpreti, che assegnano a questa causa di non punibilità la funzione di escludere, a date condizioni, la necessità di risocializzazione del reo con l’uso dell’incisivo strumento penale; dall’altro, l’innesto normativo assume una certa coerenza con lo spirito del disegno di legge, nella parte in cui mira a favorire l’implementazione degli istituti di giustizia riparativa (v. in particolare l’art. 9 co. 18 del disegno di legge delega).
È però vero anche il contrario: l’innesto normativo volto a valorizzare il comportamento successivo al fatto potrebbe, in senso opposto, svelare il concreto bisogno di trattamento sanzionatorio del reo, ricavabile, ad esempio, da atteggiamenti sprezzanti, dal rifiuto di riparare il danno, o da comportamenti che financo approfondiscono il complessivo pregiudizio arrecato alla vittima o incancreniscono i rapporti tra quest’ultima e l’autore dell’illecito[7].
Quanto a quel segmento dell’art. 131 bis c.p. (attualmente il comma 2) che si occupa di definire in negativo l’ambito di applicazione della norma, esso espunge dal suo raggio d’azione l’illecito penale che si sia manifestato con certe modalità che denotino una maggiore riprovevolezza e un maggior bisogno di risocializzazione del reo (motivi abbietti o futili, crudeltà – anche in danno di animali – sevizie, approfittamento della minorata difesa della vittima anche in riferimento alla sua età); che abbia sortito specifici eventi forniti ex se di una gravità non trascurabile e necessariamente assoggettabile a pena (morte della vittima); che si siano verificati in determinati contesti ove maggiore e più diffusivo può rivelarsi l’impulso a delinquere così come esponenziali potrebbero essere i danni cagionati (manifestazioni sportive, a condizione che si tratti di reati puniti con pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione); che sia fornito di un certo nomen iuris e sia commesso contro uno specifico soggetto passivo qualificato (delitto ex art. 343 c.p.; delitti ex artt. 336, 337, 341 bis c.p., quando commessi avverso un ufficiale o agente di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria nell’esercizio delle proprie funzioni)[8].
Sull’art. 131 bis co. 2 c.p. la Riforma Cartabia propone di incidere in due modi.
Da un lato, amplia il range dei reati non esentabili da pena, riversandovi ipotesi criminose individuate per relationem col richiamo alla Convenzione del Consiglio d’Europa dell’11 maggio 2011, sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata ai sensi della legge 27 giugno 2013, n. 77.
Saranno dunque verosimilmente escluse dall’applicazione della causa di non punibilità fattispecie che mirano a reprimere la violenza fisica, psicologica, sessuale di genere, quella occorsa nelle mura domestiche, quella posta in essere contro una vittima che l’ordinamento considera particolarmente bisognosa di protezione o vulnerabile: si immaginino i delitti di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p. (di per sé già escludibili pro futuro in base al minimo edittale superiore ai due anni), gli atti persecutori ex art. 612 bis c.p., i delitti contro la sfera sessuale, quelli introdotti o ritoccati con legge n. 69 del 2019 (c.d. Codice rosso), nonché quelli comunque riportabili, per morfologia e finalità di tutela, nel campo di azione degli articoli 33 e seguenti della citata Convenzione.
Su altro versante, la Riforma incide, sul piano generale, introducendo una clausola di apertura che consente al Governo di ampliare il raggio escludente dell’art. 131 bis co. 2 c.p. per ragioni sistematiche o di evidenza empirico-criminologica. In altri termini, il Governo è chiamato ad aggiornare l’elenco dei fatti illeciti che, a prescindere dal quadro edittale previsto per il singolo reato, non possono mai ritenersi connotati da particolare tenuità, o sulla scorta di valutazioni criminologiche che illustrino l’ineluttabile esigenza punitiva sottratta alla valutazione dell’ermeneuta, o sulla base di riflessioni di coerenza interna del sistema, ad esempio includendo reati o circostanze irragionevolmente non ancora considerati dal divieto.
