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Legittima la scelta di abrogare parzialmente l’abuso di ufficio mediante decreto-legge

Corte cost. ud. del 24 novembre 2021 (dep. 18 gennaio2022), n. 8

Presidente Coraggio – Redattore Modugno

Sommario: 1. Le questioni sul tappeto. – 2. La legittimità del ricorso al decreto-legge in materia penale.3. La coerenza dell’intervento normativo e la presenza dei requisiti di necessità ed urgenza. – 4. La conferma dell’abolitio criminis parziale. – 5. La legittimità sostanziale dell’intervento riformatore.

Abstract

La Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità dell’articolo 23, comma 1, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (convertito nella legge n. 120/2020) sollevata dal Gup del Tribunale di Catanzaro in riferimento all’articolo 77 della Costituzione, ritenendo legittima l’introduzione dell’art. 323 c.p. mediante decretazione d’urgenza.

La Corte ha invece dichiarato inammissibile la questione relativa ai contenuti sostanziali della modifica, che secondo il Gup di Catanzaro avrebbe depotenziato eccessivamente la tutela del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione e violato il principio di uguaglianza (articoli 97 e 3 della Costituzione)

The Constitutional Court has declared unfounded the question of legitimacy of article 23, paragraph 1, of the decree-law of 16 July 2020, n. 76 (converted into law no. 120/2020) raised by the Gup of the Court of Catanzaro in reference to Article 77 of the Constitution, deeming lawful the introduction of art. 323 c.p. by means of an emergency decree.

The Court, on the other hand, declared inadmissible the question relating to the substantial contents of the amendment, which according to the Gup of Catanzaro would have unduly weakened the protection of the good performance and impartiality of the public administration and violated the principle of equality (Articles 97 and 3 of the Constitution).

1. Le questioni sul tappeto.

Capita, a volte, di leggere un testo e provare la sensazione di averlo scritto, o di poterlo avere scritto, voi stessi. È questa la sensazione che ho provato nel leggere la sentenza della Corte costituzionale, soprattutto nella parte nella quale affronta la tematica dell’abuso di ufficio.

A ben vedere, però, le questioni sul tappeto sono tante: alcune implicitamente risolte, altre date per pacifiche, altre ancora sciolte dalla Corte.

Sotto il primo profilo, né la Corte né il Giudice remittente prima hanno – a mio modo di vedere a ragione – dubitato sulla legittimità del ricorso al decreto-legge in materia penale. E tuttavia, qualche sintetica osservazione in proposito non mi sembra superflua.

Analogamente, la Corte concorda con il Gup di Catanzaro nel ritenere – anche qui, del tutto a ragione – che la riforma dell’abuso d’ufficio intervenuta nell’estate del 2020 con il c.d. decreto semplificazioni abbia ridotto in maniera significativa l’area del penalmente rilevante.

Invece, il contrasto tra Giudice remittente e Corte costituzionale si è posto in relazione al possibile ricorso, nel caso di specie, allo strumento del decreto-legge e alla correttezza, dal punto di vista sostanziale, della modifica di segno restrittivo dell’area di rilevanza penale.

Vediamo allora di percorrere, sia pur in sintesi, i vari aspetti rilevanti.

2. La legittimità del ricorso al decreto-legge in materia penale.

Come è noto, parte della dottrina dubita della stessa legittimità del ricorso al decreto-legge in materia penale[1].

Certo, come vedremo, si possono esprimere forti riserve sulla esistenza di «casi straordinari di necessità e d’urgenza» (art. 77, comma 2, Cost.) che impongano la presentazione di un decreto-legge. Ciò non toglie che, nella eventualità in cui tali casi si presentino realmente, anche il decreto-legge possa costituire fonte del diritto penale poiché, se è il Governo che presenta un testo alle Camere per la conversione, saranno queste ultime poi a convertire quel testo (entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione), che altrimenti decade: quindi, l’ultima parola è del Parlamento.

