A due mesi dall’inizio dell’emergenza legata alla diffusione del COVID-19 i procedimenti penali appena avviati si focalizzano sulla gestione della crisi in ambito sanitario. Una breve analisi della normativa vigente in materia di colpa medica consente di ipotizzare quali saranno le fattispecie di riferimento, le condotte oggetto di verifica e i soggetti potenzialmente coinvolti, ma la carenza di informazioni scientifiche sul fenomeno e di strumenti idonei a fronteggiarlo, non può non ripercuotersi sulle categorie tipiche della responsabilità colposa. Anche per questo si ipotizza un intervento normativo che possa salvaguardare il sistema dal collasso.
Sommario: 1. COVID-19: le prime indagini. – 2. Le decisioni e le informazioni degli organismi internazionali e nazionali rilevanti ai fini dell’accertamento delle eventuali responsabilità penali. – 3. Le ipotesi di reato astrattamente configurabili. – 4. Fatti di rilievo di cui tener conto nella profilazione dei futuri scenari. – 5. Le ipotesi di “norme scudo” che emergono da alcuni emendamenti al decreto Cura Italia.
1. COVID-19: le prime indagini.
In questi giorni di emergenza pervasiva, cominciano a rincorrersi le prime notizie in merito ad iniziative giudiziarie da parte di alcune Procure della Repubblica e di privati (in qualche caso persino “chiamati a raccolta” da zelanti Colleghi) legate a possibili fattispecie di reato in ambito sanitario, connesse con la progressiva diffusione del COVID-19.
In effetti, in un paese ad alto tasso di litigiosità, che presto sarà inevitabilmente chiamato a raccogliere e rimettere insieme le macerie economico-sociali, oltre a quelle già evidentissime di carattere sanitario, non è difficile prevedere una moltitudine di strascichi giudiziari, anche di natura penale, con annesse aspettative indennitarie e risarcitorie.
Agli onori della cronaca di questi giorni risaltano le inchieste promosse dalle Procure della Repubblica di Milano, Bergamo e Brescia sulla situazione relativa all’eccezionale aumento dei decessi in alcune Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), nonché l’esigenza, espressa da più parti, di intervenire normativamente al fine di predisporre un qualche “scudo legislativo”, che tuteli il personale sanitario in prima linea nella lotta all’emergenza, nonché – come più di qualcuno ha sostenuto– le figure dirigenziali e amministrative delle strutture dalla prevedibile ondata di procedimenti volti all’accertamento di eventuali responsabilità.
Al fine di condurre una sintetica analisi di alcuni dei possibili sviluppi della situazione, è indispensabile ripercorrere le tappe significative che, in termini di decisioni e raccomandazioni adottate dai diversi livelli istituzionali di riferimento, ci hanno condotto al punto in cui ci troviamo; questo perché – evidentemente – l’aspetto della progressiva dimensione conoscitiva del fenomeno è elemento imprescindibile nel tracciamento delle eventuali linee di responsabilità in ambito sanitario.
2. Le decisioni e le informazioni degli organismi internazionali e nazionali rilevanti ai fini dell’accertamento delle eventuali responsabilità penali.
Dalle informazioni riportate sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità, risulta che il 31 dicembre 2019 le autorità cinesi hanno notificato l’esistenza di un focolaio di casi di polmonite ad eziologia non nota nella città di Wuhan, nella provincia dell’Hubei.
Il 9 gennaio 2020 il Centro di controllo per la prevenzione delle malattie (China CDC) identifica un nuovo coronavirus che risulta essere causa eziologica della patologia e ne conferma la trasmissione inter-umana.
Il 30 gennaio 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dichiara l’emergenza internazionale di salute pubblica per il coronavirus (PHEIC) e raccomanda alla comunità internazionale la necessità di applicare misure adeguate.
Lo stesso giorno 30 gennaio 2020 il Ministro della Salute italiano emette una ordinanza con la quale dispone misure profilattiche contro il nuovo coronavirus – non direttamente rilevanti per la presente analisi, ma utili per comprendere la progressiva conoscenza del fenomeno – con cui interdice il traffico aereo dalla Cina, quale Paese comprendente aree in cui si è verificata una trasmissione autoctona del nuovo virus.
Il 31 gennaio 2020 il Consiglio dei Ministri dichiara lo stato di emergenza per sei mesi in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili, disponendo che gli interventi necessari siano emanati con ordinanze del Capo del Dipartimento della protezione civile, in deroga a ogni disposizione vigente, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento.
L’11 febbraio 2020 l’OMS definisce la patologia derivante dall’infezione del virus con il nome COVID-19.
Il 19 febbraio 2020 è ricoverato presso l’Ospedale San Matteo di Pavia una persona considerata il c.d. “paziente 1” COVID-19 accertato in Italia.
Il 23 febbraio 2020 è emesso il d.l. n. 6 (poi convertito in legge 5 marzo 2020, n. 13) recante misure urgenti di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, con cui – per quanto qui di interesse – è stato prevista l’applicazione della misura della quarantena con sorveglianza attiva per gli individui che hanno avuto contatti stretti con i casi confermati di malattia infettiva diffusiva; nonché la previsione che l’accesso ai servizi pubblici essenziali fosse condizionato all’utilizzo di dispositivi di protezione individuale o all’adozione di particolari misure di cautela individuate dell’autorità competente.
L’8 marzo 2020 il Presidente del Consiglio emana un d.p.c.m. recante ulteriori disposizioni attuative del d.l. 23 febbraio 2020 n. 6 con il quale – tra l’altro – è disposta la sospensione dei congedi del personale sanitario e tecnico, nonché l’adozione, in tutti i casi possibili, nello svolgimento di riunioni, di modalità di collegamento da remoto, con particolare riferimento a strutture sanitarie e sociosanitarie, servizi di pubblica utilità e coordinamenti attivati nell’ambito dell’emergenza COVID-19, comunque garantendo il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro, ed evitando assembramenti. Il predetto decreto, all’allegato 1, descrive le misure igienico-sanitarie da adottare: a) lavarsi spesso le mani; b) evitare il contatto ravvicinato con persone che soffrono di infezioni respiratorie acute; c) evitare abbracci e strette di mano; d) mantenere, nei contatti sociali, una distanza interpersonale di almeno un metro; e) igiene respiratoria; f) evitare uso promiscuo di bottiglie e bicchieri.
In conseguenza dei predetti provvedimenti legislativi, risulta che alcune direzioni sanitarie, specie nel Lazio, hanno del tutto sospeso le visite dei pazienti ricoverati da parte dei parenti, assicurando in ogni caso l’adozione di distanze di sicurezza.
