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Le Sezioni unite sul regime di impugnazione dell’ordinanza cautelare adottata ai sensi dell’art. 300, comma 5, c.p.p.

Abstract Ita

Si commenta la pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 44060 del 3 dicembre 2024, relativa al regime di impugnazione dell’ordinanza cautelare adottata ai sensi dell’art. 300, comma 5, c.p.p.

La disposizione richiamata stabilisce che «qualora l’imputato prosciolto o nei confronti del quale sia stata emessa sentenza di non luogo a procedere sia successivamente condannato per lo stesso fatto, possono essere disposte nei suoi confronti misure coercitive quando ricorrono le esigenze cautelari previste dall’art. 274, comma 1, lettere b) e c)».

In relazione a tale previsione legislativa, si erano formati due diversi orientamenti della Corte di Cassazione e, per tale motivo, le Sezioni unite sono state chiamate a risolvere tale contrasto interpretativo, pronunciandosi sulla seguente questione di diritto: «Se l’imputato – nei confronti del quale sia stata emessa ordinanza applicativa della custodia in carcere che ha perso efficacia a causa del proscioglimento pronunciato all’esito del giudizio di primo grado – debba impugnare con l’istanza di riesame ovvero con l’appello cautelare l’ordinanza con la quale sia stata disposta la custodia cautelare in carcere, ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., emessa a seguito di successiva condanna pronunciata all’esito del giudizio di appello».

Nel presente lavoro, dopo una breve premessa sulla vicenda giudiziaria, saranno esposti gli opposti approcci ermeneutici della Corte di cassazione e la soluzione adottata dalle Sezioni unite, corredata da un commento relativo alle motivazioni sottese a tale scelta interpretativa, sulla base dei principi costituzionali e sovranazionali.

Abstract Eng

This work concerns the commentary on the ruling of the United Sections of the Court of cassation n. 44060 of 3 December 2024, relating to the regime for challenging the ordinance adopted pursuant to art. 300, paragraph 5, c.p.p.

The aforementioned provision establishes, in fact, that “if the accused who has been acquitted or against whom a sentence of non-prosecution has been issued is subsequently convicted for the same fact, coercive measures may be ordered against him when the foreseen precautionary needs are met from the art. 274, paragraph 1, letters b) and c)”.

In relation to this legislative provision, two different orientations of the Supreme Court had been formed and, for this reason, the United Sections were called to resolve this interpretative conflict, ruling on the following question of law: “If the accused – against of which an application order for custody in prison has been issued which has lost its effectiveness due to the acquittal pronounced following the outcome of the first degree judgment – must challenge with the request for review or with the precautionary appeal the order with which it is was precautionary custody in prison has been ordered, pursuant to art. 300, paragraph 5, cod. proc. pen., issued following a subsequent sentence pronounced following the outcome of the appeal proceedings“.

Therefore, in this work, after the description of the facts involved in the criminal proceedings, the different hermeneutic approaches of the Court of Cassation and the solution adopted by the United Sections will be exposed, accompanied by a comment relating to the reasons underlying this interpretative choice, on the basis of the constitutional and supranational principles

Sommario: 1. Il fatto. – 2. I diversi orientamenti della Corte di cassazione. – 3. La soluzione delle Sezioni unite. – 4. Conclusioni.

1. Il fatto

Nel procedimento in esame, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli, con ordinanza del 14 aprile 2021, respingeva la richiesta di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere avanzata dal pubblico ministero nei confronti di uno dei coindagati, in relazione ai reati, commessi in concorso, di omicidio volontario aggravato, di tentato omicidio aggravato – indicati al capo 1) –, di detenzione e porto illegale di una pistola calibro 9×21  – indicato al capo 2) – e di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309/90 – contestato al capo 3) –, aggravati dall’art. 416 bis 1. c.p.

Il pubblico ministero proponeva appello cautelare, rispetto al quale il Tribunale della Libertà di Napoli, con ordinanza resa in seguito all’udienza del 15 settembre 2021, in parziale accoglimento dell’impugnazione, applicava, nei confronti del citato coindagato, la misura cautelare della custodia in carcere rispetto ai reati di cui ai capi d’imputazione, riqualificando la condotta di cui al capo 3, nella fattispecie di cui agli artt. 56 c.p. e 73 d.P.R. n. 309 del 1990.

Con sentenza del 6 ottobre 2022, il giudice dell’udienza preliminare partenopeo, in sede di rito abbreviato, assolveva l’indagato da tutti i reati a lui contestati “per non aver commesso il fatto” e, pertanto, dichiarava l’inefficacia della misura cautelare ai sensi dell’art. 300, comma 1, c.p.p.

Con sentenza del 28 settembre 2023, la Corte di Assise di Appello di Napoli, condannava l’imputato alla pena di anni 10 e mesi 4 di reclusione, ritenendolo colpevole dei seguenti reati, considerati unificati dal vincolo della continuazione: omicidio volontario aggravato; lesioni personali aggravate; detenzione e porto illegali di arma comune da sparo aggravati; tentato acquisto ai fini di cessione aggravato di sostanze stupefacenti del tipo marijuana e cocaina.

