La sent. n. 12759/2023 delle Sezioni unite.
Con la sentenza n. 12759 del 14/12/2023 (depositata in data 28/3/2024) le Sezioni Unite della Cassazione hanno risolto un contrasto interpretativo che si era posto tra le Sezioni semplici in ordine all’effetto prodotto dall’art. 2, comma 1, lett. b) del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, sull’art. 582 cod. pen. (lesioni personali).
Con la c.d. “riforma Cartabia”, come noto, una serie di reati prima procedibili di ufficio sono divenuti procedibili a querela di parte, al dichiarato fine di “decongestionare” il carico degli Uffici giudiziari, evidentemente confidando nella mancata proposizione della querela da parte della persona offesa, nella successiva remissione della stessa nel corso del procedimento o comunque nella possibilità di giungere ad una definizione extragiudiziale del conflitto.
Tra le varie fattispecie su cui ha inciso il d. lgs. n. 150/2022 vi è anche quella di lesioni personali (art. 582 cod. pen.), in relazione alla quale la procedibilità a querela, originariamente limitata a quelle condotte che avessero prodotto una malattia fino a 20 giorni, è stata estesa, in linea generale, alle lesioni sino a 40 giorni, salvo alcune specifiche eccezioni previste.
Il secondo comma dell’art 582 cod. pen., è stato così integralmente riscritto e, mentre prima prevedeva i casi in cui vi era procedibilità a querela di parte, attualmente prevede le ipotesi in cui eccezionalmente il reato è procedibile di ufficio.
Senonché, il mancato coordinamento della disposizione così modificata rispetto alla previsione di cui all’art. 4 del d. lgs. n. 274/2000, che attribuisce al Giudice di pace la competenza per i delitti di cui all’art. 582 cod. pen. “limitatamente alle fattispecie di cui al secondo comma perseguibili a querela di parte”, aveva fatto sorgere un problema interpretativo in ordine all’individuazione di quali reati, dopo la riforma, fossero attribuiti alla competenza del Giudice di pace, dal momento che il “nuovo” comma II dell’art. 582 cod. pen., non prevedeva più alcuna ipotesi di reato “procedibile a querela”.
Le soluzioni astrattamente prospettabili erano essenzialmente tre: a) la prima era quella di ritenere che il Giudice di pace continuasse ad avere competenza per le lesioni fino a 20 giorni, sul presupposto che il contenuto dell’art. 4 d. lgs. n. 274/2000 al momento della sua introduzione restasse inalterato anche a seguito delle successive modifiche dell’art. 582 cod. pen., stante il carattere “fisso” (o recettizio) del richiamo a tale norma; b) altra lettura, fatta propria da una pronuncia della V Sezione della Corte di Cassazione, era invece quella di ritenere che la modifica introdotta dal d. lgs. n. 150/2022 avesse comportato la totale eliminazione della competenza del Giudice di pace in materia di lesioni personali e ciò perché, a prescindere da quale potesse essere stata l’intenzione del legislatore, da un punto di vista testuale la modifica dell’art. 582 II co. cod. pen., senza la contestuale riforma dell’art. 4 del d. lgs. n. 274/2000, di fatto comportava che tale ultima disposizione facesse riferimento ad una categoria di reati ormai inesistente (ovvero i reati previsti dal II comma dell’art. 582 cod. pen., procedibili a querela di parte); c) la terza soluzione, seguita dalla giurisprudenza prevalente, era invece quella di ritenere “estesa” la competenza del Giudice di pace a tutte le ipotesi di lesioni procedibili a querela e, dunque, a tutte quelle comportanti una malattia fino a 40 giorni salvo le eccezioni previste.
La Cassazione, nella sua composizione più autorevole, ha posto in evidenza che un’interpretazione letterale e sistematica delle disposizioni sopra richiamate deve indurre a ritenere che il legislatore del 2000 abbia inteso il riferimento all’art. “582 secondo comma” del codice come mero sinonimo del sintagma “lesioni procedibili a querela” e non come connotato di un’autonoma ed ulteriore valenza precettiva, di talché, dovendosi altresì escludere il carattere “ricettizio” del richiamo all’art. 582 comma II cod. pen. previgente in mancanza di qualsiasi elemento indicativo di tale volontà legislativa, deve necessariamente giungersi alla conclusione che attualmente il Giudice di pace sia competente in relazione a tutte le lesioni personali con malattia fino a 40 giorni, salve le deroghe espressamente previste.