Il 9 marzo 2020 è emesso il d.l. n. 14, recante disposizioni urgenti per il potenziamento del Servizio sanitario nazionale in relazione all’emergenza COVID-19, che dispone – tra l’altro – misure straordinarie per l’assunzione di specializzandi con lavoro autonomo o per il conferimento di incarichi a personale sanitario in quiescenza.
L’11 marzo 2020 l’OMS dichiara che il focolaio internazionale da COVID-19 può essere considerato un fenomeno pandemico; conseguentemente chiede alle Nazioni di adottare una strategia comune di contenimento del rischio. In particolare, chiede di: preparare la popolazione e le strutture sanitarie; predisporre una sorveglianza finalizzata a individuare, isolare i casi e spezzare le catene di contagio; ridurre la trasmissione del virus attraverso la quarantena dei casi vicini a quelli isolati e testando i casi sospetti; cercare nuovi modi di prevenzione, in considerazione del fatto che si tratta di un virus sconosciuto i cui dati sono in corso di formazione. In particolare, il Segretario Generale dell’OMS dichiarerà che la pandemia è controllabile ove le Nazioni adottino misure di contenimento, e non di mitigazione, quest’ultime espressamente considerate pericolose ed errate.
Il 17 marzo 2020 il Governo italiano emana il d.l. n. 18 (Cura Italia) con il quale dispone – tra l’altro – misure di potenziamento del Servizio Sanitario Nazionale relative a finanziamenti e risorse umane.
Il 22 marzo 2020 Presidente del Consiglio emana un d.p.c.m. recante ulteriori disposizioni attuative del d.l. 23 febbraio 2020 n. 6 in cui, diversamente da altre attività, è disposto che sia consentita la produzione, il trasporto, la commercializzazione e consegna di farmaci, tecnologia sanitaria e dispositivi medico-chirurgici, sempre nel rispetto delle misure per il contrasto e il contenimento del virus COVID-19.
Con ulteriore d.l. 25 marzo 2020, n. 19, recante misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, per quanto qui di interesse, sono stati disposti obblighi di comunicazione al servizio sanitario nazionale nei confronti di coloro che sono transitati e hanno sostato in zone a rischio epidemiologico come identificate dall’Organizzazione mondiale della Sanità o dal Ministro della Salute; nonché l’adozione di misure di informazione e di prevenzione rispetto al rischio epidemiologico.
3. Le ipotesi di reato astrattamente configurabili.
Qualsiasi valutazione prognostica in ordine alla natura delle responsabilità che potrebbero essere configurate pecca inevitabilmente di astrattezza, in quanto svincolata dal confronto con il caso concreto e le sue specificità.
A valle di questa doverosa precisazione, si può ragionevolmente confidare nel fatto che i terreni d’elezione delle possibili responsabilità in discorso siano quelli del titolo colposo e della causalità omissiva. Provando a semplificare, nei casi di decesso o lesioni da COVID-19, l’infezione agirà come causa primaria dell’evento, a fronte del quale eventuali responsabilità potrebbero essere ipotizzate con riferimento all’omissione di condotte adeguate a prevenirlo; omissione caratterizzata da imprudenza, negligenza o imperizia (colpa generica), ovvero dalla violazione di specifici codici comportamentali o norme cautelari. Si tratta, in altre parole, del terreno tipico della colpa medica per come l’abbiamo conosciuta sino ad oggi, che trova nell’omicidio colposo e nelle lesioni colpose, e dunque nel vigente art. 590 sexies c.p., le proprie fattispecie di riferimento.
In questa prospettiva qualche dubbio può sorgere rispetto all’individuazione dell’evento nel caso di lesioni, ovvero nel caso in cui il decorso dell’infezione non conduca ad esiti infausti. Questo perché, a seconda della prospettiva, l’evento lesioni potrebbe essere identificato alternativamente:
– col periodo di degenza procurato dalla malattia (lesione consistente nella malattia per tutta la durata della degenza, grave o lieve a seconda della medesima);
– con le conseguenze post-infezione senza esito infausto (conseguenze queste ultime che scontano, al momento, un importante e forse decisivo deficit di informazioni disponibili, nel senso che non si conosce se e quali effetti negativi sulla salute del paziente possano residuare in seguito all’infezione da COVID-19 superata);
– con la contrazione stessa dell’infezione da parte della persona offesa, sempre che in ipotesi sia dipesa da una qualche condotta omissiva, come – ad esempio – la mancata predisposizione o il mancato utilizzo di dispositivi di protezione individuale.
In quest’ultimo caso – lesione consistente nella contrazione stessa dell’infezione, in ipotesi dovuta al mancato utilizzo di presidi adeguati – occorre tuttavia osservare che il confine con la diversa e più grave fattispecie di epidemia colposa di cui all’art. 452 c.p. appare fin troppo labile, a meno che non si proietti su un terreno meramente quantitativo, ovvero del numero delle infezioni causate dalla negligenza nell’utilizzo di strumenti di protezione: la trasmissione individuale come lesione colposa; la trasmissione ad un numero più ampio di persone come equivalente della diffusione colposa di agenti patogeni rilevante alla stregua dell’epidemia colposa ex art. 452 c.p.
Chiaramente l’interazione tra queste diverse fattispecie, ed in particolare la possibilità di un concorso materiale tra le stesse, è tutta da verificare tramite il confronto con la casistica e con gli eventuali arresti giurisprudenziali che verranno. Quello che si può ragionevolmente prevedere, in questa specifica area giuridica come in altre, è la probabile cesura tra la giurisprudenza pre-COVID-19 e quella post-COVID-19.
La fattispecie di cui all’art. 452 c.p. sembra poi essere alla base delle inchieste, tuttora attivate Procure di Milano, Bergamo e Brescia, con particolare riferimento alla situazione drammatica delle Residenze Sanitarie Assistenziali. Alcune di queste vedono già le prime iscrizioni nei confronti delle Direzioni Generali (ad es. al Pio Albergo Trivulzio, Milano). Da ulteriori notizie di stampa sembra che anche altre Procure, in Piemonte e Toscana, si stiano attivando nella stessa direzione, ma con inchieste ad oggi iscritte ancora a modello 45 (fatti non costituenti notizie di reato) o delle quali non sono ancora emersi dettagli sulla stampa. Non è chiaro (né potrebbe essere altrimenti in ragione del segreto istruttorio) su quali basi fattuali si fondi la fattispecie di reato per cui si procede. Se si prova a formulare delle congetture plausibili, si fa fatica a non pensare che l’epidemia colposa sia configurata in relazione alla mancata adozione di presidi (di qualunque genere, ma primi tra tutti i dispositivi di protezione individuali per operatori e pazienti) idonei ad impedire, limitare o contenere la diffusione dell’agente patogeno. Se così fosse, il dato si scontrerebbe con gli arresti più recenti della giurisprudenza di legittimità in materia, secondo la quale il concetto giuridico di epidemia è ben più ristretto dell’omologo scientifico e – soprattutto – il reato in questione non sarebbe configurabile in caso di condotta omissiva (così da ultimo Cass., pen. Sez. IV, 12.12.2017, n. 9133, Giacomelli, in http://www.italgiure.giustizia.it).
