Aldo Moro, da retribuzionista puro, definisce l’ergastolo “fatto agghiacciante, crudele e disumano non meno di quanto lo sia la pena di morte” e sull’esercizio del potere punitivo afferma che “deve essere ben controllato, per non farsi condurre ad immaginare che la pena sia considerata una vendetta e quando si dice pena perpetua si dice una cosa […] umanamente non accettabile. Ci si può anzi domandare se, in termini di crudeltà, non sia più crudele una pena che conserva in vita, privando questa vita di tanta parte del suo contenuto, che non una pena che tronca, sia pur crudelmente, disumanamente, la vita del soggetto, che libera di quella sofferenza quotidiana, di quella mancanza di rassegnazione o di quella rassegnazione che è uguale ad un abbrutimento, caratteristica della pena perpetua” (Lezioni di diritto penale (1976), a cura di F. Tritto, Bari 2005, pp.115-117).
E, come vedremo, sono in tanti gli ergastolani che tuttora conducono fino alla fine la loro esistenza in queste condizioni.
Ergastolo deriva dal greco ergasterion, casa di lavoro. Generalmente un locale sotterraneo dove venivano rinchiusi gli schiavi e i condannati ai lavori forzati. Da questo punto di vista era la forma più schiavizzante, disumanizzante di lavoro.
Teniamo conto di questo dato, perché per tanti versi questo giudizio degradante resta. In tempi recenti – parliamo di un paio di secoli fa – l’ergastolo è diventato una sanzione largamente sostitutiva della pena di morte per l’omicidio, ma anche, attenzione, per il falso in moneta o per i furti reiterati. Quindi, c’è sempre, rispetto alla gravità dei fatti, un giudizio di tipo politico, occasionato dai rapporti di potere.
D’altronde, facendo riferimento alla fisica quantistica, quella che vede gli elementi e gli stessi atomi solo in senso relazionale, non ‘atomisticamente’, così avviene anche per le scienze dell’uomo: è possibile vedere le cose atomisticamente, o ontologicamente, rispetto ad un punto di vista sovraordinato, preferenziale, come può essere in una concezione teologica, oppure, al contrario, in relazione gli uni agli altri, ossia indagando su un concreto oggetto sempre relazionato al contesto degli altri elementi che vengono a dar vita in quella forma e in quel momento ad un certo istituto. L’ergastolo dobbiamo vederlo in un contesto relazionale, il che vuol dire, tradotto in termini a noi più vicini, da un punto di vista sistematico, con l’adozione del metodo proprio delle scienze normative, cioè della praticabilità dell’elaborazione concettuale e della sua riconduzione all’ordo dei principi. Non è la pura e semplice natura o nozione del concetto che interessa, ma un giudizio relazionale. Nella scienza giuspenalistica non possono esservi verità rivelate o ipse dixit, ma tutti i fenomeni che hanno a che fare con la relazionalità vanno visti nel contesto relazionale, seguendo le regole del metodo relazionale.
Questa importante premessa ci serve a comprendere determinate norme, determinate decisioni, con una reductio ad unum, partendo da quei presupposti che abbiamo dato per esistenti e che, in campo giuridico lo sono: i principi, laddove assumono la configurazione di norme, diventano essi stessi norme.
Nel Regno di Napoli l’ergastolo fu introdotto nel 1819, come superamento della pena dei ferri in vita e per il cumulo dei lavori forzati derivanti dall’antica galera. Laddove si sarebbe arrivati all’esito della pena di morte, si iniziò a considerarlo come un sostitutivo. Ma un sostitutivo può essere visto come un miglioramento o un peggioramento. Nel codice penale del 1930 l’ergastolo è disciplinato in generale all’art.22, ed è previsto per ventisette fattispecie, da quella relativa al cittadino che porta le armi contro lo Stato italiano alle intelligenze con lo straniero seguite da ostilità, allo spionaggio, al disfattismo politico, all’attentato alla vita e all’incolumità del Presidente, al sequestro di persona a scopo di terrorismo ed eversione seguito dalla morte, fino a vari casi di omicidio e di sequestro aggravato dalla morte. La disciplina del codice Rocco era in un certo senso migliorativa rispetto a quella del codice Zanardelli: quest’ultimo prevedeva pure l’isolamento per sette anni, che nella Relazione al codice del 1930 veniva vista come una pena eccessivamente crudele, tant’è che l’isolamento venne previsto come aggravante. Colpisce la ‘mitezza’ del codice Rocco in questo caso, perché generalmente orientato in senso intimidativo-deterrente.
Com’è noto, una legge del 1962 (25 novembre, n.1634) ha poi consentito la liberazione condizionale del condannato dopo aver scontato 28 anni di pena, ridotti a 26 dalla legge Gozzini del 1986, qualora il condannato stesso abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il ravvedimento. Dopo venti anni è possibile, ex art.50 l. n. 663/1986, l’applicazione della semilibertà in relazione ai progressi compiuti, nonché la liberazione anticipata.
Vi è inoltre una giurisprudenza costituzionale tendente ad attutire la portata drammatica, che Moro definiva inumana, dell’ergastolo. Segnalo anche la sentenza n.168/1994 della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittima l’applicazione dell’ergastolo ai minorenni. Tuttavia, fin dalla sentenza n.264/1974 la Corte costituzionale, all’interno di una visione polifunzionale della pena, in cui fa riferimento espresso a retribuzione, prevenzione generale, emenda, ha ritenuto l’ergastolo conforme a Costituzione, perché consente di reinserire socialmente il condannato qualora la sua condotta sia valutata positivamente; e tale posizione è stata confermata nelle altre pronunce successive. Qui ritengo vi sia una fallacia del ragionamento, perché in realtà si dice che l’ergastolo sarebbe incostituzionale se non desse spazio alla libertà, se non la rendesse possibile. Ma il riferimento alla sola possibilità sta a significare che il giudizio è comunque negativo rispetto ad una pena che tolga per sempre la libertà ad un soggetto, che sancisca il fine pena mai. Allora, si dovrebbe capovolgere il ragionamento, nel senso di affermare che l’ergastolo, di per sé, è contrario alla Costituzione nella misura in cui può dar luogo ad un fine pena mai, e questo accade, come vedremo, molto frequentemente. Tutte le possibilità di liberazione astrattamente previste, se guardiamo ai dati recenti, nella prassi non è che abbiano una diffusività tale da far ritenere eccezionale l’ergastolo. Allora, già nel ragionamento della Corte nel 1974 a mio parere vi è una contraddizione in termini, perché si usa l’argomento della possibile libertà per rendere conforme a Costituzione l’ergastolo. Ma se l’argomento è la possibile libertà, allora vuol dire che, laddove questa non dovesse esservi, l’ergastolo è incostituzionale.
Cerchiamo di capire, partendo dalla polifunzionalità della pena, l’iter argomentativo della Corte costituzionale. Essa fa riferimento anzitutto alla prevenzione generale intimidatrice, poi alla retribuzione; e potrebbe anche far riferimento alla prevenzione speciale negativa. Sono tutte concezioni della pena sicuramente presenti nel dibattito penalistico, si potrebbe dire da sempre. Però, ecco, qui ritorna il concetto relazionale, quantistico. È vero che sono presenti; ma nel contesto ordinamentale vigente, all’interno e in relazione al quale dev’essere agita una funzione della pena legittimamente perseguibile, già il riferimento alla prevenzione generale negativa significa l’inflizione, per fini di intimidazione generale, di una sanzione particolarmente dura, che, per definizione, va al di là della proporzione, perché deve costituire, come diceva Feuerbach, un deterrente rispetto all’utilità che deriva dalla commissione del reato. Ora, questo è un ragionamento che dal punto di vista della psicologia criminale è totalmente sballato, perché chi delinque ritiene, a torto o a ragione, di non essere acciuffato; vi è, inoltre, una categoria di autori che si disinteressa completamente della pena prevista dalla legge, come quella dei delinquenti per convinzione. Dal punto di vista normativo, un surplus di sanzione significa violare l’art. 27 co.1 Cost., perché viene inflitto per stornare il pericolo di un fatto illecito altrui, in violazione della personalità della responsabilità penale. Quindi, all’interno della Costituzione non vi è spazio per la prevenzione generale negativa, tanto più che la Carta costituzionale all’art. 27 co.3 si esprime chiaramente. Quindi, se la Corte costituzionale argomenta in chiave di prevenzione generale negativa, usa un argomento contrario a Costituzione.