L’abuso del ricorso alla procedibilità “condizionata”
Il ragionamento seguito dalle Sezioni unite appare difficilmente contestabile su un piano tecnico, mentre qualche perplessità può essere avanzata in relazione ad un passaggio della motivazione, in cui si tende ad escludere che l’assetto venutosi a creare per effetto della riforma “Cartabia” non ponga particolari problemi in termini di adeguatezza di tutela.
La massiccia trasformazione della procedibilità dei reati attuata con la riforma “Cartabia” risponde, come si è osservato, eminentemente ad esigenze deflattive e di efficientismo del processo penale, nel solco di una tradizione già in passato utilizzata dal legislatore in termini assai ampi ma evidentemente ritenuti non ancora sufficienti.
Tali obiettivi, per quanto assolutamente apprezzabili, rischiano però di far perdere di vista quale sia il reale vantaggio nell’avere un sistema penale non congestionato ed efficace (al di là delle ragioni prettamente “economiche” legate al raggiungimento degli obiettivi fissati con il Piano nazionale di ripresa e resilienza), ovvero quello di garantire una risposta in termini di “giustizia” più rapida ed efficiente, a vantaggio sia di chi è stato leso da una determinata condotta (ed invero lo scopo primario del diritto penale resta pur sempre quello di tutelare i beni giuridici sottesi alle previsioni incriminatrici) sia dello stesso imputato chiamato a difendersi in un procedimento penale.
Abrogare reati, tanto più se presenti invece in tutte le legislazioni occidentali, come pure renderne più difficoltoso il perseguimento o scoraggiarne la perseguibilità, può certamente ridurre i carichi degli uffici giudiziari ma rischia di condurre ad una risposta di giustizia limitata, insoddisfacente e parziale. Magra consolazione, invero, sarebbe quella di avere un processo penale rapidissimo che tuttavia assicuri tutela solo di pochissimi diritti e solo rispetto alle violazioni più macroscopiche degli interessi che una collettività ha ritenuto meritevoli di protezione.
Numerosi sono stati gli interventi critici in relazione a tale parte della riforma “Cartabia” (soprattutto prima che ad alcune delle incongruenze più evidenti si ponesse rimedio con i decreti correttivi), sottolineandosi in particolare l’eccessivo carico di oneri e responsabilità addossato alla vittima del reato, che il moderno legislatore vorrebbe pervicacemente “combattiva”, non solo nel promuovere l’azione penale, anche per fatti per nulla bagatellari (vincendo le normali resistenze che possono essere legate alla sfiducia verso il sistema giudiziario, ad un personale disinteresse o più spesso al timore di subire ritorsioni in futuro), ma anche di restare salda in tale sua volontà punitiva durante tutto l’arco del procedimento penale (rendendo così ancora più fondato il timore di subire pressioni), senza per di più mai incorrere in condotte valutabili come remissione tacita della querela (come ad es. la mancata partecipazione all’udienza nonostante la sua citazione).
E’ stato altresì correttamente posto in evidenza che una serie di obblighi assunti dal nostro paese con la ratifica di diverse convenzioni internazionali avrebbe dovuto indurre ad una maggiore riflessione in ordine ad una così generale estensione della procedibilità a querela: la Direttiva 2012/29 del Parlamento europeo e del consiglio (che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato), ad esempio, invita tra l’altro gli Stati membri ad “incoraggiare e agevolare la segnalazione di reati e di permettere alle vittime di rompere il ciclo della vittimizzazione ripetuta” al fine di “accrescere la fiducia delle vittime nei sistemi di giustizia penale degli Stati membri e ridurre il numero dei reati non denunciati”.
Ancor più pregnanti sembrano poi gli obblighi derivanti dalla Convenzione di Istambul del Consiglio d’Europa che, pur essendo precipuamente rivolta alla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, contiene alcune di norme di portata più generale, tra cui l’art. 35 (Violenza fisica) che obbliga gli Stati contraenti ad adottare “le misure legislative o di altro tipo necessarie per penalizzare il comportamento intenzionale di chi commette atti di violenza fisica nei confronti di un’altra persona”, richiamato poi dal successivo articolo 55 della medesima Convenzione, il quale raccomanda le Parti contraenti di far sì che “le indagini e i procedimenti penali per i reati stabiliti ai sensi degli articoli 35, 36, 37, 38 e 39 della presente Convenzione non dipendano interamente da una segnalazione o da una denuncia da parte della vittima”.
