Cass., Sez. Un., inf. provv., n. 22 del 2020
1. Premessa; 2. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite; 3. La giurisprudenza della Consulta e l’inesistenza della “necessità costituzionale” di un medesimo trattamento giuridico tra la famiglia fondata su un’unione giuridicamente rilevante e quella di fatto; 4. La natura della clausola prevista dall’art. 384 c.p.: causa di giustificazione, di esclusione della colpevolezza oppure di esclusione della punibilità?; 5. Brevi considerazioni sull’assenza di impedimenti all’applicazione analogica delle cause di giustificazione (e di quelle di esclusione della colpevolezza); La possibile natura eccezionale del solo art. 384 comma 1 c.p.
- Premessa
Con l’informazione provvisoria del n. 22 del 26 novembre 2020, la Corte di Cassazione ha reso noto che in pari data le Sezioni Unite Penali, cui era stato rimesso il quesito “se la causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma 1, cod. pen. sia applicabile al convivente more uxorio”, avevano fornito risposta positiva.
In attesa che le Sezioni Unite rendano pubbliche le motivazioni può essere opportuno comprendere quale sia, a monte di tale sentenza, lo stato dell’arte con cui la Corte di legittimità ha dovuto confrontarsi, suggerendo, infine, una ricostruzione che consapevolmente diverge da quanto stabilito dal Supremo Collegio, e ciò tanto rispetto alla natura della clausola di cui all’art. 384 comma 1 c.p. (espressamente qualificata come “causa di non punibilità” nel comunicato), quanto rispetto alla possibilità di ritenere tale fattispecie applicabile anche a soggetti non contemplati tra coloro che ai sensi dell’art. 307 comma 4 c.p. sono qualificabili come prossimi congiunti.
- L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite
La Sesta Sezione Penale Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 1825/2020, resa all’esito dell’udienza del 19 dicembre 2019 e depositata il 17 gennaio 2020, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa alla applicabilità dell’art. 384 comma 1 c.p., ossia della disposizione che prevede la non punibilità, rispetto ad alcuni delitti contro l’amministrazione della giustizia, di coloro che abbiano posto in essere tali illeciti “per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore”, anche rispetto a coloro che li abbiano commessi per salvare non tanto sé o un prossimo congiunto, bensì il proprio convivente more uxorio.
La questione, in realtà, coinvolge non solo, o non tanto, l’art. 384 c.p., quanto l’art. 307 comma 4 c.p., il quale afferma che “agli effetti della legge penale s’intendono per i prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti”, ed esclude, quindi, dall’applicabilità della norma, le coppie, eterosessuali od omosessuali, che convivono stabilmente come se fossero coniugi ovvero parti di un’unione civile.
L’esigenza di una pronuncia delle Sezioni Unite trae origine, secondo la Sezione Semplice, dall’esistenza di un contrasto interno all’orientamento della Corte di legittimità al quale si aggiungono, oltre alle resistenze dottrinali all’estensione dell’applicazione della norma ai soggetti diversi da quelli indicati nel testo della norma, le considerazioni svolte dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale e dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Secondo il prevalente e tradizionale orientamento, che trae origine anche dalle decisioni della Corte Costituzionale – che ha giustificato il differente regime giuridico della famiglia fondata sul coniugo e delle altre unioni nel riconoscimento della prima soltanto da parte dell’art. 29 della Costituzione, e della riconducibilità delle seconde alle formazioni sociali, richiamate dall’art. 2 della Costituzione, nelle quali si sviluppano i diritti inviolabili dell’uomo, ma, come vedremo, ha anche sollecitato il legislatore a ponderare l’opportunità di una equiparazione tra situazioni formalizzate e situazioni di fatto potenzialmente identiche – l’art. 384 c.p. rappresenterebbe un numero chiuso, non applicabile a soggetti (rectius, rapporti) diversi ed ulteriori[1].
Siffatto orientamento, nondimeno, è stato disatteso da due pronunce piuttosto recenti, una delle quali della medesima Sezione (la n. 34147/2015 della Seconda e la n. 11476/2019 della Sesta), che, sulla scorta di una serie di argomenti di natura sistematica – rispettivamente incentrati su un concetto dinamico di famiglia e sulla applicazione analogica “in bonam partem” che consenta la parificazione, sul piano penale, della famiglia fondata sul matrimonio e di quella fondata su una convivenza more uxorio – hanno entrambe ritenuto che l’art. 384 c.p. possa essere applicato anche a coloro che abbiano posto in essere uno dei delitti in questione per tutelare il soggetto al quale sono legati da un rapporto di convivenza stabile e duratura (eventualmente consolidato dalla presenza di prole).
Il primo di tali arresti[2], anche alla luce della giurisprudenza già esistente, e che aveva già:
– ampliato ai conviventi more uxorio l’applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 649 c.p. per i delitti contro il patrimonio commessi nei confronti “del coniuge non legalmente separato” (e, alla luce del più recente addendum legislativo, da parte della c.d. Legge Cirinnà[3], anche “della parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”);
– valorizzato situazioni di fatto corrispondenti al coniugio, tra l’altro, in relazione al delitto di maltrattamenti ed in materia di ammissione al gratuito patrocinio[4];
ha ricordato che “sotto il profilo penalistico il concetto di famiglia cui fanno riferimento diverse norme incriminatrici vigenti, non è sempre ritenuto legato all’esistenza di un vincolo di coniugio o comunque di una famiglia nata da tale vincolo, ma i precedenti giurisprudenziali spesso si riferiscono a qualsiasi consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e di solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo”[5], e sottolineato, pertanto, la necessità che il diritto penale, anche per divenire più coerente con lo sviluppo legislativo riscontrato in altre branche dell’ordinamento giuridico, si aggiornasse, accogliendo delle nozioni di famiglia e di coniugio “in linea con i mutamenti sociali che questi istituti hanno avuto negli ultimi decenni del secolo scorso”.
Tale interpretazione, peraltro, si porrebbe nel solco della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale, alla luce del contenuto dell’art. 8 comma 1 della CEDU[6], avrebbe accolto una nozione sostanziale di famiglia, tale da ricomprendere anche rapporti di fatto privi di formalizzazione legale ma caratterizzati da legami particolarmente stretti e fondati su una stabile convivenza.