In data 2 ottobre 2023, il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli avanzata richiesta di adozione della misura cautelare della custodia in carcere nei confronti dell’indagato, ritenendo sussistenti i presupposti di cui all’art. 275, co. 2 ter, c.p.p., in quanto la condanna riguardava un delitto previsto dall’art. 380, co. 1, c.p.p.; giustificava la propria richiesta sulla base del fatto che l’indagato, assolto in primo grado, aveva riportato in appello una condanna alla pena di anni dieci e mesi quattro di reclusione e, pertanto, reputando sussistenti le esigenze cautelari di cui all’art. 274, lett. b) e c), c.p.p., valorizzando, in particolare, con riferimento al pericolo di recidiva, la recente adozione, nell’ambito di un diverso procedimento penale, dell’ordinanza cautelare della custodia in carcere per le fattispecie associative di cui agli artt. 416 bis c.p. e 74 d.P.R. n. 309 del 1990 e per numerosi altri reati in materia di stupefacenti.

Con ordinanza del 26 ottobre 2023, la Corte di Assise di Appello di Napoli applicava la misura cautelare richiesta, sulla base della pronuncia di condanna riportata dall’indagato nel giudizio di secondo grado.

Con ordinanza del 6 novembre 2023, il Tribunale della Libertà di Napoli, qualificata l’impugnazione genericamente proposta come appello, in quanto avanzata avverso un’ordinanza di ripristino di una misura cautelare già applicata (richiamando, in tal senso, Cass. pen., sez. V, sent. n. 32852/2011, Nigro), la dichiarava inammissibile perché priva dell’esposizione contestuale dei relativi motivi.

L’imputato, per mezzo del suo difensore, proponeva ricorso per Cassazione, deducendo l’erronea applicazione degli artt. 275, 309 e 310 c.p.p., facendo leva, in primo luogo, sulla diversità dell’ordinanza impugnata rispetto a quella genetica, in quanto nella prima il concorso nel delitto di omicidio era stato riqualificato come anomalo, ragione per cui, trattandosi di titolo diverso, l’ordinanza successiva avrebbe dovuto considerarsi anch’essa genetica e, pertanto, impugnabile con l’istanza di riesame ai sensi dell’art. 309 c.p.p.; evidenziava, inoltre, il mancato utilizzo, da parte del Procuratore Generale richiedente la misura e della Corte cha ha adottato la stessa, del termine “ripristina”, essendo stati utilizzati i termini “emette” e “applica”, tanto anche in considerazione del fatto che la disposizione di cui all’art. 275, co. 2 ter, c.p.p., richiamata dal Procuratore, non annovera il ripristino ma la “disposizione” della misura.

Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, nella sua requisitoria, concludeva per il rigetto del ricorso, aderendo al consolidato insegnamento della stessa Corte, che individua nell’appello cautelare lo strumento per impugnare l’ordinanza adottata ai sensi dell’art. 300, comma 5, c.p.p.

Con ordinanza del 10 aprile 2024, la prima Sezione penale della Corte di cassazione, rilevato un contrasto interpretativo sul tema, ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite, sottoponendo alle stesse la seguente questione di diritto: «Se l’imputato – nei confronti del quale sia stata emessa ordinanza applicativa della custodia in carcere che ha perso efficacia a causa del proscioglimento pronunciato all’esito del giudizio di primo grado – debba impugnare con l’istanza di riesame ovvero con l’appello cautelare l’ordinanza con la quale sia stata disposta la custodia cautelare in carcere, ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., emessa a seguito di successiva condanna pronunciata all’esito del giudizio di appello».

2. I diversi orientamenti della Corte di cassazione.

La suprema Corte, prima di esaminare i diversi orientamenti relativi alla questione sottoposta alla sua decisione, ha effettuato alcune considerazioni di carattere generale rispetto alle caratteristiche distintive del riesame e dell’appello cautelare.

In tale prospettiva, ha spiegato che l’appello deve, a pena di inammissibilità, indicare in modo specifico i punti del provvedimento impugnati, precisandone le ragioni, al fine di evitare che ne venga rilevata la genericità.

Superando il risalente orientamento, secondo il quale la genericità era limitata soltanto al profilo intrinseco del motivo di appello, non collegandosi al confronto con quanto esposto dal giudice del provvedimento impugnato, a differenza di quanto accade per il ricorso per Cassazione [1], il più recente indirizzo interpretativo[2] ritiene che la verifica sulla genericità deve considerarsi analoga a quella che riguarda il ricorso per cassazione, nel senso che anche l’appello, al pari del primo, deve ritenersi inammissibile per mancata specificità dei motivi – che va rapportata alla specificità della motivazione della decisione oggetto di appello –, tutte le volte in cui non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni, di fatto o di diritto, poste a fondamento del provvedimento impugnato.

Tale approccio ermeneutico è stato, poi, accolto dal legislatore, il quale, infatti, con l’art. 33, co. 1, lett. d), del d.lgs. n. 150 del 2022, ha inserito nel corpo dell’art. 581 c.p.p. il comma 1-bis, a mente del quale l’appello è inammissibile per mancanza di specificità dei motivi, nelle ipotesi in cui non sono enunciati in forma puntuale e chiara le doglianze rispetto ai motivi in fatto e in diritto espresse nel provvedimento impugnato, con riguardo ai capi e ai punti della decisione ai quali l’impugnazione si riferisce.