Proprio il tema della disponibilità e dell’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale è quello maggiormente agli onori delle cronache, ed è prevedibile diventi un tema da considerare in rapporto alle ipotetiche responsabilità delle quali si promuoverà l’accertamento. Inevitabile infatti pensare a future contestazioni che contemplino la violazione del Decreto Legislativo n. 81 del 2008, aprendosi quindi alla cerchia dei datori di lavoro (evidentemente anche sulla base di questa previsione si parla di “scudo normativo” esteso al personale amministrativo e dirigenziale delle strutture sanitarie), con riferimento a decessi e lesioni dei pazienti nelle strutture sanitarie, ma anche di medici e infermieri operanti all’interno delle medesime. Questa previsione è resa ancor più plausibile dal fatto che la relativa contestazione formulata a corredo dei reati di omicidio colposo e lesioni gravi o gravissime, aprirebbe alla responsabilità amministrativa degli enti alla stregua dell’art. 25 septies D. Lgs. 231 del 2001 (purché siano enti privati, come nel caso di alcune RSA); responsabilità altrimenti preclusa dalla circostanza che le fattispecie di reato di cui si è detto non figurano nel catalogo dei reati previsti dal decreto sulla responsabilità amministrativa degli enti.
4. Fatti di rilievo di cui tener conto nella profilazione dei futuri scenari.
Qualunque prospettiva si tenti di delineare in relazione a futuri scenari giudiziari o para-giudiziari, sconta l’inevitabile confronto con le caratteristiche eccezionali del fenomeno che stiamo vivendo, molte delle quali attengono in via diretta o mediata alla sostanziale carenza – su scala globale – di informazioni a disposizione.
Se si tiene a mente la progressione cronologica delle informative e dei provvedimenti emanati da istituzioni internazionali e nazionali in relazione all’emergenza in corso, risulta molto difficile collocare – su qualunque operatore, a qualunque livello – una sufficiente consapevolezza della pericolosità, della pervasività e dell’incombenza dell’epidemia da COVID-19 prima dell’8 marzo 2020, data di emissione del primo d.p.c.m., contenente, tra l’altro, una serie di indicazioni pratiche fornite alla popolazione e descritte come utili a prevenire la diffusione del contagio. Tra l’altro va osservato che le stesse indicazioni sono al centro di un costante e progressivo dibattito, anche scientifico, che ne valuta (e in qualche caso ne mette in dubbio) quotidianamente l’adeguatezza.
Se si parla di misure idonee a prevenire il contagio, non può non rilevarsi come le modalità effettive di trasmissione del virus (ad esempio la circolazione e la permanenza nell’aria, così come anche l’eventuale resistenza sulle diverse superfici) non siano ad oggi totalmente conosciute. Sicuramente, in quest’area di possibile responsabilità, il benchmark informativo è costituito dalle raccomandazioni emanate dall’Istituto Superiore di Sanità, ed è prevedibile che nel delineare le future responsabilità legate all’emergenza da COVID-19, si esigerà dall’operatore sanitario, inteso in senso lato (non solo medici e infermieri, ma anche personale amministrativo e dirigenziale delle strutture sanitarie), di aver operato conformemente alle misure di volta in volta diramate.
Sempre nell’area della prevenzione, un ruolo centrale – come detto – è rivestito dai dispositivi di protezione individuale, la cui mancata adozione è suscettibile di favorire (nel senso di non impedire) la diffusione. Anche qui, tuttavia, va osservato che il dibattito scientifico (e conseguentemente anche quello politico) sull’adeguatezza di alcuni dispositivi è ancora aperto: ad oggi l’OMS ritiene che l’uso di mascherine da parte di soggetti sani (diversi dagli operatori che lavorano nella prima linea di lotta all’emergenza) sia superfluo, se non addirittura controproducente, in quanto contribuirebbe a generare un falso senso di sicurezza che potrebbe disincentivare il rispetto delle ulteriori misure di distanziamento sociale. Va aggiunto che tuttora esiste una netta sproporzione quantitativa tra la disponibilità effettiva di questi strumenti e le esigenze che emergono a livello territoriale; una sproporzione che si sta cercando di colmare, ma che resta ad oggi molto elevata.
Se le informazioni disponibili sugli strumenti adeguati a prevenire il contagio (a prescindere dalla scarsa reperibilità degli stessi) sono assai poche, mancano totalmente quelle relative a trattamenti clinici adeguati. Non è un caso che solo da poche settimane l’Agenzia italiana del Farmaco abbia autorizzato la sperimentazione clinica di 12 protocolli terapeutici, dopo aver valutato circa 70 proposte. I risultati della sperimentazione, naturalmente, sono di là da venire. Un tema, questo, che – allo stato attuale del diritto vivente – dovrebbe precludere ad ipotesi di responsabilità dell’operatore sanitario per inadeguatezza del trattamento clinico effettuato, dal momento che mancano linee guida e buone pratiche clinico-assistenziali, da sempre le stelle polari nella valutazione della colpa medica.
Anche sul piano del trattamento terapeutico esiste il tema della sproporzione tra necessità e risorse disponibili, che inevitabilmente andrà considerato nella profilazione di ipotetiche responsabilità (si pensi, a titolo di esempio, alla scarsa disponibilità – rispetto alle esigenze di questi giorni – di ventilatori polmonari o più in generale di posti letto nelle terapie intensive).
Analoga sproporzione si rinviene nell’area diagnostica. Se si pensa ad ipotesi di responsabilità per omessa diagnosi di un’infezione da COVID-19, non può che venire in mente lo scarso numero dei tamponi disponibili (ad esempio per carenza, a livello mondiale, dei reagenti necessari ad eseguirli, cui si sta provando ad ovviare negli ultimi giorni), le tempistiche non immediate nell’ottenimento dei risultati, la non affidabilità al 100% degli stessi. Tanto è vero che sono allo studio del Comitato Tecnico Scientifico modalità diagnostiche alternative (ad esempio i cc.dd. test sierologici), la cui implementazione a livello nazionale è attesa a breve.