La procedibilità a querela peraltro, da un lato, determina palesi disparità di trattamento tra condotte delittuose del tutto analoghe ma che ricevono una risposta sanzionatoria di tipo penale (talvolta anche significativa) o non ne ricevono alcuna esclusivamente in base alla presenza o meno di una manifestazione della volontà punitiva da parte del querelante e, dall’altro, sembra negare in radice la dimensione anche collettiva del la sanzione penale, rimettendo all’insindacabile volontà della persona offesa la possibilità di vanificare l’effetto di deterrenza della sanzione e l’esigenza di rieducazione del reo.
Lungi dall’attribuirsi realmente maggiore protezione o rilievo alla posizione della vittima, l’eccessivo ricorso alla procedibilità a querela asseconda in realtà una visione iperindividualista della società, ritagliando in capo alla persona offesa la competenza esclusiva di stabilire, sulla base di valutazioni di pura convenienza, se un determinato comportamento vada o meno perseguito, senza attribuire alcuna considerazione alle esigenze e alle aspettative di protezione da parte della collettività in relazione a future condotte analoghe. In tal modo, tuttavia, viene vanificato l’effetto di prevenzione generale connesso alla minaccia di una sanzione penale, che costituisce invero la più efficace forma di protezione di determinati beni giuridici, quella di prevenirne la lesione.
Appare innegabile, infatti, che controspinta al delitto molto flebile possa accompagnarsi alla consapevolezza, da parte del reo, che nell’ipotetico caso in cui dovesse essere individuato come responsabile di un fatto di reato (eventualità che, in relazione a determinati delitti, costituisce una percentuale che si aggira intorno al 5%), potrebbe sottrarsi al processo penale trovando una forma di accordo con la singola persona offesa o addirittura, anche in mancanza di esso, limitandosi ad offrire il risarcimento del danno cagionato, ottenendo così una declaratoria di estinzione del reato ai sensi dell’art. 162 ter cod. pen.
Si tratta di effetti che, se giustificabili in relazione a condotte marginali e connotate da minima offensività, destano però serie perplessità dinanzi a reati che aggrediscono beni primari della persona e che prevedono l’applicazione di sanzioni penali più elevate.
L’inadeguatezza della competenza del Giudice di pace in rapporto al rilievo del bene tutelato dal reato di lesioni
Se la scelta di estendere la procedibilità a querela per una vasta categoria di reati, anche sanzionati gravemente, si appalesa piuttosto criticabile per le ragioni sopra sinteticamente richiamate, ancor più discutibile, con specifico riferimento al reato di lesioni personali, è la contestuale sottrazione di tale reato alla competenza del Tribunale in favore di quella del Giudice di pace, con tutto ciò che ne consegue in termini di trattamento sanzionatorio applicabile e preclusione del ricorso ad una serie di istituti processuali, tra cui spicca in particolare la possibilità di arresto e l’applicazione di qualsiasi misura cautelare (come noto non contemplati nel processo dinanzi al Giudice di pace).
Onde evitare che la questione venga affrontata su un piano di pura astrazione o con la fredda indifferenza di chi, nello scorrere i dati delle statistiche ministeriali, individui la voce di reato con il più alto numero di pendenze e lo cancelli con un tratto di penna per ottenere il maggiore effetto deflattivo, occorre soffermarsi, almeno minimamente, su quale sia il rilievo attribuibile in una qualsiasi società ed in qualsiasi epoca al bene giuridico della “incolumità individuale” e quale tipo di aggressioni a tale bene si stia facendo riferimento.
Sebbene lo stesso non sia espressamente previsto dalla Costituzione (al pari del bene della “vita”), può ritenersi pacifico che l’incolumità individuale sia tra i beni assolutamente “primari” tutelati dalla nostra Carta, in quanto intimamente connesso alla persona umana, all’integrità della sua sfera non solo fisica ma anche morale, alle possibilità di sviluppo della sua personalità; interessi che costituiscono il centro intorno al quale ruotano tutti gli altri valori costituzionali. Il reato di lesioni personali, del resto, rientra nel novero di quelli che già la penalistica ottocentesca considerava “delitti naturali”, da sempre e ovunque previsti dai sistemi penali.