Considerazioni analoghe valgono in rapporto alla teoria retributiva, sostenuta e molto praticata, ma che nel contesto costituzionale non può essere accolta, perché l’espiazione può avvenire in un attimo o non avvenire mai, cosa che non sappiamo, né possiamo sapere. Inoltre, il castigo presuppone la libertà di scelta, che neppure i più arditi teologi, come Anselmo d’Aosta o Guglielmo d’Occam sono riusciti a dimostrare. Ma quand’anche vi fosse la prova della libertà del volere, siamo sicuri che l’ambiente non abbia alcun tipo di influenza? Immaginare questo fa sorridere. La retribuzione, dunque, non è accettabile, perché è contraria agli artt. 19 e 21, in quanto si fonda su un punto di vista etico, laddove la pena può fondarsi solo su punti di vista condivisi da consociati, e poi perché l’art.27 co.3 non fa riferimento alla retribuzione.
I conti, allora, vanno fatti con la rieducazione. Potrebbe esservi una sorta di compatibilità della rieducazione con la retribuzione, ed è stata addirittura sostenuta da Bettiol, che afferma: “C’è invero una rieducazione interiore dell’uomo, una conversione dal male al bene che trova nell’isolamento la condizione adatta al suo manifestarsi e al suo consolidarsi in termini di spiritualità” (Sulle massime pene: morte ed ergastolo (1956), in Scritti giuridici, Tomo II, Padova 1966, p.91). Quindi, per chi è credente, è possibile una ricostruzione spirituale della personalità nel raccoglimento; l’emenda eleva spiritualmente il soggetto. Ma questo, anzitutto, vale solo per chi crede in un’entità superiore con cui riconciliarsi mediante l’ergastolo; fondare su un tale assunto l’ergastolo costituisce quindi una violazione della libertà di religione o di opinione, perché la pena statuale è una coazione, e non si può costringere una persona ad elevarsi moralmente, in quanto la morale è autonoma, mentre il diritto è eteronomo. Inoltre, gli artt. 19 e 21 Cost. garantiscono libertà di opinione, di Weltanschauung, di religione.
Si dovrà dunque attribuire alla rieducazione un significato diverso dall’emenda. Per intendere la rieducazione, poste quelle norme, dobbiamo chiedere soccorso all’art.3 co.2 Cost., che sancisce quale compito della Repubblica l’eliminazione degli ostacoli che si oppongono alla partecipazione dei singoli alla vita sociale, senza escludere i detenuti: perché quando la Costituzione vuol porre delle esclusioni lo fa espressamente. Vi è inoltre un principio di dignità deducibile agevolmente dall’art.2, 3, 32, 41 co.2 Cost.; dunque, anche se meno direttamente che nella CEDU, vi è un riferimento alla dignità umana nella Costituzione. Per rieducazione bisogna dunque intendere l’apprestamento di quei mezzi che consentano la partecipazione alla vita sociale, il che vuol dire socializzazione per chi non è mai stato socializzato e risocializzazione o integrazione sociale per gli altri.
Se abbiamo questa griglia di principi, di argomenti e di opzioni metodologiche, cioè del confronto con le norme che consentano la praticabilità degli istituti in coerenza, allora l’ergastolo non ha una legittimità costituzionale, se quelle sono le funzioni perseguibili e non la polifunzionalità. Non si può dire disinvoltamente, come fa la Corte costituzionale, che bisogna tener conto di prevenzione generale e retribuzione, oltre che della rieducazione. Al contrario, non ne dobbiamo e non ne possiamo tener conto. Ciò che emerge è la contrarietà di principio a Costituzione dell’ergastolo.
Si sostiene, però, che, l’ergastolo in realtà non esiste più; ma il Garante nazionale dei detenuti dimostra, dati alla mano (Amicus curiae alla Corte Costituzionale, 8 settembre 2020), che negli ultimi tre anni solo il 7 % dei condannati all’ergastolo è stato liberato. Quindi, il restante 93 % rimane in ergastolo. Attenzione, allora, alle sirene della liberazione condizionale e della semilibertà. Un gran numero di ergastolani muore in carcere. Quindi, l’ergastolo di per sé è incostituzionale, perché viola l’art.27 co.3 Cost., viola il principio di dignità, viola la stessa idea di convivenza secondo principi costituzionali.
A questo punto, secondo il canone algebrico per cui il più contiene il meno, si potrebbe concludere il discorso, senza parlare dell’ergastolo ostativo. Ma andiamo avanti.
Rispetto a questo stato di cose, vi sono segnali, correnti di pensiero che magari anche in modo contraddittorio portano ad un esito di superamento dell’ergastolo. Stuart Mill saggiamente afferma: “Tutta quanta la storia del progresso sociale è stata una serie di transizioni, per cui una usanza, od una istituzione dopo l’altra, dall’essere prima supposta una necessità primaria dell’esistenza sociale, è passata al grado di ingiustizia e di tirannia stimmatizzata dall’universale” (Utilitarismo, Torino 1866, pp.150-151).
Nel tempo vi erano state le prese di posizione di illuminati penalisti come Pietro Nuvolone (Norma penale e principi costituzionali, in Giur. cost. 1956, p.253 ss.) e Francesco Carnelutti (La pena dell’ergastolo è costituzionale?, in Riv. dir. proc. 1956, p.1 ss.), che puntavano anche sull’argomento dell’errore giudiziario, argomento ora sparito dal dibattito, ma attuale: non si tratta di tantissimi casi, ma ne basta uno per comprendere che l’idea di pena perpetua non deve avere cittadinanza in uno stato di diritto. E sicuramente come ‘apostolo’ abolizionista dell’ergastolo va citato Emilio Dolcini per gli innumerevoli, preziosi contributi in materia.
Qualcosa si è cominciato a muovere in rapporto all’ergastolo ostativo, che deriva dal combinato disposto degli artt. 4-bis e 58-ter ord.penit. e dell’art. 2 d.lgs. n. 152/1991, conv. con modif. in l. n.203/1991. L’art.4-bis riguarda il divieto di concessione di benefici per i condannati di taluni delitti. Nel co.1-bis si prevede che la liberazione condizionale non possa essere concessa finchè vi siano elementi tali da far ritenere collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica e così via, e per tutta una serie di altri reati.
In direzione di un orientamento, recente, di maggior aderenza ai valori/principi costituzionale in materia vi è stato un intervento della Corte costituzionale, sent. n. 149/2018, che ha dichiarato illegittimo l’art.58-quater ord. penit., secondo cui gli autori dei delitti di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di estorsione che abbiano cagionato la morte della persona sequestrata non potevano essere ammessi ad alcuno dei benefici se non avevano espiato almeno i due terzi della pena. Poi vi è stata una sentenza della CEDU del 13 giugno 2019, Viola contro Italia, su cui è tornata la Corte di Cassazione per la sua ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale. Successivamente alla sentenza Viola vi è stata anche una sentenza della Corte cost., n. 253 /2019, in tema di concessione di permessi premio. Grossomodo, gli argomenti della Viola e della 253/2019 sono stati alla base della recente ordinanza Corte cost. n. 97/2021.