Insomma, ancorché le ricerche scientifiche da anni ammoniscano circa il rischio di gravi pandemie, sembra fin troppo evidente che l’intero sistema paese (per non dire mondiale) sia stato colto impreparato dalla natura e dalle proporzioni dell’emergenza in corso, il che non può non riflettersi nella valutazione delle eventuali responsabilità individuali che in futuro saranno oggetto di accertamento; valutazione nella quale non si potrà prescindere dal considerare l’incidenza di ciascun deficit “di sistema” (di conoscenza, di organizzazione, di strumentazione) sulle condotte singolarmente considerate. Diversamente, è elevato il rischio che chi si metta alla ricerca di responsabilità finisca per trovare solo capri espiatori.
5. Le ipotesi di “norme scudo” che emergono da alcuni emendamenti al decreto Cura Italia.
Sono ormai note le molteplici iniziative con le quali varie forze politiche propongono emendamenti al decreto Cura Italia, finalizzate ad assicurare una tutela da responsabilità penali e civili nei confronti di operatori sanitari, ma anche di personale dirigenziale, costretti a fronteggiare – spesso disarmati – gli effetti eccezionali della pandemia da COVID-19.
Tali proposte di emendamento si profilano con obiettivi e modalità eterogenee, che interrogano fin d’ora circa la loro compatibilità (allo stato, del tutto eventuale) con il panorama normativo e giurisprudenziale esistente; nonché, alternativamente, circa la possibilità di ricorrere a istituti già previsti nel nostro ordinamento per assicurare una tutela ulteriore rispetto a quella di cui all’art. 590 sexies c.p., senza ricorrere alla emanazione di nuove norme.
Si segnalano in proposito le proposte di emendamento degli On.li Mallegni e Sicari, nonché dell’On. Marcucci ed altri, rilevanti ai fini della responsabilità penale. La prima prevede: “1-bis. Per tutta la durata dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 di cui al decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 e ai provvedimenti attuativi, l’esercente una professione sanitaria o il soggetto abilitato a norma dell’articolo 102 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, non è punibile per i reati di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale quando il profilo di colpa sia determinato da indisponibilità di mezzi o il soggetto abbia agito in situazione di urgenza allo scopo di salvaguardare la vita o l’integrità del paziente. Nei casi contemplati dal precedente periodo, qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, in deroga a quanto previsto dall’articolo 590 sexies, secondo comma, del codice penale, la punibilità è sempre esclusa”. Nella seconda si legge: “3. Fermo quanto previsto dall’art. 590 sexies codice penale per tutti gli eventi avversi che si siano verificati od abbiano trovato causa durante l’emergenza epidemiologica COVID-19 di cui alla delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020, la punibilità penale è limitata ai soli casi di colpa grave. La colpa si considera grave unicamente laddove consista nella macroscopica e ingiustificata violazione dei principi basilari che regolano la professione sanitaria o dei protocolli o programmi emergenziali eventualmente predisposti per fronteggiare la situazione in essere, tenuto conto di quanto stabilito dal comma 2”.
Inevitabile il confronto con la portata interpretativa assegnata dalle Sezioni Unite 21 dicembre 2017 (dep. 22 febbraio 2018), n. 8770, ric. Mariotti, all’art. 590 sexies c.p., introdotto dall’art. 6 della legge 8 marzo 2017, n. 24 (Gelli-Bianco), nel solco dello sforzo di tipizzazione dei modelli della colpa penale in ambito sanitario.
Detta sentenza, premesse le differenze con la precedente riforma di cui al d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (Balduzzi), ha chiarito che “L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica: a) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da negligenza o imprudenza; b) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia, quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l’evento si è verificato per colpa grave da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico”.
Un primo sguardo allo stato attuale del diritto vivente in materia pone dei dubbi di adattabilità dell’impianto esistente alla situazione in corso. La legge Gelli-Bianco, pur nel tentativo in parte riuscito di correggere gli errori del passato, gravita in maniera preponderante attorno alle linee-guida ed alle buone pratiche clinico-assistenziali, le quali, almeno per quanto attiene al trattamento terapeutico dell’infezione da COVID-19, non esistono ancora. Il discorso potrebbe essere diverso per eventuali responsabilità che dovessero sorgere in relazione a condotte di mancato contenimento del contagio (per le quali l’ISS ha già emanato diverse raccomandazioni), ma con tutti i dubbi che si sono già espressi in ordine alla certezza circa l’efficacia degli strumenti a disposizione e circa l’effettiva disponibilità di tali strumenti.
Alla luce di ciò, un intervento di carattere integrativo della disciplina esistente, che tenga conto dell’eccezionalità dell’emergenza in corso, parrebbe opportuno, purchè operi nel senso di ridurre l’alea interpretativa e non riproponga soluzioni già offerte dall’attuale impianto normativo.
In questo senso, l’emendamento presentato dagli onorevoli Mallegni e Sicari parrebbe superfluo, perché propone un’esenzione della punibilità “quando il profilo di colpa sia determinato da indisponibilità di mezzi o il soggetto abbia agito in situazione di urgenza allo scopo di salvaguardare la vita o l’integrità del paziente”, ovvero rispetto a casistiche in cui la colpa sembrerebbe potersi escludere già sulla base della normativa esistente (l’indisponibilità di mezzi non dovrebbe essere rimproverabile all’esercente la professione sanitaria, specie nella situazione in corso; così l’aver agito in situazione di urgenza sembra evocare esimenti di carattere generale come l’adempimento di un dovere ovvero lo stato di necessità, o ancora l’inesigibilità di un comportamento alternativo a quello contestato, che sia commissivo o omissivo), in ragione della situazione stessa di grande emergenza.
L’emendamento “Marcucci” sembra porsi in una prospettiva diversa, che contempla l’incidenza della situazione in corso sulla globalità dell’esercizio della professione sanitaria (“tutti gli eventi avversi che si siano verificati o abbiano trovato causa durante l’emergenza”) e che limita la punibilità ai casi di colpa grave, fornendo al contempo una direttrice interpretativa del concetto di graduazione della colpa, e dunque limitando l’alea interpretativa. Sembrerebbe trattarsi, inoltre, di una proposta di “norma temporanea”, la cui ratio cesserebbe con il cessare dell’emergenza, consentendo il ripristino della situazione normativa esistente.
