Abstract: Il contributo, dopo un breve excursus sui reati di cui all’art. 7 co. 1 e 2 d.l. n. 4 del 28 gennaio 2019, n. 4, conv. con modif. dalla l. 28 marzo 2019, n. 26, analizza la recente sentenza n. 49686 del 13.7.2023 pronunciata dalle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione sulla rilevanza delle false dichiarazioni volte a conseguire il reddito di cittadinanza e, dopo aver vagliato la compatibilità con i principii costituzionali delle interpretazioni dei reati de quibus elaborate dalla giurisprudenza di legittimità minoritaria, affronta la tematica della successione di leggi con particolare riguardo alla rilevanza penale dopo il 1 gennaio 2024 delle condotte tipizzate nei commi 1 e 2 dell’art. 7 d.l. n. 4/2019.
Abstract: The paper, after a brief excursus about the crimes provided in art. 7 par. 1 and 2 d.l. n. 4 of 28th January 2019, n. 4, converted with modifications into the Law 28th March 2019, n. 26, analyzes the recent judgment no. 49686 pronounced on July 13th 2023 by the United Criminal Sections of the italian Supreme Court about the relevance of false declarations aimed at obtaining citizenship income and, after having examined the compatibility with the constitutional principles of the interpretations of the crimes de quibus elaborated by doctrine and minority jurisprudence, addresses the issue of the succession of laws with particular regard to the criminal relevance after January 1st 2024 of the conduct typified in paragraphs 1 and 2 of the art. 7 d.l. n. 4/2019.
Sommario: 1. Breve ricostruzione della vicenda processuale – 2. Il quadro normativo di riferimento – 3. Gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità prima dell’intervento delle Sezioni Unite – 4. Le motivazioni della pronuncia delle Sezioni Unite – 5. Spunti critici: la rilevanza penale delle condotte di cui all’art. 7 co. 1 e 2 dopo il 31.12.2023.
1. Breve ricostruzione della vicenda processuale
I Giudici della Corte d’Appello di Salerno, nel confermare il provvedimento di primo grado, hanno emesso sentenza di condanna per violazione dell’art. 7 co. 1 d.l. n. 4 del 28 gennaio 2019, n. 4, conv. con modif. dalla l. 28 marzo 2019, n. 26, fattispecie ritenuta perfezionata nel momento in cui l’agente ha portato dati non veritieri all’attenzione dell’amministrazione erogatrice del reddito di cittadinanza.
La Terza Sezione penale della Corte di Cassazione, sollecitata dalle considerazioni del difensore dell’imputato, rilevata l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sul tema, ha rimesso il ricorso dinanzi alle Sezioni Unite avente ad oggetto la seguente questione di diritto: «Se le omesse o false dichiarazioni di informazioni contenute nell’autodichiarazione finalizzata all’ottenimento del reddito di cittadinanza integrino il delitto di cui all’art. 7 del d.l. 28 gennaio 2019, n. 4 convertito on l. 28 marzo 2019, n. 26, indipendentemente dall’effettiva sussistenza o meno delle condizioni patrimoniali stabilite per l’ammissione al beneficio».
2. Il quadro normativo di riferimento
Il legislatore ha disciplinato l’istituto del reddito di cittadinanza con il citato d.l. n.4/2019, prevedendo ai commi 1 e 2 dell’art. 7 due diverse fattispecie di reato. In particolare, il comma 1 recita: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all’articolo 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni», mentre il comma 2 dispone: «L’omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio entro i termini di cui all’articolo 3, commi 8, ultimo periodo, 9 e 11, è punita con la reclusione da uno a tre anni».
Com’è noto, con l’art. 1 comma 318, l. 29 dicembre 2022, n. 197, a decorrere dal 1 gennaio 2024 sono stati abrogati gli articoli da 1 a 13 del d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla l. 28 marzo 2019, n. 26, ad eccezione degli articoli 4, comma 15-quater, 6, comma 2, commi da 6-bis a 6-quinquies e comma 7-bis, 8-bis, 9-bis, 10, comma 1-bis, 11, 11-bis, 12, commi da 3 a 3-quater e 8 e 13, comma 1-ter. Tuttavia, con specifico riguardo alle norme penali contemplate nel decreto-legge istitutivo del reddito di cittadinanza, l’art. 13 co. 3, d.l. 4 maggio 2023 n. 48, conv, con modif. dalla l. n. 85 del 3 luglio 2023, ha stabilito che al beneficio di cui all’art. 1 del d.l. n.4/2019 continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all’art. 7 del medesimo decreto-legge, vigenti alla data in cui il beneficio è stato concesso, per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023.
La contestuale lettura delle disposizioni richiamate consente di evincere che dal 31.12.2023 il beneficio del reddito di cittadinanza non è più attivo ed è stato sostituito dal c.d. assegno di inclusione e che le norme penali di cui all’art. 7 co. 1 e 2 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4 sono ancora in vigore. In definitiva, la disciplina appena richiamata troverà applicazione con riguardo alle condotte poste in essere prima del 1 gennaio 2024, laddove sussumibili nelle fattispecie di cui agli artt. 7 co. 1 e 2 del d.l. de quo.
Da ciò discende l’attualità dell’intervento delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione e la necessità, in questa sede, di illustrare le principali caratteristiche delle ipotesi di reato disciplinate dal d.l. n.4/2019.
In estrema sintesi, il primo comma dell’art. 7 prevede un reato comune di pericolo[1] che si può realizzare nella forma attiva qualora la condotta posta in essere dall’autore sia quella di rendere o utilizzare dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, oppure nella forma omissiva, nel caso in cui l’autore non comunichi le informazioni dovute[2]. In ogni caso la condotta dell’agente deve essere colorata dal fine di ottenere indebitamente il beneficio del reddito di cittadinanza.