Nel caso Viola, il ricorrente lamentava la violazione della dignità in rapporto al reinserimento ed al recupero della libertà di un condannato all’ergastolo ostativo che non collabora con la giustizia, ovvero non accusa né si autoaccusa. All’art.4-bis ord. penit. è prevista una presunzione assoluta di pericolosità del soggetto che non potrebbe essere vinta se non dalla collaborazione. La Corte EDU, invece, ritiene legittima la pretesa della collaborazione, ma spinge per una preferibile iniziativa legislativa per una riforma dell’art.4-bis che cerchi aliunde, in modo diverso, di valorizzare altre caratteristiche della personalità, diverse dalla pura e semplice collaborazione, indicative della mancanza di pericolosità del condannato.
Il problema è che vi è un’eccessiva enfatizzazione del valore della collaborazione, sia nella sentenza Corte EDU nel caso Viola, sia nella giurisprudenza costituzionale. Si afferma che essa sia sintomo di mancanza di pericolosità, ma essa può essere, al contrario, una strategia, o, peggio ancora, può essere estorta: illuminante il caso della ‘collaborazione guantanamera’ di Scarantino a proposito del processo per l’attentato a Borsellino e alla sua scorta che tanti danni ha arrecato all’accertamento della verità e, soprattutto, ai diritti fondamentali di tante persone. Come saggiamente ammoniva Mario Pagano “niuna fede merita quel reo che dalla impunità allettato altri per suoi compagni addita, perciocchè la impunità comprandosi a prezzo della denuncia de’ delitti e de’ complici, sovente il reo cerca la sua saggezza, fingendo delitti ed immaginando complici, non altrimenti che quegli che dee procacciarsi il vivere, spende la falsa, se non ha la vera moneta (Teoria delle prove (1786), in appendice a Principj del codice penale Milano 1803, cap XIII, pp.149-150)
Occorre, inoltre, tener conto che sul piano generale la Corte EDU non è contraria all’ergastolo – come pure la Corte costituzionale – ma ritiene che la pena debba essere riducibile, altrimenti si lascia il reo senza speranza, ovvero senza possibilità di inserimento. Considerazioni giuste, nel caso Kafkaris come in quello Vinter, ove si afferma che l’art. 3 CEDU esige che le pene siano riducibili, ossia tali da permettere all’autorità di verificare i progressi del condannato. Il condannato ha diritto di sapere fin dall’inizio dell’esecuzione della pena della possibilità di una eventuale liberazione e delle relative condizioni. Ha il diritto di conoscere il momento in cui il riesame della sua pena avrà luogo o potrà essere richiesto. Inoltre, deve essere assicurato che, in caso di esito positivo, il condannato possa tornare in libertà, ed infine il provvedimento dev’essere corredato da una motivazione e dev’essere prevista la possibilità di ricorso giurisdizionale. Tuttavia, il riferimento all’esito positivo comporta che la Corte EDU non sia in generale contro la perpetuità della pena, in caso di esito negativo.
La Corte costituzionale, nella sentenza n.253/2019, relativa a reati ostativi e permessi premio, anticipa gli argomenti impiegati nell’ordinanza n.97/2021, affermando che la decisione valga per tutti i reati compresi nel co.1 dell’art.4-bis ord.penit.; la disposizione viene dichiarata incostituzionale nella parte in cui richiede la collaborazione processuale come condizione per l’accesso ai permessi premio, perché la presunzione di pericolosità viene vista quale relativa, cioè da superare se il magistrato di sorveglianza ha acquisito elementi tali da escludere che il detenuto abbia collegamenti con l’associazione criminale o che vi sia il pericolo del ripristino di questi collegamenti. Quindi, la presunzione dev’essere vincibile attraverso la valorizzazione dei percorsi di risocializzazione.
Peraltro, viene da chiedersi, incidentalmente, che cosa si intenda per tali percorsi, visto che lavoro, studio, altre attività intramurarie si vedono con il lumicino nelle patrie galere. Ricordo, ad esempio, una visita presso il carcere di Rossano, in Calabria, ove erano detenuti un gran numero di ergastolani; ci fu mostrata una splendida manifattura di ceramica, che, però, occupava quattro detenuti sui trecento presenti in occasione del Convegno in carcere. Mi piacerebbe che la Corte costituzionale, che si apre a considerazioni quasi di tecnica risocializzante, spendesse qualche parola in relazione alla realizzazione di condizioni effettive perché un percorso di risocializzazione venga favorito.
La Corte afferma che l’incostituzionalità, per contrasto con i principi di ragionevolezza e risocializzazione, della presunzione invincibile va estesa a tutti i reati compresi nel primo comma dell’art.4-bis ord.penit., ben oltre l’associazione di tipo mafioso, ed anche ai reati per cui è prevista una pena diversa dall’ergastolo salvo poi dimenticarsene nell’ordinanza n. 97/2021. Ed opportunamente asserisce che, al di là del problema dell’ergastolo ostativo, è la presunzione in sé ad essere illegittima, perché è corretto premiare chi collabora, ma non è ammissibile punire ulteriormente chi non collabora. Da questo punto di vista la Corte ribadisce la necessità della verifica da parte del magistrato di sorveglianza del chiaro percorso di reinserimento.
Essa afferma anche che una generalizzazione a base statistica consente di rilevare che la mancata collaborazione sia sintomo di attualità dei collegamenti con il sodalizio criminale; ma, in realtà, da questo punto di vista l’argomento non regge, perché non si può ragionare in termini statistici, ma di valutazione individualizzante; tutto sommato, invece, nella prassi si trattano, in modo del tutto sganciato dalla realtà, più i titoli di reato che i singoli fatti ed autori, come dovrebbe avvenire in una prospettiva di prevenzione speciale. Naturalmente, si tengono fermi l’autonomia valutativa del magistrato di sorveglianza e il ruolo dei rilievi del procuratore nazionale e distrettuale antimafia che attestino l’attualità dei collegamenti.
Nonostante tutti quegli ostacoli, è importante il passo avanti che la Corte costituzionale effettua con l’ampliare il campo a tutti i reati e agli autori contemplati dall’art.4-bis, facendo riferimento a scelte di politica criminale non coordinate e accomunate solo da una volontà repressiva, adottate in risposta a fenomeni criminali di volta in volta emergenti, con cui si è esteso l’art. 4-bis ad una serie di reati eterogenei; affermazione, questa, del tutto condivisibile.
Tuttavia, sul punto, la Corte si contraddice, successivamente, nell’ordinanza n. 97/2021.
La Corte di Cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt.3, 27 co.3 e 117 co.1 Cost., questione di legittimità degli artt.4-bis, 58-ter ord.penit. e dell’art. 2 d.l. 13 maggio 1991, n.152, conv. con modif. in l. n.203/1991, nella parte in cui escludono che possa essere ammesso alla liberazione condizionale il condannato all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art.416-bis ovvero al fine di agevolare le associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia. Questa disciplina restrittiva viene valutata sulla base di argomenti già sviluppati sia nella sentenza Viola contro Italia sia nella precedente decisione della Corte cost. n.253/2019. Cioè, secondo la Cassazione, se ricorrono elementi sintomatici di un possibile ravvedimento, è evidente che essi possono servire a superare la presunzione assoluta di pericolosità. Quindi, aggiunge la Corte, intanto la disciplina dell’ergastolo si mantiene compatibile con la Costituzione, in quanto ai condannati sia concessa la possibilità di ottenere il beneficio della liberazione condizionale; e fa riferimento ancora alla sentenza Viola, che pretende, sul piano della compatibilità dell’ergastolo con il divieto di trattamenti disumani o degradanti, l’esistenza di strumenti per la cessazione di una pena originariamente inflitta per la vita intera, in presenza di significativi passi avanti nel trattamento penitenziario. Secondo la Cassazione, dunque, effettivamente ci sono tutti i presupposti, sia nella Costituzione, sia nella CEDU, perché venga dichiarata l’incostituzionalità delle norme richiamate nella sua ordinanza.