Nel riconoscere i pregi della Riforma, non possono sottacersi alcune persistenti riserve in ordine alla sussistenza, nell’attuale sistema penale, di fattispecie che, pur godendo di una capacità di estrinsecazione in linea con la blanda offensività che giustificherebbe la paralisi dell’intervento penale, godono allo stato di un trattamento sanzionatorio particolarmente severo che sfugge alle maglie di operatività della esimente.
La revisione dell’articolo 131 bis c.p. non può non implicare una seria riconsiderazione dei quadri edittali previsti per alcune figure criminose, che ragionevolmente consenta alle stesse di rientrare nel raggio di azione dell’istituto della particolare tenuità. Si consideri ad esempio il furto pluriaggravato, per il quale è prevista la pena detentiva da tre a dieci anni ma che, nella prassi giudiziaria, spesso assume forme di allarme sociale tutt’altro che spiccato.
Né, probabilmente, appaga del tutto l’esclusione delle circostanze ad effetto comune dal novero di quelle utili al computo del quadro edittale utile all’applicazione dell’art. 131 bis c.p., atteso che esse contribuiscono in maniera decisiva alla enucleazione del complessivo disvalore del fatto.
[1] Y. Parziale, La mancata concessione della speciale causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. all’autore del delitto di resistenza a un pubblico ufficiale è costituzionalmente legittima, in Cass. pen., 6, 2021, pag. 2032 ss.
[2] Nonostante l’istituto sia animato anche dalla logica deflattiva della macchina giudiziaria, rimane allo stato non annoverata dal codice di rito la possibilità per il giudice di pronunziare sentenza ex art. 129 c.p.p. per particolare tenuità del fatto una volta ultimata l’assunzione delle prove a carico, a cagione della non inclusione delle cause di non punibilità in senso stretto tra i presupposti della immediata declaratoria di non punibilità.
[3] In termini, Cass. sez. VI, 9 marzo 2016 (dep. 9 maggio 2016), n. 19126, in Giur. pen. (web), 2016, 7, con nota di F. Lombardi; nella recente dottrina, cfr. C. Gentile, Offensività minima e particolare tenuità del fatto, in Cass. pen., 2021, 4, p. 1292 s.).
[4] Cfr. le sentenze nn. 13681 e 13682, entrambe pronunziate dalle Sezioni unite il 25.2.2016; in senso critico, A. Varvaressos, Non punibilità per particolare tenuità del fatto e reati con soglie di offensività: osservazioni a Sezioni unite 13681/2016, in Cass. pen., 2016, 7-8, p. 2842B; sulla possibilità di filtrare gli elementi oggettivi tramite il vaglio della colpevolezza, L. Brizi, L’applicabilità dell’art. 131-bis nelle ipotesi di continuazione di reati: un dialogo davvero (im)possibile?, in Cass. pen., 2016, 9, p. 3269.
[5] L’assunto è coerente con la rubrica della norma, che si rivolge alla “tenuità del fatto”, e alla circostanza per cui, laddove l’art. 131 bis co. 1 c.p. si riferisce alla “offesa… di particolare tenuità”, il termine offesa non può che essere inteso come “disvalore complessivo del fatto”, essendo “l’esiguità del danno o del pericolo” (cioè l’esiguità della “offesa”) soltanto uno degli elementi che l’interprete deve soppesare nell’applicazione dell’istituto.
[6] D. Pulitanò, Diritto penale, Giappichelli, 2013, p. 490; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, parte generale, Zanichelli, 2011, p. 744 s.
[7] Cfr. R. Borsari, Decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28 recante “Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’art. 1, comma 1 lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67, in Leg. pen. (web), 15.03.2016.
[8] Frammento quest’ultimo oggetto di una pronunzia conservativa della Corte costituzionale, che ha dichiarato inammissibili e infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Torino e Torre Annunziata, con sentenza n. 30 del 2021; in dottrina, V. Bove, Resistenza a pubblico ufficiale ed esclusione della particolare tenuità del fatto: per la Consulta non c’è incostituzionalità, in Il Penalista, 19 maggio 2021.