L’art. 7 co. 2 d.l. n.4/2019, invece, prevede un reato proprio, di pericolo concreto e omissivo, che si consuma nel momento in cui l’agente non rispetta, entro i termini espressamente richiamati nella disposizione, l’obbligo di comunicare variazioni del reddito o del patrimonio o altre informazioni dovute e “rilevanti” ai fini della revoca o della riduzione del beneficio[3].
Ebbene, anche al fine di perimetrare la questione oggetto del presente contributo, appare utile riproporre in tale sede la premessa effettuata dai giudici della III sezione della Corte di Cassazione nell’ordinanza di rimessione, in cui essi hanno avuto modo di precisare che in sede di richiesta per l’erogazione del beneficio sono in astratto configurabili tre diverse ipotesi: a) quella in cui il mendacio concerne la totale assenza dei requisiti; b) quella in cui il mendacio è funzionale a ottenere un beneficio di entità superiore rispetto a quello dovuto; c) quella in cui il mendacio non incide né sul diritto a ottenere il beneficio, né sull’ammontare del sussidio.
Le perplessità in ordine alla corretta perimetrazione dell’ambito applicativo della fattispecie di cui all’art. 7 co. 1 d.l. n. 4/2019 non riguardano le due prime ipotesi, sulla cui penale rilevanza non v’è ragione di dubitare, bensì la terza, in quanto si tratta di casi in cui il soggetto che ha dichiarato il falso possiede comunque i requisiti per poter ottenere il reddito di cittadinanza e, di conseguenza, l’eventuale erogazione del sussidio non comporta nessun danno per il patrimonio dell’ente erogatore.
3. Gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità prima dell’intervento delle Sezioni Unite
La giurisprudenza di legittimità si è più volte interrogata in merito all’alveo applicativo delle norme penali in materia di reddito di cittadinanza e, come precisato anche nella ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, si è collocata su due diverse posizioni.
Un primo indirizzo considera il reato di cui all’art. 7 co. 1 d.l. n.4/2019 quale reato di mera condotta e di pericolo (astratto o presunto), strettamente collegato al generale principio antielusivo di cui all’art. 53 Cost. ed introdotto dal legislatore con lo scopo di garantire una più efficiente tutela «dell’amministrazione contro mendaci e omissioni circa l’effettiva situazione patrimoniale e reddituale da parte dei soggetti che intendono accedere o già hanno acceduto al “reddito di cittadinanza”»[4]. Lo scopo sarebbe, dunque, quello di evitare il pericolo del conseguimento di un profitto ingiusto da parte dell’istante e di garantire il rispetto «del dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali riceve un beneficio economico»[5]. Immediata conseguenza di quest’orientamento è l’estensione del perimetro applicativo della fattispecie di reato, che si realizzerebbe anche in presenza di dichiarazioni false da parte di un soggetto in possesso delle condizioni per l’ammissione al beneficio.
Nel motivare questa lettura, attraverso un atecnico rinvio al principio di analogia, è stato ulteriormente affermato che la disciplina di cui all’art.7 citato « non si differenzia in maniera essenziale da quella dell’art. 95 del d.P.R. n. 115 del 2002, in quanto entrambe appaiono dirette a sanzionare la violazione del dovere di lealtà del cittadino verso l’amministrazione che eroga una provvidenza in suo favore e non prevedono, perciò, la necessità di accertare la sussistenza in concreto dei requisiti reddituali di legge»[6].
A ben vedere, anche se sul punto non v’è un’espressa presa di posizione nelle sentenze che condividono tale orientamento, la fattispecie in esame viene ricostruita come reato di condotta, di pericolo presunto e plurioffensivo eventuale, per la cui consumazione è ritenuta sufficiente la dichiarazione falsa dell’istante: il mendacio è considerato ex se lesivo del generale “patto di leale collaborazione tra cittadino e Stato”[7] e idoneo a porre in pericolo l’amministrazione, mentre l’offesa (o meglio il pericolo) al patrimonio dell’ente attraverso il conseguimento di un profitto ingiusto non rileva ai fini della realizzazione del reato, ma degrada a ulteriore fattore da valutare, eventualmente, in sede di commisurazione della pena. Il delitto de quo,così ricostruito, in definitiva, costituisce una species del genus del reato di falso.
Altra e maggioritaria giurisprudenza, invece, ha sostenuto che «integrano il delitto di cui all’art. 7 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modifiche, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, le false indicazioni dei dati di fatto riportati nell’autodichiarazione finalizzata all’ottenimento del “reddito di cittadinanza” o le omissioni, anche parziali, di informazioni dovute, solo ove le stesse siano strumentali al conseguimento del beneficio, cui altrimenti non si avrebbe diritto»[8].
Questa interpretazione si fonda sulla valorizzazione del profilo letterale della norma, del principio di offensività e del dato sistematico. Ad avviso dei sostenitori di tale tesi, la formula “al fine di ottenere indebitamente il beneficio”non è neutra ed è stata inserita dal legislatore con lo scopo precipuo di tipizzare in termini di concretezza il pericolo, attraverso l’espresso richiamo alla volontà diretta al conseguimento del reddito di cittadinanza in assenza dei requisiti di legge[9]. Ne deriva che il giudice di merito, trattandosi di un reato di pericolo concreto con dolo specifico[10], è tenuto ad accertare la falsità della dichiarazione e la presenza del pericolo, da intendersi come la idoneità della condotta a determinare la lesione del patrimonio dell’ente erogatore del sussidio, danno che si concretizzerebbe nel caso di effettiva erogazione del reddito di cittadinanza a chi non ha i presupposti richiesti dalla normativa.
