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Le Sezioni unite sull’estensione dell’art. 384 c.p. al convivente more uxorio. Alcune note critiche.

Nota a Cass. pen., Sez. un., 16 marzo 2021 (ud. 26 novembre 2020), n. 10381
Presidente Cassano, Relatore Fidelbo

 

Abstract

La Corte di legittimità, a Sezioni unite, si è pronunciata positivamente in ordine alla possibilità di estendere le maglie dell’art. 384 co. 1 c.p. ai conviventi more uxorio, soggetti non espressamente inclusi nella norma, né nell’art. 307 c.p., implicitamente richiamato dalla prima; lo ha fatto con motivazioni particolarmente innovative nella elaborazione giurisprudenziale.

Il commento analizza la tenuta dell’impianto motivazionale alla luce del dibattito giurisprudenziale e dottrinale sviluppatosi sul tema nel corso degli anni, e ne verifica la rispondenza alle categorie penalistiche evidenziando i profili problematici di una simile apertura.

 

The Joined sections of the Court of cassation have positively stated about the extension of the Art. 384 c.p. to the not married partners, not literally included in the article, nor mentioned by Art. 307 c.p., impliedly recalled by the first; the motivation is particularly innovative in the jurisprudence.

This essay deals with the resistance of the motivational structure in the light of the jurisprudence and doctrine debate in the last years and verifies its congruity to the dogmatic categories of criminal law, highlightning the problems involved by this statement.

 

 

  1. La questione giuridica controversa e il principio di diritto affermato dalle Sezioni unite.

Con la sentenza n. 10381/2021 le Sezioni unite della Corte di cassazione penale sono state chiamate a stabilire «se l’ipotesi di cui all’art. 384, primo comma, cod. pen., sia applicabile al convivente more uxorio» e hanno risposto elaborando il seguente principio di diritto: «L’art. 384 primo comma cod. pen., in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore».

Si tratta di una interpretazione innovativa nel quadro giurisprudenziale, con cui si tenta di perseguire l’ambizioso scopo di porre fine al dibattito sviluppatosi nel corso degli ultimi anni sul tema e che ha visto collocarsi giudici di merito e di legittimità su posizioni antitetiche.

L’impostazione tradizionale, riconoscendo all’art. 384 co. 1 c.p. la natura di causa di non punibilità in senso stretto, ha escluso la possibilità di estendere l’alveo applicativo della disposizione anche ai conviventi more uxorio, e ciò principalmente per una ragione di ordine letterale: le coppie di fatto non sono oggetto di espresso richiamo nell’art. 307 co. 4 c.p., laddove si stabilisce che «agli effetti della legge penale, s’intendono per prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti: nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole». Del resto – si precisa – se il legislatore avesse voluto estendere la disciplina di favore anche ai membri di una convivenza more uxorio lo avrebbe fatto in modo espresso, come è accaduto con riguardo alle unioni civili[1] e alle altre disposizioni dislocate nell’ordinamento in cui si rinvia espressamente a questa peculiare forma di convivenza[2].

Un’ulteriore conferma che l’unica lettura compatibile con l’attuale assetto ordinamentale sia quella restrittiva, viene rintracciata negli approdi della giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Il Giudice delle leggi ha più volte escluso l’illegittimità costituzionale dell’art. 384 co. 1 c.p., nella parte in cui non rinvia ai conviventi more uxorio, ed ha motivato questa scelta essenzialmente sulla base di tre ordini di ragioni[3]: a) il rapporto coniugale e la convivenza sono fenomeni differenti: il primo trova il suo fondamento normativo nell’art. 29 Cost. ed è connotato da stabilità e reciprocità di diritti e doveri, mentre la convivenza trova il suo referente normativo nell’art. 2 Cost., laddove rinvia alle “formazioni sociali”, e si fonda su una affectio revocabile in qualsiasi momento; b) l’eventuale equiparazione tra i fenomeni in esame potrebbe comportare ripercussioni anche in malam partem; c) l’art. 384 co. 1 c.p. viene annoverato tra le cause di esclusione della punibilità in senso stretto e, di conseguenza, è sottoposto all’applicazione del rigido divieto di analogia in materia penale, in ossequio agli artt. 25 co. 2 Cost. e 14 disp.prel. c.c..

Secondo i giudici della Corte costituzionale, in definitiva, l’unico soggetto legittimato ad intervenire per assimilare coniugi e coppie di fatto ai fini dell’applicabilità dell’art. 384 co. 1 c.p. è il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, mentre nessun potere sul punto può essere riconosciuto all’autorità giurisdizionale, e ciò anche per evitare forme di arbitrio in sede applicativa, in palese contrasto con il principio di legalità di cui all’art. 25 co. 2 Cost., che – com’è noto – devolve al Parlamento (e non al giudice) la funzione legislativa[4].

Non dissimili le considerazioni emerse nelle sentenze dei giudici di Strasburgo che, attraverso un’interpretazione evolutiva dell’art. 8, par. 1, della Carta EDU[5], riconducono nel concetto di “vita familiare” la famiglia legittima, la famiglia naturale e anche quella in senso sociale, sempre che nel caso concreto sussistano legami stretti tra i membri dell’unione.

Tuttavia, anche secondo la Corte EDU il comune fondamento normativo non comporta un obbligo di prevedere un trattamento uguale per i fenomeni in esame, essendo riservate ai singoli legislatori nazionali le scelte di normazione della vita familiare.

Altra e meno attuale giurisprudenza, nel recepire le sollecitazioni di parte della dottrina, ha individuato nella norma in esame una ipotesi speciale di stato necessità di cui all’art. 54 c.p., con cui condividerebbe la ratio della prevalenza del bene tutelato rispetto a quello leso e la sua struttura. Si tratta di una lettura, come vedremo, non convincente sotto il profilo dogmatico e applicativo, che tuttavia, se accolta, sembrerebbe consentire un’applicazione analogica in bonam partem.