Le modifiche alla causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.). Riflessioni sparse
Il disegno di legge delega in materia penale attualmente oggetto dell’iter di approvazione parlamentare propone importanti modifiche che toccano i settori nevralgici del sistema penale sostanziale e procedurale.
Tra questi, offuscato dal clamore mediatico suscitato dalle disposizioni in materia di prescrizione del reato e improcedibilità dei giudizi, si colloca la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis c.p., per la quale si prevede una importante rivisitazione, che si caratterizza per la capacità di ricondurre a maggior coerenza quella microarea dell’ordinamento penale che risponde alla logica del principio di offensività.
Si riporta, per maggiore comodità e chiarezza di esposizione, il testo della norma qui di rilievo.
Articolo 1 comma 21, disegno di legge n. 2435-A – Modifiche all’art. 131 bis c.p.
Nell’esercizio della delega di cui al comma 1, i decreti legislativi recanti modifiche al codice penale in materia di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: a) per i reati diversi da quelli riconducibili alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul, l’11 maggio 2011, ratificata ai sensi della legge 27 giugno 2013, n. 77, prevedere come limite all’applicabilità della disciplina dell’articolo 131-bis del codice penale, in luogo della pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, sola o congiunta a pena pecuniaria; ampliare conseguentemente, se ritenuto opportuno sulla base di evidenze empirico-criminologiche o per ragioni di coerenza sistematica, il novero delle ipotesi in cui, ai sensi del secondo comma dell’articolo 131-bis del codice penale, l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità; b) dare rilievo alla condotta susseguente al reato ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell’offesa.
E’ dato ormai acquisito in ossequio alla sedimentazione dottrinale e giurisprudenziale sviluppatasi nel corso degli ultimi anni, che l’art. 131 bis c.p. costituisca, dal punto di vista dogmatico, una causa di non punibilità in senso stretto[1], e assuma la funzione di disinnescare la reazione punitiva quando il fatto, pur non essendo inoffensivo, sia caratterizzato da una offensività minima e trascurabile, in un’ottica di giusto contemperamento tra esigenze di pari rango: da un lato, l’obbligatorietà dell’azione penale e, dall’altro, interessi fondamentali quali la libertà personale, la funzione rieducativa della pena e la celerità della macchina giudiziaria[2] .
In buona sostanza, il legislatore ha rimesso al prudente apprezzamento del giudice la verifica in merito alla offensività in concreto della condotta, così da lasciare esente da responsabilità quei fatti connotati da uno scarso disvalore.
Accanto all’istituto del reato impossibile contemplato dall’art. 49, comma 2, c.p. – teso a sottrarre da sanzione penale i fatti sguarniti di offensività – il sistema penale si è dunque arricchito di un nuovo strumento volto a deflazionare la risposta giudiziaria in relazione a tutti quei fatti che, seppure non radicalmente inoffensivi, realizzino una lesione del bene giuridico protetto dalla fattispecie incriminatrice di minima gravità[3].
La norma, nel tessuto positivo vigente, è strutturata su un primo comma che detta le linee generali dell’istituto e fornisce una preliminare, sommaria, delimitazione del suo spazio operativo; un secondo comma che ne circoscrive ulteriormente, in negativo, il perimetro, escludendo da quest’ultimo alcune ipotesi criminose e alcune forme di manifestazione del reato; ulteriori tre commi con funzione eminentemente esplicativa in ordine agli step di computo dei quadri edittali rilevanti e di ragionamento giuridico sulla morfologia degli elementi strutturali dell’esimente.
Va subito precisato che il primo comma perimetra il novero delle ipotesi cui la norma si applica escludendo quelle punite con un “massimo edittale” che superi la soglia dei cinque anni di pena detentiva (sola o congiunta a pena pecuniaria).
Esso prevede, subito dopo, i criteri in relazione ai quali il giudice dovrà svolgere la valutazione sulla particolare tenuità del fatto: “per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma […]”.