La disposizione sopra richiamata – al pari delle altre norme generali in materia di appello – si applica anche all’appello cautelare, in considerazione dell’analogia dello stesso con gli ordinari mezzi di impugnazione, ragione per cui anche nelle ipotesi di cui all’art. 310 c.p.p. devono essere enunciati i motivi di impugnazione, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto sui quali si fonda, pena l’inammissibilità dell’impugnazione[3].

Diversamente, la richiesta di riesame proposta avverso l’ordinanza applicativa della misura cautelare ai sensi dell’art. 309 c.p.p., non richiede la necessaria indicazione dei motivi.

E infatti, il riesame di misure cautelari personali non è inammissibile per mancanza di specificità dei motivi, atteso che tale scelta è facoltativa, tenuto conto che tale mezzo di impugnazione è interamente devolutivo e che non è applicabile la disciplina dettata dall’art. 581, co. 1, del codice di rito[4].

L’effetto interamente devolutivo del riesame comporta che il Tribunale della Libertà può annullare o riformare in senso favorevole all’indagato il provvedimento impugnato anche per motivi diversi rispetto a quelli indicati nell’atto di impugnazione, così come può confermarlo per ragioni diverse da quelle indicate nell’ordinanza cautelare.

Fatta questa doverosa premessa, la suprema Corte si sofferma sul tema centrale oggetto della sua decisione, il cui riferimento normativo è rappresentato dall’art. 300, co. 5, c.p.p., il quale stabilisce che «qualora l’imputato prosciolto o nei confronti del quale sia stata emessa sentenza di non luogo a procedere sia successivamente condannato per lo stesso fatto, possono essere disposte nei suoi confronti misure coercitive quando ricorrono le esigenze cautelari previste dall’art. 274, comma 1, lettere b) e c)».

La Corte è chiamata, quindi, a stabilire se, avverso l’ordinanza emessa ai sensi della disposizione richiamata, sia proponibile, quale mezzo di impugnazione cautelare, la richiesta di riesame di cui all’art. 309 c.p.p. o quella di appello di cui all’art. 310 c.p.p.

Ebbene, secondo l’orientamento maggioritario[5], nelle ipotesi indicate, il mezzo di impugnazione esperibile è quello dell’appello cautelare.

Tale soluzione evidenzia, infatti, che, quando la misura diventa inefficace per effetto di un automatismo processuale (come nei casi di scadenza dei termini massimi di custodia cautelare o di sentenza di assoluzione) e, dunque, a prescindere dalla valutazione circa la sussistenza delle esigenze cautelari, la successiva ordinanza, adottata perché venuto meno il presupposto ostativo (come nell’ipotesi, che ricorre nel caso sottoposto alla suprema Corte, in cui alla pronuncia di assoluzione in primo grado segue una condanna in appello ex art. 300, co. 5, c.p.p.), l’efficacia originaria del titolo, rimasto temporaneamente quiescente, si riespande e, pertanto, essendo collegata all’ordinanza cautelare già adottata, è impugnabile con l’appello.

Tanto anche in considerazione del fatto che, in casi di inefficacia “automatica”, non viene meno la validità del titolo cautelare, ma, appunto, soltanto la sua efficacia, per un fatto esterno all’ordinanza cautelare genetica (come nell’ipotesi di cui all’art. 300, co. 1, c.p.p.).

Nelle ipotesi in cui la misura originaria venga revocata per effetto di una valutazione che esclude la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza o delle esigenze cautelari (e, dunque, dei presupposti applicativi della misura), la successiva misura cautelare deve considerarsi non già mera rinnovazione della precedente, bensì una misura nuova, impugnabile, quindi, con la richiesta di riesame ai sensi dell’art. 309 c.p.p.

Infatti, la citata sentenza n. 23061 del 2002 sottolinea, sul punto, che la circostanza che nell’ipotesi di cui all’art. 300, co. 5, c.p.p. non si tratti di nuova misura impugnabile con il riesame deriva dal fatto che il legislatore ha previsto espressamente la possibilità di riemettere la misura e, dunque, ha riconosciuto un nesso necessario tra il primo e il secondo provvedimento che, pertanto, non può considerarsi genetico e, in quanto tale, impugnabile ai sensi dell’art. 309 c.p.p.

Peraltro, nello stesso senso, viene evidenziato da un’altra pronuncia, che aderisce alla medesima tesi interpretativa[6], che – se il legislatore avesse voluto non ricollegare la prima ordinanza con quella che applica la misura per la seconda volta – la disposizione di cui all’art. 300, co. 5, c.p.p. sarebbe stata superflua, atteso che la possibilità di applicare nuovamente la misura cautelare sarebbe già regolata dalle disposizioni generali di cui agli artt. 272 e ss. c.p.p.