L’impostazione più recente della giurisprudenza interna, al contrario, considera possibile, a ordinamento invariato, estendere l’applicabilità dell’art. 384 co. 1 c.p.; per giustificare ciò, sono stati elaborati percorsi motivazionali differenti.

Secondo una pronunzia del 2015[6], rientrando l’art. 384 co. 1 c.p. tra le cause speciali di non punibilità in senso stretto, esso non è suscettibile di una interpretazione analogica, e pertanto l’unico modo per poter estendere gli effetti della norma anche ai conviventi è rappresentato dalla lettura evolutiva della nozione di famiglia, al cui interno far rientrare, anche grazie al recepimento degli insegnamenti della Corte EDU, relazioni non fondate sul matrimonio, ma comunque connotate da stabilità[7].

Ad avviso dei fautori di questa lettura, questo nuovo orientamento sarebbe l’unico in grado di consentire il superamento di molteplici contraddizioni che si sono sviluppate nel corso del tempo nella giurisprudenza, e che hanno condotto ad assumere un atteggiamento ondivago in cui si oscilla tra il riconoscimento e il disconoscimento della equiparazione tra unioni fondate sul matrimonio e convivenze di fatto, in modo casistico e frammentario.

In un’altra pronuncia della Corte di cassazione[8], è stato sostenuto che il novellato art. 307 co. 4 c.p., nel momento in cui fa riferimento alle sole unioni civili, non preclude l’elaborazione di una “interpretazione valoriale” della giurisprudenza, orientata ai principi costituzionali. Anzi, proprio il silenzio serbato dal legislatore lascerebbe trasparire un atteggiamento di apparente disinteresse rispetto al tema, che si spiegherebbe, in realtà, con la consapevolezza che i conviventi more uxorio fossero già di fatto equiparati ai coniugi e, di conseguenza, l’intervento normativo sarebbe risultato del tutto ultroneo.

Non è mancata un’ulteriore, seppur minoritaria, impostazione giurisprudenziale[9] che, pur considerando la norma in esame una causa di esclusione della punibilità in senso stretto, ne prevede l’applicazione analogica.

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, come anticipato, hanno proposto un principio di diritto profondamente innovativo, estendendo l’applicazione della norma di favore anche ai conviventi more uxorio, e hanno fondato questo nuovo approdo ermeneutico su un percorso motivazionale mai esplorato finora dalla precedente giurisprudenza.

Il ragionamento della Corte prende le mosse da un insieme di dati: a) la c.d. legge Cirinnà non disciplina in modo puntuale, a differenza di quanto accade per le unioni civili, il fenomeno della convivenza, cui dedica solo pochi spunti, tra i quali le disposizioni relative all’ordinamento penitenziario (art. 1 co. 38, l. n. 76/2016); b) l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea riconosce e garantisce separatamente il diritto di fondare una famiglia e il diritto di sposarsi; c) la convivenza more uxorio, oltre che nella legge Cirinnà, trova espressi riconoscimenti in sede normativa[10] e in sede giurisprudenziale[11] che ne confermano la rilevanza nell’attuale contesto sociale e normativo, a prescindere da espressi richiami del legislatore.

In tale contesto, ad avviso della Corte, sussistono tutti gli elementi per poter applicare la disciplina di favore prevista dall’art. 384 co. 1 c.p. anche ai conviventi e ciò per tre ragioni fondamentali.

Innanzitutto, il silenzio della legge Cirinnà (e del d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6) in relazione alle coppie di fatto acquista un significato neutro che si spiega con la consapevolezza che le convivenze di fatto non sono certe prive di tutela, anzi sono oggetto di una regolamentazione dovuta, soprattutto, ma non solo agli interventi della giurisprudenza[12]. In altri termini, secondo i giudici di legittimità, dal mancato richiamo della convivenza more uxorio nell’art. 307 co. 4 c.p., si desume che il legislatore non ha citato le coppie di fatto perché esse erano già oggetto di tutela, e non per dimenticanza o per differenziarle da coniugi e unioni civili.

Tuttavia, i passaggi fondamentali, nell’iter argomentativo proposto, concernono la natura della norma in esame e la possibilità di una sua applicazione analogica in bonam partem.

Per quanto riguarda il primo profilo, le Sezioni unite ritengono che l’art. 384 co. 1 c.p. configuri una causa di esclusione della colpevolezza[13], non una causa di giustificazione e nemmeno una causa di non punibilità in senso stretto.

Si tratta di una scusante soggettiva[14] il cui fondamento va rintracciato nel più generico principio della inesigibilità che, nel caso di specie, si traduce nella impossibilità di richiedere al soggetto la realizzazione di un comportamento alternativo lecito a causa della compressione esercitata sulla libertà di autodeterminazione, generata dalla “particolare situazione emotiva vissuta”[15].

Chi versa nelle condizioni di cui all’art. 384 co. 1 c.p. agisce per salvaguardare la propria libertà e il proprio onore (nemo tenetur se detegere) e/o per tutelare i vincoli di solidarietà familiare; in questo contesto, non può essere richiesto di realizzare una condotta conforme al precetto cristallizzato nella norma penale violata.

L’intervento delle Sezioni unite appare dirompente con riguardo ai riflessi in materia di divieto di analogia connessi alla riconsiderata natura di causa di esclusione della colpevolezza dell’art. 384 co. 1 c.p.

Secondo l’interpretazione offerta, infatti, la norma de qua è una disposizione di favore, ed essendo diretta espressione del generale principio di inesigibilità di cui all’art. 27 Cost., non deve essere annoverata tra le norme eccezionali, dovendo per esse intendersi solo quelle che derogano ad un principio[16].