Sotto il profilo sistematico, a corroborare questa opzione ermeneutica contribuisce anche la marcata differenza letterale con l’art. 95 .P.R. 30 maggio 2002, n. 115[11], norma che non richiama la finalità ulteriore rispetto alla mera consapevolezza e volontà di rendere una falsa dichiarazione e che, dunque, si distingue nettamente dall’art. 7 d.l. n.4/2019 nella parte in cui richiama expressis verbis l’avverbio indebitamente e lo collega al fine perseguito dall’agente.
Nel contesto appena tratteggiato sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che hanno espresso il seguente principio di diritto: «Le omesse o false indicazioni di informazioni contenute nell’autodichiarazione finalizzata a conseguire il reddito di cittadinanza integrano il delitto di cui all’art. 7 d.l. 28 gennaio 2014 n. 4, conv. in legge 28 marzo 2019 n. 26 solo se funzionali ad ottenere un beneficio non spettante ovvero spettante in misura superiore a quella di legge».
4. Le motivazioni della pronuncia delle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite, con la pronuncia n. 49686/2023, hanno convintamente aderito alla impostazione maggioritaria e, contestualmente, hanno messo in luce i principali inconvenienti dell’orientamento minoritario, evidenziando come il ragionamento risulti viziato dall’esaltazione di un inesistente parallelismo tra la fattispecie di reato di cui all’art. 7 d.l. n.4/2019 e quella tipizzata nell’art. 95 D.P.R. n. 115/2002 e dalla valorizzazione di un “bene giuridico” – il dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali riceve un beneficio economico – non convincente.
Per quanto concerne il primo profilo, è stato specificato che diversi sono gli elementi differenziali tra i due reati appena menzionati; sul punto, basti pensare al mancato richiamo, nella disposizione in materia di gratuito patrocinio, al dolo specifico, e al fatto che solo per il delitto di cui all’art. 95 D.P.R. n.115/2002 l’eventuale erogazione del beneficio non dovuto comporta l’applicazione di una sanzione più severa rispetto al caso in cui il soggetto si limiti a dichiarare il falso. Inoltre, differenziano profondamente le due ipotesi di reato anche gli scopi perseguiti dai due istituti (garanzia del diritto difesa nell’ipotesi del gratuito patrocinio; lotta alla povertà in rapporto al reddito di cittadinanza), il procedimento di ammissione al beneficio, i tempi di decisione sulle istanze di ammissione, le modalità di erogazione del sussidio e le modalità di controllo, che per il solo caso del reddito di cittadinanza deve essere effettuato dall’INPS, tenuto a verificare l’effettivo possesso dei requisiti per l’accesso al sussidio, e che, dunque, non si deve limitare a valutare la correttezza delle dichiarazioni contenute nella domanda.
Non meno severe le critiche circa il “bene giuridico”. Ad avviso dei giudici delle Sezioni Unite l’esaltazione del patto di leale collaborazione tra cittadino e Stato[12] veicola nel sistema giuridico un vuoto guscio privo di sostanza[13]con consequenziale espansione dell’alveo applicativo del reato e rischio di stigmatizzare attraverso la sanzione penale fatti privi di reale capacità offensiva[14]. Del resto, si sottolinea, accogliere tale opzione ermeneutica comporta la violazione del principio di offensività nella sua duplice declinazione: in astratto, in quanto la fattispecie di reato darebbe luogo alla punizione di fatti privi di un reale contenuto offensivo di beni o interessi meritevoli di tutela e, in concreto, poiché, trattandosi di un reato di pericolo presunto, il giudice sarebbe tenuto a pronunciare sentenza di condanna anche in presenza di condotte del tutto inidonee a creare la messa in pericolo del bene giuridico[15].
Le Sezioni Unite, nel recepire e sviluppare l’orientamento maggioritario, hanno altresì affermato che il delitto di cui all’art. 7 d.l. n. 4/2019 è un reato di pericolo concreto a consumazione anticipata, presidio per tutelare le risorse pubbliche economiche, sub species patrimonio dell’ente erogante il reddito di cittadinanza.
Trattasi di una interpretazione suffragata da diversi argomenti. Il dato letterale e, in particolare, l’uso dell’avverbio “indebitamente” legato “al fine di ottenere il beneficio” merita di essere valorizzato, e ciò è possibile solo nel momento in cui si attribuisce all’avverbio un contenuto autonomo che caratterizza il dolo specifico ed è in grado di contribuire a perimetrare in modo più preciso l’ambito applicativo della fattispecie, evitando la mera sovrapposizione con la consapevolezza della falsità delle informazioni dichiarate o omesse per percepire il sussidio. In altri termini, la lettera della legge impone una valutazione circa la capacità della condotta posta in essere a determinare il concreto pericolo di lesione del patrimonio dell’ente erogante il reddito di cittadinanza, non essendo sufficiente il mero mendacio.
Un’ulteriore ragione di natura sistematica per accogliere la lettura più restrittiva della norma in esame è stata desunta dal raffronto tra co. 1 e 2 dell’art.7 d.l. n.4/2019. E’ stato messo in evidenza che le due ipotesi di reato perseguono, seppure in momenti differenti, il medesimo scopo e, cioè, tutelare il patrimonio dell’ente erogatore del sussidio. E, precisamente, il reato di cui al comma primo ha lo scopo di salvaguardare il bene giuridico prima che il beneficio venga erogato, mentre il secondo comma è finalizzato a sanzionare le condotte poste in essere dopo l’erogazione del sussidio. Lettura che non sarebbe compatibile con l’indirizzo minoritario della giurisprudenza nel momento in cui, se coerentemente sviluppato, dovrebbe condurre a ritenere che il delitto di cui al primo comma è un reato di pericolo astratto posto a tutela del patto di lealtà tra cittadino e Stato, mentre il reato di cui al comma secondo è un reato di pericolo concreto posto a garanzia del patrimonio dell’Ente. In altri termini, optare per l’interpretazione minoritaria determinerebbe un trattamento differenziato di condotte simili in quanto il mero mendacio sarebbe da considerare penalmente rilevante a prescindere dall’effettivo possesso dei requisiti di legge se realizzato al momento della presentazione della domanda, mentre degraderebbe tra i fatti atipici se realizzato dopo l’erogazione qualora l’omessa comunicazione o informazione non è rilevante ai fini della revoca o della decadenza del beneficio.