La Corte costituzionale decide in base ad argomentazioni che ripetono quelle già svolte nella sent. n.253/2019; fa riferimento all’evoluzione della legislazione, citando la l. 25 novembre 1962, che concede la possibilità della liberazione condizionale e ai successivi allentamenti della disciplina, come l’applicabilità della liberazione anticipata, come viatico per raggiungere qualcosa che sembrerebbe, nella decisione della Corte costituzionale un esito più o meno irreversibile, cioè l’abolizione dell’ergastolo. Ma, come abbiamo visto, così non è!
Certo, la Corte ha fatto giustizia di una precedente decisione, 135/2003, che grida vendetta per la sua inconsistenza argomentativa ed assiologico-normativa. In essa la Corte aveva affermato che l’adesione o meno alla collaborazione era una libera scelta del condannato, senza tener conto che questa ‘libera scelta’ può essere condizionata dai gravi pericoli che può comportare per sé e per i propri familiari. Inoltre, viene ignorato il caso di chi sia innocente, e pur condannato, e dunque non abbia alcun modo di collaborare, a meno di inventarsi qualcosa; e qui la vicenda Scarantino ancora docet.
Ammettendo, ora, la possibilità di superare la presunzione legata alla mancata collaborazione, la Corte apre alla possibilità di tener conto di percorsi diversi di reinserimento, relativi ad un ravvedimento, per quel che è possibile verificare attraverso un’osservazione durata molti anni, perché si fa riferimento a persone che hanno scontato 26 anni. Percorsi ben più verificabili rispetto a quelli della collaborazione, che, come abbiamo visto, può avere un valore addirittura criminogeno e può essere meramente strumentale.
La Corte, a questo punto, richiede criteri particolarmente rigorosi, che pur apprezzando la decisione, lasciano perplessi. Sarebbe stato opportuno che la Corte si fosse diffusa in ordine alla rigorosità del processo di integrazione sociale, agli elementi di valutazione, mentre l’argomentazione sembra un po’ generica; come pure quella relativa ad una decisione non demolitoria, laddove la Corte rinvia al legislatore la gestione dell’incostituzionalità della normativa. Qui non si può essere d’accordo, in primo luogo perché compito della Corte costituzionale è lo scrutinio di conformità o difformità a Costituzione; la Corte non può avere obblighi o preoccupazioni politiche, tant’è vero che in molte decisioni che avevano a che fare con l’offensività o la sussidiarietà la Corte teneva a precisare di non poter entrare nel merito di quelle scelte, perché questo era compito della politica. Ma anche qui, allora, bisognava astenersi dall’entrare in politica, per così dire, affermando che il legislatore potrebbe attrezzarsi per individuare dei rimedi adatti a coloro che sono stati liberati senza aver collaborato. E dunque, la Corte, riprendendo le impeccabili argomentazioni utilizzate nella sent. n. 253/2019, in virtù dei propri poteri officiosi ex art.27 l. 11 marzo 1953, n.87, avrebbe dovuto estendere in una sentenza di accoglimento, e non in una anodina ordinanza, gli effetti della sacrosanta decisione sia alla normativa relativa ai condannati all’ergastolo per reati non riconducibili al contesto mafioso, sia a quella relativa ai condannati a pene temporanee per uno o più dei delitti elencati nell’art.4-bis ord. penit.
In ogni caso, la richiesta di rimedi al legislatore che avrebbe giustificato la portata ‘non demolitoria’ della decisione in effetti appare assolutamente incongrua. In realtà, i rimedi sono ben noti: da un lato, la valutazione del lungo percorso carcerario secondo parametri usualmente adoperati ai fini della liberazione; dall’altro, dopo la liberazione, la libertà vigilata, che ha uno spettro applicativo vastissimo, dipendente proprio dalla individualità del soggetto, dalle circostanze, dal tempo e così via. Quindi, non si comprende quale altro strumento dovrebbe tirar fuori il legislatore che non sia l’attenta valutazione di un lungo percorso di recupero sociale e un’intelligente applicazione della libertà vigilata, un rimedio, per come è conformabile, che risponde adeguatamente a svariate esigenze concrete.
La Corte, dunque, perviene ad una decisione apprezzabile, ma manifesta una prudenza eccessiva; e, come afferma l’Inquisitore, è nel dettaglio che si nasconde il diavolo. La presunzione, infatti, resta: perché è bene ribadire che, secondo la Corte, per i casi di dimostrati e persistenti legami del detenuto con il sodalizio criminale originario, l’ordinamento penitenziario appresta apposito regime all’art.41-bis ord. penit. Dunque, finché opera tale disposizione sussiste la presunzione di pericolosità. Ciò è paradossale, perché sulla base di un giudizio ex ante il soggetto viene presupposto come collegato attualmente alla criminalità organizzata e a ben vedere la valutazione di pericolosità attiene di regola a condotte tenute prima della condanna. L’atteggiamento processuale rappresenta un dato storicizzato, estraneo alla dinamica della fase esecutiva; esso può essere condizionato dall’esito delle indagini o dalla condotta dei coimputati, ad esempio, ma è altra cosa rispetto al percorso che si avvia e prosegue nella fase esecutiva.
La miscela di carcere duro e art.4-bis ord. penit. dovrebbe, in un contesto di risocializzazione, di conformità a Costituzione, sparire. Certamente, senza cedimenti nel contrasto di una pericolosità davvero attuale del soggetto; ma esistono possibilità e forme di controllo che non giungano fino ai limiti della tortura, come nel caso della riduzione a due delle ore d’aria, o della limitazione del diritto a ricevere libri, o di altre restrizioni che non hanno a che vedere con legittime esigenze di sicurezza, a tacer d’altro!
Volendo tirare le somme, un problema è sicuramente l’art.41-bis ord.penit., un problema è sicuramente l’art.4-bis ord.penit., un problema è sicuramente la coazione a collaborare; ma il vero problema è l’ergastolo, l’ergasterion, questa chiusura in luoghi anche fatiscenti, incompatibile con la Costituzione, specialmente con gli artt.2 e 27 co.3 Cost.
Sull’ergastolo, una verità la disse Carrara (Frammento sulla pena di morte, in Opuscoli di diritto criminale, vol. V, Lucca 1874, p. 61 ss.), che si batté ardentemente contro la pena di morte e a favore dell’ergastolo, con un argomento che a me è parso addirittura l’unico spendibile a favore della pena di morte! Carrara, in sintesi, affermava che la pena di morte costituisse un esito molto favorevole per il condannato, che in un attimo si libera della sofferenza; mentre l’ergastolo, per noi cristiani – prosegue Carrara – significa soffrire, pagare giorno per giorno tutte le proprie colpe fino alla fine della vita. Aveva ragione, ma tutto questo, almeno per noi laici, è qualcosa di contrario alla natura umana, è orribile!
Vi sono Paesi come il Portogallo che prevedono un massimo di 20 anni di pena detentiva. Certo, si obietterà che la nostra realtà è diversa, tenendo conto della criminalità organizzata. Ma non è l’ergastolo a trattenere dalla commissione di reati: quest’ultima è una variabile indipendente dalla misura della pena. Quindi, quanto all’ergastolo, non resta che abolirlo.
Purtroppo questa ordinanza della Corte rappresenta, al di là di contenuti anche apprezzabili, una importante occasione mancata, un grave incidente di percorso, almeno per due motivi: da un lato, perché pur riconoscendo l’incostituzionalità della normativa in esame, la Corte si assume la responsabilità di rinviare, nella migliore delle ipotesi, di un anno l’avvio di un percorso di libertà per chi ne avrebbe diritto e, dall’altro, si affida ad un legislatore che, attualmente, non pare avere molto a cuore le ragioni dello stato di diritto, e che potrebbe rendere ancora più ardua la via dell’abolizione delle norme in questione: le prime, sconfortanti avvisaglie sembrano confermare queste sensazioni.
In conclusione, la Corte costituzionale ha scritto, a mio avviso, una pagina della sua storia di cui certo non potrà essere orgogliosa.