Il diverso orientamento – secondo cui l’ordinanza adottata ai sensi dell’art. 300, comma 5, c.p.p. è impugnabile con l’istanza di riesame – è sostenuto espressamente soltanto da una pronuncia isolata[7], secondo la quale la misura divenuta inefficace deve considerarsi tamquam non esset e, pertanto, l’ordinanza adottata in base alla disposizione sopra richiamata deve considerarsi genetica e, dunque, impugnabile con la richiesta di riesame.

In tal senso, tale sentenza richiama la disposizione di cui al primo comma dell’art. 309 c.p.p., che fa riferimento all’ordinanza che “dispone” una misura cautelare, senza ulteriori specificazioni, così riferendosi, indistintamente, sia alle ordinanze emesse per la prima volta, che a quelle adottate per reiterare precedenti misure dichiarate inefficaci per qualsiasi ragione.

L’ordinanza di rimessione osserva che tale tesi minoritaria – alla quale sono state ricondotte alcune decisioni che, seppur non affrontando espressamente la questione dell’ammissibilità del mezzo di impugnazione, hanno dato implicitamente per sussistente tale presupposto processuale, definendo i procedimenti instaurati in seguito all’emanazione dell’ordinanza adottata ai sensi dell’art. 300, comma 5, c.p.p., impugnati con la richiesta di riesame[8] – è stata sostenuta anche dalla dottrina, attraverso rilievi critici all’impostazione prevalente.

E infatti, secondo tale scuola di pensiero, la tesi maggioritaria non terrebbe conto della collocazione sistematica dell’art. 300 c.p.p., il quale è il primo di una serie di disposizioni che riguardano l’inefficacia ex lege dell’ordinanza cautelare.

In secondo luogo, va considerato il tenore letterale dell’art. 300, co. 1, c.p.p., che fa riferimento all’estinzione della misura cautelare, così rimandando a situazioni che privano di efficacia in maniera definitiva la misura precedentemente adottata.

Nello stesso senso, si evidenzia che l’art. 309, co. 1, c.p.p. indica quali provvedimenti impugnabili con la richiesta di riesame quelli che dispongono una misura coercitiva e, pertanto, tale mezzo di impugnazione dovrebbe essere esteso anche all’ordinanza adottata ai sensi dell’art. 300, co. 5, c.p.p., in quanto la Corte di cassazione ha ammesso tale strumento anche in situazioni analoghe a quella in argomento. A titolo esemplificativo, viene evidenziato che l’istanza di riesame è stata ammessa contro l’ordinanza applicativa di una misura coercitiva dopo la revoca di quella precedente; contro l’ordinanza adottata dopo la dichiarazione di inefficacia di quella precedente per inosservanza dei termini di cui all’art. 309, co. 5 e 10, c.p.p.; avverso l’ordinanza cautelare adottata dal giudice competente ai sensi dell’art. 27 c.p.p.; nel caso di ordinanza cautelare adottata dopo l’annullamento di quella precedente da parte della Corte di Cassazione; nel caso di misura adottata ai sensi dell’art. 302 c.p.p., in seguito alla perdita di efficacia dell’ordinanza cautelare per omesso interrogatorio di garanzia ex art. 294 c.p.p.

A sostegno di tale orientamento, si argomenta, altresì, che, dopo una decisione nel merito, le condizioni di applicabilità del provvedimento restrittivo della libertà personale non potrebbero considerarsi le stesse del titolo precedente, atteso che i gravi indizi di colpevolezza, ritenuti sussistenti in prima battuta, sono stati ritenuti mancanti con la pronuncia di assoluzione, per poi riemergere nel giudizio di appello cautelare o con la sentenza di condanna in secondo grado per lo stesso fatto.

Pertanto, si ritiene che la situazione prevista dall’art. 300, co. 5, c.p.p. sia equiparabile a quelle di cui all’art. 275, co 1-bis e 2-ter, c.p.p., in quanto il giudice, in tali ipotesi, dovrà rapportare la propria valutazione all’esito del procedimento, alle modalità del fatto e agli elementi sopravvenuti.

3. La soluzione delle Sezioni unite.

La suprema Corte premette che, in relazione alla questione sottoposta alla sua attenzione, sono intervenute poche pronunce che, pertanto, sono insufficienti a delineare un orientamento consolidato.

E invero, viene evidenziato che il primo indirizzo ermeneutico si fonda, essenzialmente, sulle due sentenze, risalenti nel tempo, sopra richiamate.

Il secondo, invece, si basa soprattutto su posizioni dottrinali e su una serie di pronunce, per lo più di carattere implicito, trattandosi di decisioni che, nel definire procedimenti instaurati in seguito all’adozione di ordinanze ai sensi dell’art. 300, co. 5, c.p.p., impugnate con la richiesta di riesame, hanno dato implicitamente per corretta tale scelta processuale non dichiarandola inammissibile, senza soffermarsi sulla giustificazione della stessa.

Prima di esporre i motivi della loro decisione, le Sezioni unite ripercorrono quelli che sono le cause estintive delle misure originariamente applicate e quelle successive ed eventuali, relative a una nuova misura cautelare coercitiva, adottata per lo stesso fatto nei confronti del medesimo indagato o imputato.