In questo contesto deve altresì escludersi che il reato di cui all’art. 7 co. 1 d.l. n 4/2019 costituisca un reato a tutela della fede pubblica. Diverse sono le ragioni: a) il bene giuridico tutelato è il patrimonio dell’ente erogatore, b) si priverebbe di qualsiasi valore il richiamo all’avverbio indebitamente e c) si esalterebbe il ruolo della condotta con consequenziale svilimento dell’evento. E questa esegesi, precisano i giudici, non deve meravigliare, in quanto nel nostro ordinamento non esiste un automatismo tra mendacio e reati di falso, come dimostrano diverse fattispecie di reato, tra le quali il delitto di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 d.lgs n. 74/2000, la cui consumazione è focalizzata sulla dichiarazione di dati falsi o sul silenzio intorno a fatti veri, nonostante non si tratti di delitto posto a tutela della fede pubblica.
La diretta conseguenza di questa interpretazione del reato è la esaltazione del ruolo del dolo specifico: il fine di ottenere indebitamente il beneficiosvolge la funzione di circoscrivere l’ambito applicativo della fattispecie e consente di escludere la penale rilevanza delle condotte non idonee a creare il pericolo di lesione del bene giuridico. Ne deriva l’atipicità, per mancanza di offensività, della condotta di chi, in possesso dei requisiti previsti dalla legge per ottenere il sussidio, nell’autodichiarazione depositata per ottenere il beneficio del reddito di cittadinanza abbia dichiarato il falso o abbia omesso di dire il vero[16].
5. Spunti critici: la rilevanza penale delle condotte di cui all’art. 7 co. 1 e 2 dopo il 31.12.2023.
La lettura della sentenza delle Sezioni Unite e dei provvedimenti delle Sezioni semplici della Corte di Cassazione offre, ad avviso di chi scrive, diversi spunti.
Per quanto concerne l’interpretazione minoritaria, si condividono le riserve manifestate dai giudici delle Sezioni Unite[17]. Tuttavia, appare opportuno soffermarsi ancora una volta sull’asserito bene giuridico del «dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali riceve un beneficio economico»,per evidenziare che si tratta di un “bene” dai contorni eccessivamente sfumati che, come traspare anche dall’analisi della giurisprudenza promotrice della pronuncia delle Sezioni Unite, tende a confondersi con la ratio[18]e che risulta privo della necessaria determinatezza richiesta per elevare un mero interesse a bene giuridico degno di tutela in sede penale[19]. Ed ancora, si ritiene che la conseguente eccessiva anticipazione della tutela, magistralmente stigmatizzata nella sentenza in commento, oltre a determinare una violazione del principio di offensività nelle sue due declinazioni, crei forti tensioni anche con altri principii che orientano il diritto penale del fatto e, cioè, l’extrema ratio, la frammentarietà, la determinatezza/tassatività e, non da ultimo, la funzione rieducativa della pena. Con particolare riguardo a quest’ultimo profilo, si manifesta la difficoltà di immaginare la predisposizione di un trattamento di reinserimento sociale da proporre al “cattivo cittadino” che ha mentito senza, tuttavia, aver ricevuto nulla di più di quanto dovuto in base alla normativa in vigore al momento del fatto.
In definitiva, l’impostazione minoritaria sembra esaltare il “cittadino modello” e criminalizzare chi non rientra in questo paradigma, senza premurarsi di relazionare la fattispecie di reato con i principii costituzionali del diritto penale e, anzi, offrendo una lettura della norma che induce a ricondurre la fattispecie nella categoria dei c.d. reati di pura creazione legislativa[20] e a recepire una lettura dell’illecito orientata al panpenalismo[21].
Condivisibile, invece, la decisione delle Sezioni Unite, anche se, forse, sarebbe stata auspicabile una maggiore precisione sotto il profilo dogmatico nel momento in cui sono stati analizzati i rapporti tra dolo specifico e principio di offensività. Ad avviso di chi scrive, i giudici avrebbero potuto precisare expressis verbis – facendo così chiarezza anche circa la concezione del reato recepita in sentenza – che la funzione assolta dal dolo specifico con riguardo al profilo oggettivo del reato è costituita dall’individuazione dell’evento voluto dal soggetto agente, elemento che, unitamente alla condotta, rappresenta uno dei due termini del giudizio di pericolo concreto che deve essere emesso di volta in volta dal giudice di merito[22].
Un’ulteriore questione incidentalmente trattata nel corpo delle motivazioni della pronuncia[23] concerne l’attuale rilevanza penale delle condotte astrattamente sussumibili nelle fattispecie di cui all’art. 7 d.l. n.4/2019 realizzate prima del 1.1.2024. Occorre, cioè, domandarsi se, a seguito delle disposizioni intervenute in materia, i fatti rientranti nelle disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 7 non costituiscano più reato.
Per rispondere al quesito è preliminare procedere ad una attenta analisi del quadro normativo.