L’ergastolo e le sue varianti
Aldo Moro, da retribuzionista puro, definisce l’ergastolo “fatto agghiacciante, crudele e disumano non meno di quanto lo sia la pena di morte” e sull’esercizio del potere punitivo afferma che “deve essere ben controllato, per non farsi condurre ad immaginare che la pena sia considerata una vendetta e quando si dice pena perpetua si dice una cosa […] umanamente non accettabile. Ci si può anzi domandare se, in termini di crudeltà, non sia più crudele una pena che conserva in vita, privando questa vita di tanta parte del suo contenuto, che non una pena che tronca, sia pur crudelmente, disumanamente, la vita del soggetto, che libera di quella sofferenza quotidiana, di quella mancanza di rassegnazione o di quella rassegnazione che è uguale ad un abbrutimento, caratteristica della pena perpetua” (Lezioni di diritto penale (1976), a cura di F. Tritto, Bari 2005, pp.115-117).
E, come vedremo, sono in tanti gli ergastolani che tuttora conducono fino alla fine la loro esistenza in queste condizioni.
Ergastolo deriva dal greco ergasterion, casa di lavoro. Generalmente un locale sotterraneo dove venivano rinchiusi gli schiavi e i condannati ai lavori forzati. Da questo punto di vista era la forma più schiavizzante, disumanizzante di lavoro.
Teniamo conto di questo dato, perché per tanti versi questo giudizio degradante resta. In tempi recenti – parliamo di un paio di secoli fa – l’ergastolo è diventato una sanzione largamente sostitutiva della pena di morte per l’omicidio, ma anche, attenzione, per il falso in moneta o per i furti reiterati. Quindi, c’è sempre, rispetto alla gravità dei fatti, un giudizio di tipo politico, occasionato dai rapporti di potere.
D’altronde, facendo riferimento alla fisica quantistica, quella che vede gli elementi e gli stessi atomi solo in senso relazionale, non ‘atomisticamente’, così avviene anche per le scienze dell’uomo: è possibile vedere le cose atomisticamente, o ontologicamente, rispetto ad un punto di vista sovraordinato, preferenziale, come può essere in una concezione teologica, oppure, al contrario, in relazione gli uni agli altri, ossia indagando su un concreto oggetto sempre relazionato al contesto degli altri elementi che vengono a dar vita in quella forma e in quel momento ad un certo istituto. L’ergastolo dobbiamo vederlo in un contesto relazionale, il che vuol dire, tradotto in termini a noi più vicini, da un punto di vista sistematico, con l’adozione del metodo proprio delle scienze normative, cioè della praticabilità dell’elaborazione concettuale e della sua riconduzione all’ordo dei principi. Non è la pura e semplice natura o nozione del concetto che interessa, ma un giudizio relazionale. Nella scienza giuspenalistica non possono esservi verità rivelate o ipse dixit, ma tutti i fenomeni che hanno a che fare con la relazionalità vanno visti nel contesto relazionale, seguendo le regole del metodo relazionale.
Questa importante premessa ci serve a comprendere determinate norme, determinate decisioni, con una reductio ad unum, partendo da quei presupposti che abbiamo dato per esistenti e che, in campo giuridico lo sono: i principi, laddove assumono la configurazione di norme, diventano essi stessi norme.
Nel Regno di Napoli l’ergastolo fu introdotto nel 1819, come superamento della pena dei ferri in vita e per il cumulo dei lavori forzati derivanti dall’antica galera. Laddove si sarebbe arrivati all’esito della pena di morte, si iniziò a considerarlo come un sostitutivo. Ma un sostitutivo può essere visto come un miglioramento o un peggioramento. Nel codice penale del 1930 l’ergastolo è disciplinato in generale all’art.22, ed è previsto per ventisette fattispecie, da quella relativa al cittadino che porta le armi contro lo Stato italiano alle intelligenze con lo straniero seguite da ostilità, allo spionaggio, al disfattismo politico, all’attentato alla vita e all’incolumità del Presidente, al sequestro di persona a scopo di terrorismo ed eversione seguito dalla morte, fino a vari casi di omicidio e di sequestro aggravato dalla morte. La disciplina del codice Rocco era in un certo senso migliorativa rispetto a quella del codice Zanardelli: quest’ultimo prevedeva pure l’isolamento per sette anni, che nella Relazione al codice del 1930 veniva vista come una pena eccessivamente crudele, tant’è che l’isolamento venne previsto come aggravante. Colpisce la ‘mitezza’ del codice Rocco in questo caso, perché generalmente orientato in senso intimidativo-deterrente.
Com’è noto, una legge del 1962 (25 novembre, n.1634) ha poi consentito la liberazione condizionale del condannato dopo aver scontato 28 anni di pena, ridotti a 26 dalla legge Gozzini del 1986, qualora il condannato stesso abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il ravvedimento. Dopo venti anni è possibile, ex art.50 l. n. 663/1986, l’applicazione della semilibertà in relazione ai progressi compiuti, nonché la liberazione anticipata.
Vi è inoltre una giurisprudenza costituzionale tendente ad attutire la portata drammatica, che Moro definiva inumana, dell’ergastolo. Segnalo anche la sentenza n.168/1994 della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittima l’applicazione dell’ergastolo ai minorenni. Tuttavia, fin dalla sentenza n.264/1974 la Corte costituzionale, all’interno di una visione polifunzionale della pena, in cui fa riferimento espresso a retribuzione, prevenzione generale, emenda, ha ritenuto l’ergastolo conforme a Costituzione, perché consente di reinserire socialmente il condannato qualora la sua condotta sia valutata positivamente; e tale posizione è stata confermata nelle altre pronunce successive. Qui ritengo vi sia una fallacia del ragionamento, perché in realtà si dice che l’ergastolo sarebbe incostituzionale se non desse spazio alla libertà, se non la rendesse possibile. Ma il riferimento alla sola possibilità sta a significare che il giudizio è comunque negativo rispetto ad una pena che tolga per sempre la libertà ad un soggetto, che sancisca il fine pena mai. Allora, si dovrebbe capovolgere il ragionamento, nel senso di affermare che l’ergastolo, di per sé, è contrario alla Costituzione nella misura in cui può dar luogo ad un fine pena mai, e questo accade, come vedremo, molto frequentemente. Tutte le possibilità di liberazione astrattamente previste, se guardiamo ai dati recenti, nella prassi non è che abbiano una diffusività tale da far ritenere eccezionale l’ergastolo. Allora, già nel ragionamento della Corte nel 1974 a mio parere vi è una contraddizione in termini, perché si usa l’argomento della possibile libertà per rendere conforme a Costituzione l’ergastolo. Ma se l’argomento è la possibile libertà, allora vuol dire che, laddove questa non dovesse esservi, l’ergastolo è incostituzionale.
Cerchiamo di capire, partendo dalla polifunzionalità della pena, l’iter argomentativo della Corte costituzionale. Essa fa riferimento anzitutto alla prevenzione generale intimidatrice, poi alla retribuzione; e potrebbe anche far riferimento alla prevenzione speciale negativa. Sono tutte concezioni della pena sicuramente presenti nel dibattito penalistico, si potrebbe dire da sempre. Però, ecco, qui ritorna il concetto relazionale, quantistico. È vero che sono presenti; ma nel contesto ordinamentale vigente, all’interno e in relazione al quale dev’essere agita una funzione della pena legittimamente perseguibile, già il riferimento alla prevenzione generale negativa significa l’inflizione, per fini di intimidazione generale, di una sanzione particolarmente dura, che, per definizione, va al di là della proporzione, perché deve costituire, come diceva Feuerbach, un deterrente rispetto all’utilità che deriva dalla commissione del reato. Ora, questo è un ragionamento che dal punto di vista della psicologia criminale è totalmente sballato, perché chi delinque ritiene, a torto o a ragione, di non essere acciuffato; vi è, inoltre, una categoria di autori che si disinteressa completamente della pena prevista dalla legge, come quella dei delinquenti per convinzione. Dal punto di vista normativo, un surplus di sanzione significa violare l’art. 27 co.1 Cost., perché viene inflitto per stornare il pericolo di un fatto illecito altrui, in violazione della personalità della responsabilità penale. Quindi, all’interno della Costituzione non vi è spazio per la prevenzione generale negativa, tanto più che la Carta costituzionale all’art. 27 co.3 si esprime chiaramente. Quindi, se la Corte costituzionale argomenta in chiave di prevenzione generale negativa, usa un argomento contrario a Costituzione.