Il reato di lesioni personali di cui all’art. 582 cod. pen., sanziona appunto un’aggressione a tale bene primario, di tale intensità da tradursi nella causazione di una “malattia”, ovvero, secondo la definizione generalmente seguita in medicina legale “un processo morboso, inteso come sequenza di fenomeni che realizza quel complesso di azioni e reazioni che costituiscono l’organismo in uno stato anormale, essenzialmente caratterizzato da perturbazioni funzionali, associate oppure no a modificazioni anatomiche e a sofferenze subiettive”, ovvero, secondo la definizione corrente in giurisprudenza, una “limitazione funzionale o un significativo processo patologico o l’aggravamento di esso ovvero una compromissione delle funzioni dell’organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa”.
Questo stato di disfunzionalità è ovviamente destinato a protrarsi per un tempo apprezzabile; l’articolo 582 cod. pen., prima della riforma Cartabia, distingueva tra lesioni fino a 20 giorni (procedibili a querela di parte e rientranti nella competenza del Giudice di pace) e lesioni da 21 a 40 giorni (procedibili di ufficio e attribuite alla competenza del Tribunale monocratico).
La distinzione tra le due forme di lesioni, nell’esperienza pratica, è piuttosto significativa perché se le lesioni del primo tipo (c.d. “lievissime”) generalmente si traducono in tumefazioni, ematomi, escoriazioni, distorsioni, piccole infrazioni, ecc. quelle comprese tra i 21 ed i 40 giorni possono comprendere vere e proprie fratture, lacerazioni di legamenti, lesioni muscolari, ecc.
La vicenda sottesa al procedimento poi sfociato nella sentenza delle Sezioni unite, del resto, era stata originata da un banale diverbio tra utenti della strada, all’esito del quale la persona offesa (indicata nello stesso ricorso della difesa dell’imputato come “persona anziana”) era stata violentemente malmenata, riportando “un trauma cranico facciale con ferita del cuoio capelluto, frattura parete laterale del seno mascellare sinistro e frattura del quinto dito della mano sinistra”, lesioni giudicate guaribili in 30 giorni.
Episodi simili, in una società caratterizzata dalla progressiva erosione dei rapporti interpersonali e del senso di empatia verso il prossimo, dalla banalizzazione e spettacolarizzazione della violenza sono purtroppo frequenti.
Sia consentito citare solo due casi, ricavati da fonti di cronaca, ma particolarmente efficaci per testare l’adeguatezza dell’attuale sistema di tutela penale: il 27 luglio 2024 il quotidiano milanese “Il Giorno”, titolava “Terrore per due ragazze: scelte a caso alla fermata del tram e pestate da un picchiatore seriale”. La vicenda riguardava due donne selvaggiamente picchiate a due distinte fermate del tram da parte di uno sconosciuto, già segnalato in passato per vicende analoghe e in quell’occasione finalmente tratto in arresto in flagranza da parte degli agenti della Questura di Milano. Nonostante le lesioni significative prodotte alle donne (lussazione dell’anca, escoriazioni, fratture), il mancato superamento dei 40 giorni della malattia, comportava la mancata convalida dell’arresto e l’immediato rilascio dell’indagato.
Nei primi mesi dell’anno scorso, invece, diversi quotidiani riportavano un’impressionante sequenza di aggressioni personali immotivate da parte di sconosciuti, che lasciavano immaginare una diffusione, anche nel nostro paese, di un fenomeno tristemente sviluppatasi negli Stati Uniti, quella di filmare un’aggressione ad uno sconosciuto e diffondere il video per ottenere like sui social: “Il pugno al volto e la fuga: cos’è il “knock out game”, la sfida dei balordi” (Il Giornale, 21 febbraio 2023); “Roma, donna aggredita da estraneo con un pugno: torna ipotesi knockout game” (SkyTG24, 26 gennaio 2023); “Knockout game”, il folle gioco per le strade di Torino: un pugno manda ko l’autista Gtt” (La Stampa, 21 gennaio 2023).
Orbene, in tutti i casi del genere (in assenza di circostanze aggravanti e salvo i casi eccezionali di lesioni poste in essere ai danni di determinati soggetti), anche dinanzi a lesioni con malattia fino a 40 giorni, l’unica forma di tutela possibile diviene una denuncia a piede libero del reo, senza possibilità di trarlo in arresto (neanche se autore “seriale” di condotte violente) e senza possibilità di applicare nei suoi confronti alcuna misura cautelare.
All’esito della celebrazione del giudizio, poi, alcuna sanzione detentiva può essere applicata ma solo le blande sanzioni del Giudice di pace (pena pecuniaria, lavoro di pubblica utilità o permanenza domiciliare nel finesettimana per un periodo massimo di 45 giorni).