In ogni caso, va osservato che la mancata previsione di un’estensione della non punibilità al personale amministrativo e dirigenziale, qualora dovesse permanere nelle iniziative legislative che verranno prese, è comunque destinata a creare più di qualche sperequazione e ad aprire la prospettiva di oneri indennitari potenzialmente ingentissimi a carico di un sistema sanitario già molto provato dalla situazione in corso. In fondo, le condizioni di incertezza, urgenza e carenza di mezzi nelle quali stanno coraggiosamente operando medici ed infermieri sono le stesse anche per chi gestisce ed organizza le strutture sanitarie.
L’emergenza COVID-19 e le conseguenze giudiziarie in ambito sanitario
A due mesi dall’inizio dell’emergenza legata alla diffusione del COVID-19 i procedimenti penali appena avviati si focalizzano sulla gestione della crisi in ambito sanitario. Una breve analisi della normativa vigente in materia di colpa medica consente di ipotizzare quali saranno le fattispecie di riferimento, le condotte oggetto di verifica e i soggetti potenzialmente coinvolti, ma la carenza di informazioni scientifiche sul fenomeno e di strumenti idonei a fronteggiarlo, non può non ripercuotersi sulle categorie tipiche della responsabilità colposa. Anche per questo si ipotizza un intervento normativo che possa salvaguardare il sistema dal collasso.
Sommario: 1. COVID-19: le prime indagini. – 2. Le decisioni e le informazioni degli organismi internazionali e nazionali rilevanti ai fini dell’accertamento delle eventuali responsabilità penali. – 3. Le ipotesi di reato astrattamente configurabili. – 4. Fatti di rilievo di cui tener conto nella profilazione dei futuri scenari. – 5. Le ipotesi di “norme scudo” che emergono da alcuni emendamenti al decreto Cura Italia.
1. COVID-19: le prime indagini.
2. Le decisioni e le informazioni degli organismi internazionali e nazionali rilevanti ai fini dell’accertamento delle eventuali responsabilità penali.
Dalle informazioni riportate sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità, risulta che il 31 dicembre 2019 le autorità cinesi hanno notificato l’esistenza di un focolaio di casi di polmonite ad eziologia non nota nella città di Wuhan, nella provincia dell’Hubei.
Il 9 gennaio 2020 il Centro di controllo per la prevenzione delle malattie (China CDC) identifica un nuovo coronavirus che risulta essere causa eziologica della patologia e ne conferma la trasmissione inter-umana.
Il 30 gennaio 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dichiara l’emergenza internazionale di salute pubblica per il coronavirus (PHEIC) e raccomanda alla comunità internazionale la necessità di applicare misure adeguate.
Lo stesso giorno 30 gennaio 2020 il Ministro della Salute italiano emette una ordinanza con la quale dispone misure profilattiche contro il nuovo coronavirus – non direttamente rilevanti per la presente analisi, ma utili per comprendere la progressiva conoscenza del fenomeno – con cui interdice il traffico aereo dalla Cina, quale Paese comprendente aree in cui si è verificata una trasmissione autoctona del nuovo virus.
Il 31 gennaio 2020 il Consiglio dei Ministri dichiara lo stato di emergenza per sei mesi in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili, disponendo che gli interventi necessari siano emanati con ordinanze del Capo del Dipartimento della protezione civile, in deroga a ogni disposizione vigente, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento.
L’11 febbraio 2020 l’OMS definisce la patologia derivante dall’infezione del virus con il nome COVID-19.
Il 19 febbraio 2020 è ricoverato presso l’Ospedale San Matteo di Pavia una persona considerata il c.d. “paziente 1” COVID-19 accertato in Italia.
Il 23 febbraio 2020 è emesso il d.l. n. 6 (poi convertito in legge 5 marzo 2020, n. 13) recante misure urgenti di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, con cui – per quanto qui di interesse – è stato prevista l’applicazione della misura della quarantena con sorveglianza attiva per gli individui che hanno avuto contatti stretti con i casi confermati di malattia infettiva diffusiva; nonché la previsione che l’accesso ai servizi pubblici essenziali fosse condizionato all’utilizzo di dispositivi di protezione individuale o all’adozione di particolari misure di cautela individuate dell’autorità competente.
L’8 marzo 2020 il Presidente del Consiglio emana un d.p.c.m. recante ulteriori disposizioni attuative del d.l. 23 febbraio 2020 n. 6 con il quale – tra l’altro – è disposta la sospensione dei congedi del personale sanitario e tecnico, nonché l’adozione, in tutti i casi possibili, nello svolgimento di riunioni, di modalità di collegamento da remoto, con particolare riferimento a strutture sanitarie e sociosanitarie, servizi di pubblica utilità e coordinamenti attivati nell’ambito dell’emergenza COVID-19, comunque garantendo il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro, ed evitando assembramenti. Il predetto decreto, all’allegato 1, descrive le misure igienico-sanitarie da adottare: a) lavarsi spesso le mani; b) evitare il contatto ravvicinato con persone che soffrono di infezioni respiratorie acute; c) evitare abbracci e strette di mano; d) mantenere, nei contatti sociali, una distanza interpersonale di almeno un metro; e) igiene respiratoria; f) evitare uso promiscuo di bottiglie e bicchieri.
In conseguenza dei predetti provvedimenti legislativi, risulta che alcune direzioni sanitarie, specie nel Lazio, hanno del tutto sospeso le visite dei pazienti ricoverati da parte dei parenti, assicurando in ogni caso l’adozione di distanze di sicurezza.
Il 9 marzo 2020 è emesso il d.l. n. 14, recante disposizioni urgenti per il potenziamento del Servizio sanitario nazionale in relazione all’emergenza COVID-19, che dispone – tra l’altro – misure straordinarie per l’assunzione di specializzandi con lavoro autonomo o per il conferimento di incarichi a personale sanitario in quiescenza.
L’11 marzo 2020 l’OMS dichiara che il focolaio internazionale da COVID-19 può essere considerato un fenomeno pandemico; conseguentemente chiede alle Nazioni di adottare una strategia comune di contenimento del rischio. In particolare, chiede di: preparare la popolazione e le strutture sanitarie; predisporre una sorveglianza finalizzata a individuare, isolare i casi e spezzare le catene di contagio; ridurre la trasmissione del virus attraverso la quarantena dei casi vicini a quelli isolati e testando i casi sospetti; cercare nuovi modi di prevenzione, in considerazione del fatto che si tratta di un virus sconosciuto i cui dati sono in corso di formazione. In particolare, il Segretario Generale dell’OMS dichiarerà che la pandemia è controllabile ove le Nazioni adottino misure di contenimento, e non di mitigazione, quest’ultime espressamente considerate pericolose ed errate.