La sentenza appena citata, infine, ha ricordato che tale interpretazione dell’art. 8 della CEDU[7] consentirebbe altresì, quale norma sovranazionale immediatamente cogente, avente efficacia in bonam partem, e non confliggente con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, di giungere all’applicazione analogica delle disposizioni che escludono la punibilità di soggetti ai quali i conviventi more uxorio sono equiparabili.
Nell’intervallo tra le due citate pronunce “sostanzialistiche” è intervenuta l’approvazione della c.d. Legge Cirinnà, che ha conferito rilevanza giuridica alle unioni civili tra persone dello stesso sesso, e del D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, che ha aggiunto alla nozione legale di prossimi congiunti, di cui all’art. 307 comma 4 c.p., “la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso”, giuridici discende dall’esistenza di un tale rapporto; al riguardo, peraltro, è forse utile rilevare che la Relazione Governativa al Decreto Legislativo riconosce la natura tassativa dell’elencazione contenuta nell’art. 307 comma 4 c.p.[8], e che, significativamente, la riforma in questione, se da un lato ha equiparato, ai fini di interesse, il coniugio all’unione civile tra persone dello stesso sesso, dall’altro non è in alcun modo intervenuto sulle situazioni di fatto corrispondenti a tali forme qualificate di unione.
Cionondimeno, secondo l’ulteriore[9] pronuncia citata dalla Sesta Sezione quale manifestazione dell’orientamento che l’ha indotta a rimettere il giudizio alle Sezioni Unite, l’assenza di una disciplina delle coppie di fatto nella Legge Cirinnà non avrebbe rallentato la progressiva e sostanziale equiparazione sociale delle coppie di fatto a quelle di diritto che legittimerebbe una interpretazione valoriale, non confliggente con i valori Costituzionali, che consenta di ritenere applicabile l’istituto dell’art. 384 comma 1 c.p. anche ai rapporti di convivenza more uxorio.
- La giurisprudenza della Consulta e l’inesistenza della “necessità costituzionale” di un medesimo trattamento giuridico tra la famiglia fondata su un’unione giuridicamente rilevante e quella di fatto
La Corte Costituzionale è stata più volte chiamata a valutare la tenuta costituzionale delle disposizioni normative che disciplinano gli effetti giuridici derivanti dal concetto formale di congiunto, e che dunque, se di stretta interpretazione, non consentono una equiparazione dello statuto giuridico di quest’ultimo con quello del congiunto di fatto.
Nel corpo delle questioni di legittimità che si sono susseguite nel corso degli anni, i giudici a quo hanno sollecitato la Consulta a rivalutare il proprio originario orientamento, risalente alla fine degli anni ‘70, sulla scorta del progressivo mutamento del comune sentire e della sempre maggiore frequenza, nella vita reale, del ricorso a relazioni personali che, sebbene assolutamente solide (spesso anche per la presenza di figli), non sono state formalizzate nel vincolo matrimoniale.
Le norme penali sostanziali che hanno maggiormente coinvolto la Consulta rispetto alla possibile estensione ai familiari di fatto del regime di quelli di diritto sono il comma 1 dell’art. 384 ed il comma 1 dell’art. 649 c.p. – norme, queste, che entrambe, in concreto, sottraggono da sanzione penale chi abbia commesso uno dei delitti ivi indicati in ragione del coinvolgimento, nella vicenda sottoposta a giudizio penale, di un soggetto a lui legato da una determinata relazione personale formalizzata mediante la costituzione di un vincolo giuridico – nonché la norma che descrive il concetto di congiunto, ossia l’art. 307 comma 4 c.p.
Il più risalente arresto, in questa prospettiva, è rappresentato dalla sentenza n. 6 del 1997[10], nel corpo della quale la Consulta, chiamata a valutare la compatibilità costituzionale dell’art. 307 comma 4 c.p. e dell’art. 305 del previgente c.p.p. (corrispondente all’attuale art. 199 c.p.p.), nella parte in cui la prima delle due disposizioni ha omesso di considerare meritevoli di analoga tutela “quelle situazioni affettive di natura familiare basate sulla convivenza ed animate da intenti di reciproca assistenza e da propositi educativi della prole comune, di fatto identiche a quelle” oggetto della disciplina codicistica.
Secondo la Corte Costituzionale il giudice a quo commetteva un errore di fondo, consistente nel considerare identiche, di fatto ed oggettivamente, le due situazioni oggetto dell’analisi – ossia la famiglia fondata sul matrimonio, da una parte, e quella originata nell’ambito di una convivenza di fatto; a ciò la Consulta aggiungeva che i codici penali, sostanziale e processuale, necessariamente realizzano una tutela per categorie di soggetti, non essendo possibile, dall’altra parte, imporre al giudice di verificare nel processo, con immediatezza e sicurezza, la presenza dei requisiti di forma ai quali l’ordinamento ricollega determinati effetti.
Già oltre quaranta anni or sono la Consulta si rendeva conto dell’evoluzione delle formazioni sociali e del progressivo aumento della frequenza dei rapporti di convivenza non cristallizzata nel vincolo matrimoniale, e pertanto, da ultimo, sollecitava il legislatore a non lasciare questi ultimi privi di una forma di tutela.
Circa dieci anni dopo la Corte Costituzionale[11] è tornata sull’argomento, sollecitata da molteplici questioni che investivano l’art. 384 comma 1 c.p. nella prospettiva della sua presunta incompatibilità con l’art. 29 comma 1 della Costituzione e nella parte in cui non comprendeva, nella propria elencazione di prossimi congiunti, anche il convivente more uxorio.
La Consulta, dopo aver richiamato il contenuto dei lavori della Costituente, ha operato una distinzione tra le due formazioni sociali in questione, specificando che solo la famiglia fondata sul matrimonio può essere sussunta all’interno dell’area di tutela dell’art. 29 Cost. e che i rapporti di fatto, ancorché consolidati, possono ricevere tutela solo in ragione della previsione dell’art. 2 Cost., in relazione ai diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e nella prospettiva delle manifestazioni solidaristiche collegate alla tutela dei predetti diritti.
Anche in questo caso la Consulta ha lanciato un invito al Parlamento, rappresentando l’opportunità della previsione di una disciplina che riguardi non solo i rapporti che condividono la condizione sostanziale della famiglia fondata sul matrimonio, ma anche le posizioni di coloro che sono stati legati in matrimonio, e che, in ragione di ciò, potrebbero trovarsi, con l’allora convivente, in una posizione di coerenza di intenti ovvero di conflitto.