Ne deriva la suscettibilità di analogia in bonam partem della causa di esclusione della colpevolezza in esame, trattandosi di norma di favore non eccezionale, e come tale non sottoposta al limite previsto in materia penale ai sensi dell’art. 25 co. 2 Cost. e dell’art. 14 Preleggi.

L’applicazione di queste premesse consente di estendere attraverso l’interpretazione analogica in bonam partem l’applicazione dell’art. 384 co. 1 c.p. anche al membro della convivenza more uxorio, poiché anche in questo caso, come in quello dei congiunti, sussiste un legame affettivo intenso, in grado di determinare una situazione emotiva tale da poter escludere la colpevolezza: non è esigibile la realizzazione di una condotta alternativa lecita da parte di chi, attraverso il proprio agire, rischia di contribuire a limitare la libertà dell’altro convivente e destabilizzare il vincolo di solidarietà che sussiste tra i membri della formazione sociale. Corrobora questa lettura l’art. 199 c.p.p., che acquista una funzione di indirizzo interpretativo in ordine alla scusante prevista dall’art. 384 c.p., nel momento in cui estende la facoltà di astensione anche a chi conviva o abbia convissuto con l’imputato[17].

Le Sezioni unite, infine, per evitare un’applicazione indiscriminata della disposizione così reinterpretata, richiedono che l’esistenza di una convivenza effettiva venga accertata sulla base di elementi di prova rigorosi, anche attraverso allegazioni fornite dall’imputato.

 

  1. Il dibattito dottrinale intorno alla natura giuridica dell’art. 384 c.p.

Il tema ha interessato anche la dottrina, che nel tempo ha elaborato diverse teorie sulla norma in esame[18], finalizzate in particolare a definirne la natura, tenuto anche conto del laconico riferimento legislativo alla “non punibilità”.

Una prima opzione ermeneutica, fondata anche su quanto si legge nella Relazione preliminare al codice penale, considera la norma in parola un’ipotesi speciale della causa di non punibilità di cui all’art. 54 c.p., di cui condividerebbe il fondamento, ravvisato da una parte della dottrina – che le assegna natura di causa di giustificazione – nella prevalenza del bene giuridico tutelato (inerente al soggetto agente e/o ai suoi congiunti) rispetto a quello leso e cioè l’amministrazione della giustizia; questo inquadramento comporterebbe secondo alcuni anche l’estensibilità alla scriminante in parola degli elementi strutturali dell’art. 54 c.p., in specie la non volontaria causazione del pericolo e la proporzione, osservandosi che le due norme, in quanto legate da un rapporto di continenza, sarebbero pur sempre l’una (l’art. 384 c.p.) completabile col ricorso all’altra (l’art. 54 c.p.)[19].

Altra parte della dottrina, pur non ripudiando la collocazione dogmatica proposta, e nemmeno negando le evidenti somiglianze tra le due norme, ha tuttavia escluso la possibilità di estendere all’art. 384 c.p. gli elementi strutturali dell’altra scriminante, in quanto si tratterebbe di un’operazione in grado di limitare indebitamente l’alveo applicativo dell’art. 384 cit. nel cono d’ombra dell’analogia in malam partem

Secondo altra impostazione, l’art. 384 c.p. non contempla una scriminante, bensì una causa di esclusione della colpevolezza[20], e ciò perché, pur operando nella logica del bilanciamento tra interessi in conflitto, l’art. 384 c.p. vedrebbe implicati beni giuridici che, nel rapportarsi, si connoterebbero – contrariamente a quanto rilevato dai sostenitori della prima tesi – per la prevalenza del bene dell’amministrazione della giustizia sulla libertà e sull’onore dei singoli. La corretta collocazione gerarchica dei beni non sarebbe tuttavia d’ostacolo alla non punibilità: venendo meno la ratio fondante delle cause di giustificazione, la non punibilità si fonda sulla non rimproverabilità del reo per la sua scelta e precisamente sulla esclusione del disvalore della condotta imposta dalla inesigibilità[21] del comportamento alternativo doveroso, che poggia sulla incoercibilità dell’autoincolpazione, nonché sulla irriducibilità degli affetti familiari[22].

L’esimente sarebbe applicabile soltanto a chi compie materialmente l’azione tipica e non potrebbe estendersi ai concorrenti nel reato in concreto commesso dal soggetto non punibile[23].

La tesi in parola è stata criticata, attesa la scarsa coerenza interna che la norma paleserebbe laddove fosse ricostruita facendo riferimento al concetto di inesigibilità. Non v’è chi non veda come l’uso della categoria in parola appaia ambiguo e approssimativo, in quanto verrebbero esclusi dal suo raggio d’azione solidi legami affettivi diversi da quelli espressamente previsti, mentre viene presunta l’inesigibilità del comportamento lecito anche a fronte di una concreta insussistenza del basilare sentimento tra soggetti legati dai vincoli richiamati nell’art. 307 co. 4 c.p.. Si è però efficacemente notato come tale tecnica legislativa sia apparsa necessaria per appagare le esigenze di predeterminazione dei casi di esclusione della punibilità e per scongiurare una eccessiva discrezionalità in sede giudiziale, laddove sarebbe stato altrimenti devoluto al giudice un penetrante e incontrollabile potere di analizzare l’effettiva intensità del rapporto interpersonale al vaglio[24].

Non manca una lettura bipartita della norma in commento, che assegna al soccorso egoistico (salvare sé dal nocumento) l’espressione dell’esercizio del diritto a non autoincolparsi, ex artt. 24 Cost. e 51 c.p.[25]; e al soccorso altruistico (salvare prossimi congiunti dal nocumento) la natura di causa di non punibilità, rinviando alle diverse letture praticabili innanzi già esposte.