Ebbene, si sottolinea come, mentre l’art. 299 c.p.p. prevede la disciplina della revoca o della sostituzione delle misure cautelari per effetto, rispettivamente, del venir meno dei presupposti di applicabilità delle stesse di cui agli artt. 273 e 274 c.p.p. o dell’attenuazione delle esigenze cautelari, anche con riferimento all’adeguatezza e alla proporzionalità della misura, negli artt. 300, 301 e 302 c.p.p. sono disciplinati i fenomeni estintivi diversi, che si contrappongono all’ipotesi della revoca, in quanto automatici al verificarsi di determinati eventi, salvo che ricorrano fattori ostativi, quali la rinnovazione o la proroga.

In tale prospettiva, per ciò che rileva ai fini della presente trattazione, l’art. 300, comma 5, c.p.p. – sottoposto al vaglio della Suprema Corte – prevede che l’imputato prosciolto e successivamente condannato per lo stesso fatto, possa essere sottoposto a misure coercitive, nei casi in cui ricorrono le esigenze cautelari di cui all’art. 274, lett. b) e c), c.p.p.

Tale disposizione, che condiziona a una successiva pronuncia di condanna il ripristino della misura coercitiva nei confronti dell’imputato, trova applicazione nelle ipotesi in cui la precedente sentenza di proscioglimento (a seguito di dibattimento o in udienza preliminare ex art. 425 c.p.p.), alla quale il primo comma della stessa disposizione ricollega l’effetto immediato e automatico dell’inefficacia della misura cautelare, siano state riformate in seguito a impugnazione e non anche nel caso in cui sia stata revocata la sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 436, co. 1, c.p.p.

Nella pronuncia in commento si evidenzia che – come correttamente messo in luce da Cass. pen., sez. VI, 17 marzo 1999, n. 927, Giglio – la norma in esame è stata adottata in attuazione della direttiva n. 63 della legge delega n. 81 del 1987[9], la quale ha modificato la delega del 1974, che stabiliva l’assoluto divieto di sottoporre a misure coercitive l’imputato prosciolto fino al passaggio in giudicato della sentenza.

Pertanto, secondo la Corte, così riscostruita la ratio legis, si rivela infondato l’argomento sviluppato dall’orientamento maggioritario, secondo il quale, se il legislatore avesse voluto escludere qualsiasi collegamento tra la prima e la seconda ordinanza cautelare, la disposizione di cui all’art. 300, co. 5, c.p.p. sarebbe stata superflua, atteso che, in tali ipotesi, avrebbe potuto essere applicata la disciplina generale in tema di misure cautelari personali. La non superfluità della disposizione in commento deriva, infatti, spiegano le Sezioni Unite, dalla necessità di dare attuazione coerente alla delega legislativa.

Inoltre, secondo il supremo organo nomofilattico, non può essere considerato un criterio interpretativo maggiormente persuasivo quello – pure sostenuto dall’impostazione maggioritaria – secondo il quale, per determinare il mezzo di impugnazione cautelare da applicare, occorra distinguere in base alla causa della cessazione della misura, ipotizzando due situazioni: nella prima, caratterizzata da un automatismo (scadenza dei termini massimi di custodia cautelare o sentenza di assoluzione), la successiva ordinanza cautelare, adottata in seguito al venir meno dell’impedimento oggettivo, farebbe riespandere l’efficacia originaria del titolo, che, pertanto, resterebbe collegato al precedente e, dunque, sarebbe impugnabile con l’appello di cui all’art. 310 c.p.p.; nella seconda, contraddistinta da una valutazione che ha condotto a una decisione di revoca della misura (sopravvenuto venir meno delle esigenze cautelari), l’ordinanza genetica sarebbe eliminata del tutto, ragione per cui la successiva ordinanza cautelare deve considerarsi quale provvedimento genetico, impugnabile, in quanto tale, con la richiesta di riesame di cui all’art. 309 c.p.p.

Infatti, tale soluzione non è stata ritenuta condivisibile, alla luce delle critiche fondate provenienti dalla dottrina, la quale ha correttamente evidenziato che, nelle ipotesi di perdita di efficacia della misura cautelare originaria per effetto di un automatismo previsto dal codice, l’insegnamento consolidato della suprema Corte ha ammesso il rimedio dell’istanza di riesame avverso l’ordinanza cautelare successivamente adottata (si rimanda, sul punto, alle ipotesi sopra enucleate).

Ebbene, il criterio sopra richiamato appare inadeguato secondo le Sezioni unite, atteso che, in tali ipotesi, la misura cautelare diventa inefficace non già per una diversa valutazione dei presupposti della stessa, bensì per fattori esterni al provvedimento sicché la seconda ordinanza è considerata un nuovo provvedimento, con il quale il giudice è chiamato a verificare la sussistenza dei presupposti previsti dagli artt. 273 e 274 c.p.p. e, pertanto, è impugnabile con il riesame cautelare e non con l’appello.

Peraltro, nel provvedimento qui annotato si evidenzia come proprio la pronuncia di assoluzione in primo grado non possa essere considerata un automatismo processuale (come nei casi sopra esposti), ma, piuttosto, il risultato di una diversa e opposta valutazione dell’originario quadro indiziario e cautelare che ha comportato l’inefficacia dell’originaria misura cautelare.