Va altresì rilevato che il richiamato articolo 133 co. 1 c.p., apparentemente applicabile con solo riferimento ai nn. 1 e 2, unici segmenti normativi in grado di riferirsi univocamente alle nozioni di “modalità della condotta” e di “danno o pericolo”, è in realtà ritenuto integralmente adoperabile, secondo la più accorsata opinione giurisprudenziale, anche nella parte relativa all’intensità del dolo e al grado della colpa; a tal fine, infatti, soccorrerebbe il rinvio che l’art. 131 bis c.p. fa, senza ulteriori specificazioni o limitazioni, all’art. 133 co. 1 c.p., norma che include l’elemento soggettivo tra gli indici valutabili[4].
Tali premesse pongono le basi per il discostamento dell’istituto in parola dalla scia dell’offensività in senso stretto – che richiama la produzione o comunque la tipicità dell’evento dannoso o pericoloso cagionato (cfr. art. 49 co. 2 c.p.) – e per l’assunzione di un fondamento a maglie ampie, in grado di contemplare le sfumature oggettive e soggettive del fatto[5].
Detto altrimenti, se l’atipicità del fatto per inoffensività deriva strettamente dalla impossibilità di ritenere configurato l’evento in senso giuridico, la non punibilità per particolare tenuità dell’offesa ex art. 131 bis c.p. consegue, diversamente, ad una più articolata valutazione che, compendiando le sfaccettature oggettive e soggettive del reato (da vagliare unitamente), consenta di ritenere l’intero “fatto” non meritevole di sanzione penale.
Come inciderebbero i principi e i criteri direttivi della legge delega su questo primo comma?
È qui che, a parere di chi scrive, viene proposto il restyling più innovativo ed apprezzabile.
Se l’art. 131 bis c.p. si fonda sulla offensività o, meglio, sul disvalore trascurabile del fatto (globalmente inteso nelle sue componenti), che rende sovrabbondante l’adozione dello strumento penale nell’ottica deflattiva e di bisogno rieducativo dell’agente, esso – in maniera non difforme dalla diffusa ermeneutica in materia di offensività – costituisce comunque una questione da valutare in concreto e non in astratto.
Pare allora ragionevole la scelta del legislatore di correggere il tiro rispetto all’attuale formulazione lessicale della norma, ancorando il parametro ostativo non al massimo ma al minimo edittale (due anni di pena detentiva, sola o congiunta a pena pecuniaria), previsto per il reato, che rappresenta una indicazione affidabile di quanto l’entità del disvalore promanante dal fatto possa volgere verso il basso a seconda delle contingenze, cioè delle concrete potenzialità esplicative del comportamento umano nella vicenda storica in cui esso si incanala.
Difatti, non può escludersi che anche un reato astrattamente punito con un massimo edittale importante possa in concreto assumere un disvalore blando e trascurabile.
In questa apprezzabile logica, il minimo edittale superiore ad una determinata soglia denota un disvalore minimo, astrattamente concretizzabile nella realtà fattuale, che il legislatore ritiene ex se bisognoso di punizione, e dunque sottratto alla valutazione di tenuità ai fini della esclusione della sanzione penale. Di conseguenza, per andare esente da pena, occorre in questi casi più rigorosamente dimostrare, nella logica del reato impossibile, la totale inoffensività, mentre l’esistenza dell’offesa, qualora ritenuta meritevole di un certo minimum di sanzione, sarà sottratta dall’alveo operativo dell’esimente.
Con ogni probabilità, la nota sentenza della Corte costituzionale 25 giugno 2020 (dep. 21 luglio 2020), n. 156, ha contribuito al ripensamento dei meccanismi operativi dell’istituto, dichiarando l’incostituzionalità della norma nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati per i quali non sia espressamente previsto un minimo edittale di pena detentiva.
La Consulta ha infatti ritenuto applicabile la causa di non punibilità in esame ai casi in cui ad un massimo edittale superiore a cinque anni di pena detentiva faccia da contraltare un minimo edittale non previsto dalla norma, e dunque particolarmente blando, dovendosi ricorrere in via integrativa agli artt. 23 e 25 c.p., che fissano il minimo rispettivamente in quindici e cinque giorni.