Quanto alla generale suscettibilità delle scriminanti e delle scusanti di essere applicate in via analogica, la tradizionale opinio è nel senso che le prime, specie laddove considerate espressioni di principi generali dell’ordinamento[26], possano essere oggetto di interpretazione analogica in bonam partem; al contrario, è discusso se la stessa apertura possa estendersi alle cause di esclusione della colpevolezza. Queste ultime, insieme alle cause di non punibilità e ai limiti istituzionali di non punibilità[27], fondate su valutazioni di opportunità legislativa, costituirebbero norme eccezionali, non applicabili in via analogica ex art. 14 Preleggi[28], in quanto il legislatore non ha ritenuto opportuno predisporre una clausola generale fondata su uno statuto ben delineato di inesigibilità. Non si disporrebbe, in altri termini, sul piano deduttivo, di uno statuto generale della inesigibilità da adattare ai casi concreti non disciplinati espressamente dalla legge[29].

In senso opposto, in dottrina, si è rilevato che, avuto riguardo al «generale principio teso ad escludere che possa darsi una condotta colpevole – e con essa una responsabilità personale ai sensi dell’art. 27 Cost. – laddove il rispetto del precetto penale non risulti esigibile […] appare tutt’altro che peregrino affermare che le cause di esclusione della colpevolezza rispondano ad un principio generale in ultima analisi riconducibile all’art. 27, comma 1, Cost., tale da consentirne l’applicazione in via analogica ai “casi simili”»[30]; inoltre, secondo questo filone, deve escludersi la natura tassativa delle scusanti ed ammettersi l’applicazione analogica delle stesse[31].

 

  1. Considerazioni sulla tenuta dell’impianto motivazionale.

 

La sentenza in commento si prefigge il meritorio scopo di porre fine alla discriminazione che si verifica ogni qual volta a realizzare una delle condotte richiamate nell’art. 384 co. 1 c.p. sia un membro di una coppia di fatto e non uno dei soggetti espressamente elencati nell’art. 307 co. 4 c.p.

Alla luce del recente intervento delle Sezioni unite, occorre domandarsi se sia stato effettivamente raggiunto lo scopo e quali siano i problemi che può comportare questa nuova lettura.

Al primo quesito occorre dare una risposta positiva, precisando tuttavia che nel momento in cui il giudice è chiamato ad accertare l’esistenza della convivenza more uxorio, si rischia di offrire una tutela non omogenea, fondata sulla diversa sensibilità dell’operatore del diritto chiamato a pronunciarsi su quella fattispecie concreta. In altri termini, la stessa coppia potrebbe essere considerata “convivente” o meno, con consequenziale applicazione o disapplicazione della disciplina di favore di cui all’art. 384 co. 1 c.p.

Secondo chi scrive, diversi sono i profili problematici che caratterizzano la sentenza e che rischiano di riverberarsi negativamente sull’opera di interpretazione alla quale sono chiamati gli operatori del diritto, con consequenziali forti tensioni con il principio di eguaglianza, di legalità e di prevedibilità.

Innanzitutto, si ritiene claudicante uno dei presupposti su cui si fonda la costruzione dell’impianto motivazionale della sentenza. Ci riferiamo alla parte in cui, nel trattare il ruolo della c.d. legge Cirinnà,  si afferma che «si è trattato di un intervento volto ad occuparsi di situazioni del tutto diverse dalle convivenze di fatto», argomentazione poi ripresa per attribuire al (presunto) silenzio del legislatore un «significato neutro […] spiegabile con la consapevolezza del legislatore che le convivenze di fatto non sono certo prive di tutela, ma anzi, sono oggetto di una regolamentazione dovuta, soprattutto, ma non solo, agli interventi della giurisprudenza».

Si tratta a ben vedere di una impostazione influenzata dal nobile intento, ma che pare non tener conto del dato normativo: la l. n. 76/2016[32] si compone di un singolo articolo e di sessantanove commi, di cui quattro dedicati ai profili attuativi, trentacinque alle unioni civili e i restanti trenta ai conviventi di fatto, dimostrando, contrariamente a quanto sostenuto in sentenza, di prestare un’attenzione non marginale al fenomeno in esame.

Anche il ragionamento in forza del quale il richiamo contenuto nell’art. 307 co. 4 c.p. alle sole unioni civili (e non anche alla convivenza di fatto) non costituirebbe un indice per l’interprete, sembra essere contraddetto non solo dalla lettera della legge, ma anche da un altro dato che, a contrario, sembra dimostrare come l’omesso richiamo nella disposizione de qua rappresenti una scelta escludente, e non, come ritenuto dalle Sezioni unite, un silenzio neutro. Infatti, nello stesso d.lgs. n. 6/2017, con il quale è stato modificato il comma 4 dell’art. 307 c.p., il legislatore ha integrato anche l’art. 199 c.p.p. e, nel farlo, ha utilizzato la formula: «Al secondo periodo, dopo le parole: “convivenza coniugale” sono inserite le seguenti: “o derivante da un’unione civile tra persone dello stesso sesso”». Orbene, per l’innesto normativo apportato all’art. 199 cit. può ragionarsi nel senso che il mancato riferimento al convivente more uxorio derivi dal fatto che il fenomeno della convivenza fosse già tutelato in base alla stessa norma; al contrario, il mancato innesto, con il medesimo strumento legislativo, della convivenza more uxorio nell’ambito dell’art. 307 c.p. indica che il legislatore non ha agito né per dimenticanza né perché convinto che la convivenza di fatto fosse già tutelata dalla giurisprudenza, ma perché non ha considerato opportuno, nel pieno esercizio della propria discrezionalità, equiparare coniugi e conviventi.

Destano qualche perplessità anche le considerazioni relative alla natura della norma in esame, nel momento in cui viene annoverata tra le cause di esclusione della colpevolezza.