Brevemente, tra le norme che contribuiscono a disciplinare il fenomeno, rivestono fondamentale importanza:
- l’art. 1 comma 318, l. 29 dicembre 2022, n. 197, così come modificato dall’art. 13 d.l. del 4/5/2023 n. 48, che recita: «A decorrere dal 1° gennaio 2024 gli articoli da 1 a 13 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, sono abrogati ad eccezione degli articoli 4, comma 15-quater, 6, comma 2, commi da 6-bis a 6-quinquies e comma 7-bis, 8-bis, 9-bis, 10, comma 1-bis, 11, 11-bis, 12, commi da 3 a 3-quater e 8 e 13, comma 1-ter»;
- l’art. 13 co. 4 d.l. 4.5.2023 n. 48 conv. con modif. dalla l. 3 luglio 2023, n. 85, che recita: «All’articolo 1, comma 318, della legge 29 dicembre 2022 n. 197, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «ad eccezione degli articoli 4, comma 15-quater, 6, comma 2, commi da 6-bis a 6-quinquies e comma 7-bis, 8-bis, 9-bis, 10, comma 1-bis, 11, 11-bis, 12, commi da 3 a 3-quater e 8 e 13, comma 1-ter», norma che integra e modifica l’art. 1 co. 138;
- l’art. 13 co. 3 del d.l. 4 maggio 2023 n. 48 citato. che recita: «Al beneficio di cui all’articolo 1 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all’articolo 7 del medesimo decreto-legge, vigenti alla data in cui il beneficio è stato concesso, per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023»;
- l’art. 13 co. 1 d.l. 4 maggio 2023, n. 48citato, che recita: «I percettori del reddito di cittadinanza e della pensione di cittadinanza di cui al decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, mantengono il relativo beneficio sino alla sua naturale scadenza e comunque non oltre il 31 dicembre 2023, nel rispetto delle previsioni di cui al citato decreto-legge n. 4 del 2019. È, altresì, fatto salvo il godimento degli incentivi di cui all’articolo 8 del medesimo decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, per i rapporti di lavoro instaurati entro il 31 dicembre 2023».
La lettura delle disposizioni appena richiamate consente di individuare alcuni punti fermi:
- la misura del reddito di cittadinanza è rimasta in vigore fino alla data del 31.12.2023;
- dal 1.1.2024 il sussidio di cui all’art. 1 d.l. 29 gennaio 2019, n. 4 è stato “sostituito” dall’assegno di inclusione;
- le disposizioni contemplate nel d.l. n.4/2019 sono state abrogate ad eccezione degli articoli 4, co. 15-quater, 6, co. 2, co. da 6-bis a 6-quinquies e co. 7-bis, 8-bis, 9-bis, 10, co. 1-bis, 11, 11-bis, 12, co. da 3 a 3-quater e 8 e 13, co. 1-ter;
- le disposizioni di cui all’art. 7 d.l. n.4/2019, vigenti alla data in cui il beneficio è stato concesso, continuano ad applicarsi per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023.
In definitiva, il legislatore con riguardo all’applicazione dell’art. 7 d.l. n.4/2019 ha tentato di delineare gli strumenti per far fronte a problematiche che sarebbero potute insorgere in due periodi e, cioè, dal 29.12.2022 al 31.12.2023 e dal 1.1.2024 in poi.
Per quanto concerne il primo periodo di tempo, con l’introduzione degli artt. 13 co. 3, d.l. n.48/2023, specificando che al beneficiodel reddito di cittadinanza continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all’articolo 7 per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023, è stata offerta una immediata risposta agli inconvenienti evidenziati dalla dottrina a seguito della lettura dell’art. 1 co. 138, l. 29.12.2022, n. 197. In particolare, attraverso la norma menzionata è stato evitato il potenziale effetto criminogeno che avrebbe potuto alimentare la norma abrogatrice del reato di cui all’art. 7, in quanto essa avrebbe potuto indurre a realizzare condotte illecite fino al 31.12.2023 con la consapevolezza, da parte dell’agente, di poter successivamente beneficiare degli effetti previsti dall’art. 2 c.p. in seguito all’abrogazione del reato[24]. In altri termini, la norma ha avuto lo scopo di evitare una sorta di legittimazione (o istigazione) alla realizzazione di condotte illecite[25].
In merito al secondo periodo, cioè dal 1.1.2024 in poi, attraverso l’introduzione dell’art. 13 co. 3, d.l. 4 maggio 2023 n. 48, è stato espressamente stabilito che continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all’articolo 7 d.l. n.4/2019, vigenti alla data in cui il beneficio è stato concesso, per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023.
Ebbene, si ritiene che la disposizione di cui all’art. 13 co. 3 d.l. n.48/2023 costituisca una norma “speciale” o “integrativa”, approvata con lo scopo precipuo di escludere l’inefficacia della reazione sanzionatoria prevista dall’ordinamento in caso di violazione dell’art. 7 co. 1 e 2 d.l. n. 4/2019 per i fatti commessi fino al 31.12.2023 e che essa sia stata inserita per dirimere eventuali contrasti dottrinali e giurisprudenziali che sarebbero potuti sorgere a seguito della entrata in vigore della norma in forza della quale è stata prevista l’abrogazione a decorrere dal 1° gennaio 2024 degli articoli da 1 a 13 del d.l. n.42019, ad eccezione delle disposizioni più volte richiamate in precedenza.
Pertanto, la disposizione successiva (quella del luglio 2023) ha escluso l’inefficacia dell’art 7 d.l. n. 4 /2019 rispetto ai fatti posti in essere fino a quando il sussidio di cittadinanza era in vigore, con consequenziale superamento del dibattito che ha occupato intensamente dottrina e giurisprudenza più sensibili, concentrate sul problema della possibile applicazione degli artt. 316-ter, 483 e 489, 640-bis c.p. alle condotte astrattamente sussumibili nei delitti di cui all’art. 7 d.l. n. 4/2019.