Le argomentazioni profuse dal Giudice delle leggi nella sentenza richiamata svelano un monito, che si annida nei paragrafi 3.6. e 3.6.1. della motivazione in diritto, di cui si riportano i passaggi essenziali: «In linea generale, l’opzione del legislatore di consentire l’irrogazione della pena detentiva nella misura minima assoluta rivela inequivocabilmente che egli prevede possano rientrare nella sfera applicativa della norma incriminatrice anche condotte della più tenue offensività. Rispetto a queste ultime è dunque manifestamente irragionevole l’aprioristica esclusione dell’applicazione dell’esimente di cui all’art. 131-bis cod. pen., quale discende da un massimo edittale superiore ai cinque anni di reclusione.
3.6.1.– Il carattere generale dell’esimente di particolare tenuità di cui all’art. 131-bis cod. pen. impedisce a questa Corte di rinvenire nel sistema un ordine di grandezza che possa essere assunto a minimo edittale di pena detentiva sotto il quale l’esimente stessa potrebbe applicarsi comunque, a prescindere cioè dal massimo edittale. La stessa pena minima di sei mesi di reclusione, prevista per i reati menzionati dal giudice a quo come tertia comparationis, cioè furto, danneggiamento e truffa (artt. 624, primo comma, 635, primo comma, e 640, primo comma, cod. pen.), non è generalizzabile, neppure all’interno della categoria dei reati contro il patrimonio, ove solo si consideri la poliedricità del delitto di ricettazione. Ben potrà il legislatore, nell’esercizio della sua ampia discrezionalità in tema di estensione delle cause di non punibilità, fissare un minimo relativo di portata generale, al di sotto del quale l’applicazione dell’esimente di cui all’art. 131-bis cod. pen. non potrebbe essere preclusa dall’entità del massimo edittale».
La decisione sposta l’ago della bilancia, nel confronto tra il minimo e il massimo edittale quali fattori ostativi alla tenuità esimente, a favore del primo citato, ritenendosi, in estrema sintesi, che un minimo edittale significativamente basso compensi il (o possa tener luogo del) rigoroso massimo edittale astrattamente incompatibile con la causa di non punibilità.
La Riforma intende incidere sugli elementi strutturali del vigente primo comma dell’art. 131 bis c.p. anche sotto il profilo dei criteri di valutazione.
Attualmente, come innanzi esposto, il giudice verifica la particolare tenuità alla luce delle modalità della condotta e dell’esiguità dell’evento in senso giuridico, lette nella logica dell’art. 133, co. 1, c.p., ma non annovera la “condotta susseguente al reato”, la quale viene infatti menzionata soltanto dal seguente co. 2 dell’art. 133 cit.
Orbene, l’art. 133 co. 2, c.p. conserva, ai fini della elaborazione del trattamento sanzionatorio, una funzione di valutazione prognostica sul concreto bisogno rieducativo palesato dal reo, a propria volta ancorato al pericolo di ricaduta; laddove invece il co. 1 del medesimo articolo accede prevalentemente ad una logica retributiva per la colpevolezza palesata nella commissione del fatto-reato[6].
L’inserimento, nell’alveo dell’art. 131 bis c.p., della condotta successiva al fatto fornisce nuove possibili chiavi di lettura della esimente; o, plausibilmente, ne rafforza quella ratio che la dottrina e la giurisprudenza le hanno attribuito in sede di commento o di applicazione.
Il comportamento del reo successivo al fatto si caratterizza, ad una prima lettura, per due possibili direzioni, potendo esso esprimere tanto un indice del bisogno rieducativo, in un’ottica finalistica, quanto un indice della stessa offesa stricto sensu, in un’ottica riparativa.
Successivamente al commesso reato, infatti, il reo può tenere condotte che attestino un minor bisogno di rieducazione, poiché già emblematiche di una revisione critica di quanto realizzato; o può attuare comportamenti positivi tesi al ristoro per il danno cagionato, azioni che, mentre incidono sul piano dell’esigenza rieducativa, producono riverberi sugli effetti del fatto oggettivo con particolare riferimento alla riparazione del pregiudizio arrecato.