Nell’ottica dei giudici della nomofilachia, la ragione della non punibilità dell’art. 384 co. 1 c.p. va rintracciata nella “particolare situazione emotiva vissuta dal soggetto”, il quale si trova dinanzi ad una non-scelta a causa della compressione della sua libertà di autodeterminazione. Chi versa in questo contesto non meriterebbe alcuna sanzione in quanto il suo comportamento, seppur in contrasto con la norma penale, risulta scusato in forza del generale principio di inesigibilità di cui all’art. 27 Cost., di cui l’art. 384 co. 1 c.p. sarebbe una declinazione.

A queste considerazioni sarebbero poi legate le altre in forza delle quali, trattandosi di norma di favore espressiva di principi generali, essa sarebbe suscettibile di applicazione analogica.

Ebbene, a nostro avviso, optare per una tale ricostruzione in termini di causa di esclusione della colpevolezza rischia di determinare un insieme di effetti a catena in grado di generare una modifica normativa non voluta dal legislatore, e pertanto in contrasto con l’art. 25 co. 2 Cost.

In primo luogo, emerge in tutta la sua pregnanza la questione della reale funzione assunta dall’art. 384 co. 1 c.p. in un sistema penale in cui l’inesigibilità viene considerata ex se espressione di un principio generale – riassumibile nei brocardi nemo tenetur se detegere e ad impossibilia nemo tenetur – il cui fondamento è rintracciato nell’art. 27 Cost.; la risposta alla domanda si riverbera sul ruolo del giudice e sulla estensione dell’attività ermeneutica che lo stesso è chiamato a svolgere.

Rispetto ai rapporti intersoggettivi espressamente disciplinati, l’art. 384 co. 1 c.p. pare introdurre una presunzione di inesigibilità. In altri termini, la norma in esame consentirebbe al giudice penale di presumere, una volta appresa l’esistenza del rapporto formalizzato, che il soggetto viva una particolare situazione emotiva tale da escluderne la colpevolezza. Invece, con riferimento alla posizione del convivente more uxorio, il giudice, non pago del dato formale, che potrebbe anche mancare, deve scandagliare il presupposto della convivenza, ed è chiamato a stabilire di volta in volta quando essa sussista e rilevi ai fini del 384 c.p. Orbene, non possono sottacersi alcune riserve in ordine alla elevata discrezionalità che rischia di assumere il controllo giudiziale, atteso lo sfuggente perimetro della stessa nozione di convivenza more uxorio.

Inoltre, considerare l’art. 384 co. 1 c.p. espressione di un generale principio di inesigibilità dovrebbe imporre l’estensione dell’ambito applicativo della norma, al di là del suo perimetro letterale, anche a favore di relazioni diverse sia da quelle richiamate nell’art. 307 co. 4 c.p., sia dalla stessa convivenza more uxorio, e pur sempre caratterizzate da un intenso legame affettivo o sentimentale. Si pensi alla donna in gravidanza non sposata e non convivente chiamata a testimoniare in un processo che vede imputato il futuro padre del bambino: si può forse escludere che la testimone versi in una particolare situazione emotiva equiparabile a quella vissuta dalla moglie o dalla convivente rispetto al marito o al compagno?

Infine, dal momento in cui la Corte di Cassazione rinviene nell’art. 384 c.p. la natura di causa di esclusione della colpevolezza, a parere di chi scrive la conseguenza è che il giudice possa controllare in concreto l’effettiva inesigibilità del comportamento alternativo lecito. In questo senso, anche a voler ritenere la scusante, quale categoria dogmatica, fondata su una presunzione normativa di non esigibilità, dovrebbe trattarsi di presunzione relativa superabile con la prova contraria che il soggetto, nonostante il legame con l’imputato, non viva la limitazione della libertà di autodeterminazione ad uno stadio tale da escludere l’esigibilità della condotta richiesta dalla norma incriminatrice.

Altro aspetto critico riguarda la chiave esegetica mediante la quale la Corte di legittimità addiviene all’esclusione dell’art. 384 c.p. dal novero delle norme eccezionali poiché espressione di una norma generale di derivazione costituzionale.

Sul punto, secondo il tradizionale insegnamento dottrinale, rientra nel “diritto eccezionale”, insuscettibile di interpretazione analogica quel complesso normativo che regola il minor numero di ipotesi in modo diverso e funzionalmente antitetico rispetto al complesso normativo che regola il maggior numero di ipotesi[33]. Questa premessa di metodo consentirebbe, nel caso al nostro vaglio, di ritenere che la causa di esclusione della colpevolezza di cui all’art. 384 c.p., ponendosi in quel numero più limitato di norme che prevedono l’esclusione della punibilità rispetto all’ampio raggio d’azione delle norme incriminatrici, sia norma eccezionale non estensibile analogicamente.

È stato tuttavia autorevolmente sostenuto che le cause di esclusione della colpevolezza, assieme alle cause di giustificazione, non costituirebbero norme eccezionali, nella misura in cui contribuiscono a determinare i presupposti generali di applicazione delle norme incriminatrici[34].

Secondo altra opinione, invece, esse afferirebbero al diritto “regolare”, proprio in quanto espressione del generale principio di inesigibilità della condotta alternativa lecita; in ogni caso, mai potrebbero essere qualificate in termini di norme eccezionali, tenuto conto che nel rapporto tra libertà e pretesa punitiva, non può che ritenersi la libertà regola e la sanzione eccezione[35] ().

La Corte di cassazione a sezioni unite, giungendo al medesimo effetto pratico, ha tuttavia svolto, a parere di chi scrive, una considerazione significativamente più articolata: ha ritenuto che l’art. 384 c.p., pur assumendo la veste di scusante, non possa essere qualificata norma eccezionale in quanto espressione di un principio generale dell’ordinamento “promanante dal tessuto costituzionale”.

Ciò consentirebbe di assoggettare ad interpretazione analogica tutte le norme di favore dell’ordinamento, incluse le cause di non punibilità in senso stretto (sulle quali l’orientamento dominante esclude l’estensibilità analogica), tutte le volte in cui la ratio sottesa alla non punibilità sia ispirata da un principio costituzionale.