Il 17 marzo 2020 il Governo italiano emana il d.l. n. 18 (Cura Italia) con il quale dispone – tra l’altro – misure di potenziamento del Servizio Sanitario Nazionale relative a finanziamenti e risorse umane.
Il 22 marzo 2020 Presidente del Consiglio emana un d.p.c.m. recante ulteriori disposizioni attuative del d.l. 23 febbraio 2020 n. 6 in cui, diversamente da altre attività, è disposto che sia consentita la produzione, il trasporto, la commercializzazione e consegna di farmaci, tecnologia sanitaria e dispositivi medico-chirurgici, sempre nel rispetto delle misure per il contrasto e il contenimento del virus COVID-19.
Con ulteriore d.l. 25 marzo 2020, n. 19, recante misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, per quanto qui di interesse, sono stati disposti obblighi di comunicazione al servizio sanitario nazionale nei confronti di coloro che sono transitati e hanno sostato in zone a rischio epidemiologico come identificate dall’Organizzazione mondiale della Sanità o dal Ministro della Salute; nonché l’adozione di misure di informazione e di prevenzione rispetto al rischio epidemiologico.
3. Le ipotesi di reato astrattamente configurabili.
Qualsiasi valutazione prognostica in ordine alla natura delle responsabilità che potrebbero essere configurate pecca inevitabilmente di astrattezza, in quanto svincolata dal confronto con il caso concreto e le sue specificità.
A valle di questa doverosa precisazione, si può ragionevolmente confidare nel fatto che i terreni d’elezione delle possibili responsabilità in discorso siano quelli del titolo colposo e della causalità omissiva. Provando a semplificare, nei casi di decesso o lesioni da COVID-19, l’infezione agirà come causa primaria dell’evento, a fronte del quale eventuali responsabilità potrebbero essere ipotizzate con riferimento all’omissione di condotte adeguate a prevenirlo; omissione caratterizzata da imprudenza, negligenza o imperizia (colpa generica), ovvero dalla violazione di specifici codici comportamentali o norme cautelari. Si tratta, in altre parole, del terreno tipico della colpa medica per come l’abbiamo conosciuta sino ad oggi, che trova nell’omicidio colposo e nelle lesioni colpose, e dunque nel vigente art. 590 sexies c.p., le proprie fattispecie di riferimento.
In questa prospettiva qualche dubbio può sorgere rispetto all’individuazione dell’evento nel caso di lesioni, ovvero nel caso in cui il decorso dell’infezione non conduca ad esiti infausti. Questo perché, a seconda della prospettiva, l’evento lesioni potrebbe essere identificato alternativamente:
– col periodo di degenza procurato dalla malattia (lesione consistente nella malattia per tutta la durata della degenza, grave o lieve a seconda della medesima);
– con le conseguenze post-infezione senza esito infausto (conseguenze queste ultime che scontano, al momento, un importante e forse decisivo deficit di informazioni disponibili, nel senso che non si conosce se e quali effetti negativi sulla salute del paziente possano residuare in seguito all’infezione da COVID-19 superata);
– con la contrazione stessa dell’infezione da parte della persona offesa, sempre che in ipotesi sia dipesa da una qualche condotta omissiva, come – ad esempio – la mancata predisposizione o il mancato utilizzo di dispositivi di protezione individuale.
In quest’ultimo caso – lesione consistente nella contrazione stessa dell’infezione, in ipotesi dovuta al mancato utilizzo di presidi adeguati – occorre tuttavia osservare che il confine con la diversa e più grave fattispecie di epidemia colposa di cui all’art. 452 c.p. appare fin troppo labile, a meno che non si proietti su un terreno meramente quantitativo, ovvero del numero delle infezioni causate dalla negligenza nell’utilizzo di strumenti di protezione: la trasmissione individuale come lesione colposa; la trasmissione ad un numero più ampio di persone come equivalente della diffusione colposa di agenti patogeni rilevante alla stregua dell’epidemia colposa ex art. 452 c.p.
Chiaramente l’interazione tra queste diverse fattispecie, ed in particolare la possibilità di un concorso materiale tra le stesse, è tutta da verificare tramite il confronto con la casistica e con gli eventuali arresti giurisprudenziali che verranno. Quello che si può ragionevolmente prevedere, in questa specifica area giuridica come in altre, è la probabile cesura tra la giurisprudenza pre-COVID-19 e quella post-COVID-19.
La fattispecie di cui all’art. 452 c.p. sembra poi essere alla base delle inchieste, tuttora attivate Procure di Milano, Bergamo e Brescia, con particolare riferimento alla situazione drammatica delle Residenze Sanitarie Assistenziali. Alcune di queste vedono già le prime iscrizioni nei confronti delle Direzioni Generali (ad es. al Pio Albergo Trivulzio, Milano). Da ulteriori notizie di stampa sembra che anche altre Procure, in Piemonte e Toscana, si stiano attivando nella stessa direzione, ma con inchieste ad oggi iscritte ancora a modello 45 (fatti non costituenti notizie di reato) o delle quali non sono ancora emersi dettagli sulla stampa. Non è chiaro (né potrebbe essere altrimenti in ragione del segreto istruttorio) su quali basi fattuali si fondi la fattispecie di reato per cui si procede. Se si prova a formulare delle congetture plausibili, si fa fatica a non pensare che l’epidemia colposa sia configurata in relazione alla mancata adozione di presidi (di qualunque genere, ma primi tra tutti i dispositivi di protezione individuali per operatori e pazienti) idonei ad impedire, limitare o contenere la diffusione dell’agente patogeno. Se così fosse, il dato si scontrerebbe con gli arresti più recenti della giurisprudenza di legittimità in materia, secondo la quale il concetto giuridico di epidemia è ben più ristretto dell’omologo scientifico e – soprattutto – il reato in questione non sarebbe configurabile in caso di condotta omissiva (così da ultimo Cass., pen. Sez. IV, 12.12.2017, n. 9133, Giacomelli, in http://www.italgiure.giustizia.it).