Considerazioni analoghe valgono in rapporto alla teoria retributiva, sostenuta e molto praticata, ma che nel contesto costituzionale non può essere accolta, perché l’espiazione può avvenire in un attimo o non avvenire mai, cosa che non sappiamo, né possiamo sapere. Inoltre, il castigo presuppone la libertà di scelta, che neppure i più arditi teologi, come Anselmo d’Aosta o Guglielmo d’Occam sono riusciti a dimostrare. Ma quand’anche vi fosse la prova della libertà del volere, siamo sicuri che l’ambiente non abbia alcun tipo di influenza? Immaginare questo fa sorridere. La retribuzione, dunque, non è accettabile, perché è contraria agli artt. 19 e 21, in quanto si fonda su un punto di vista etico, laddove la pena può fondarsi solo su punti di vista condivisi da consociati, e poi perché l’art.27 co.3 non fa riferimento alla retribuzione.
I conti, allora, vanno fatti con la rieducazione. Potrebbe esservi una sorta di compatibilità della rieducazione con la retribuzione, ed è stata addirittura sostenuta da Bettiol, che afferma: “C’è invero una rieducazione interiore dell’uomo, una conversione dal male al bene che trova nell’isolamento la condizione adatta al suo manifestarsi e al suo consolidarsi in termini di spiritualità” (Sulle massime pene: morte ed ergastolo (1956), in Scritti giuridici, Tomo II, Padova 1966, p.91). Quindi, per chi è credente, è possibile una ricostruzione spirituale della personalità nel raccoglimento; l’emenda eleva spiritualmente il soggetto. Ma questo, anzitutto, vale solo per chi crede in un’entità superiore con cui riconciliarsi mediante l’ergastolo; fondare su un tale assunto l’ergastolo costituisce quindi una violazione della libertà di religione o di opinione, perché la pena statuale è una coazione, e non si può costringere una persona ad elevarsi moralmente, in quanto la morale è autonoma, mentre il diritto è eteronomo. Inoltre, gli artt. 19 e 21 Cost. garantiscono libertà di opinione, di Weltanschauung, di religione.
Si dovrà dunque attribuire alla rieducazione un significato diverso dall’emenda. Per intendere la rieducazione, poste quelle norme, dobbiamo chiedere soccorso all’art.3 co.2 Cost., che sancisce quale compito della Repubblica l’eliminazione degli ostacoli che si oppongono alla partecipazione dei singoli alla vita sociale, senza escludere i detenuti: perché quando la Costituzione vuol porre delle esclusioni lo fa espressamente. Vi è inoltre un principio di dignità deducibile agevolmente dall’art.2, 3, 32, 41 co.2 Cost.; dunque, anche se meno direttamente che nella CEDU, vi è un riferimento alla dignità umana nella Costituzione. Per rieducazione bisogna dunque intendere l’apprestamento di quei mezzi che consentano la partecipazione alla vita sociale, il che vuol dire socializzazione per chi non è mai stato socializzato e risocializzazione o integrazione sociale per gli altri.
Se abbiamo questa griglia di principi, di argomenti e di opzioni metodologiche, cioè del confronto con le norme che consentano la praticabilità degli istituti in coerenza, allora l’ergastolo non ha una legittimità costituzionale, se quelle sono le funzioni perseguibili e non la polifunzionalità. Non si può dire disinvoltamente, come fa la Corte costituzionale, che bisogna tener conto di prevenzione generale e retribuzione, oltre che della rieducazione. Al contrario, non ne dobbiamo e non ne possiamo tener conto. Ciò che emerge è la contrarietà di principio a Costituzione dell’ergastolo.
Si sostiene, però, che, l’ergastolo in realtà non esiste più; ma il Garante nazionale dei detenuti dimostra, dati alla mano (Amicus curiae alla Corte Costituzionale, 8 settembre 2020), che negli ultimi tre anni solo il 7 % dei condannati all’ergastolo è stato liberato. Quindi, il restante 93 % rimane in ergastolo. Attenzione, allora, alle sirene della liberazione condizionale e della semilibertà. Un gran numero di ergastolani muore in carcere. Quindi, l’ergastolo di per sé è incostituzionale, perché viola l’art.27 co.3 Cost., viola il principio di dignità, viola la stessa idea di convivenza secondo principi costituzionali.
A questo punto, secondo il canone algebrico per cui il più contiene il meno, si potrebbe concludere il discorso, senza parlare dell’ergastolo ostativo. Ma andiamo avanti.
Rispetto a questo stato di cose, vi sono segnali, correnti di pensiero che magari anche in modo contraddittorio portano ad un esito di superamento dell’ergastolo. Stuart Mill saggiamente afferma: “Tutta quanta la storia del progresso sociale è stata una serie di transizioni, per cui una usanza, od una istituzione dopo l’altra, dall’essere prima supposta una necessità primaria dell’esistenza sociale, è passata al grado di ingiustizia e di tirannia stimmatizzata dall’universale” (Utilitarismo, Torino 1866, pp.150-151).
Nel tempo vi erano state le prese di posizione di illuminati penalisti come Pietro Nuvolone (Norma penale e principi costituzionali, in Giur. cost. 1956, p.253 ss.) e Francesco Carnelutti (La pena dell’ergastolo è costituzionale?, in Riv. dir. proc. 1956, p.1 ss.), che puntavano anche sull’argomento dell’errore giudiziario, argomento ora sparito dal dibattito, ma attuale: non si tratta di tantissimi casi, ma ne basta uno per comprendere che l’idea di pena perpetua non deve avere cittadinanza in uno stato di diritto. E sicuramente come ‘apostolo’ abolizionista dell’ergastolo va citato Emilio Dolcini per gli innumerevoli, preziosi contributi in materia.
Qualcosa si è cominciato a muovere in rapporto all’ergastolo ostativo, che deriva dal combinato disposto degli artt. 4-bis e 58-ter ord.penit. e dell’art. 2 d.lgs. n. 152/1991, conv. con modif. in l. n.203/1991. L’art.4-bis riguarda il divieto di concessione di benefici per i condannati di taluni delitti. Nel co.1-bis si prevede che la liberazione condizionale non possa essere concessa finchè vi siano elementi tali da far ritenere collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica e così via, e per tutta una serie di altri reati.
In direzione di un orientamento, recente, di maggior aderenza ai valori/principi costituzionale in materia vi è stato un intervento della Corte costituzionale, sent. n. 149/2018, che ha dichiarato illegittimo l’art.58-quater ord. penit., secondo cui gli autori dei delitti di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di estorsione che abbiano cagionato la morte della persona sequestrata non potevano essere ammessi ad alcuno dei benefici se non avevano espiato almeno i due terzi della pena. Poi vi è stata una sentenza della CEDU del 13 giugno 2019, Viola contro Italia, su cui è tornata la Corte di Cassazione per la sua ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale. Successivamente alla sentenza Viola vi è stata anche una sentenza della Corte cost., n. 253 /2019, in tema di concessione di permessi premio. Grossomodo, gli argomenti della Viola e della 253/2019 sono stati alla base della recente ordinanza Corte cost. n. 97/2021.