Alla luce degli ulteriori sviluppi legislativi – in particolare la Legge Cirinnà – il novero dei rapporti potenzialmente meritevoli di una disciplina normativa appare ancor più ampio, dovendosi oggi considerare non solo i coniugi e le parti di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, ma anche gli ex coniugi e le ex parti di un’unione civile e, non da ultimo, i conviventi, siano essi eterosessuali od omosessuali; è del tutto ovvio, infatti, che se il legislatore, nell’ambito che ci occupa, dovesse decidere di far discendere certe conseguenze giuridiche dalla condizione di conviventi, esse dovrebbero valere a prescindere dal sesso dei partner, ponendosi, in caso contrario, un evidente conflitto con l’art. 2 della Costituzione.
Le considerazioni di fondo della Corte Costituzionale non sono mutate nemmeno dieci anni dopo la sentenza sopra richiamata, e nonostante nelle more fosse entrato in vigore il nuovo codice di rito, che, all’art. 199 comma 3 lett. a), fornisce rilevanza giuridica alla relazione di convivenza ai fini della attribuzione, appunto al convivente, e limitatamente a quanto accaduto o appreso durante tale relazione, della facoltà di astenersi dal rendere testimonianza[12].
A tali considerazioni, che ancora una volta si fondano sulla inesistenza di una necessaria coincidenza, rispetto all’ordinamento, della posizione della famiglia fondata sul matrimonio e di quella nascente da un rapporto di convivenza – e ciò nonostante il riconosciuto avvicinamento della posizione del convivente a quella del coniuge, pur nella (sola) prospettiva della facoltà di astensione[13] – la Consulta aggiunge che il risultato atteso dal giudice a quo, consistente nell’estensione dell’applicabilità dell’art. 384 comma 1 c.p. anche ai componenti della famiglia di fatto, potrebbe discendere solo da una pronuncia additiva “che manifestamente eccede i poteri della Corte Costituzionale a danno di quelli riservati al legislatore”[14].
Repetita iuvant – o almeno dovrebbero iuvare: il legislatore non dovrebbe ulteriormente restare inerme dinanzi alla sempre maggiore diffusione ed al sempre maggior riconoscimento sociale della convivenza di fatto quale fisiologica modalità di costituzione di un vincolo affettivo tra persone adulte che potrebbero avere anche intenzione di generare od accudire insieme della prole e di condividere l’intera durata delle proprie rispettive vite[15].
Il vero problema, in realtà, potrebbe essere quello di identificare a quali condizioni sia possibile, se mai, affermare che una relazione di convivenza, “basata sull’affectio quotidiana, liberamente ed in ogni istante revocabile”, corrisponda al rapporto “caratterizzato da stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri … che nascono soltanto dal matrimonio”[16], e possa, quindi, condividerne lo statuto giuridico.
- La natura della clausola prevista dall’art. 384 c.p.: causa di giustificazione, di esclusione della colpevolezza oppure di esclusione della punibilità?
Il tema di approfondimento più ricorrente rispetto alla questione che ci occupa è quello della identificazione della natura della previsione contenuta nel comma 1 dell’art. 384 c.p., nella parte in cui non sottopone a sanzione il comportamento, conforme ad alcuna delle fattispecie ivi espressamente indicate, posto in essere da un soggetto che abbia agito allo scopo di salvare un proprio prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.
Dalla sua classificazione in una o in un’altra delle classi sopra indicate, invero, potrebbero discendere delle conseguenze di natura applicativa, in particolare ai fini della sua applicazione in via analogica, eventualità, questa, che presuppone che essa non sia qualificabile in termini di norma penale (ma questo è tutto sommato acquisito) o di norma eccezionale.
Secondo l’impostazione tradizionale, che, oltre a richiamare il contenuto dei lavori preparatori, faceva leva sull’omogeneità della previsione dell’art. 384 comma 1 c.p. con quanto previsto in via generale dall’art. 54 c.p. – entrambe le norme esentano da sanzione penale il comportamento finalizzato a scongiurare un nocumento ad un bene giuridico – la fattispecie in esame sarebbe stata classificabile nel genus delle cause di giustificazione, e, in particolare, quale manifestazione particolare dello stato di necessità[17].
In questo senso si pone anche quell’orientamento giurisprudenziale che ha qualificato la disposizione in esame quale esimente[18], ha ricondotto la ratio della norma ad “un oculato bilanciamento di interessi da parte del legislatore, che ha inteso far sempre prevalere il bene dell’integrità della libertà e dell’onore, proprio e dei prossimi congiunti, sui valori protetti da reati”[19] contro l’amministrazione della giustizia, e che, nonostante il silenzio della norma, e malgrado le due fattispecie abbiano presupposti applicativi parzialmente diversi – la situazione di necessità dell’art. 384 comma 1 c.p., a differenza di quella disciplinata dall’art. 54 c.p., a stretto rigore non sarebbe rappresentata dalla probabilità di un evento temuto, ma dalla certezza del verificarsi di un nocumento[20] – ha subordinato l’applicabilità dell’art. 384 comma 1 c.p. a quelle ulteriori condizioni previste dall’art. 54 c.p., ed in particolare la proporzionalità tra fatto tipico e pericolo[21] e la non ascrivibilità del pericolo del nocumento ad un comportamento volontario del soggetto agente[22].
Dunque, secondo tale ricostruzione il legislatore ha realizzato un bilanciamento, preventivo ed assoluto, tra l’interesse alla sanzione di un comportamento che abbia messo in pericolo il corretto esercizio dell’amministrazione della giustizia e l’interesse alla salvaguardia dell’unità familiare che si sarebbe determinato nell’eventualità in cui il comportamento illecito non fosse stato perpetrato.
Secondo un’impostazione più recente, ed oggi maggioritaria sia in dottrina sia in giurisprudenza[23] – nonché apparentemente accolta anche dalle Sezioni Unite – la fattispecie in questione rappresenterebbe una causa di esclusione della colpevolezza, e ciò poiché si fonderebbe sulla coartazione della volontà del soggetto che, in ragione di una determinata relazione con il soggetto a vantaggio del quale sarebbe stata commessa una fattispecie contro l’amministrazione della Giustizia, si sarebbe trovato “costretto”, per salvaguardare la predetta relazione (ed il vincolo familiare che ne ha avuto origine), a porla in essere: la ratio sarebbe quindi la inesigibilità di un comportamento conforme al precetto penale[24].