Che una risposta di tale tipo possa ritenersi adeguata e soddisfacente, soprattutto in relazione alla funzione di prevenzione generale e speciale del diritto penale, appare francamente difficilmente sostenibile.
E ancor più marcate sono le perplessità se si riflette sulla intrinseca irragionevolezza di un sistema che prevede una risposta sanzionatoria ben più grave, non solo in relazione a beni giuridici dotati di una minore pregnanza, ma perfino dinanzi ad aggressioni minori del medesimo bene giuridico: si pensi ad es. al reato di minaccia grave, ex art. 612 II co. cod. pen., in ipotesi configurabile anche quando il reo prospetti alla persona offesa di produrre una lesione personale, che continua ad essere reato di competenza del Tribunale monocratico e ad essere sanzionabile con la pena della reclusione fino ad un anno, laddove tale sanzione non è invece applicabile nel caso di effettiva causazione di una lesione fino a 40 giorni.
Obblighi di tutela “adeguata” come criterio di politica criminale; una possibile strada per il legislatore.
Una parte della dottrina si interroga da tempo sulla possibilità di ravvisare un generale obbligo di criminalizzazione di condotte lesive dei diritti fondamentali della persona, discendente dalla Costituzione o da fonti convenzionali (in particolare la Carta europea dei diritti dell’uomo), ravvisando, in capo allo Stato, un vero e proprio dovere di garantire “il pacifico godimento di quei diritti alla cui protezione lo Stato è funzionale, i quali costituiscono anzi la sua stessa ragion d’essere”; diritti tutelabili “tanto contro le aggressioni provenienti dalle stesse istituzioni statali, così come quelle provenienti da altri soggetti privati”; e che dovrebbero essere necessariamente protetti sul piano penale sia per consentire un intervento pubblico volto all’individuazione dei responsabili (attività che altrimenti il privato non sarebbe ragionevolmente in grado di effettuare) sia perché il processo penale è la sede per eccellenza per “ricomporre il vulnus provocato dal reato alla vittima, e assieme a rassicurare la collettività dell’impegno dell’ordinamento a tutelare efficacemente i diritti fondamentali di tutti i consociati”.
Obblighi di criminalizzazione specifici, discendenti dall’adesione a convenzioni internazionali, sono certamente ravvisabili in diverse settori (si pensi solo a titolo esemplificativo alla protezione del diritto alla vita ex art. 2 Cedu e alla proibizione della tortura, ex art. 3 Cedu, ecc.) ed un riferimento alla necessaria criminalizzazione delle condotte violente, come osservato in precedenza, è certamente rinvenibile nella Convenzione di Istambul anche in una prospettiva generale e non limitata solo a vittime vulnerabili.
Naturalmente, anche dinanzi al Giudice di pace viene celebrato un giudizio penale e, pur denunciando la complessiva irrazionalità del sistema come sopra delineato, deve riconoscersi che rientra nella discrezionalità del legislatore stabilire il grado di tutela penale da accordare nei confronti di determinate condotte.
Sarebbe però dovere del legislatore anche apprestare forme di tutela effettivamente “adeguate” rispetto al rango dei beni da tutelare; connotazione che appare invero estremamente carente in materia di lesioni personale sin dall’attribuzione delle c.d. lesioni “lievissime” (ovvero con durata fino a 20 giorni) alla competenza del Giudice di pace ma che, a seguito dell’entrata in vigore del d. lgs. n. 150/2022 (con l’estensione della competenza del Giudice onorario per lesioni fino a 40 giorni), ha assunto contorni difficilmente giustificabili.
Ragioni di coerenza, di sistematicità e la necessità di apprestare una tutela effettivamente commisurata al rilievo da attribuire al bene della incolumità individuale, dovrebbe forse spingere il legislatore a riconsiderare la propria scelta.
Un rimedio, tra l’altro, potrebbe essere quello di non intervenire nuovamente sulla procedibilità del reato (facendo dunque venir meno gli effetti deflattivi e di ricomposizione delle liti tra privati perseguiti dalla riforma) ma almeno sottrarre la competenza per tali reati al Giudice di pace, al fine di consentire, quanto meno nei casi più gravi, una sanzione adeguata alla violazione commessa e l’applicazione di misure precautelari e cautelari finalizzate ad arginare i casi in cui vi sia un concreto pericolo di recidiva.