In estrema sintesi, a seguito dell’entrata in vigore delle disposizioni finora menzionate, dal 1.1.2024 non è più possibile realizzare i reati di cui all’art. 7 d.l. n 4/2019, e ciò, a ben vedere, costituisce l’immediato riflesso in sede penalistica del fatto che la misura del reddito di cittadinanza non esiste più; ma questo, in apparente deroga al principio di cui all’art. 2 co. 2 c.p., non significa che i delitti posti a tutela del patrimonio dell’ente siano stati abrogati. Anzi, il legislatore, con l’art. 13 co. 3 d.l. n.48/2023, ritenendo ancora rilevante il disvalore sociale della condotta, ha espressamente escluso l’abrogazione, paralizzando gli effetti dell’art. 1 co. 138 l. 29 dicembre 2022, n. 197, con consequenziale applicabilità delle norme contemplate nell’art. 7 d.l. n. 4/2019 ai fatti commessi fino al 31.12.2023 anche dopo la definitiva scomparsa dall’ordinamento giuridico del reddito di cittadinanza[26].
In definitiva, il dato per cui dal 1.1.2024 il reato non sia più realizzabile neppure in astratto, non significa che i delitti siano stati abrogati.
[1] Con riguardo alla natura del reato, in dottrina v. R. Riverso, Reddito di cittadinanza: assistenza alla povertà o governo penale dei poveri?, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/reddito-di-cittadinanza-assistenza-alla-poverta-o-governo-penale-dei-poveri-_06-06-2019.php, che parla di reato di falso per mantenere il reddito di cittadinanza e, seppur con un approccio critico, considera la fattispecie di cui all’art. 7 d.l. n.4/2019 «un reato a consumazione anticipata alla mera condotta, che si realizza con l’utilizzazione di dichiarazioni o documenti mendaci, anche omissive. Non si richiede l’erogazione della misura che invece rileva dal punto del dolo specifico ossia della direzione dell’elemento soggettivo (al fine di)». Sul punto, v. anche R. Affinito – M.M. Cellini, Il reddito di cittadinanza tra procedimento amministrativo e processo penale, in Sistema Penale, https://www.sistemapenale.it/it/articolo/reddito-cittadinanza-procedimento-amministrativo-processo-penale, p. 7 che ritengono si tratti «di un reato di pericolo che si consuma con l’utilizzazione di dichiarazioni o documenti mendaci, anche sotto forma di omissione. Infatti, non è richiesta la sussistenza di un danno derivante dall’erogazione della misura circostanza che, viceversa, rileva unicamente ai fini della direzione dell’elemento soggettivo»; A. Giraldi, Reddito di cittadinanza e simbolismo strumentale: un’auspicabile deframmentazione del diritto penale, in Connessioni di diritto penale, a cura di A. Massaro, Roma, Roma TrE-Press, 2020, p. 85; F. Lombardi, Le Sezioni unite sul falso finalizzato all’indebito ottenimento del reddito di cittadinanza, in https://www.penaledp.it/le-sezioni-unite-sul-reddito-di-cittadinanza/ Ad avviso di chi scrive sarebbe più opportuno inquadrare il delitto tra i reati di pericolo concreto plurioffensivi necessari, per la cui consumazione sono richiesti la falsità della dichiarazione e l’effettivo pericolo per il patrimonio dello Stato.
[2] Parla di «reato di falso inteso all’ottenimento del RDC» R. Riverso, Reddito di cittadinanza: assistenza alla povertà o governo penale dei poveri?, cit.
[3] R. Riverso, Reddito di cittadinanza: assistenza alla povertà o governo penale dei poveri?, cit.
[4] Cass. pen., Sez. 3, sent. n. 5289 del 2020, pag. 3. V. anche Sez. 2, n. 2402 del 5/11/2020, dep. 2021, Giudice; Sez. 3, n. 30302 del 15/9/2020, Colombo; Sez. 3, n. 33808 del 21/4/2021, Casà; Sez. 3, n. 5309 del 24/9/2021, Tuono; Sez. 3, n. 1351 del 25.11.2021, Lacquaniti)
[5] Cass. pen., Sez. III, sent. n. 5289/2020, p. 3.
[6] Cass. pen., Sez. III, sent. n. 5289/2020, p. 4.
[7] Cass. Pen., Sez. Un., sent. n 49686 del 13.7.2023.
[8] Cfr. spec. Cass. pen., Sez. III, sent. n. 44366 del 15.9.2021, Gulino, Rv. 282336 – 01.
[9] Sul punto, v. anche Cass. pen., Sez. III, Sent. n. 44366 del 15.9.2021, Gulino, Rv. 282336 – 01 «con tale avverbio – presente, invece, nella normativa precettiva ora rilevante – si [è] inteso fare riferimento non tanto ad una volontà di accesso al beneficio messa in atto non iure, cioè in assenza degli elementi formali che avrebbero consentito l’erogazione, quanto ad una volontà diretta ad un conseguimento di esso contra jus, cioè in assenza degli elementi sostanziali per il suo riconoscimento; cosa che il riferimento alla non dovutezza del beneficio, cioè alla mancanza degli elementi per la instaurazione del rapporto “obbligatorio” sostanziale a carico dello Stato, fa d’altra parte ritenere. Un diverso argomentare porterebbe a ricondurre la comminatoria di una sanzione penale, cioè la più grave delle sanzioni che l’ordinamento consente, anche alla sola violazione di un obbligo priva di concreta offensività, posto che tale violazione potrebbe non avere condotto, se il beneficio non fosse stato “indebitamente” richiesto stante la sussistenza di tutte le condizioni sostanziali per la sua erogazione, ad alcun effettivo nocumento per l’ente erogatore.