Si pensi all’art. 649 c.p., la cui ratio è quella di tutelare l’unità della famiglia a scapito degli interessi del singolo[36]: esso, pur configurando una causa di non punibilità in senso stretto, è espressione dei principi costituzionali di cui agli artt. 29 e ss. Cost., sotto il profilo dell’unità familiare cui il sistema giuridico appronta strumenti di tutela; pertanto, adoperando i criteri ermeneutici proposti dalla Corte di legittimità con la pronuncia al vaglio, la norma in parola risulta estensibile in via analogica.

Si ritiene dunque che il dictum delle Sezioni unite si esponga a due riflessioni alternative: o non può dirsi automaticamente “regola” la norma che sia espressione di un principio generale di derivazione costituzionale, e allora l’argomento addotto in sentenza svela una debolezza e necessiterebbe di essere meglio precisato; o sono “regole”, e mai norme eccezionali, tutte le disposizioni che trovino un proprio fondamento in una norma costituzionale. L’adesione alla seconda prospettiva consentirebbe, quindi, di ritenere norme non eccezionali tutte le norme di favore, in particolare le scusanti e le cause di non punibilità in senso stretto, laddove costituiscano precipitati di norme costituzionali, con la conseguenza della possibilità di estenderle per analogia.

 

  1. Conclusioni.

 

Ad avviso di chi scrive, il meritorio intento delle Sezioni unite rischia di alimentare molteplici difficoltà in sede applicativa, e questo perché ancora una volta, per offrire una risposta al caso concreto, è stato fatto un uso disinvolto di categorie elaborate nel tempo per garantire un ordine al sistema con positivi riflessi in sede pratica.

Considerare l’art. 384 co. 1 c.p. come causa di esclusione della colpevolezza e non più come causa di non punibilità, incentrandone così il fulcro sulla inesigibilità, impone un accertamento da parte del giudice, chiamato a stabilire quando il legame sia così forte da precludere la libertà di autodeterminazione, ed inoltre rischia di rimettergli la facoltà di estendere l’equivalenza a casi diversi dalla convivenza e pur sempre fondati su forti legami intersoggettivi, salvo voler creare una disparità di trattamento ancora una volta in contrasto con l’art. 3 Cost.

Tanto si pone in potenziale conflitto con il principio di separazione dei poteri, nella misura in cui rafforza oltremodo la discrezionalità giudiziale al di fuori dei casi di legge, e con il principio di uguaglianza e di certezza del diritto: a causa della natura sfuggente degli elementi di conoscenza che il giudice dovrà maneggiare, il rischio è quello dell’arbitrio nella valutazione della inesigibilità e dell’applicazione non omogenea della disposizione che, di fatto, viene ancorata ad un dato non facilmente percepibile, in quanto connesso all’interno sentire della persona.

L’operazione ermeneutica sembra entrare in rotta di collisione non solo col principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., ma anche con il principio di legalità di cui all’art. 25 Cost., declinato sotto il profilo del divieto di analogia in rapporto a norme eccezionali e sotto il versante della determinatezza e tassatività delle norme penali, corollari cardine nel cui raggio d’azione dovrebbero ricadere anche le cause di esclusione della colpevolezza, almeno fino a quando non verrà cristallizzato, attraverso l’introduzione nel sistema penale di una norma ad hoc, il principio generale di inesigibilità.

La sensazione che si trae è che una simile decisione tragga origine dalla consapevolezza della potenziale inutilità di una nuova rimessione della questione alla Corte costituzionale, già pronunciatasi più volte sul tema in senso ostativo, e dalla carenza di volontà di attendere un intervento legislativo sul punto.

[1] V. art. 307 co. 4 c.p. e art. 574-ter c.p.

[2] Sul punto v. in particolare gli artt. 572, 577 co 1 n. c.p. e gli artt. 90 co. 3 199 co. 3 lett. a), c.p.p.

[3] Corte cost., sent. 4 maggio 2009 (dep. 8 maggio 2009), n. 140, in www.giurcost.org, secondo cui, in chiusura, «il legislatore penale – nell’ambito del suo apprezzamento discrezionale non censurabile perché esercitato in modo non irragionevole – ha preferito limitare l’assimilazione a singole situazioni ben individuate, invece di procedere ad un “allineamento” generale ed indiscriminato dei due rapporti».

[4] La soluzione negativa è stata così ripresa dalla giurisprudenza di legittimità, non solo in virtù del tenore letterale delle norme, che non includono espressamente il convivente nel novero dei soggetti di rilievo, ma anche in considerazione dei dicta di portata sostanziale offerti dal Giudice delle leggi, che, nell’escludere una irragionevolezza nella disparità di trattamento, fanno rifluire quest’ultima nell’alveo della discrezionalità legislativa. Infatti, secondo Cass. sez. V, 22 ottobre 2010, n. 41139, in CED Cass., n. 248903, «non può essere applicata al convivente “more uxorio”, resosi responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente, la causa di non punibilità operante per il coniuge, ai sensi del combinato disposto degli artt. 384, comma primo, e 307, comma quarto, cod. pen., i quali non includono nella nozione di prossimi congiunti il convivente “more uxorio”»; cfr. Corte cost., sent. nn. 121/2004 e 140/2009. D’altronde, come è stato correttamente rilevato, le cause di non punibilità in senso stretto debbono sottostare pur sempre al principio di tassatività, concorrendo, con le norme incriminatrici, a segnare il confine tra ciò che è punibile e ciò che è lecito; la convivenza more uxorio, sebbene spesso fondata sul medesimo substrato valoristico del coniugio, appare, in una logica normativa e di applicazione giudiziale, sfumata, inafferrabile, astrattamente precaria; sul punto rileva M. Astone, Ancora sulla famiglia di fatto: evoluzione e prospettive, in Dir. fam., 1999, 4, p. 1462 ss.: «Il convivere come coniugi al di fuori del vincolo legale ha rilievo sul piano non solo formale, ma anche sostanziale: è rifiuto di un atto formale fondante la famiglia legittima, e, al tempo stesso, dei diritti e doveri che compongono lo status di coniuge».