A fondamento di tale interpretazione, dunque, insisterebbe non tanto una valutazione di complessiva liceità del comportamento, bensì “la considerazione della drammaticità dell’alternativa tra collaborare all’amministrazione della giustizia e pregiudicare i propri cari, la quale svelerebbe l’inesigibilità di una condotta rispettosa della legge”[25].
Una terza interpretazione, rimasta sempre minoritaria, classifica infine l’art. 384 comma 1 c.p. tra le cause di non punibilità[26], e ciò in ragione della difficoltà di inquadrare in modo puntuale le ragioni che si pongono alla base della fattispecie[27].
- Brevi considerazioni sull’assenza di impedimenti all’applicazione analogica delle cause di giustificazione (e di quelle di esclusione della colpevolezza)
Il concetto di antigiuridicità risponde all’esigenza di realizzare un contemperamento tra gli interessi contrapposti coinvolti nell’ambito della vicenda in cui si è prodotto il fatto di reato.
Se, da un lato, l’ordinamento ritiene necessario sanzionare tutti quei comportamenti idonei a ledere un bene giuridico oggetto di tutela penale, dall’altro lo stesso ordinamento conferisce rilevanza ad alcune caratteristiche proprie di quegli stessi comportamenti al fine di ritenere che essi – se ed in quanto finalizzati a tutelare degli interessi non solo meritevoli di tutela, ma anche collocabili, in una scala assiologica, in una posizione corrispondente o superiore rispetto a quella alla quale si colloca l’interesse leso – non siano meritevoli di sanzione (salva, evidentemente, l’eventuale esistenza di profili di compensazione di natura civilistica).
Ciò risponde, in sostanza, all’esigenza, interna all’ordinamento, che esso non si contraddica mediante la previsione di una sanzione penale a carico di un comportamento che, sotto altro profilo, appare determinato da una finalità che, in quanto satisfattiva di un altro e più rilevante interesse giuridico, risulta legittima[28].
Pare corretto, pertanto, affermare che l’antigiuridicità, in ambito penale[29], rappresenta la violazione, attraverso la condotta tipica ed offensiva, delle esigenze di tutela dell’ordinamento, risolvendosi, in concreto, nel difetto di cause di giustificazione.
Di conseguenza, allorché manchi il contrasto con l’ordinamento giuridico, quale organismo che sovrintende alla sanzione di comportamenti che abbiano offeso degli interessi giuridicamente rilevanti, verrà meno anche l’antigiuridicità: come affermato in una pronuncia di merito, “l’esimente … viene ad incidere sulla struttura oggettiva, prima ancora che soggettiva, del reato facendogli perdere il contenuto proprio della sua antigiuridicità, con la conseguenza che il fatto, pur coincidendo con la figura astratta del reato, viene ad essere esente da pena, per la evidente mancanza di danno sociale, trattandosi di un’azione non più in contrasto con gli interessi della collettività”[30].
Le cause di giustificazione, dunque, hanno la funzione di interrompere il rapporto casuale tra il fatto, che pure è qualificabile in astratto come illecito, e l’effetto consistente nella sanzione da parte dell’ordinamento.
La ricerca della ratio della loro esistenza e della loro funzione è sempre stata un punto piuttosto critico; in questa sede basti ricordare che, secondo la principale impostazione dottrinaria, essa risiede nella maggiore, minore od uguale rilevanza che l’ordinamento giuridico attribuisce agli interessi giuridici coinvolti nella vicenda umana ed alla cui realizzazione o tutela sono state realizzate le condotte, sicché il principio fondante delle cause di giustificazione sarebbe quello della preventiva e generalizzata operazione di bilanciamento tra i possibili beni giuridici in conflitto[31].
Nondimeno, l’esistenza di una possibile graduazione tra valori, e quindi beni giuridici, generalmente riconosciuta dall’ordinamento, potrebbe porre il problema di comprendere se le cause di giustificazione siano a numero chiuso – e dunque la declaratoria dell’assenza di antigiuridicità di un comportamento debba necessariamente confrontarsi con l’ambito applicativo di quanto previsto in termini positivi dal libro primo del codice penale – ovvero se all’interprete sia possibile costruire, sulla base delle circostanze concrete, anche nuove chiavi di legittimazione di comportamenti conformi a fattispecie.
La dottrina tradizionale giunge alla soluzione che le cause di giustificazione non rientrino nei casi in cui l’interpretazione analogica è vietata dall’art. 14 delle preleggi[32]: si afferma, infatti, che le scriminanti non sono, innanzitutto, norme penali in senso stretto perché non rappresentano fattispecie che “ridondino ai danni del reo”[33].
Non sembrano, inoltre, norme eccezionali[34], e ciò in quanto espressione di principi generali che permeano tutto l’ordinamento e che traggono la propria essenza e giustificazione dall’ordinamento stesso[35], ed in particolare dal principio costituzionale di solidarietà sociale, sulla scorta del quale, alla luce di un bilanciamento degli interessi in gioco, è possibile che un fatto illecito, in presenza di determinate condizioni, perda il proprio carattere antigiuridico[36].
Ed allora, se non sono norme penali e non sono nemmeno norme eccezionali, nulla osta ad una loro interpretazione analogica in bonam partem.
Se l’esclusione dell’antigiuridicità deriva da determinate circostanze, riferibili all’atto del comportamento umano, che il legislatore ritiene indicative di un fine giuridicamente apprezzabile e legittimo, sulla scorta di valutazioni di politica criminale, dovrebbe potersi riconoscere che anche altre possibili condotte, anche se non espressamente disciplinate negli effetti, possano ricevere, in quanto finalizzate al raggiungimento di un fine altrettanto apprezzabile, un trattamento identico da parte dell’ordinamento.
In altre parole, se le cause di giustificazione espressamente previste risultano dall’accertamento di requisiti descritti dalla legge, le cause di giustificazione non previste risulterebbero, invece, dall’accertamento di elementi che rivelerebbero all’interprete il valore scriminante di un dato comportamento, valore che, in realtà, può ben essere del tutto identico a quello tipico delle cause di giustificazione tipiche[37].