Piuttosto, in passato avveniva con una certa frequenza che il Governo, abusando di questa opportunità, ripresentasse, allo scadere dei sessanta giorni, un decreto per il quale non era intervenuta la conversione (c.d. reiterazione del decreto-legge), cosicché le norme continuavano a vivere non per volontà del Parlamento ma per una loro riproposizione da parte del Governo. Opportunamente, la Corte costituzionale, con sentenza n. 360 del 1996, ha dichiarato che devono considerarsi costituzionalmente illegittimi i decreti-legge che si limitino a riprodurre, «in assenza di nuovi (e sopravvenuti) presupposti straordinari di necessità ed urgenza, il contenuto normativo di un decreto-legge che abbia perso efficacia a séguito della mancata conversione». Sicché, anche in materia penale, vi è stato un abbandono della prassi, largamente diffusa, dei decreti-legge reiterati dal Governo per mancata conversione da parte del Parlamento.

Ma, superate tali perplessità, qui il problema si sposta semmai sul versante della successione di norme penali nel tempo; e dunque deve essere affrontato in quella sede[2].

3. La coerenza dell’intervento normativo e la presenza dei requisiti di necessità ed urgenza.

Nella vicenda oggetto di scrutinio costituzionale, i dubbi del rimettente non attengono, però, in assoluto, al ricorso al decreto-legge in materia penale ma, più sottilmente, alla eterogeneità della norma di cui all’articolo 23, comma 1, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, rispetto al complesso di misure introdotte, e comunque alla presenza del presupposto della straordinaria necessità ed urgenza.

Tale aspetto, nella lettura della Corte, avrebbe carattere pregiudiziale, proprio perché concernente il corretto esercizio della funzione normativa primaria: ove si reputassero carenti quei requisiti, infatti, si supererebbe persino la preclusione delle pronunce in malam partem, quale quella sostanzialmente chiesta dal Giudice remittente nell’invocare l’illegittimità costituzionale dell’art. 323 c.p. nel nuovo testo, il quale restringe la sfera di punibilità (con reviviscenza della norma precedente, più severa).

Ebbene, la Corte costituzionale innanzitutto chiarisce come la riforma dell’abuso di ufficio si inserisca in un «complesso di norme eterogenee accomunate dall’obiettivo di promuovere la ripresa economica del Paese» dopo la gravissima crisi economica causata dall’emergenza pandemica. In quest’ottica, «il provvedimento interviene in molteplici ambiti: semplificazioni di vario ordine per le imprese e per la pubblica amministrazione, diffusione dell’amministrazione digitale, ma anche responsabilità degli amministratori pubblici».

Qui la Corte ripercorre l’opinione di quella dottrina – e io mi reputo un convinto esponente della stessa – che ha più volte segnalato la presenza della “burocrazia difensiva”, legata alla paura della firma causata anche dalla indeterminatezza della norma sull’abuso di ufficio e dal gran numero di procedimenti penali conclusisi con proscioglimenti o assoluzioni[3].

Non è questa certamente la sede, né l’occasione, per ripercorrere il lungo e tormentato cammino dell’abuso di ufficio: dall’abuso “innominato” dell’originario impianto del codice del 1930 alla riforma dovuta alla l. 26 aprile 1990, n. 86; dalla l. 16 luglio 1997, n. 234, alla l. 6 novembre 2012, n. 190 (c.d. legge Severino), sino al d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito (sul punto) senza modificazioni dalla l. 11 settembre 2020, n. 120. Per chi volesse, rinvio ai miei scritti in materia.

Ma quella storia, tratteggiata anche dalla Corte costituzionale, unita alla pandemia, consente di comprendere quale sia stata la valutazione del Governo (e del Parlamento in sede di conversione) nel ravvisare la presenza dei connotati della straordinarietà e dell’urgenza. Così, la Corte può condivisibilmente concludere che la valutazione del potere esecutivo e di quello legislativo «non può considerarsi, comunque sia, manifestamente irragionevole o arbitraria».