Appare, pertanto, più in linea con i principi di ordine costituzionale in tema di necessaria offensività del reato il ritenere che con la espressione “al fine di ottenere indebitamente il beneficio…” il legislatore abbia inteso tipizzare in termini di concretezza il pericolo che potrebbe derivare dalla falsità ovvero dalla omissività delle dichiarazioni presentate per il conseguimento del “reddito di cittadinanza”, nel senso che la loro rilevanza penale sarà sussistente nei soli casi in cui intenzione dell’agente era il conseguire, attraverso di esse, un beneficio diversamente non dovuto».
[10] Con particolare riguardo alla funzione del dolo specifico, v. Cass. pen., Sez. 2, sent. n. 29910 dell’8.6.2022: «La finalizzazione della condotta non può ridursi alla verifica dell’atteggiamento psicologico tenuto dal soggetto agente, indipendentemente dall’idoneità della condotta nel perseguire l’obiettivo descritto dalla norma (id est, l’indebito ottenimento della prestazione), risultando più aderente ad una concezione del principio di offensività coerente con i canoni costituzionali (Corte cost. n. 360 del 24/7/1995; n. 263 dell’11/7/2000; n. 519 del 21/11/2000) la lettura della fattispecie incriminatrice in termini di reato di pericolo concreto, dovendosi apprezzare la capacità della condotta nell’incidere sulla rappresentazione, falsata e astrattamente idonea ad attribuire all’agente il possesso di requisiti mancanti per fruire della misura in esame (come già affermato da Sez. 3, n. 44366 del 15/09/2021, Gulino, Rv. 282336 – 01, secondo la quale le false indicazioni dei dati di fatto riportati nell’autodichiarazione finalizzata all’ottenimento del “reddito di cittadinanza” o le omissioni, anche parziali, di informazioni dovute, rilevano solo ove strumentali al conseguimento del beneficio, cui altrimenti non si avrebbe diritto). La lettura descritta risulta, inoltre, coerente con una delle funzioni tipiche del ricorso da parte del legislatore alla configurazione dell’elemento soggettivo in termini di dolo specifico, ossia quella di restringere l’ambito della punibilità rispetto a categorie di fatti che l’ordinamento già sanziona penalmente (come per la violazione dell’art. 483 cod. pen. o dell’art. 76 d.p.r. 445/2000). La rilevanza del nesso funzionale tra le condotte lato sensu fraudolente e l’effettiva indebita percezione del contributo economico trova conferma anche nel sistema dei controlli e delle verifiche delle istanze di accesso alla misura, atteso che l’obbligo di trasmissione all’autorità giudiziaria della documentazione amministrativa contenente i risultati delle verifiche condotte, posto a carico dei soggetti pubblici cui è affidata tale attività di vigilanza (Comuni, INPS, Agenzia delle Entrate, Ispettorato nazionale del lavoro), è previsto per le ipotesi in cui dalle dichiarazioni mendaci accertate sia derivato il “conseguente accertato illegittimo godimento del Rdc” (art. 7, comma 14, I. 26/2019, cit.); il che porta ad escludere che le condotte con cui si rappresenti una situazione difforme da quella reale, senza però incidere sul possesso effettivo dei requisiti richiesti per accedere alla misura di sostegno economico, siano considerate dal legislatore passibili di sanzione penale».
[11] L’art. 95 D.P.R. n. 115 del 30 maggio 2002 recita: «La falsità o le omissioni nella dichiarazione sostitutiva di certificazione, nelle dichiarazioni, nelle indicazioni e nelle comunicazioni previste dall’articolo 79, comma 1, lettere b), c) e d), sono punite con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 309,87 a euro 1.549,37. La pena è aumentata se dal fatto consegue l’ottenimento o il mantenimento dell’ammissione al patrocinio; la condanna importa la revoca, con efficacia retroattiva, e il recupero a carico del responsabile delle somme corrisposte dallo Stato».
[12] Cass. Pen., Sez. Un., sent. n 49686 del 13.7.2023, p. 15.
[13] Cass. Pen., Sez. Un., sent. n 49686 del 13.7.2023, p. 15.
[14] Sul punto, Cass. Pen., Sez. Un., sent. n 49686 del 13.7.2023, p. 16: «Dunque, il generico “dovere di lealtà’, posto a fondamento dell’indirizzo ermeneutico qui disatteso, costituisce una giustificazione tautologica della potestà punitiva dello Stato (prohibitum quia prohíbitum) che deve cedere il passo di fronte a possibili spiegazioni alternative della penale rilevanza della condotta più aderenti al principio di offensività».
[15] C. Fiore, Il contributo della giurisprudenza costituzionale all’evoluzione del principio di offensività, in Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, a cura di G. Vassalli, ESI, Napoli, 2006, p. 91 ss.
[16] C. Fiore, Il reato impossibile, Jovene, Napoli, 1959, p.41 ss.; cfr. pure M. Caterini, Reato impossibile e offensività – Un’indagine critica, Napoli, 2004, passim.
[17] Cass. Pen., Sez. Un., sent. n 49686 del 13.7.2023, p. 15: «Si tratta, pertanto, di una prospettiva che riduce il bene giuridico tutelato dall’art. 7 d.l. n. 4 del 2019, a vuoto guscio privo di sostanza concreta che attrae a sé, rendendoli punibili, anche fatti del tutto inoffensivi». In dottrina, per una serrata critica nei confronti della configurazione dei reati senza offesa o eventualmente senza offesa, A. Cavaliere, Riflessioni sul ruolo dell’offensività nella teoria del reato costituzionalmente orientata, in AA. VV., Costituzione, diritto e processo penale, a cura di G. Giostra – G. Insolera, Milano, 1998, p. 156, ove l’Autore afferma: «Ammettere che il principio di offensività possa essere derogato in relazione ad intere categorie di reati, e per di più in ambiti parzialmente indefiniti, ovvero ogni volta che esigenze generalpreventive lo richiedano, equivale a disattendere il carattere vincolante del principio».