Altra parte della dottrina, invece, manifesta dubbi rispetto alla possibilità di enucleare delle nuove cause di giustificazione non codificate, aggiungendo che, a ben vedere, con quelle tipizzate, se ben interpretate, si riuscirebbero a “coprire” tutte le ipotesi per le quali esse sono invocate: le situazioni relative alle esimenti cc.dd. tacite acquisterebbero quindi rilevanza “o per via indiretta da norme dell’ordinamento giuridico o esclusivamente dai principi che governano le altre cause di giustificazione”[38].
Orbene, nel nostro sistema giuridico l’interpretazione, ed in particolare quella variante di essa che consiste nell’analogia, costituisce il processo logico-giuridico grazie al quale la forza normativa dei principi, in assenza di una disciplina di diritto positivo, precipita, mediante l’opera nella giurisprudenza, nell’applicazione concreta del diritto[39].
Ed allora, non apparendo possibile ritenere che il divieto di analogia in bonam partem sia ostacolato dalla ritenuta natura eccezionale delle cause di giustificazione, ed identificando la ratio di queste ultime in principi generali dell’ordinamento, viene possibile immaginare che quello delle cause di giustificazione sia un sistema potenzialmente aperto, la cui applicazione pratica possa realizzarsi anche mediante il ricorso all’interpretazione analogica.
Sarà allora possibile (ma, evidentemente, non potrà essere obbligatorio), per l’interprete, cogliere il fondamento e la funzione delle singole scriminanti esistenti e, in presenza di una eadem ratio, applicarle a casi diversi da quelli previsti dal diritto positivo[40]: attraverso questo meccanismo i princìpi dell’ordinamento si riveleranno come quei valori normativi che consentono di ritenere che in certe situazioni sussista una causa di giustificazione in ragione della concreta inesistenza sostanziale, in un determinato comportamento umano, di un profilo di antigiuridicità[41].
La categoria delle esimenti non codificate acquisterebbe, così, una dimensione di concretezza, e richiamerebbe l’interprete ad un’indagine mirata a verificare, sulla base di un giudizio di natura sostanzialistica, la eventuale conformità di un comportamento apparentemente illecito ad un principio dell’ordinamento giuridico, con la sola avvertenza – per non giungere all’arbitrio – che si tratti di un principio che abbia già trovato in altre norme la sua manifestazione positiva e che sia funzionale alla tutela di un bene giuridico di valore almeno assimilabile a quello offeso dal comportamento conforme a fattispecie.
Sul punto appare opportuno ricordare l’opinione di chi, pur diversamente qualificando la fattispecie di cui all’art. 384 c.p., ed inquadrandola quale causa di esclusione della colpevolezza, ritiene che essa, rispondendo all’impostazione generale dell’ordinamento per cui non può darsi un comportamento penalmente rilevante in assenza di un comportamento alternativo esigibile, possa subire un’interpretazione analogica, ed essere quindi applicabile alle coppie di fatto “senza alcuna forzatura”[42].
Si concorda, in particolare, con tale impostazione nella parte in cui riconosce, manifestando elasticità culturale e rigore scientifico, che la (presunta) eccezionalità di una norma giuridica è concetto relazionale e proteiforme, che origina dalla sua eventuale corrispondenza o deviazione dai principi generali della materia di riferimento: è innegabile, invero, che l’ordinamento penale sia ispirato tanto al principio della necessaria antigiuridicità dei comportamenti sanzionabili (quale precipitato di quello di non contraddizione dell’ordinamento), quanto a quello della necessaria esigibilità delle condotte oggetto del comando penale[43].
Ciò che però fa propendere chi scrive per il possibile inquadramento della fattispecie quale causa di giustificazione, che rappresenta il frutto di un’opera di bilanciamento di valori realizzata dall’ordinamento in via preliminare ed assoluta – e, in questo caso, senza possibilità di ampliamenti di sorta (come vedremo tra poco) – è la selezione delle fattispecie alle quali l’art. 384 comma 1 c.p. è applicabile[44].
Se essa fosse esplicitazione della inesigibilità del comportamento, non si comprenderebbe per quale motivo il riconoscimento di tale particolare condizione psicologia, nella prospettiva della salvaguardia della libertà o dell’onore del congiunto, non dovrebbe valere anche rispetto a fattispecie diverse da quelle ivi indicate, quali, ad esempio, la procurata evasione di cui all’art. 386 c.p. o la procurata inosservanza di pena di cui all’art. 390 c.p., norma, quest’ultima, strutturalmente assimilabile al favoreggiamento personale ma non scriminabile ai sensi dell’art. 384 comma 1 c.p.
- La possibile natura eccezionale del solo art. 384 comma 1 c.p.
In realtà, piuttosto che quella di cui l’art. 54 c.p. (ma lo stesso varrebbe per le altre cause di giustificazione), è l’art. 384 comma 1 c.p. a sembrare norma eccezionale, e ciò poiché essa rappresenta una deroga[45] al regime della causa di giustificazione di parte generale[46], la quale, come visto, postula l’esistenza di un pericolo attuale di un grave danno alla persona[47] e non di un pericolo di nocumento alla libertà ed all’onore[48], valori, questi ultimi, evidentemente non meritevoli di determinare l’impunità non rispetto a qualsiasi condotta illecita che miri ad una loro tutela, bensì soltanto ad alcune soltanto tra le fattispecie contro l’amministrazione della giustizia (e la cui elencazione deve sicuramente ritenersi a numero chiuso).
Le due norme, a parere di chi scrive, hanno ambiti applicativi concentrici, uno, più ristretto, rappresentato dall’orizzonte proprio della previsione dell’art. 384 comma 1 c.p. – applicabile a soltanto alcuni delitti contro l’amministrazione della giustizia ed allo scopo di evitare esclusivamente il nocumento alla libertà o all’onore – ed un altro, più ampio, all’interno del quale rientrano tutte le possibili manifestazioni dello stato di necessità[49], e potrebbero quindi dirsi legate da un rapporto di specialità.
