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Linee guida ANAC ed abuso d’ufficio: principio di legalità e modifiche mediate della fattispecie incriminatrice

 

Abstract: il codice dei contratti ha previsto che l’ANAC emanasse linee guida destinate a garantire l’attuazione di numerose sue disposizioni. Si è quindi sviluppato nella dottrina amministrativistica e in giurisprudenza un serrato dibattito sulla natura di tali linee guida. Secondo talune opinioni, quelle che tra esse assumono carattere c.d. vincolante hanno il valore e le caratteristiche di veri e propri regolamenti, che possono integrare l’elemento normativo previsto dall’art. 323 c.p. Lo scritto sottopone a critica questa considerazione, riaffermando la differenza esistente tra il concetto di regolamento proprio del diritto amministrativo ed il suo significato nella descrizione dell’abuso d’ufficio. Dalla trattazione di questo argomento il contributo prende spunto per analizzare il complesso istituto delle modifiche mediate della fattispecie penale e l’influenza che questo tema assume con riguardo alle caratteristiche strutturali dell’abuso d’ufficio.

 

Sommario: 1. Il nuovo codice degli appalti e la natura delle linee guida emanate dall’ANAC. – 2. Modifiche mediate della fattispecie e dottrina. – 3. Modifiche mediate della fattispecie e giurisprudenza.

 

  1. Il nuovo codice degli appalti e la natura delle linee guida emanate dall’ANAC. Il codice dei contratti pubblici (d.lgs. 18.04.2016 n.50) assegna all’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) un ruolo fondamentale in questo delicato settore, da sempre terreno privilegiato sia per assicurare la celerità di celebrazione delle gare e dell’esecuzione dei contratti di opere pubbliche, che per garantire trasparenza e legalità nel loro svolgimento.

Così rilevanti sono i nuovi compiti assegnati a detta Autorità che, immediatamente, nella dottrina amministrativistica si è sviluppato un ampio dibattito volto a verificare le caratteristiche e le modalità attraverso cui le funzioni assegnate all’ANAC vengono esercitate[1].

Nel suo sistema originario il codice degli appalti dava ampio spazio ad un sistema di c.d. soft law[2], di origine anglosassone, fondato su una regolazione flessibile demandata all’ANAC attraverso l’emissione di provvedimenti attuativi delle disposizioni codicistiche[3]. L’idea era quella di creare una disciplina di attuazione della normativa primaria con un elevato grado di snellezza e flessibilità applicativa, in modo da potersi adeguare con rapidità ed efficacia alle esigenze della realtà operativa[4].

In questo quadro è intervenuto l’art. 1 d.l. 18.4.2019, n. 32, conv. con modif. dalla l. 14.6.2019 n. 55 (c.d. decreto “sblocca cantieri”), introducendo il comma 27-octies all’art. 216 del codice ed optando, invece, per un ritorno all’impostazione previgente al nuovo codice dei contratti (contenuta nel d.lgs. n.163/2006), in cui l’adozione delle norme di dettaglio ed attuative veniva affidata ad un regolamento (d.P.R. n. 207/2010). Con il c.d. decreto “sblocca cantieri” si è quindi passati ad un sistema misto[5] nel quale alcune materie dovranno essere disciplinate da un “Regolamento Unico”, mentre altre rimarranno normate dalle linee guida ANAC.

Numerosi erano i casi in cui il codice prevedeva specifiche ipotesi in cui l’ANAC era chiamata ad esercitare il suo intervento attuativo attraverso linee guida.

Allo stato, in esecuzione delle norme del codice che ne prevedevano l’emanazione, risultano emanate ben 15 linee guida che vanno, solo per citare alcuni esempi, dalla disciplina relativa a nomina, ruolo e compiti del responsabile del procedimento per l’affidamento di appalti e concessioni (linee guida n.3); alle procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria (n.4); all’indicazione dei mezzi di prova adeguati e delle carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto che possano considerarsi significative per la dimostrazione delle circostanze di esclusione di cui all’art. 80, co.5, lett. c) del codice, relative cioè ai casi di frode ai sensi dell’art. 1 della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea (n.6); all’individuazione e gestione dei conflitti di interesse nelle procedure di affidamento di contratti pubblici (n.15).

Si tratta, come appare di tutta evidenza, di un apparato normativo quantitativamente rilevante e caratterizzato da livelli di complessità particolarmente elevati.

Al fine di operare una corretta qualificazione delle linee guida il dibattito si è immediatamente incentrato sulla loro natura.