[5] Art.  8 CEDU: «Diritto al rispetto della vita privata e familiare. 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto, a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».

[6] Cass. sez. II, 4 agosto 2015, n. 34147, in CED Cass., n. 264630.

[7] La lettura evolutiva è stata oggetto di strali critici. Non è apparso innanzitutto chiaro se la linea decisionale adottata dalla Corte di legittimità fosse imperniata sull’uso della interpretazione estensiva del concetto di coniuge, nel qual caso parrebbe sufficiente rilevare che il termine “coniuge” non può, per la sua specificità, includere la diversa nozione di convivente, differente sia sul piano giuridico che fattuale, conclusione invero avallata dalla stessa ordinanza di rimessione alle Sezioni unite in commento; laddove invece la Corte abbia ragionato in termini di analogia, si è osservato come l’elenco di cui all’art. 307 c.p., che specifica la nozione di prossimi congiunti di cui all’art. 384 c.p., appaia tassativo, sintomatico di una volontà precisa del legislatore, e pertanto costituisca quanto meno norma eccezionale, nella misura in cui esplicita in maniera esclusiva quali siano i soggetti nel cui interesse è possibile compiere, impunemente, i reati di cui all’art. 384 c.p.; altresì, nel caso in cui termine di comparazione dovesse essere lo stesso art. 384 c.p., dovrebbe escludersi l’applicazione analogica di una scusante, per le motivazioni già esposte; v. L. Prudenzano, Riflessioni a margine di una recente estensione della causa di non punibilità prevista dall’art. 384, co. 1 c.p. ai conviventi more uxorio, in Dir. pen. cont., 30 novembre 2015.

[8] Cass., sez. VI, 19 agosto 2018, n. 11476, in Italgiureweb.

[9] Cass. sez. VI, 22 ottobre 2004, n. 22398 in Italgiureweb.

[10] Ci si riferisce agli artt. 315-bis ss. e 417 c.c., 90 co. 3,  199 e e 681 c.p.p., 572 c.p., nonché all’art. 5 l. 15 febbraio 2004, n. 40.

[11] Si pensi ad esempio alla tematica del risarcimento del danno da uccisione del prossimo congiunto esteso anche al convivente, nonché all’ambito soggettivo di applicazione delle norme in materia di ammissione al gratuito patrocinio dei non abbienti.

[12] Cass., Sez. Un., n. 10831 del 16 marzo 2021 (ud. 26 novembre 2020), p. 20.

[13] Conf. di recente Cass., Sez. VI, 23 settembre 2020, n. 34777, in CED Cass., n. 280148.

[14] «Vengono ricomprese in questa definizione le ipotesi in cui l’agente pone in essere un fatto antigiuridico, agendo anche con dolo, nella consapevolezza di violare la legge, e in cui l’ordinamento si astiene dal muovergli un rimprovero, prendendo atto che la sua condotta è stata determinata dalla presenza di circostanze peculiari, che hanno influito sulla sua volontà, sicché non si può esigere un comportamento alternativo», cfr. Sez. un. n. 10831/2021 p. 22.

[15] Cass., Sez. un., sent. n. 10381/2021, p. 24, dove si precisa che «l’art. 384 c.p. non si basa su considerazioni di mera opportunità che giustificano la non punibilità, nè appare fondato su un bilanciamento di interessi contrapposti, che lo farebbero qualificare come una causa di giustificazione, ma tipizza una situazione soggettiva in cui il procedimento motivazionale del soggetto risulta “alterato”, tanto da poter escludere la colpevolezza attraverso la valorizzazione del coinvolgimento psichico: infatti l’esimente prevede che il soggetto deve aver commesso il fatto perché costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un nocumento grave che attenti alla libertà o all’onore, presupposti e condizioni che danno rilievo a situazioni che, come già si è detto, determinano una alterazione della “motivabilità” della condotta realizzata dall’agente. Alla condotta dell’agente, che risulti “motivata” secondo quanto prevede la norma, corrisponde un abbassamento della pretesa statuale, in base alla ratio dell’inesigibilità». In dottrina G. Vassalli, voce Colpevolezza in Enc. giur., vol. VI, Roma, 1988, 15 ss.

[16] Cass., Ssez. un., sent. n. 10381/2021, p.26: «Tradizionalmente sono ritenute eccezionali quelle norme che introducono discipline derogatorie rispetto alla portata di leggi generali sebbene in questo caso il rapporto che viene a stabilirsi è tra legge speciale e generale; più corretta appare l’impostazione, suggerita da un’attenta e autorevole dottrina, che individua la disposizione eccezionale là dove deroga a un principio generale dell’ordinamento».

[17] V. Cass., Sez. un., sent. n. 10381/2021, p. 29.

[18] L’art. 384 c.p. esclude la punibilità di chi abbia commesso uno dei reati ivi indicati contro l’amministrazione della giustizia per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore. Sul versante della politica criminale, la norma tradizionalmente riposa sulla valorizzazione del principio nemo tenetur se accusare, quanto all’autoconservazione di sé così da non esporsi a conseguenze pregiudizievoli, e sulla tutela della unità familiare, quanto alla tutela dei prossimi congiunti, sicché l’ordinamento consentirebbe al reo di andare esente da pena laddove la determinazione alla commissione del fatto illecito abbia costituito l’alternativa al porre a repentaglio beni giuridici di rilievo costituzionale attinenti alla propria persona o ai propri familiari; v. per tutti, nella manualistica, Fiandaca-Musco, Diritto penale, parte speciale, vol. I, Bologna, 2011, p. 414 ss.