Per tali ragioni, tenuto conto che la sentenza di assoluzione di primo grado costituisce una forte presa di distanza dall’ordinanza cautelare genetica (come del resto emerge dalle ragioni che hanno portato all’introduzione della norma in commento), l’ordinanza cautelare adottata in seguito alla pronuncia di condanna in appello per lo stesso fatto, ai sensi dell’art. 300, co. 5, c.p.p., deve considerarsi “nuova” e “autonoma” rispetto a quella originaria.

Del resto, secondo la Corte, la nuova misura cautelare che segue alla pronuncia di condanna in appello viene adottata dopo un nuovo giudizio di merito che può essere arricchito da nuove prove o da diverse valutazioni relative alla ricostruzione del fatto, all’intensità del dolo, alla personalità dell’indagato e al riconoscimento di circostanze del reato, che sono idonee a condizionare sensibilmente il quadro cautelare.

Sulla base di tali rilievi, le Sezioni unite affermano che risulta almeno problematico parlare di ripristino della misura che ha perso efficacia e che viene sostituita da un’ordinanza che contiene sicuramente degli elementi nuovi (richiamando, in tal senso, Cass. pen., sez. I, 8 gennaio 2021, n. 13407, che ha affermato che la stessa sentenza di condanna costituisce, di per sé, un fatto nuovo, che legittima l’adozione di una misura cautelare personale, fondata su nuove e diverse esigenze cautelari, non ostandovi a tale scopo la formazione di un giudicato cautelare).

Viene poi valorizzato il ragionamento della dottrina, secondo il quale i criteri valutativi e le regole cui deve attenersi il giudice nell’applicazione di una misura cautelare successiva a una sentenza di condanna previsti dall’art. 300, co. 5, c.p.p. sono omologhi a quelli dettati dalle disposizioni di cui ai commi 1-bis e 2-ter dell’art. 275 c.p.p.

Infatti, sottolineano le Sezioni unite, nei casi previsti dalle norme richiamate, si impone al giudice di rivalutare le esigenze cautelari di cui all’art. 274, lett. b) e c), c.p.p. attraverso un accertamento – che contiene sicuramente degli elementi di novità, in quanto fondato su basi diverse rispetto a quelle oggetto del vaglio del giudice che ha adottato la misura cautelare genetica – effettuato sulla base dei fatti emersi nel corso del processo, anche di secondo grado, e che può comportare, a dimostrazione dell’autonomia del nuovo giudizio, l’applicazione di una misura diversa rispetto a quella originaria.

Ebbene, considerato che nelle ipotesi di cui all’art. 275, co. 1-bis e 2-ter, c.p.p., la misura adottata è nuova e, pertanto, impugnabile con la richiesta di riesame, non sarebbe ragionevole, in presenza di analogia di posizioni processuali, distinguere questa situazione da quella prevista dall’art. 300, co. 5, c.p.p.

Sulla base dei rilievi svolti e allo scopo di evitare irragionevoli trattamenti diversi (che comporterebbero la scelta di strumenti processuali eterogenei in presenza delle medesime situazioni di fatto), le Sezioni unite affermano che l’ordinanza adottata ai sensi dell’art. 300, co. 5, c.p.p. non può considerarsi quale ripristino di quella genetica, bensì quale provvedimento cautelare nuovo e autonomo che, per tali motivi, può essere impugnato con la richiesta di riesame.

Pertanto, sulla base di tali rilievi, viene enunciato il seguente principio di diritto: «Nel caso in cui l’imputato, nei confronti del quale sia stata emessa ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere, divenuta inefficace per il proscioglimento pronunciato all’esito del giudizio di primo grado, venga successivamente sottoposto, ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., a nuova applicazione della custodia in carcere, il rimedio che egli può esperire per impugnare la relativa ordinanza è quello dell’istanza di riesame ex art. 309 cod. proc. pen.».

Tale soluzione, spiegano le Sezioni unite, è altresì compatibile con un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, ai sensi, rispettivamente, degli artt. 3, 13, 24 e 111 Cost. e 5, par. 4, CEDU.

La norma sovrannazionale richiamata, infatti, stabilisce che «Ogni persona privata della libertà…. ha diritto di presentare ricorso a un tribunale affinché decida entro un breve termine sulla legittimità della sua detenzione».

Per tali ragioni, applicando tale principio di diritto, la suprema Corte ha affermato che l’impugnazione proposta nell’interesse dell’indagato avverso l’ordinanza applicativa della misura cautelare della custodia in carcere adottata dalla Corte di Assiste di Appello di Napoli dopo la sentenza di condanna di secondo grado deve essere qualificata come richiesta di riesame e non come appello cautelare, ragione per cui ne deriva l’irrilevanza, ai fini dell’ammissibilità dell’istanza, della mancanza dei motivi di impugnazione contestuali.

Inoltre, trattandosi di misura cautelare adottata in seguito a una sentenza di condanna, non è necessario procedere all’interrogatorio di garanzia (come chiarito in passato da Cass. pen., sez. un., 22 gennaio 2009, n. 18190, La Mari).