In questo senso, peraltro, si è anche espressa alcuna giurisprudenza di legittimità, affermando, in particolare – l’arresto riguarda il profilo delle fattispecie alle quali è applicabile l’esimente, ma il principio di diritto sembra applicabile anche in una prospettiva soggettiva – che “l’esimente dell’art. 384 c.p. sussiste quando uno dei reati ivi richiamati è stato commesso in stato di necessità correlato al bisogno di conservazione della liberà o dell’onore, mentre non sussiste ove il nocumento temuto concerne l’incolumità fisica dell’autore di uno dei fatti criminosi suddetti; la tassatività dei casi in cui opera la causa di giustificazione emerge dalla natura stessa della esimente, stante la limitazione posta dal legislatore per i reati indicati nella norma citata rispetto alla più ampia efficacia della scriminante dell’art. 54 c.p.”[50].
Proprio in ragione di ciò, dovrebbe escludersi la possibilità che la speciale esimente dell’art. 384 comma 1 c.p. possa essere sottoposta ad un’applicazione analogica, sia rispetto alle figure delittuose alle quali è applicabile, sia rispetto ai soggetti che se ne possono giovare; in presenza, dunque, di una situazione non sussumibile all’interno di tale fattispecie, la possibilità di andare esente da responsabilità dovrebbe poter discendere esclusivamente dall’applicazione analogica dell’art. 54 c.p., ma ciò a condizione che ne sussistano tutte le specifiche ed ulteriori condizioni applicative.
Il rischio insito nell’asserire che l’art. 384 comma 1 c.p. possa essere applicato in via analogica, in realtà, potrebbe non determinare problemi di chissà quale natura rispetto alla situazione dei conviventi more uxorio – che, in effetti, potrebbe divenire oggetto di apposita prova mediante l’allegazione di una serie di elementi fattuali idonei a comprovare la sua equivalenza a ciò che fisiologicamente contraddistingue il rapporto di coniugio.
Tale interpretazione, tuttavia, potrebbe generare degli effetti distorsivi derivanti dalla possibile perdita di controllo nella dilatazione della compagine dei congiunti verso ulteriori soggetti che rientrerebbero nell’ipotetico elenco allargato: si pensi, ad esempio, agli affini del convivente more uxorio e di quello more unione civile nonché a coloro che ricoprirebbero la posizione di zii o di nipoti di fatto.
[1] In questo senso, ex multis, Cass. Pen. Sez. VI, ord. 20 marzo 1991, n. 132, 5 luglio 1989, n. 9475, e 27 maggio 1988, n. 6365. Nella giurisprudenza più recente si v. Sez. II, 17 febbraio 2009, n. 20827. Nello stesso senso si colloca l’orientamento che, in una prospettiva diversa, ha ritenuto che la disposizione in esame non possa estendersi al rapporto di affinità che lega un coniuge al nipote dell’altro coniuge: Sez. VI, 15 ottobre 2008, n. 3879, e quella sentenza che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione in esame nella parte in cui esclude il convivente more uxorio dal novero dei congiunti: Sez. VI, 26 ottobre 2006, n. 35967.
[2] Cass. Pen. Sez. II, 4 agosto 2015 (ud. 30 aprile 2015), n. 34147.
[3] Legge 20 maggio 2016, n. 76.
[4] In questo senso, ex multis, Cass. Pen. Sez. IV, 26 ottobre 2005, n. 109, e, prima dell’introduzione del Testo Unico in materia di Spese di Giustizia, Sez. VI, 31 ottobre 1997, n. 4264.
[5] In questo senso anche Cass. Pen. Sez. IV, 6 agosto 2009, n. 32190.
[6] Il testo dell’articolo è il seguente: “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
[7] La pronuncia citata dalla Suprema Corte nell’ordinanza di remissione, è quella della Grande Camera nel giudizio Van der Heijden c. Olanda del 3 aprile 2012, in relazione alla quale si v. PELLAZZA, Obbligo di testimonianza del convivente more uxorio: la Corte EDU non apre alle coppie di fatto. Riflessioni su art. 384 c.p. e famiglia di fatto, in www.dirittopenalecontemporaneo.it; più in generale, in relazione al contenuto dell’art. 8 della CEDU, si v. PUTATURO DONATI, Il diritto al rispetto della «vita privata e familiare» di cui all’art. 8 della CEDU, nell’interpretazione della Corte EDU: il rilievo del detto principio sul piano del diritto internazionale e su quello del diritto interno, in www.europeanrights.eu
[8] La relazione è reperibile quale allegato a GATTA, Unioni Civili Tra Persone Dello Stesso Sesso: Profili Penalistici – Note a margine del D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, in cui l’A. qualifica come sostanzialmente neutro, quanto al tema della convivenza di fatto, l’intervento della Legge Cirinnà, e ciò nonostante giurisprudenza e dottrina da tempo avessero sollecitato un intervento legislativo volto ad ammodernare la disciplina penale mettendola al passo con la mutata realtà sociale.
[9] Cass. Pen. Sez. VI, 14 marzo 2019 (ud. 19 settembre 2018) , n. 11476. Nello stesso senso, e della stessa Sezione, si segnala 11 maggio 2004, n. 22398.
[10] Corte Cost., 12 gennaio 1977, n. 6.
[11] Corte Cost., 13 novembre 1986, n. 237.
[12] Corte Cost., 11 gennaio 1996, n. 8, le cui considerazioni vengono riprese anche da Corte Cost., 7 aprile 2004, n. 121, e da Corte Cost., 4 maggio 2009, n. 140. Su quest’ultima si v. BERGONZINI, La convivenza more uxorio nella giurisprudenza costituzionale (note a ritroso all’indomani di Corte Cost. n. 140 del 2009), in Studium iuris, 2010, 1 ss.
[13] Sul punto, la stessa Consulta, con la sentenza del 25 luglio 2000, n. 352, resa però in relazione ad una questione avente ad oggetto l’art. 649 c.p., ha ricordato che dalla previsione dell’art. 199 c.p.p., nella parte in cui rende equivalente il coniuge al convivente, non può discendere “un principio di assimilazione dotato di vis espansiva fuori dal caso considerato”.
[14] Considerato in diritto, § 3.
[15] La Consulta, con la sentenza 5 novembre 2015, n. 223, ha rilevato la sopraggiunta irragionevolezza del complesso delle previsioni dell’art. 649 c.p. alla luce delle evoluzioni e dei mutamenti sociali, ed anche in tal caso ha sollecitato il legislatore a riformarne la disciplina nella consapevolezza, nondimeno, della inesistenza di una soluzione costituzionalmente obbligata: in argomento LEO, Per la Corte costituzionale è anacronistica la disciplina di favore per i reati contro il patrimonio commessi in ambito familiare, in www.dirittopenalecontemporaneo.it
[16] Corte Cost., 11 gennaio 1996, n. 8, cit., Considerato in diritto, § 2.