4. La conferma dell’abolitio criminis parziale.

Su un punto, come anticipato, Corte costituzionale e Giudice remittente concordano pienamente. Come ho sempre sostenuto nei miei richiamati scritti, e come confermato da un cospicuo indirizzo interpretativo[4], e dalle stesse letture della Cassazione[5], per utilizzare le stesse parole della Corte: «si è, dunque, al cospetto di una modifica di segno restrittivo dell’area di rilevanza penale – specie nel raffronto con la “norma vivente” disegnata dalle ricordate interpretazioni giurisprudenziali – con conseguenti effetti di abolitio criminis parziale, operanti, come tali, ai sensi dell’art. 2, secondo comma, cod. pen., anche in rapporto ai fatti anteriormente commessi»[6].

5. La legittimità sostanziale dell’intervento riformatore.

Accentuando tale dato, il Giudice remittente aveva denunciato l’illegittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, recante modifiche all’art. 323 del codice penale, in tema di abuso d’ufficio poiché – a suo giudizio – l’eccessivo restringimento della portata incriminatrice si sarebbe posto in contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost.

In particolare, così facendo, l’intervento normativo censurato avrebbe violato l’interesse, costituzionalmente garantito, al buon andamento, all’imparzialità e alla trasparenza della pubblica amministrazione e la scelta di privare di rilevanza penale ogni forma di esercizio della discrezionalità amministrativa avrebbe comportato la violazione del principio di eguaglianza, risolvendosi nell’attribuzione all’agente pubblico di un potere dispositivo assoluto e sottratto al vaglio giudiziale.

Pertanto, il giudice a quo chiedeva una pronuncia di incostituzionalità che avrebbe avuto come effetto la reviviscenza della precedente norma incriminatrice dell’abuso d’ufficio, dal perimetro più vasto. Si trattava, dunque, della richiesta di una sentenza in malam partem in materia penale.

Ora, è noto – e la Corte opera gli opportuni richiami, ai quali si rinvia – che «l’adozione di pronunce con effetti in malam partem in materia penale risulta, in via generale, preclusa dal principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale, rimettendo al “soggetto-Parlamento” (sentenza n. 5 del 2014), che incarna la rappresentanza politica della Nazione (sentenza n. 394 del 2006), le scelte di politica criminale (con i relativi delicati bilanciamenti di diritti e interessi contrapposti), impedisce alla Corte, sia di creare nuove fattispecie o di estendere quelle esistenti a casi non previsti, sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti, comunque sia, alla punibilità (ex plurimis, sentenze n. 17 del 2021, n. 37 del 2019, n. 46 del 2014, n. 324 del 2008, n. 394 del 2006 e n. 161 del 2004; ordinanze n. 219 del 2020, n. 65 del 2008 e n. 164 del 2007)».

Naturalmente, ricorda sempre la Corte, ciò si può sostenere solo in presenza di un valido atto normativo. E ciò «vale anche e specificamente per le norme penali introdotte mediante decreto-legge». Qui, però, basti richiamare quanto affermato supra, parag. 3; e procedere oltre.

Né si potrebbe sostenere – come invece fatto dal Giudice remittente – che nel caso di specie si sarebbe in presenza di una delle cosiddette norme penali di favore per le quali la Corte (con le sentenze n. 394 del 2006 e n. 148 del 1983) ha ammesso la sindacabilità in malam partem.

Infatti, precisa la Corte nella condivisibile motivazione adottata, «per norme penali di favore debbono intendersi quelle che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni compresenti nell’ordinamento». Mentre «la qualificazione come norma penale di favore non può essere fatta, di contro, discendere, come nel caso di specie, dal raffronto tra una norma vigente e una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell’area di rilevanza penale. In tal caso, la richiesta di sindacato in malam partem non mira a far riespandere una norma tuttora presente nell’ordinamento, ma a ripristinare la norma abrogata, espressiva di una scelta di criminalizzazione non più attuale: operazione preclusa alla Corte».

Di qui le conclusioni della Corte: la questione sollevata in riferimento all’art. 77 Cost., logicamente pregiudiziale, deve essere dichiarata non fondata, mentre quelle sollevate in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. debbono essere dichiarate inammissibili.

Et de hoc satis. Con buona pace dei laudatores temporis acti, che vorrebbero riportare indietro l’orologio della storia, ai tempi (molto recenti…) nei quali, anche per l’abuso di ufficio, si potevano immaginare pesche a trascico.