Sulla base di tali rilievi, la Corte ha annullato senza rinvio l’ordinanza impugnata, trasmettendo gli atti al Tribunale di Napoli per il giudizio di riesame.

4. Conclusioni

Le Sezioni unite con la sentenza in commento hanno aderito alla seconda e minoritaria impostazione ermeneutica, secondo la quale l’ordinanza cautelare adottata ai sensi dell’art. 300, co. 5, c.p.p. è da considerarsi quale provvedimento “nuovo” e “autonomo” rispetto a quello precedente e, pertanto, impugnabile con la richiesta di riesame. Tale soluzione si fonda sui seguenti elementi: a) il carattere di presa di distanza della sentenza di assoluzione in primo grado rispetto all’ordinanza cautelare genetica; b) la componente di novità collegata al giudizio di appello e alla sentenza di condanna che ribalti l’assoluzione pronunciata in primo grado, che comporta una rivalutazione delle esigenze cautelari su basi diverse rispetto a quelle oggetto di verifica da parte del giudice che ha emesso l’ordinanza genetica; c) l’omologia dei criteri valutativi e delle regole che il giudice deve seguire ai sensi dell’art. 300, co. 5, c.p.p., rispetto a quelli previsti dall’art. 275, co. 1-bis e 2-ter, c.p.p., con riferimento ai quali il consolidato orientamento della suprema Corte prevede che sia esperibile lo strumento del riesame; d) l’esigenza di evitare discriminazioni irragionevoli, nella scelta del mezzo di impugnazione, pur a fronte di medesime situazioni di fatto.

Peraltro, la decisione della Suprema Corte si fonda anche sul carattere residuale riconosciuto all’appello cautelare e sul corrispondente favor del legislatore per il riesame (considerato che quest’ultimo è totalmente devolutivo, non è condizionato dalla necessità di esporre i motivi di ricorso ed è caratterizzato da particolare celerità) nell’ottica di una più ampia e rapida tutela del diritto di difesa.

Dunque, la Corte ritiene che venga in rilievo una nuova ordinanza cautelare, impugnabile con la richiesta di riesame, tutte le volte in cui la misura originaria viene dichiarata inefficace per qualsiasi ragione e ne venga adottata una successiva, non condizionata dalla precedente vicenda cautelare e, dunque, autonoma rispetto alla prima.

La sentenza in commento precisa, poi, che a questa regola di carattere generale il legislatore e la stessa Corte di cassazione hanno previsto alcune eccezioni e, nello specifico:

– nel caso di proroga dei termini di custodia cautelare ai sensi dell’art. 305 c.p.p., che, al secondo comma, prevede l’impugnabilità dell’ordinanza a norma dell’art. 310 c.p.p.;

– nel caso di “rinnovazione” di misura cautelare disposta per esigenze probatorie ai sensi dell’art. 301, comma 1, c.p.p., il cui mezzo di impugnazione, in mancanza di un’espressa previsione normativa, è stato individuato dalla Corte di cassazione nell’appello cautelare (cfr., Cass. pen., sez. I, 7 luglio 2009, n. 31244, Pastorelli), in considerazione, da un lato, della circostanza che il termine “rinnovazione” presuppone una reiterazione della misura (e, dunque, la persistenza dell’unica esigenza che ne costituiva l’originario fondamento) e, dall’altro, del richiamo operato dal comma secondo della stessa disposizione ai limiti previsti dall’art. 305 c.p.p., costituendo entrambi gli istituti strumento idoneo a protrarre, entro i limiti previsti, la custodia, anche in deroga al termine ordinario (come specificato da Cass. pen., sez. I, 10 febbraio 2003, n. 35687, Tramonte);

– nei casi previsti dall’art. 307, co. 2, lett. a) e b), c.p.p., atteso che l’uso del termine “ripristina” da parte del legislatore, riferito alla custodia cautelare, consente di ritenere sussistente uno stretto collegamento con la misura originariamente applicata (cfr., in tal senso, Cass. pen., sez. VI, 23 febbraio 2017, n 27459; Cass. pen., sez. IV, 5 dicembre 2017, n. 5740; Cass. pen., sez. V, 4 marzo 1997, n. 1025; Cass. pen., sez. V, 5 dicembre 1995, n. 2903);

– nel caso previsto dall’art. 307, co. 4, c.p.p., in quanto relativo, come nell’ipotesi prevista dal comma 2, lett. a), della stessa disposizione, a un caso di trasgressione alle previsioni inerenti a una misura cautelare, disposta a norma del comma 1 o alla fattispecie prevista dal comma 2, lett. b), quando l’indagato stia per darsi alla fuga.

Inoltre, spiegano le Sezioni unite, tenuto conto che si inseriscono, quali eventi modificativi, sulla stessa misura cautelare inizialmente applicata, devono ritenersi appellabili ai sensi dell’art. 310 c.p.p. i provvedimenti di aggravamento delle misure cautelari previsti dagli artt. 276 c.p.p. (come chiarito da Cass. pen., sez. II, 3 febbraio 2017, n. 7925), 299, comma 4, e 275, comma 1-bis, c.p.p. (Cass. pen., sez. VI, 7 luglio 2016, n. 34691; Cass. pen., sez. I, 5 giugno 2015, n. 45653).