Da un lato, allora, la rimodulazione dell’art. 131 bis c.p. si pone in linea con quanto ritenuto dagli interpreti, che assegnano a questa causa di non punibilità la funzione di escludere, a date condizioni, la necessità di risocializzazione del reo con l’uso dell’incisivo strumento penale; dall’altro, l’innesto normativo assume una certa coerenza con lo spirito del disegno di legge, nella parte in cui mira a favorire l’implementazione degli istituti di giustizia riparativa (v. in particolare l’art. 9 co. 18 del disegno di legge delega).
È però vero anche il contrario: l’innesto normativo volto a valorizzare il comportamento successivo al fatto potrebbe, in senso opposto, svelare il concreto bisogno di trattamento sanzionatorio del reo, ricavabile, ad esempio, da atteggiamenti sprezzanti, dal rifiuto di riparare il danno, o da comportamenti che financo approfondiscono il complessivo pregiudizio arrecato alla vittima o incancreniscono i rapporti tra quest’ultima e l’autore dell’illecito[7].
Quanto a quel segmento dell’art. 131 bis c.p. (attualmente il comma 2) che si occupa di definire in negativo l’ambito di applicazione della norma, esso espunge dal suo raggio d’azione l’illecito penale che si sia manifestato con certe modalità che denotino una maggiore riprovevolezza e un maggior bisogno di risocializzazione del reo (motivi abbietti o futili, crudeltà – anche in danno di animali – sevizie, approfittamento della minorata difesa della vittima anche in riferimento alla sua età); che abbia sortito specifici eventi forniti ex se di una gravità non trascurabile e necessariamente assoggettabile a pena (morte della vittima); che si siano verificati in determinati contesti ove maggiore e più diffusivo può rivelarsi l’impulso a delinquere così come esponenziali potrebbero essere i danni cagionati (manifestazioni sportive, a condizione che si tratti di reati puniti con pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione); che sia fornito di un certo nomen iuris e sia commesso contro uno specifico soggetto passivo qualificato (delitto ex art. 343 c.p.; delitti ex artt. 336, 337, 341 bis c.p., quando commessi avverso un ufficiale o agente di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria nell’esercizio delle proprie funzioni)[8].
Sull’art. 131 bis co. 2 c.p. la Riforma Cartabia propone di incidere in due modi.
Da un lato, amplia il range dei reati non esentabili da pena, riversandovi ipotesi criminose individuate per relationem col richiamo alla Convenzione del Consiglio d’Europa dell’11 maggio 2011, sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata ai sensi della legge 27 giugno 2013, n. 77.
Saranno dunque verosimilmente escluse dall’applicazione della causa di non punibilità fattispecie che mirano a reprimere la violenza fisica, psicologica, sessuale di genere, quella occorsa nelle mura domestiche, quella posta in essere contro una vittima che l’ordinamento considera particolarmente bisognosa di protezione o vulnerabile: si immaginino i delitti di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p. (di per sé già escludibili pro futuro in base al minimo edittale superiore ai due anni), gli atti persecutori ex art. 612 bis c.p., i delitti contro la sfera sessuale, quelli introdotti o ritoccati con legge n. 69 del 2019 (c.d. Codice rosso), nonché quelli comunque riportabili, per morfologia e finalità di tutela, nel campo di azione degli articoli 33 e seguenti della citata Convenzione.
Su altro versante, la Riforma incide, sul piano generale, introducendo una clausola di apertura che consente al Governo di ampliare il raggio escludente dell’art. 131 bis co. 2 c.p. per ragioni sistematiche o di evidenza empirico-criminologica. In altri termini, il Governo è chiamato ad aggiornare l’elenco dei fatti illeciti che, a prescindere dal quadro edittale previsto per il singolo reato, non possono mai ritenersi connotati da particolare tenuità, o sulla scorta di valutazioni criminologiche che illustrino l’ineluttabile esigenza punitiva sottratta alla valutazione dell’ermeneuta, o sulla base di riflessioni di coerenza interna del sistema, ad esempio includendo reati o circostanze irragionevolmente non ancora considerati dal divieto.