Proprio il tema della disponibilità e dell’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale è quello maggiormente agli onori delle cronache, ed è prevedibile diventi un tema da considerare in rapporto alle ipotetiche responsabilità delle quali si promuoverà l’accertamento. Inevitabile infatti pensare a future contestazioni che contemplino la violazione del Decreto Legislativo n. 81 del 2008, aprendosi quindi alla cerchia dei datori di lavoro (evidentemente anche sulla base di questa previsione si parla di “scudo normativo” esteso al personale amministrativo e dirigenziale delle strutture sanitarie), con riferimento a decessi e lesioni dei pazienti nelle strutture sanitarie, ma anche di medici e infermieri operanti all’interno delle medesime. Questa previsione è resa ancor più plausibile dal fatto che la relativa contestazione formulata a corredo dei reati di omicidio colposo e lesioni gravi o gravissime, aprirebbe alla responsabilità amministrativa degli enti alla stregua dell’art. 25 septies D. Lgs. 231 del 2001 (purché siano enti privati, come nel caso di alcune RSA); responsabilità altrimenti preclusa dalla circostanza che le fattispecie di reato di cui si è detto non figurano nel catalogo dei reati previsti dal decreto sulla responsabilità amministrativa degli enti.
4. Fatti di rilievo di cui tener conto nella profilazione dei futuri scenari.
Qualunque prospettiva si tenti di delineare in relazione a futuri scenari giudiziari o para-giudiziari, sconta l’inevitabile confronto con le caratteristiche eccezionali del fenomeno che stiamo vivendo, molte delle quali attengono in via diretta o mediata alla sostanziale carenza – su scala globale – di informazioni a disposizione.
Se si tiene a mente la progressione cronologica delle informative e dei provvedimenti emanati da istituzioni internazionali e nazionali in relazione all’emergenza in corso, risulta molto difficile collocare – su qualunque operatore, a qualunque livello – una sufficiente consapevolezza della pericolosità, della pervasività e dell’incombenza dell’epidemia da COVID-19 prima dell’8 marzo 2020, data di emissione del primo d.p.c.m., contenente, tra l’altro, una serie di indicazioni pratiche fornite alla popolazione e descritte come utili a prevenire la diffusione del contagio. Tra l’altro va osservato che le stesse indicazioni sono al centro di un costante e progressivo dibattito, anche scientifico, che ne valuta (e in qualche caso ne mette in dubbio) quotidianamente l’adeguatezza.
Se si parla di misure idonee a prevenire il contagio, non può non rilevarsi come le modalità effettive di trasmissione del virus (ad esempio la circolazione e la permanenza nell’aria, così come anche l’eventuale resistenza sulle diverse superfici) non siano ad oggi totalmente conosciute. Sicuramente, in quest’area di possibile responsabilità, il benchmark informativo è costituito dalle raccomandazioni emanate dall’Istituto Superiore di Sanità, ed è prevedibile che nel delineare le future responsabilità legate all’emergenza da COVID-19, si esigerà dall’operatore sanitario, inteso in senso lato (non solo medici e infermieri, ma anche personale amministrativo e dirigenziale delle strutture sanitarie), di aver operato conformemente alle misure di volta in volta diramate.
Sempre nell’area della prevenzione, un ruolo centrale – come detto – è rivestito dai dispositivi di protezione individuale, la cui mancata adozione è suscettibile di favorire (nel senso di non impedire) la diffusione. Anche qui, tuttavia, va osservato che il dibattito scientifico (e conseguentemente anche quello politico) sull’adeguatezza di alcuni dispositivi è ancora aperto: ad oggi l’OMS ritiene che l’uso di mascherine da parte di soggetti sani (diversi dagli operatori che lavorano nella prima linea di lotta all’emergenza) sia superfluo, se non addirittura controproducente, in quanto contribuirebbe a generare un falso senso di sicurezza che potrebbe disincentivare il rispetto delle ulteriori misure di distanziamento sociale. Va aggiunto che tuttora esiste una netta sproporzione quantitativa tra la disponibilità effettiva di questi strumenti e le esigenze che emergono a livello territoriale; una sproporzione che si sta cercando di colmare, ma che resta ad oggi molto elevata.
Se le informazioni disponibili sugli strumenti adeguati a prevenire il contagio (a prescindere dalla scarsa reperibilità degli stessi) sono assai poche, mancano totalmente quelle relative a trattamenti clinici adeguati. Non è un caso che solo da poche settimane l’Agenzia italiana del Farmaco abbia autorizzato la sperimentazione clinica di 12 protocolli terapeutici, dopo aver valutato circa 70 proposte. I risultati della sperimentazione, naturalmente, sono di là da venire. Un tema, questo, che – allo stato attuale del diritto vivente – dovrebbe precludere ad ipotesi di responsabilità dell’operatore sanitario per inadeguatezza del trattamento clinico effettuato, dal momento che mancano linee guida e buone pratiche clinico-assistenziali, da sempre le stelle polari nella valutazione della colpa medica.
Anche sul piano del trattamento terapeutico esiste il tema della sproporzione tra necessità e risorse disponibili, che inevitabilmente andrà considerato nella profilazione di ipotetiche responsabilità (si pensi, a titolo di esempio, alla scarsa disponibilità – rispetto alle esigenze di questi giorni – di ventilatori polmonari o più in generale di posti letto nelle terapie intensive).
Analoga sproporzione si rinviene nell’area diagnostica. Se si pensa ad ipotesi di responsabilità per omessa diagnosi di un’infezione da COVID-19, non può che venire in mente lo scarso numero dei tamponi disponibili (ad esempio per carenza, a livello mondiale, dei reagenti necessari ad eseguirli, cui si sta provando ad ovviare negli ultimi giorni), le tempistiche non immediate nell’ottenimento dei risultati, la non affidabilità al 100% degli stessi. Tanto è vero che sono allo studio del Comitato Tecnico Scientifico modalità diagnostiche alternative (ad esempio i cc.dd. test sierologici), la cui implementazione a livello nazionale è attesa a breve.
Insomma, ancorché le ricerche scientifiche da anni ammoniscano circa il rischio di gravi pandemie, sembra fin troppo evidente che l’intero sistema paese (per non dire mondiale) sia stato colto impreparato dalla natura e dalle proporzioni dell’emergenza in corso, il che non può non riflettersi nella valutazione delle eventuali responsabilità individuali che in futuro saranno oggetto di accertamento; valutazione nella quale non si potrà prescindere dal considerare l’incidenza di ciascun deficit “di sistema” (di conoscenza, di organizzazione, di strumentazione) sulle condotte singolarmente considerate. Diversamente, è elevato il rischio che chi si metta alla ricerca di responsabilità finisca per trovare solo capri espiatori.
5. Le ipotesi di “norme scudo” che emergono da alcuni emendamenti al decreto Cura Italia.
Sono ormai note le molteplici iniziative con le quali varie forze politiche propongono emendamenti al decreto Cura Italia, finalizzate ad assicurare una tutela da responsabilità penali e civili nei confronti di operatori sanitari, ma anche di personale dirigenziale, costretti a fronteggiare – spesso disarmati – gli effetti eccezionali della pandemia da COVID-19.