Quanto all’ipotesi di cui all’art. 307, comma primo, c.p.p., l’ordinanza deve considerarsi quale misura nuova e, pertanto, impugnabile con la richiesta di riesame ai sensi dell’art. 309 c.p.p.

E invero, l’orientamento prevalente della suprema Corte[10] ha precisato che la previsione di cui all’art. 307 c.p.p. – come modificato dall’art. 2, co. 5, del decreto-legge n. 341 del 2000, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 4 del 2001 – che consente l’adozione di misure sostitutive «solo se sussistano le ragioni che avevano determinato la custodia cautelare», va interpretata nel senso che occorre una verifica in positivo della persistenza delle condizioni di applicabilità della misura, la quale non può consistere nel semplice richiamo all’accertamento originario, dovendo dar conto delle ragioni per le quali si ritiene che sussistano nuove e comprovate esigenze cautelari, diverse da quelle originarie, sopravvenute alla scarcerazione.

In sostanza, la valutazione che deve effettuare il giudice ai sensi dell’art. 307 c.p.p. deve essere necessariamente improntata all’attualità e, pertanto, il provvedimento che adotterà sarà considerato “nuovo” e, dunque, scollegato alla misura originaria – divenuta inefficace per la scarcerazione dell’indagato per decorrenza dei termini di custodia – e, in quanto tale, impugnabile con l’istanza di riesame.

Dunque, con la sentenza in commento le Sezioni unite aderiscono alla tesi sopra esposta – secondo cui l’ordinanza adottata ai sensi dell’art. 300, co. 5, c.p.p. è impugnabile con la richiesta di riesame – attraverso un’interpretazione logica e sistematica delle norme – di rango costituzionale e sovranazionale, oltre che dello stesso codice di rito – che inducono a ritenere che la misura disposta in base alla norma richiamata debba considerarsi del tutto nuova e, dunque, scollegata a quella precedente e, pertanto, impugnabile con la richiesta ex art. 309 c.p.p.

Tale soluzione, coerente anche con l’orientamento consolidato espresso dalla stessa suprema Corte che, in situazioni analoghe a quella in parola, ha ammesso lo strumento della richiesta di riesame, risulta maggiormente garantista, atteso che appronta in favore dell’imputato una maggiore tutela del suo diritto di difesa, tenuto conto del carattere interamente devolutivo del riesame, della non necessità di esporre, ai fini dell’ammissibilità dell’impugnazione, i contestuali motivi di ricorso e della brevità dei termini previsti dal codice di procedura penale (per la fissazione dell’udienza, per la trasmissione degli atti al Tribunale della Libertà da parte del pubblico ministero e per la decisione) a pena di inefficacia della misura.


[1] Cass. Pen., Sez. III, Sent. n. 31939 del 16 aprile 2015 e Cass. Pen., Sez. VI, Sent. n. 13449 del 12 febbraio 2024.

[2] Cass. Pen. Sez. Unite, Sent. n. 8825 del 27 ottobre 2016, Galtelli e, tra le altre, Cass. Pen., Sez. II, Sent. n. 51531 del 19 novembre 2019.

[3] Cass. Pen., Sez. V, Sent. n. 9432 del 12 gennaio 2017 e Cass. Pen., Sez. I, Sent. n. 32993 del 22 marzo 2013;

[4] Cass. Pen., Sez. Unite, Sent. n. 16 del 5 ottobre 1994, Demitry e Cass. Pen., Sez. V, Sent. n. 36917 del 20 giugno 2017;

[5] Sostenuto, tra le altre, da Cass. Pen., Sez. V, Sent. n. 32852 del 5 luglio 2011 e da Cass. Pen., Sez. I, Sent. n. 23061 del 12 febbraio 2002;

[6] Cass. Pen., Sez. V, Sent. n. 346711 del 5 luglio 2011, non massimata.

[7] Si fa riferimento a Cass. Pen., Sez. VI, Sent. n. 842 dell’8 marzo 1999.

[8] Si intende fare riferimento a Cass. Pen, Sez. I, Sent. n. 6176 del 26 novembre 2019, non massimata, Cass. Pen., Sez. I, Sent. n. 35468 del 17 marzo 2016, non massimata, e Cass. Pen., Sez. VI, Sent. n. 3092 del 4 luglio 2000.

[9] Che prevede che «in caso di condanna dopo sentenza di assoluzione, il giudice possa disporre misure di coercizione quando sussistono inderogabili esigenze di tutela della collettività ovvero quando l’imputato si è dato alla fuga o vi è concreto pericolo di fuga e il reato risulta di particolare gravità».

[10] Cass. Pen., Sez. II, Sent. n. 15598 del 22 marzo 2013, Cass. Pen., Sez. I, Sent. n. 3035 del 10 gennaio 2005 e Cass. Pen., Sez. VI, Sent. n. 15736 del 6 marzo 2003;

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