Un primo, autorevole indirizzo è stato reso dal Consiglio di Stato nel parere riguardante lo schema di decreto legislativo relativo al codice degli appalti[6].

In primo luogo il Consiglio di Stato ha posto in evidenza come il “codice snello” che il legislatore intendeva realizzare passasse, in realtà, attraverso un completamento affidato a provvedimenti attuativi (menzionati in circa 50 disposizioni del codice) quali decreti ministeriali e linee guida dell’ANAC.

Da questo punto di vista vengono individuate tre tipologie di provvedimenti alla cui redazione l’ANAC partecipa attivamente, e cioè: a) quelle adottate con decreti ministeriali (ad esempio, in tema di requisiti di progettisti delle amministrazioni aggiudicatrici, art.24 co.2, e direzione dei lavori, art.111) o interministeriali (come quelli previsti dall’art.144 co.5, relativo ai servizi di ristorazione) su proposta dell’ANAC, previo parere delle competenti commissioni parlamentari; b) le linee guida approvate con delibera ANAC a carattere vincolante e c) le linee guida a carattere non vincolante.

Mentre non vi è sostanzialmente alcun dubbio che i provvedimenti indicati sub a), indipendentemente da qualunque eventuale diverso nomen juris, debbano essere considerati quali ‘regolamenti ministeriali’ ai sensi dell’art. 17 co. 3 l. 23.8.1988 n.400[7], un vivace dibattito ha riguardato l’individuazione della natura giuridica delle rimanenti linee guida, specie di quelle c.d. vincolanti.

Secondo il Consiglio di Stato, infatti, le linee guida vincolanti non potrebbero essere considerate regolamenti in senso proprio, ma piuttosto – in corrispondenza con le caratteristiche dell’ANAC di Autorità amministrativa indipendente – come atti amministrativi generali ‘di regolazione’[8]; la prevalente dottrina, al contrario, ritiene che in questi casi ci si troverebbe di fronte a veri e propri regolamenti[9].

Del resto, si è detto[10], è proprio nel diritto amministrativo che, a fronte di quella che è stata definita la c.d. fuga dal regolamento[11], si è giunti alla conclusione dell’assenza di un numerus clausus e di tipizzazione del potere regolamentare, dovendosi preferire per individuare la natura di un provvedimento, piuttosto che il criterio del nomen juris, quello delle sue caratteristiche sostanziali di atto normativo.

La questione relativa alla qualificazione di un atto come regolamento ovvero come atto amministrativo generale non è meramente nominale poiché: a) solo il regolamento è ricorribile in Cassazione per violazione di legge e solo per il regolamento vale la regola iura novit curia; b) il regolamento, a differenza dell’atto amministrativo generale, può essere disapplicato in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità; d) a sua volta il provvedimento in contrasto con il regolamento, a differenza di quello in contrasto con l’atto amministrativo generale, è disapplicabile (dal giudice ordinario o anche tributario); e) il regolamento è inderogabile e, ciò che qui conta, solo la violazione di regolamento, insieme alla violazione di legge, può integrare uno degli elementi alternativamente previsti dalla condotta di abuso di ufficio di cui all’art.323 c.p.[12].

Anche la violazione delle linee guida vincolanti integrerebbe la violazione di regolamento costitutiva dell’abuso di ufficio, e si tratta di una produzione normativa, come si è detto, quantitativamente davvero rilevante[13].

Abbiamo dato ampio spazio alla complessità delle questioni poste dal tema dell’individuazione delle linee guida vincolanti ed al contrasto di opinioni esistente in materia, oltre che alle incertezze applicative che ne derivano, proprio perché riteniamo che si tratti di dati che univocamente depongono contro la possibilità di trasporre in diritto penale un corpus normativo così rilevante, individuato sulla base del complesso ragionamento che ha portato al riconoscimento del valore di regolamento alle linee guida vincolanti[14].

Vi si oppongono, infatti, sul piano formale, la particolare rilevanza di rango costituzionale che in diritto penale assume il rispetto del principio di legalità e di uno dei suoi corollari, rappresentato dal principio di tassatività e necessaria determinatezza dalla fattispecie[15]; dal punto di vista materiale, il principio di frammentarietà[16] ed il principio di colpevolezza in uno ai suoi legami con la funzione rieducativa della pena[17].