Nel caso Viola, il ricorrente lamentava la violazione della dignità in rapporto al reinserimento ed al recupero della libertà di un condannato all’ergastolo ostativo che non collabora con la giustizia, ovvero non accusa né si autoaccusa. All’art.4-bis ord. penit. è prevista una presunzione assoluta di pericolosità del soggetto che non potrebbe essere vinta se non dalla collaborazione. La Corte EDU, invece, ritiene legittima la pretesa della collaborazione, ma spinge per una preferibile iniziativa legislativa per una riforma dell’art.4-bis che cerchi aliunde, in modo diverso, di valorizzare altre caratteristiche della personalità, diverse dalla pura e semplice collaborazione, indicative della mancanza di pericolosità del condannato.
Il problema è che vi è un’eccessiva enfatizzazione del valore della collaborazione, sia nella sentenza Corte EDU nel caso Viola, sia nella giurisprudenza costituzionale. Si afferma che essa sia sintomo di mancanza di pericolosità, ma essa può essere, al contrario, una strategia, o, peggio ancora, può essere estorta: illuminante il caso della ‘collaborazione guantanamera’ di Scarantino a proposito del processo per l’attentato a Borsellino e alla sua scorta che tanti danni ha arrecato all’accertamento della verità e, soprattutto, ai diritti fondamentali di tante persone. Come saggiamente ammoniva Mario Pagano “niuna fede merita quel reo che dalla impunità allettato altri per suoi compagni addita, perciocchè la impunità comprandosi a prezzo della denuncia de’ delitti e de’ complici, sovente il reo cerca la sua saggezza, fingendo delitti ed immaginando complici, non altrimenti che quegli che dee procacciarsi il vivere, spende la falsa, se non ha la vera moneta (Teoria delle prove (1786), in appendice a Principj del codice penale Milano 1803, cap XIII, pp.149-150)
Occorre, inoltre, tener conto che sul piano generale la Corte EDU non è contraria all’ergastolo – come pure la Corte costituzionale – ma ritiene che la pena debba essere riducibile, altrimenti si lascia il reo senza speranza, ovvero senza possibilità di inserimento. Considerazioni giuste, nel caso Kafkaris come in quello Vinter, ove si afferma che l’art. 3 CEDU esige che le pene siano riducibili, ossia tali da permettere all’autorità di verificare i progressi del condannato. Il condannato ha diritto di sapere fin dall’inizio dell’esecuzione della pena della possibilità di una eventuale liberazione e delle relative condizioni. Ha il diritto di conoscere il momento in cui il riesame della sua pena avrà luogo o potrà essere richiesto. Inoltre, deve essere assicurato che, in caso di esito positivo, il condannato possa tornare in libertà, ed infine il provvedimento dev’essere corredato da una motivazione e dev’essere prevista la possibilità di ricorso giurisdizionale. Tuttavia, il riferimento all’esito positivo comporta che la Corte EDU non sia in generale contro la perpetuità della pena, in caso di esito negativo.
La Corte costituzionale, nella sentenza n.253/2019, relativa a reati ostativi e permessi premio, anticipa gli argomenti impiegati nell’ordinanza n.97/2021, affermando che la decisione valga per tutti i reati compresi nel co.1 dell’art.4-bis ord.penit.; la disposizione viene dichiarata incostituzionale nella parte in cui richiede la collaborazione processuale come condizione per l’accesso ai permessi premio, perché la presunzione di pericolosità viene vista quale relativa, cioè da superare se il magistrato di sorveglianza ha acquisito elementi tali da escludere che il detenuto abbia collegamenti con l’associazione criminale o che vi sia il pericolo del ripristino di questi collegamenti. Quindi, la presunzione dev’essere vincibile attraverso la valorizzazione dei percorsi di risocializzazione.
Peraltro, viene da chiedersi, incidentalmente, che cosa si intenda per tali percorsi, visto che lavoro, studio, altre attività intramurarie si vedono con il lumicino nelle patrie galere. Ricordo, ad esempio, una visita presso il carcere di Rossano, in Calabria, ove erano detenuti un gran numero di ergastolani; ci fu mostrata una splendida manifattura di ceramica, che, però, occupava quattro detenuti sui trecento presenti in occasione del Convegno in carcere. Mi piacerebbe che la Corte costituzionale, che si apre a considerazioni quasi di tecnica risocializzante, spendesse qualche parola in relazione alla realizzazione di condizioni effettive perché un percorso di risocializzazione venga favorito.
La Corte afferma che l’incostituzionalità, per contrasto con i principi di ragionevolezza e risocializzazione, della presunzione invincibile va estesa a tutti i reati compresi nel primo comma dell’art.4-bis ord.penit., ben oltre l’associazione di tipo mafioso, ed anche ai reati per cui è prevista una pena diversa dall’ergastolo salvo poi dimenticarsene nell’ordinanza n. 97/2021. Ed opportunamente asserisce che, al di là del problema dell’ergastolo ostativo, è la presunzione in sé ad essere illegittima, perché è corretto premiare chi collabora, ma non è ammissibile punire ulteriormente chi non collabora. Da questo punto di vista la Corte ribadisce la necessità della verifica da parte del magistrato di sorveglianza del chiaro percorso di reinserimento.
Essa afferma anche che una generalizzazione a base statistica consente di rilevare che la mancata collaborazione sia sintomo di attualità dei collegamenti con il sodalizio criminale; ma, in realtà, da questo punto di vista l’argomento non regge, perché non si può ragionare in termini statistici, ma di valutazione individualizzante; tutto sommato, invece, nella prassi si trattano, in modo del tutto sganciato dalla realtà, più i titoli di reato che i singoli fatti ed autori, come dovrebbe avvenire in una prospettiva di prevenzione speciale. Naturalmente, si tengono fermi l’autonomia valutativa del magistrato di sorveglianza e il ruolo dei rilievi del procuratore nazionale e distrettuale antimafia che attestino l’attualità dei collegamenti.
Nonostante tutti quegli ostacoli, è importante il passo avanti che la Corte costituzionale effettua con l’ampliare il campo a tutti i reati e agli autori contemplati dall’art.4-bis, facendo riferimento a scelte di politica criminale non coordinate e accomunate solo da una volontà repressiva, adottate in risposta a fenomeni criminali di volta in volta emergenti, con cui si è esteso l’art. 4-bis ad una serie di reati eterogenei; affermazione, questa, del tutto condivisibile.
Tuttavia, sul punto, la Corte si contraddice, successivamente, nell’ordinanza n. 97/2021.
La Corte di Cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt.3, 27 co.3 e 117 co.1 Cost., questione di legittimità degli artt.4-bis, 58-ter ord.penit. e dell’art. 2 d.l. 13 maggio 1991, n.152, conv. con modif. in l. n.203/1991, nella parte in cui escludono che possa essere ammesso alla liberazione condizionale il condannato all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art.416-bis ovvero al fine di agevolare le associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia. Questa disciplina restrittiva viene valutata sulla base di argomenti già sviluppati sia nella sentenza Viola contro Italia sia nella precedente decisione della Corte cost. n.253/2019. Cioè, secondo la Cassazione, se ricorrono elementi sintomatici di un possibile ravvedimento, è evidente che essi possono servire a superare la presunzione assoluta di pericolosità. Quindi, aggiunge la Corte, intanto la disciplina dell’ergastolo si mantiene compatibile con la Costituzione, in quanto ai condannati sia concessa la possibilità di ottenere il beneficio della liberazione condizionale; e fa riferimento ancora alla sentenza Viola, che pretende, sul piano della compatibilità dell’ergastolo con il divieto di trattamenti disumani o degradanti, l’esistenza di strumenti per la cessazione di una pena originariamente inflitta per la vita intera, in presenza di significativi passi avanti nel trattamento penitenziario. Secondo la Cassazione, dunque, effettivamente ci sono tutti i presupposti, sia nella Costituzione, sia nella CEDU, perché venga dichiarata l’incostituzionalità delle norme richiamate nella sua ordinanza.