Costoro, peraltro, si possono consolare facilmente, perché vi sono ancora molte norme indeterminate e fumose, pronte ad essere utilizzate nei casi più svariati. Ma ogni giorno ha la sua pena (che, nel caso di specie, è un – pur isolato – raggio di sole).


[1] G. Marinucci-E. Dolcini-G.L. Gatta, Manuale di diritto penale, pt. g., 9ª ed., Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2020, 45 ss.

[2] B. Romano, Diritto penale, pt. g., 4ª ed., Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2020, rispettivamente, 101 e 150 ss.

[3] B. Romano, La continua riforma dell’abuso di ufficio e l’immobilismo della pubblica Amministrazione, ne Il Penalista, Focus del 28 luglio 2020; Id., La prima pronuncia della Cassazione sul “nuovo” abuso di ufficio e l’abolitio criminis parziale, ne Il Penalista, 11 dicembre 2020; Id., Il “nuovo” abuso d’ufficio e l’abolitio criminis parziale, in Penale Diritto e Procedura, n. 1/2021, 109-114; Id., La configurabilità dell’abuso di ufficio per l’esercizio di un potere astrattamente discrezionale, ma in concreto vincolato, ne Il Penalista, Giurisprudenza commentata, 1 aprile 2021; Id., Brevi considerazioni sulle ulteriori proposte di riforma dell’abuso di ufficio, a partire dalle responsabilità dei sindaci, in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 11; Id. (a cura di), Il “nuovo” abuso di ufficio, Pacini Giuridica, Pisa, 2021. Amplius,B. Romano-A. Marandola (a cura di), Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Utet Giuridica, Torino, 2020.

[4] Cfr., tra gli altri, B. Ballini, Note minime sulla riformata fattispecie di abuso d’ufficio, in disCrimen.it, 10 agosto 2020; G.L. Gatta, La riforma del 2020, M. Gambardella, Discrezionalità amministrativa e sindacato del giudice penale, e T. Padovani, Una riforma imperfetta, tutti in B. Romano (a cura di), Il “nuovo” abuso d’ufficio, Pacini Editore, Pisa, 2021; M. Gambardella, Simul stabunt vel simul cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del giudice penale: un binomio indissolubile, in Sistema Penale, fasc. 7/2020, 133 ss.; G.L. Gatta, La riforma del 2020, in B. Romano (a cura di), Il “nuovo” abuso d’ufficio, Pacini Editore, Pisa, 2021, p. 73 ss.; Id., Da “spazza-corrotti” a “basta paura”: il decreto-semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal governo “salvo intese” (e la riserva di legge?), in Sistema penale, 17 luglio 2020; Id., Riforma dell’abuso d’ufficio: note metodologiche per l’accertamento della parziale abolitio criminis, in Sistema penale, 2 dicembre 2020; G. Insolera, Quod non fecerunt Barberini fecerunt Barbari. A proposito dell’art. 23 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, in disCrimen.it, 31 luglio 2020; A. Nisco, La riforma dell’abuso d’ufficio: un dilemma legislativo insoluto ma non insolubile, in Sistema penale, 20 novembre 2020; T. Padovani, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, fasc. 7-8; C. Pagella, La Cassazione sull’abolitio criminis parziale dell’abuso d’ufficio ad opera del “decreto semplificazioni”, in Sistema penale, 19 maggio 2021.

[5] Cass., Sez. VI, sent. 9 dicembre 2020 (dep. 8 gennaio 2021), n. 442, Pres. Fidelbo, Rel. Giorgi, sulla quale B. Romano, Il “nuovo” abuso d’ufficio e l’abolitio criminis parziale, in questa Rivista, 19 gennaio 2021, e A. Alberico, Le vecchie insidie del nuovo abuso d’ufficio, in Sistema penale, fasc. 4/2021, 5 ss.

[6] Solo per ragioni di sintesi sia consentito il rinvio a: B. Romano, Il rapporto tra norme penali. Intertemporalità, spazialità, coesistenza, Giuffrè, Milano, 1996,e, da ultimo, Id., Diritto penale, pt. g., cit., 131 ss.

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