La necessaria determinatezza e tassatività della fattispecie penale, infatti, pur in ordinamenti come il nostro ove essa non è espressamente prevista in norme di rango costituzionale[18], è però da sempre ritenuta conseguenza necessaria del principio di legalità, in modo da assicurare una valenza sostanziale alla garanzia da esso rappresentata. Ne deriva che la certezza della legge è, in diritto penale, anche un canone fondamentale di interpretazione delle norme incriminatrici, che impone il ricorso a valutazioni quanto più possibile formali dei loro elementi costitutivi. L’idea che le leggi penali debbano essere “chiare” in modo da potere “dirigere le azioni sì del cittadino ignorante come del cittadino filosofo” era già chiaramente espressa nel pensiero di Cesare Beccaria[19].

Dal punto di vista materiale, poi, la natura sussidiaria e frammentaria del diritto penale impone di limitare quanto più possibile la tutela penale, selezionando tra le possibili modalità di aggressione ai beni giuridici solo quelle che appaiono di tale gravità da essere effettivamente meritevoli di pena. La certezza del diritto è, infine, funzionale al rispetto degli scopi di prevenzione generale e di prevenzione speciale affidati alla pena, poiché solo la possibilità di conoscere con chiarezza il precetto penale consente ai consociati una consapevole motivabilità e l’adesione alle scelte di criminalizzazione poste dal legislatore[20]; mentre – del resto – la comprensione e la certezza della norma penale è presupposto indispensabile di qualunque forma di trattamento destinata a consentire al reo di comprendere le ragioni della punizione e dell’adesione ad un percorso risocializzante[21].

La Corte Costituzionale ha posto in evidenza il legame che esiste tra legalità, tassatività ed il principio di colpevolezza contenuto nell’art. 27 comma I Cost. affermando: “Nelle prescrizioni tassative del codice il soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento. Il principio di colpevolezza è, pertanto, indispensabile, appunto anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate; e, comunque, mai per comportamenti realizzati nella “non colpevole” e, pertanto, inevitabile ignoranza del precetto. A nulla varrebbe, infatti, in sede penale, garantire la riserva di legge statale, la tassatività delle leggi ecc. quando il soggetto fosse chiamato a rispondere di fatti che non può, comunque, impedire od in relazione ai quali non è in grado, senza la benché minima sua colpa, di ravvisare il dovere d’evitarli nascente dal precetto. Il principio di colpevolezza, in questo senso, più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio, garantistico, di legalità, vigente in ogni Stato di diritto”[22].

Se si condividono le affermazioni sopra riportate può essere quindi raggiunta una conclusione di rilevanza più generale, che supera la mera questione delle linee guida ed investe l’interpretazione dell’intero concetto di “regolamento” contenuto nell’art. 323 c.p. Il complesso di principi sopra indicati e le relazioni tra loro esistenti, cioè, portano ad escludere che possano essere ritenuti “regolamento” ai sensi dell’art. 323 c.p. tutti i provvedimenti normativi che non siano espressamente qualificati tali dalla fonte primaria che attribuisce il potere della sua emanazione e dalla fonte secondaria che li emette.

Il riconoscimento dei limiti appena descritti, specie con riguardo a quelli derivanti dalle esigenze di certezza del diritto, è stato alla base della sostanziale condivisione in dottrina[23] di un concetto formale di “regolamento” che riservi, quindi, la tutela penale apprestata dall’art. 323 c.p. sulla base di criteri essenzialmente formali.

Con il termine “regolamento”, quindi, per fare alcuni esempi, si intenderanno certamente tutti quelli emanati secondo il modello delineato nella l. 23.8.1988, n. 400 ovvero i regolamenti comunali e provinciali di cui all’art. 5 l. 8.6.1990, n. 142, ora art. 7 d.lgs. 18.8.2000, n. 267, T.U.E.L.[24]

Pur senza effettuare una diffusa elencazione dei provvedimenti regolamentari[25], occorre però evidenziare che l’art. 17 co.4 l. n.400/1988 espressamente prevede che i provvedimenti normativi emanati ai sensi della legge stessa debbano contenere la denominazione di “regolamento”, richiedendo quindi una definizione formale del provvedimento.

Anche la giurisprudenza, per l’individuazione del concetto di “regolamento” rilevante ai fini del reato di abuso d’ufficio, ha affermato che non è sufficiente fare riferimento all’astrattezza e generalità delle norme contenute nel provvedimento, essendo detta caratteristica comune anche ad altri provvedimenti amministrativi che regolamenti non sono (atti generali, atti di programmazione e pianificazione), ma è necessario che detto potere di emanazione sia riconosciuto da una legge (carattere di tipicità) e che il soggetto emanante lo qualifichi espressamente come regolamento (criterio formale)[26].