[19] Pisani, La tutela penale delle prove formate nel processo, Milano, 1959, p. 241.

[20] Pisapia, I rapporti di famiglia come causa di non punibilità, in Riv. it. dir. pen. 1951, p. 45; Cass. 30 settembre 2003, n. 44743.

[21] A. Spena, Sul fondamento della non punibilità nei casi di necessità giudiziaria (art. 384 c.p.), in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, p. 145 ss.

[22] G. E. De Francesco, Diritto penale. I fondamenti, Torino, 2011, p. 517; F. Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 2013, p. 458; A. Manna, Corso di diritto penale. Parte generale, Padova, 2015, p. 442.

[23] Cass, pen., sez. V, 12 marzo 2018, n. 18110, in CED Cass., n. 273181.

[24] E. Mezza, Unioni civili e convivenze di fatto nelle cause di non punibilità: l’ambito applicativo dell’art. 384, comma 1, c.p., in Cass. pen. 2018, 9, p. 2738 ss.

[25] Pulitanò, Nemo tenetur se detegere: quali profili di diritto sostanziale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 1272 ss.; Zanotti, “Nemo tenetur se detegere”: profili sostanziali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, p. 191; Infante, “Nemo tenetur se detegere” in ambito sostanziale: fondamento e natura giuridica, in Diritto ed impresa: un rapporto controverso, a cura di A. Manna, Milano, 2004, p. 75.

[26] M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 2004, p. 50.

[27] Fiore C._Fiore S., Diritto penale, parte generale, Milano, 2016, p. 331 ss.

[28] G. Marinucci – E. Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, Milano, 2012, p. 348, secondo i quali «eventuali lacune in materia di scusanti possono essere colmate solo dal legislatore, e non dal giudice in via analogica»; analogamente, in giurisprudenza si è chiarito, a suffragio della tesi ostativa, che il principio della non esigibilità di una condotta diversa – sia che lo si voglia ricollegare alla ratio della colpevolezza riferendolo ai casi in cui l’agente operi in condizioni soggettive tali da non potersi da lui umanamente pretendere un comportamento diverso, sia che lo si voglia ricollegare alla ratio dell’antigiuridicità riferendolo a situazioni in cui non sembri coerente ravvisare un dovere giuridico dell’agente di uniformare la condotta al precetto penale – non può trovare collocazione e spazio al di fuori delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate, in quanto le condizioni e i limiti di applicazione delle norme penali sono posti dalle norme stesse senza che sia consentito al giudice di ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l’ analogia juris, v. sul punto Di recente, Cass. sez. III, 23 luglio 2020, n. 25433, in Dir. e giust., 2020, 173, p. 10 ss. con nota di D. La Muscatella, Omesso versamento IVA, prescrizione e Cura Italia, se ne occupa la Cassazione; Cass. sez. III, 23 gennaio 2018, n. 38593, in CED Cass., n. 273833; Cass. sez. VI, 2 aprile 1993, n. 973, in CED Cass., n. 194384.

[29] Fornasari G., Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990; cfr. da ultimo A. Perini, Ai margini dell’esigibilità: nemo tenetur se detegere e false comunicazioni sociali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 2, pp. 538 ss.

[30] G. De Biase, Analogia in bonam partem e cause di esclusione della colpevolezza: sull’applicabilità dell’art. 384, comma 1, c.p. ai conviventi more uxorio. Riflessioni a margine di una recente ordinanza di rimessione alle Sezioni unite della Corte di cassazione, in Cass. pen., 2020, 7-8, p. 2830 ss.

[31] F. Palazzo, Conviventi more uxorio e analogia in bonam partem: prima lettura di una sentenza “giusta” più che ardita, in Sist. pen., 22 marzo 2021.

[32] Il d.lgs. n. 6/2017 ha attuato la c.d. legge Cirinnà nell’ambito sia del diritto penale, bisognoso di specifici innesti a cagione del principio costituzionale di determinatezza e tassatività, sia del diritto processuale penale, branca giuridica meno rigida ma comunque richiedente una opportuna opera di armonizzazione nell’ambito di una simile riforma (si pensi all’art. 199 c.p.p., rimaneggiato al comma 3); sul punto v. S. Riondato, L’unione familiare di matrimoni, unioni civili e convivenze, dopo la riforma penale 2016-2017, in Dir. pen. proc., 2017, 8, pp. 997 ss.; con riferimento alla modifica dell’art. 649 c.p. v. G. Stampanoni Bassi, Ancora sulla rilevanza della convivenza more uxorio: l’art. 649 c.p. torna alla Corte Costituzionale, in Giur. pen. web, 2017, 7-8; G. M. Baccari, Unioni civili e prova testimoniale nel processo penale, in Dir. pen. proc., 2017, 8, p. 997 ss.; quanto alla doverosità del preliminare avviso al convivente more uxorio circa la facoltà di astenersi dal rendere la deposizione, si rammenta che essa era già prevista ex art. 199 c.p.p., cfr. Cass., Sez. V, 21 settembre 2017, n. 51115, in CED Cass., n. 271599.

[33] F. Mantovani, Diritto penale, Padova, 2013, p. 78; F. Bellagamba, Ai confini dello stato di necessità, in Cass. pen., 2000, 6, p. 1832 ss.

[34] G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, parte generale, Bologna, 2011, p. 109; contra, G. Fornasari, Nemo tenetur se detegere sostanziale: qualche riflessione alla luce di recenti contrasti giurisprudenziali, in Dir. pen. proc., 2008, 7, p. 907 ss.

[35] A. Manna, L’art. 394 c.p. e la «famiglia di fatto»: ancora un ingiustificato «diniego di giustizia» da parte della Corte costituzionale?, in Giur. cost., 1996, 1, p. 90 ss.

[36] In questi termini, R. Bartoli, Unioni di fatto e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 4, 2010, p. 1599 ss.

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