La Corte costituzionale decide in base ad argomentazioni che ripetono quelle già svolte nella sent. n.253/2019; fa riferimento all’evoluzione della legislazione, citando la l. 25 novembre 1962, che concede la possibilità della liberazione condizionale e ai successivi allentamenti della disciplina, come l’applicabilità della liberazione anticipata, come viatico per raggiungere qualcosa che sembrerebbe, nella decisione della Corte costituzionale un esito più o meno irreversibile, cioè l’abolizione dell’ergastolo. Ma, come abbiamo visto, così non è!
Certo, la Corte ha fatto giustizia di una precedente decisione, 135/2003, che grida vendetta per la sua inconsistenza argomentativa ed assiologico-normativa. In essa la Corte aveva affermato che l’adesione o meno alla collaborazione era una libera scelta del condannato, senza tener conto che questa ‘libera scelta’ può essere condizionata dai gravi pericoli che può comportare per sé e per i propri familiari. Inoltre, viene ignorato il caso di chi sia innocente, e pur condannato, e dunque non abbia alcun modo di collaborare, a meno di inventarsi qualcosa; e qui la vicenda Scarantino ancora docet.
Ammettendo, ora, la possibilità di superare la presunzione legata alla mancata collaborazione, la Corte apre alla possibilità di tener conto di percorsi diversi di reinserimento, relativi ad un ravvedimento, per quel che è possibile verificare attraverso un’osservazione durata molti anni, perché si fa riferimento a persone che hanno scontato 26 anni. Percorsi ben più verificabili rispetto a quelli della collaborazione, che, come abbiamo visto, può avere un valore addirittura criminogeno e può essere meramente strumentale.
La Corte, a questo punto, richiede criteri particolarmente rigorosi, che pur apprezzando la decisione, lasciano perplessi. Sarebbe stato opportuno che la Corte si fosse diffusa in ordine alla rigorosità del processo di integrazione sociale, agli elementi di valutazione, mentre l’argomentazione sembra un po’ generica; come pure quella relativa ad una decisione non demolitoria, laddove la Corte rinvia al legislatore la gestione dell’incostituzionalità della normativa. Qui non si può essere d’accordo, in primo luogo perché compito della Corte costituzionale è lo scrutinio di conformità o difformità a Costituzione; la Corte non può avere obblighi o preoccupazioni politiche, tant’è vero che in molte decisioni che avevano a che fare con l’offensività o la sussidiarietà la Corte teneva a precisare di non poter entrare nel merito di quelle scelte, perché questo era compito della politica. Ma anche qui, allora, bisognava astenersi dall’entrare in politica, per così dire, affermando che il legislatore potrebbe attrezzarsi per individuare dei rimedi adatti a coloro che sono stati liberati senza aver collaborato. E dunque, la Corte, riprendendo le impeccabili argomentazioni utilizzate nella sent. n. 253/2019, in virtù dei propri poteri officiosi ex art.27 l. 11 marzo 1953, n.87, avrebbe dovuto estendere in una sentenza di accoglimento, e non in una anodina ordinanza, gli effetti della sacrosanta decisione sia alla normativa relativa ai condannati all’ergastolo per reati non riconducibili al contesto mafioso, sia a quella relativa ai condannati a pene temporanee per uno o più dei delitti elencati nell’art.4-bis ord. penit.
In ogni caso, la richiesta di rimedi al legislatore che avrebbe giustificato la portata ‘non demolitoria’ della decisione in effetti appare assolutamente incongrua. In realtà, i rimedi sono ben noti: da un lato, la valutazione del lungo percorso carcerario secondo parametri usualmente adoperati ai fini della liberazione; dall’altro, dopo la liberazione, la libertà vigilata, che ha uno spettro applicativo vastissimo, dipendente proprio dalla individualità del soggetto, dalle circostanze, dal tempo e così via. Quindi, non si comprende quale altro strumento dovrebbe tirar fuori il legislatore che non sia l’attenta valutazione di un lungo percorso di recupero sociale e un’intelligente applicazione della libertà vigilata, un rimedio, per come è conformabile, che risponde adeguatamente a svariate esigenze concrete.
La Corte, dunque, perviene ad una decisione apprezzabile, ma manifesta una prudenza eccessiva; e, come afferma l’Inquisitore, è nel dettaglio che si nasconde il diavolo. La presunzione, infatti, resta: perché è bene ribadire che, secondo la Corte, per i casi di dimostrati e persistenti legami del detenuto con il sodalizio criminale originario, l’ordinamento penitenziario appresta apposito regime all’art.41-bis ord. penit. Dunque, finché opera tale disposizione sussiste la presunzione di pericolosità. Ciò è paradossale, perché sulla base di un giudizio ex ante il soggetto viene presupposto come collegato attualmente alla criminalità organizzata e a ben vedere la valutazione di pericolosità attiene di regola a condotte tenute prima della condanna. L’atteggiamento processuale rappresenta un dato storicizzato, estraneo alla dinamica della fase esecutiva; esso può essere condizionato dall’esito delle indagini o dalla condotta dei coimputati, ad esempio, ma è altra cosa rispetto al percorso che si avvia e prosegue nella fase esecutiva.
La miscela di carcere duro e art.4-bis ord. penit. dovrebbe, in un contesto di risocializzazione, di conformità a Costituzione, sparire. Certamente, senza cedimenti nel contrasto di una pericolosità davvero attuale del soggetto; ma esistono possibilità e forme di controllo che non giungano fino ai limiti della tortura, come nel caso della riduzione a due delle ore d’aria, o della limitazione del diritto a ricevere libri, o di altre restrizioni che non hanno a che vedere con legittime esigenze di sicurezza, a tacer d’altro!
Volendo tirare le somme, un problema è sicuramente l’art.41-bis ord.penit., un problema è sicuramente l’art.4-bis ord.penit., un problema è sicuramente la coazione a collaborare; ma il vero problema è l’ergastolo, l’ergasterion, questa chiusura in luoghi anche fatiscenti, incompatibile con la Costituzione, specialmente con gli artt.2 e 27 co.3 Cost.
Sull’ergastolo, una verità la disse Carrara (Frammento sulla pena di morte, in Opuscoli di diritto criminale, vol. V, Lucca 1874, p. 61 ss.), che si batté ardentemente contro la pena di morte e a favore dell’ergastolo, con un argomento che a me è parso addirittura l’unico spendibile a favore della pena di morte! Carrara, in sintesi, affermava che la pena di morte costituisse un esito molto favorevole per il condannato, che in un attimo si libera della sofferenza; mentre l’ergastolo, per noi cristiani – prosegue Carrara – significa soffrire, pagare giorno per giorno tutte le proprie colpe fino alla fine della vita. Aveva ragione, ma tutto questo, almeno per noi laici, è qualcosa di contrario alla natura umana, è orribile!
Vi sono Paesi come il Portogallo che prevedono un massimo di 20 anni di pena detentiva. Certo, si obietterà che la nostra realtà è diversa, tenendo conto della criminalità organizzata. Ma non è l’ergastolo a trattenere dalla commissione di reati: quest’ultima è una variabile indipendente dalla misura della pena. Quindi, quanto all’ergastolo, non resta che abolirlo.
Purtroppo questa ordinanza della Corte rappresenta, al di là di contenuti anche apprezzabili, una importante occasione mancata, un grave incidente di percorso, almeno per due motivi: da un lato, perché pur riconoscendo l’incostituzionalità della normativa in esame, la Corte si assume la responsabilità di rinviare, nella migliore delle ipotesi, di un anno l’avvio di un percorso di libertà per chi ne avrebbe diritto e, dall’altro, si affida ad un legislatore che, attualmente, non pare avere molto a cuore le ragioni dello stato di diritto, e che potrebbe rendere ancora più ardua la via dell’abolizione delle norme in questione: le prime, sconfortanti avvisaglie sembrano confermare queste sensazioni.
In conclusione, la Corte costituzionale ha scritto, a mio avviso, una pagina della sua storia di cui certo non potrà essere orgogliosa.
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