Tali proposte di emendamento si profilano con obiettivi e modalità eterogenee, che interrogano fin d’ora circa la loro compatibilità (allo stato, del tutto eventuale) con il panorama normativo e giurisprudenziale esistente; nonché, alternativamente, circa la possibilità di ricorrere a istituti già previsti nel nostro ordinamento per assicurare una tutela ulteriore rispetto a quella di cui all’art. 590 sexies c.p., senza ricorrere alla emanazione di nuove norme.
Si segnalano in proposito le proposte di emendamento degli On.li Mallegni e Sicari, nonché dell’On. Marcucci ed altri, rilevanti ai fini della responsabilità penale. La prima prevede: “1-bis. Per tutta la durata dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 di cui al decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 e ai provvedimenti attuativi, l’esercente una professione sanitaria o il soggetto abilitato a norma dell’articolo 102 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, non è punibile per i reati di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale quando il profilo di colpa sia determinato da indisponibilità di mezzi o il soggetto abbia agito in situazione di urgenza allo scopo di salvaguardare la vita o l’integrità del paziente. Nei casi contemplati dal precedente periodo, qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, in deroga a quanto previsto dall’articolo 590 sexies, secondo comma, del codice penale, la punibilità è sempre esclusa”. Nella seconda si legge: “3. Fermo quanto previsto dall’art. 590 sexies codice penale per tutti gli eventi avversi che si siano verificati od abbiano trovato causa durante l’emergenza epidemiologica COVID-19 di cui alla delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020, la punibilità penale è limitata ai soli casi di colpa grave. La colpa si considera grave unicamente laddove consista nella macroscopica e ingiustificata violazione dei principi basilari che regolano la professione sanitaria o dei protocolli o programmi emergenziali eventualmente predisposti per fronteggiare la situazione in essere, tenuto conto di quanto stabilito dal comma 2”.
Inevitabile il confronto con la portata interpretativa assegnata dalle Sezioni Unite 21 dicembre 2017 (dep. 22 febbraio 2018), n. 8770, ric. Mariotti, all’art. 590 sexies c.p., introdotto dall’art. 6 della legge 8 marzo 2017, n. 24 (Gelli-Bianco), nel solco dello sforzo di tipizzazione dei modelli della colpa penale in ambito sanitario.
Detta sentenza, premesse le differenze con la precedente riforma di cui al d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (Balduzzi), ha chiarito che “L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica: a) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da negligenza o imprudenza; b) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia, quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l’evento si è verificato per colpa grave da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico”.
Un primo sguardo allo stato attuale del diritto vivente in materia pone dei dubbi di adattabilità dell’impianto esistente alla situazione in corso. La legge Gelli-Bianco, pur nel tentativo in parte riuscito di correggere gli errori del passato, gravita in maniera preponderante attorno alle linee-guida ed alle buone pratiche clinico-assistenziali, le quali, almeno per quanto attiene al trattamento terapeutico dell’infezione da COVID-19, non esistono ancora. Il discorso potrebbe essere diverso per eventuali responsabilità che dovessero sorgere in relazione a condotte di mancato contenimento del contagio (per le quali l’ISS ha già emanato diverse raccomandazioni), ma con tutti i dubbi che si sono già espressi in ordine alla certezza circa l’efficacia degli strumenti a disposizione e circa l’effettiva disponibilità di tali strumenti.
Alla luce di ciò, un intervento di carattere integrativo della disciplina esistente, che tenga conto dell’eccezionalità dell’emergenza in corso, parrebbe opportuno, purchè operi nel senso di ridurre l’alea interpretativa e non riproponga soluzioni già offerte dall’attuale impianto normativo.
In questo senso, l’emendamento presentato dagli onorevoli Mallegni e Sicari parrebbe superfluo, perché propone un’esenzione della punibilità “quando il profilo di colpa sia determinato da indisponibilità di mezzi o il soggetto abbia agito in situazione di urgenza allo scopo di salvaguardare la vita o l’integrità del paziente”, ovvero rispetto a casistiche in cui la colpa sembrerebbe potersi escludere già sulla base della normativa esistente (l’indisponibilità di mezzi non dovrebbe essere rimproverabile all’esercente la professione sanitaria, specie nella situazione in corso; così l’aver agito in situazione di urgenza sembra evocare esimenti di carattere generale come l’adempimento di un dovere ovvero lo stato di necessità, o ancora l’inesigibilità di un comportamento alternativo a quello contestato, che sia commissivo o omissivo), in ragione della situazione stessa di grande emergenza.
L’emendamento “Marcucci” sembra porsi in una prospettiva diversa, che contempla l’incidenza della situazione in corso sulla globalità dell’esercizio della professione sanitaria (“tutti gli eventi avversi che si siano verificati o abbiano trovato causa durante l’emergenza”) e che limita la punibilità ai casi di colpa grave, fornendo al contempo una direttrice interpretativa del concetto di graduazione della colpa, e dunque limitando l’alea interpretativa. Sembrerebbe trattarsi, inoltre, di una proposta di “norma temporanea”, la cui ratio cesserebbe con il cessare dell’emergenza, consentendo il ripristino della situazione normativa esistente.
In ogni caso, va osservato che la mancata previsione di un’estensione della non punibilità al personale amministrativo e dirigenziale, qualora dovesse permanere nelle iniziative legislative che verranno prese, è comunque destinata a creare più di qualche sperequazione e ad aprire la prospettiva di oneri indennitari potenzialmente ingentissimi a carico di un sistema sanitario già molto provato dalla situazione in corso. In fondo, le condizioni di incertezza, urgenza e carenza di mezzi nelle quali stanno coraggiosamente operando medici ed infermieri sono le stesse anche per chi gestisce ed organizza le strutture sanitarie.
Tags
Condividi su:
Alla Corte costituzionale una questione sull’art. 30-ter dell’ordinamento penitenziario
La Consulta si pronuncia sulla incompatibilità del G.i.p. a pronunciarsi sulla nuova richiesta di decreto penale di condanna: inammissibili le q.l.c.
Sospensione della pena e non menzione della condanna nel casellario: illegittimità costituzionale parziale.
Foglio di via del Questore: per la Consulta non è necessaria la convalida del giudice.
Alla Corte costituzionale una questione sull’art. 30-ter dell’ordinamento penitenziario
La Consulta si pronuncia sulla incompatibilità del G.i.p. a pronunciarsi sulla nuova richiesta di decreto penale di condanna: inammissibili le q.l.c.
Sospensione della pena e non menzione della condanna nel casellario: illegittimità costituzionale parziale.