[17] ANTOLISEI, Manuale di Diritto Penale – Parte Speciale – I, Milano 2003, 568 ss. In argomento si v. anche ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I (artt. 1 – 84), Milano 2004, 51 ss. Nella giurisprudenza risalente Cass. Pen. Sez. VI, 23 marzo 1983, n. 2537.
[18] Cass. Pen. Sez. VI, 14 gennaio 2015, n. 1401; nello stesso senso Sez. I, 18 febbraio 1988, n. 2145.
[19] Cass. Pen. Sez. VI, 8 gennaio 2003, n. 3397.
[20] Così Cass. Pen. Sez. VI, 4 febbraio 1997, n. 1908. Nello stesso senso Sez. I, 9 maggio 1992, n. 5414, secondo cui l’evento oggetto della situazione di necessità di cui all’art. 384 c.p. non è costituita da un evento di pericolo ma da uno di danno.
[21] Cass. Pen. Sez. I, 30 giugno 1975.
[22] Così Cass. Pen. Sez. VI, 20 febbraio 2009, n. 10654, 3 novembre 1989, secondo cui condizione per l’applicabilità della norma, quale manifestazione dello stato di necessità, è rappresentata dalla involontarietà della condizione di pericolo, e 24 febbraio 1986, n. 5046; in senso diametralmente opposto la giurisprudenza più recente della stessa Sezione: Sez. VI, 29 luglio 2019, n. 34543. In argomento si v. anche SCARCELLA, Punibile il falso teste “avvisato” di astenersi nel processo a carico del prossimo congiunto, in Diritto Penale e Processo 2009, n. 167.
[23] Cass. Pen. Sez. VI, 30 novembre 2018, n. 53939; Sez. V, 24 aprile 2018, n. 18110.
[24] In questo senso, tra gli altri, PALAZZO, Corso di Diritto Penale, Parte Generale, Torino 2013, 457 ss.; FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova 1990, 355 ss. In argomento si v. anche ZANOTTI, “Nemo tenetur se detegere”: profili sostanziali, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale 1989, 184 ss.
[25] Così DI BIASE, Analogia in bonam partem e cause di esclusione della colpevolezza: sull’applicabilità dell’art. 384 comma 1 c.p. ai conviventi more uxorio. Riflessioni a margine di una recente ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in Cass. Pen. 2020, 2848-2849.
[26] In questi termini, senza tuttavia affrontare in maniera diretta la questione relativa alla natura della fattispecie, Cass. Pen. SS. UU., 14 febbraio 2008, n. 7208, che, nel richiamare la sentenza della Sez. VI, 4 ottobre 2001, Mariotti, afferma che l’art. 384 comma 1 c.p. trova la sua giustificazione nell’istinto alla conservazione della propria libertà e del proprio onore (nemo tenetur se detegere) e nell’esigenza di tener conto, agli stessi fini, dei vincoli di solidarietà familiare.
[27] In questi termini FIANDACA – MUSCO, Diritto Penale, Parte Speciale – I, Bologna 2008, 414. Parla invece di “chimera giuridica” SPENA, Sul fondamento della non punibilità nei casi di necessità giudiziaria (art. 384 1° comma c.p.), in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 2010, 145 ss. In argomento si v. anche MEZZA, Unioni civili e convivenze di fatto nelle cause di non punibilità: l’ambito applicativo dell’art. 384, comma 1, c.p., in Cass. Pen. 2018, 2738 ss.
[28] Secondo PADOVANI, Le cause di giustificazione, Padova 2006, 140, “….in termini dogmatici, la circostanza che il fatto tipico sia stato commesso sovvertendo il criterio di priorità stabilito dall’ordinamento (e quindi in assenza di causa di giustificazione), lo qualifica come obiettivamente antigiuridico; nell’ipotesi inversa (e cioè in presenza di una causa di giustificazione), esso risulta invece obiettivamente lecito”. MANTOVANI, Diritto Penale – Parte generale, Padova 2007, 233, afferma che il fondamento logico-giuridico delle scriminanti è dato dal principio di non contraddizione, per cui uno stesso ordinamento non può imporre o consentire e, ad un tempo, vietare il medesimo fatto senza rinnegare sé stesso e la sua pratica possibilità di attuazione.
[29] In ambito civile, al contrario, non ogni fatto che rechi danno, si sostiene, genera obbligo di risarcimento, poiché esso deve essere in contrasto con un dovere giuridico: è proprio “questa relazione di difformità (che) si esprime appunto come antigiuridicità”. Ad esempio, la giurisprudenza, in numerose pronunce, ha riconosciuto il risarcimento per lesione all’integrità del patrimonio, nonché per la perdita di opportunità (chance), identificando nell’art. 2043 c.c. una clausola generale in base alla quale è risarcibile la lesione di qualunque interesse, rilevante per l’ordinamento; progressivamente, la situazione soggettiva suscettibile di risarcimento ha, apparentemente, acquistato nettezza ed omogeneità di contorni, ed il danno ingiusto è stato assimilato al pregiudizio arrecato in violazione di un dovere giuridico (ovvero in caso di antigiuridicità obiettiva). Proprio in ragione di ciò, in presenza di una delle due cause di giustificazione previste dal codice civile, ossia la legittima difesa e lo stato di necessità (artt. 2044 e 2045 c.c.), non sussiste un diritto al risarcimento del danno. Per la prima ipotesi si prevede che nulla è dovuto per il danno che sia stato cagionato per legittima difesa, per la nozione della quale deve evidentemente farsi riferimento all’art. 52 del codice penale, mentre il successivo articolo prevede che “quando chi ha compiuto il fatto dannoso vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, e il pericolo non è stato da lui volontariamente causato né era altrimenti evitabile, al danneggiato è dovuta una indennità, la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice”. Nel vigore del codice del 1865, invece, era assai discusso se in caso di danno cagionato in stato di necessità fosse o meno escluso il risarcimento del danno. All’atto della nuova codificazione, e stante la previsione dell’art. 54 c.p., che prevedeva (e prevede) la non punibilità per il reato commesso in stato di necessità, ai più non sembrava equo che tutte le conseguenze dannose rimanessero a carico della vittima; tuttavia era difficile, in assenza di una previsione specifica accordare una forma di ristoro, ragion per cui il codificatore ha previsto, in tal caso, il diritto del danneggiato ad una indennità. Secondo VISINTINI, Trattato breve della responsabilità civile, Padova 2005, 587, l’influenza del diritto penale sulla teorizzazione del diritto civile è comune anche a molti altri ordinamenti. In particolare tale dipendenza è molto forte nel sistema francese dove il code civil non contiene, a differenza del nostro, alcuna disposizione con riguardo ai “faits justificatifs” e solo nel 1968 è stata emanata una leggina che ha introdotto un regime speciale di responsabilità dell’incapace affetto da disturbi mentali. Si veda a questo proposito anche PELLISSIER, Faits justificatifs et action civil, Dalloz 1963, 121: VINEY, La responsabilitè: conditions,in Traitè Ghestin, Paris 1982, 666.