[18] Sull’argomento, v. per tutti S. Moccia, Ordine pubblico (disposizioni a tutela dell’), voce in Enc. giur. XXII, Roma, 1990, p. 5.
[19] D. Pulitanò, La teoria del bene giuridico fra codice e Costituzione, in Quest. Crim., 1981, pp. 111-113.
[20] Sul punto, v. G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, parte generale, Bologna, 2014, p. 412: ove si sottopongono a critica i «delitti c.d. di pura creazione legislativa, cioè tipi di illecito penale che sono tali per volontà del legislatore, senza che ad essi preesista una corrispondente e diffusa disapprovazione sociale». V. anche G. Fiandaca, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale: «prima lettura» della sentenza n. 364 del 1988, in Foro it., 1988, I, 1385 ss.
[21] V. C. Cupelli, Come nasce il panpenalismo. Un esempio, in Sistema penale web, https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/cupelli-come-nasce-il-panpenalismo-un-esempio. V. anche A. Giraldi, Reddito di cittadinanza e simbolismo strumentale: un’auspicabile deframmentazione del diritto penale, cit., p. 105; M. Carani, Una prima lettura della disciplina penale in materia di reddito di cittadinanza, in Cass. pen., 2021, p. 3; R. Riverso, Reddito di cittadinanza: assistenza alla povertà o governo penale dei poveri?, cit., nella parte in cui afferma: «In linea con il cattivismo populista dell’epoca, il legislatore ha puntato ad incutere timore. Ed il rigorismo emerge soprattutto dall’automatismo applicativo che connota l’irrogazione di ogni conseguenza sanzionatoria».
[22] Per una diversa impostazione, v. R. Affinito – M.M. Cellini, Il reddito di cittadinanza tra procedimento amministrativo e processo penale, cit., pp.8, 12, secondo cui l’irrilevanza penale nel caso di false dichiarazioni da parte di chi possiede i requisiti richiesti dalla normativa deriva dalla mancanza del dolo specifico: «L’area di rilevanza penale del fatto, particolarmente ampia rispetto alla condotta, viene condivisibilmente ristretta proprio con la previsione dell’ulteriore elemento del dolo specifico: ciò permette di ritenere, di fatto, che il soggetto attivo del reato possa essere solo colui che non abbia diritto al conseguimento del beneficio, escludendo così dal perimetro applicativo della norma la condotta dell’individuo che non abbia correttamente comunicato la possidenza dei requisiti pure richiesti, ovvero abbia omesso la comunicazione di elementi patrimoniali o qualità personali rilevanti ai fini del (comunque) legittimo conseguimento del beneficio, difettando in tal caso la prova del dolo specifico».
[23] Cass. Pen., Sez. Un., sent. n 49686 del 2023, p. 8.
[24] Una questione simile, relativa alla efficacia posticipata delle norme contemplate nel d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 è stata trattata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 151/2023, in cui si precisa che «l’ordinanza muove, infatti, dall’erroneo convincimento che il differimento dell’entrata in vigore abbia inciso sulla efficacia delle singole disposizioni contenute nel d.lgs. n. 150 del 2022, e non sull’atto normativo stesso e sulla conseguente obbligatorietà dell’insieme dei suoi contenuti. In questo modo, il rimettente ha confuso la situazione che si sarebbe venuta a creare nell’ipotesi in cui, decorso il termine di vacatio legis, i contenuti del d.lgs. n. 150 del 2022 fossero divenuti efficaci quale conseguenza dell’entrata in vigore dell’atto, ma la loro applicabilità fosse stata differita nel tempo, dalla situazione (realmente verificatasi) in cui, invece, l’atto stesso non ha mai acquisito vigenza. In tale ultimo caso, i contenuti dell’atto (e, tra essi, l’estensione del regime di procedibilità a querela per i delitti per cui si procede nel giudizio a quo) costituiscono un elemento il cui concreto rilievo, al metro del principio di retroattività della lex mitior, è inibito dal non aver conseguito l’atto stesso alcuna efficacia obbligatoria».
[25] Sul punto, v. anche L. Messori, Risvolti intertemporali dell’abrogazione del reddito di cittadinanza e dell’introduzione del reddito di inclusione: una deroga ragionevole alla retroattività favorevole con il d.l. 4 maggio 2023, n. 48, in Giurisprudenza Penale Web, 2023, 6, https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2023/06/Messori_gp_2023_6.pdf.; G. Gatta, Reddito di cittadinanza e “abrogatio per aberratio” delle norme penali: tra abolitio criminis e possibili rimedi, in Sistema penale, 2023_ «L’abrogazione inconsapevole – con ogni probabilità colposa – delle norme penali di cui si è detto sembra problematica per almeno due ragioni: l’una criminologica, l’altra giuridica. Sotto il primo profilo, anzitutto, si finisce per veicolare un pericoloso messaggio: quello dell’impunità per l’indebita percezione del sussidio, che sterilizza la capacità preventiva delle sanzioni penali comminate dalla legge. Sotto il secondo profilo, poi, vengono a porsi serie questioni e dubbi interpretativi che investono la disciplina di diritto intertemporale».
[26] Nella giurisprudenza di merito, v. la recente sentenza n. 22/2024 del Tribunale di Agrigento del 10.1.2024.