Nel riconoscere i pregi della Riforma, non possono sottacersi alcune persistenti riserve in ordine alla sussistenza, nell’attuale sistema penale, di fattispecie che, pur godendo di una capacità di estrinsecazione in linea con la blanda offensività che giustificherebbe la paralisi dell’intervento penale, godono allo stato di un trattamento sanzionatorio particolarmente severo che sfugge alle maglie di operatività della esimente.
La revisione dell’articolo 131 bis c.p. non può non implicare una seria riconsiderazione dei quadri edittali previsti per alcune figure criminose, che ragionevolmente consenta alle stesse di rientrare nel raggio di azione dell’istituto della particolare tenuità. Si consideri ad esempio il furto pluriaggravato, per il quale è prevista la pena detentiva da tre a dieci anni ma che, nella prassi giudiziaria, spesso assume forme di allarme sociale tutt’altro che spiccato.
Né, probabilmente, appaga del tutto l’esclusione delle circostanze ad effetto comune dal novero di quelle utili al computo del quadro edittale utile all’applicazione dell’art. 131 bis c.p., atteso che esse contribuiscono in maniera decisiva alla enucleazione del complessivo disvalore del fatto.
[1] Y. Parziale, La mancata concessione della speciale causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. all’autore del delitto di resistenza a un pubblico ufficiale è costituzionalmente legittima, in Cass. pen., 6, 2021, pag. 2032 ss.
[2] Nonostante l’istituto sia animato anche dalla logica deflattiva della macchina giudiziaria, rimane allo stato non annoverata dal codice di rito la possibilità per il giudice di pronunziare sentenza ex art. 129 c.p.p. per particolare tenuità del fatto una volta ultimata l’assunzione delle prove a carico, a cagione della non inclusione delle cause di non punibilità in senso stretto tra i presupposti della immediata declaratoria di non punibilità.
[3] In termini, Cass. sez. VI, 9 marzo 2016 (dep. 9 maggio 2016), n. 19126, in Giur. pen. (web), 2016, 7, con nota di F. Lombardi; nella recente dottrina, cfr. C. Gentile, Offensività minima e particolare tenuità del fatto, in Cass. pen., 2021, 4, p. 1292 s.).
[4] Cfr. le sentenze nn. 13681 e 13682, entrambe pronunziate dalle Sezioni unite il 25.2.2016; in senso critico, A. Varvaressos, Non punibilità per particolare tenuità del fatto e reati con soglie di offensività: osservazioni a Sezioni unite 13681/2016, in Cass. pen., 2016, 7-8, p. 2842B; sulla possibilità di filtrare gli elementi oggettivi tramite il vaglio della colpevolezza, L. Brizi, L’applicabilità dell’art. 131-bis nelle ipotesi di continuazione di reati: un dialogo davvero (im)possibile?, in Cass. pen., 2016, 9, p. 3269.
[5] L’assunto è coerente con la rubrica della norma, che si rivolge alla “tenuità del fatto”, e alla circostanza per cui, laddove l’art. 131 bis co. 1 c.p. si riferisce alla “offesa… di particolare tenuità”, il termine offesa non può che essere inteso come “disvalore complessivo del fatto”, essendo “l’esiguità del danno o del pericolo” (cioè l’esiguità della “offesa”) soltanto uno degli elementi che l’interprete deve soppesare nell’applicazione dell’istituto.
[6] D. Pulitanò, Diritto penale, Giappichelli, 2013, p. 490; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, parte generale, Zanichelli, 2011, p. 744 s.
[7] Cfr. R. Borsari, Decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28 recante “Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’art. 1, comma 1 lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67, in Leg. pen. (web), 15.03.2016.
[8] Frammento quest’ultimo oggetto di una pronunzia conservativa della Corte costituzionale, che ha dichiarato inammissibili e infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Torino e Torre Annunziata, con sentenza n. 30 del 2021; in dottrina, V. Bove, Resistenza a pubblico ufficiale ed esclusione della particolare tenuità del fatto: per la Consulta non c’è incostituzionalità, in Il Penalista, 19 maggio 2021.
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