[30] C. App. Perugia 6 giugno 2001, in RGU, 2002, 63.
[31] In argomento WACHINGER, Der übergesetzliche Notstand nach der neuesten Rechtsprechung, in Frank.fest, I, Tübingen, 1930, 476, nota 1. Questa teoria sarebbe idonea, se ulteriormente sviluppata, potrebbe rappresentare la chiave di legittimazione delle esimenti non codificate, istituto che negli anni ha subito molteplici applicazioni pratiche, prima fra tutte quella relativa all’attività medico chirurgica, rispetto alla quale si può ritenere che, a determinate condizioni (ad esempio in caso di intervento urgente e di grave pericolo di vita per il paziente), l’eventuale mancata manifestazione del consenso del paziente e la limitazione della sua libertà decisionale costituiscano il sacrificio di un bene che è inferiore a quello della salute e dell’integrità fisica, valori che, in quanto di rango superiore, a certe condizioni possono essere tutelati anche a discapito della libertà personale.
[32] Si deve infatti ricordare che l’art 14 delle preleggi, rubricato “applicazione delle leggi penali ed eccezionali” sancisce il principio per il quale “le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempo in esse considerate”.
[33] ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte Generale, Milano 2003, 95. In argomento si v. anche, nella manualistica, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale – parte generale, Bologna 2001, 165.
[34] In questo senso ROMANO, Commentario sistematico del codice penale cit., 50 ss. nonché alcuni arresti giurisprudenziali, tra cui Cass. Pen. Sez. IV, 8 marzo 2016, n. 9559; contra MARINUCCI – DOLCINI, Manuale di Diritto Penale – Parte Generale, Milano 2012, 349, secondo cui “eventuali lacune in materia di scusanti possono essere colmate solo dal legislatore, e non dal giudice in via analogica”.
[35] Si v. sul punto, anche per i richiami dottrinali, DI BIASE, Analogia in bonam partem e cause di esclusione della colpevolezza cit., 2850.
[36] Diversamente NUVOLONE, I limiti taciti della norma penale, Padova 1972, 33 e ss., evidenzia che la logica del comando comporta un’esigenza di tipicità che si riverbera anche sui limiti dell’obbligo ed esclude, pertanto, la possibilità di ricorrere all’analogia in bonam partem.
[37] In argomento si v. MIELE, voce Cause di giustificazione, in Enciclopedia del diritto, vol. VI, 590 – 598.
[38] ROSSI, La collocazione dogmatica delle scriminanti. Ammissibilità delle scriminanti tacite, in www.diritto.it.
[39] MIELE, ibidem, 598 per chiarire attraverso quale procedimento giuridico opera la efficienza normativa dei principi nelle cause di giustificazione non previste, “si devono registrare due atteggiamenti che risultano storicamente condizionati dal modo in cui funziona un sistema normativa e dalla posizione che occupa la dommatica nel concreto funzionamento dell’esperienza giuridica. Infatti c’è da segnalare che dove la dottrina ha assunto una posizione di preminenza, come in Germania, la forza normativa dei principi opera nella giurisprudenza per l’autorità diretta della elaborazione dommatica, nel nostro sistema giuridico invece si fa ricorso alla logica dell’interpretazione e viene esattamente impiegato quel particolare procedimento di interpretazione che è appunto l’analogia”.
[40] In questo senso MIRRA, Causa di giustificazione non codificate e fenomeno sportivo, in www.altalex.it.
[41] VASSALLI, Limiti del divieto di analogia in materia penale, Milano 1942, 117.
[42] DI BIASE, Analogia in bonam partem¸ cit. 2851.
[43] DI BIASE, op. cit., 2852.
[44] Ad un primo esame, le ragioni dell’identificazione di tali fattispecie, evidentemente a numero chiuso, potrebbero risiedere nella tendenziale natura di pericolo e della complessiva minore gravità dei delitti in questione, del mancato coinvolgimento di interessi di terzi (con l’esclusione della falsa testimonianza e dei delitti in materia di dichiarazioni, che potrebbero incidere negativamente su terzi incolpevoli ma che non lo fanno necessariamente), e nell’esclusione delle fattispecie a tutela dell’autorità delle decisioni dell’Autorità Giudiziaria.
[45] Il medesimo rapporto, con buona approssimazione, potrebbe esistere tra il consenso dell’avente diritto e l’omicidio del consenziente.
[46] Cass. Pen. Sez. VI, 23 marzo 1983, n. 2537.
[47] Nondimeno, Cass. Pen. Sez. VI, 20 settembre 1989, n. 12672, e 15 novembre 1985, n. 10707, affermano la necessità che anche l’art. 384 c.p. vada applicato a condizione che vi sia prova non di un pericolo di nocumento “genericamente temuto”, ma di un pericolo attuale e concreto.
[48] In tale prospettiva Cass. Pen. Sez. VI, 8 aprile 2008, n. 26560.
[49] In senso contrario Cass. Pen. Sez. I, 14 aprile 1989. n. 5759, e Sez. VI, 30 aprile 1988, n. 5232, che hanno ritenuto applicabile l’art. 384 comma 1 c.p. anche qualora il nocumento temuto avesse ad oggetto non la libertà o l’onore ma l’incolumità fisica.
[50] Cass. Pen. Sez. VI, 23 marzo 2006, n. 12799; nei medesimi termini Sez. VI, 14 novembre 1979.