Non possono quindi essere condivise tutte quelle tendenze che ampliano la categoria del concetto di “regolamento” a casi che non rispettano i criteri sopra indicati, come ad esempio, con riferimento agli Statuti dei Comuni e delle Province[27].

Per le stesse ragioni, quindi, le linee guida vincolanti emanate dall’ANAC non possono costituire l’elemento della violazione di regolamento necessaria per integrare l’art. 323 c.p.

 

  1. Modifiche mediate della fattispecie e dottrina. Abbiamo già adeguatamente evidenziato che il d.l. n.32/2019 ha previsto, introducendo allo scopo il comma 28-octies dell’art. 216 del codice degli appalti, la sostituzione di numerosi decreti attuativi e linee guida ANAC previste dal previgente testo del codice con un regolamento unico, da emanare ai sensi dell’art. 17 co.1 lett. a) e b) l. 23.8.1988 n. 400 entro centottanta giorni dall’entrata in vigore della norma stessa, in una serie di materie espressamente indicate. Quando entrerà in vigore, risulteranno quindi superate le linee guida n. 3 e n. 4, oltre che quelle ex art. 84 co. 8 del codice sul “sistema unico di qualificazione degli esecutori di lavori pubblici di importo pari o superiore a 150.000 euro” (che l’ANAC non ha mai effettivamente emanato)[28]. Alla stessa data cesseranno di avere efficacia anche tutte le linee guida di cui all’art. 213 co.2 del codice (relativo alla c.d. linee guida libere, ovvero non espressamente previste dal codice e ritenute non appartenenti al novero di quelle aventi natura regolamentare)[29], nonché tutte quelle che risulteranno comunque in contrasto con il regolamento stesso.

Riteniamo, però, che nonostante l’abrogazione di talune delle linee guida vincolanti, secondo più punti di vista permanga l’interesse a verificarne i rapporti con il delitto di abuso di ufficio[30].

In primo luogo va infatti evidenziato che, allo stato, il regolamento unico non è stato emanato, né appare certa la data della sua emanazione, tanto che anche il Consiglio di Stato, pronunciando il proprio parere sulle linee guida n. 4, ha affermato che “Non è dato sapere se il regolamento unico entrerà in vigore e quando” e quindi le linee guida rimarranno efficaci sino alla sua entrata in vigore[31].

In secondo luogo è stato posto in rilievo che, nonostante lo spirito originario del c.d. sblocca cantieri, il sistema previsto dalle linee guida ANAC non può dirsi affatto tramontato, tanto che – tra quelle c.d. vincolanti – permangono pienamente efficaci le linee guida numero 5, 6 7, 9 e 11[32].

In terzo luogo, secondo un’opinione largamente diffusa in dottrina e giurisprudenza, la violazione di legge (ma lo stesso vale ovviamente anche per la violazione di regolamento) è un mero presupposto di fatto per l’integrazione del delitto di abuso d’ufficio[33] e la sussistenza di tale requisito va quindi ricercata e valutata con riferimento al tempo in cui il reato è stato commesso, con la conseguenza che ai fini della sua sussistenza è irrilevante l’abrogazione sopravvenuta della disposizione di legge[34]. Le violazioni delle linee guida vincolanti, quindi, potrebbero continuare ad integrare l’elemento della violazione di regolamento anche dopo la loro abrogazione se al momento in cui il fatto venne compiuto erano in vigore e ciò, in modo particolare, anche nei casi in cui il loro contenuto non sarà stato recepito dal regolamento unico.

Da questo punto di vista, ovviamente, il discorso non muta con riguardo alle disposizioni contenute nei decreti attuativi che pure cesseranno di avere efficacia con l’emanazione del regolamento unico, come, solo per fare un esempio di particolare importanza, il d.m. 22.8.2017 n.154 emanato ai sensi dell’art. 146 co.4 del codice e recante il regolamento sugli appalti pubblici di lavori riguardanti il delicato settore dei beni culturali tutelati ai sensi del d.lgs. n. 42/2004.

Le considerazioni appena svolte ci consentono di prendere posizione rispetto al più generale problema dell’abrogazione ovvero della successione della norma di legge o di regolamento con riguardo alla punizione dell’abuso di ufficio, poiché si tratta di un argomento che assume ancora oggi, a nostro parere, una sistemazione non soddisfacente.

Si è detto che, secondo la giurisprudenza, nell’abuso di ufficio connesso a violazione di legge, questa si pone come mero presupposto di fatto per l’integrazione del delitto e lo specifico contenuto della regola violata non si incorpora nella norma penale e non integra la relativa fattispecie. Ne consegue che la sussistenza di tale requisito di fatto deve essere ricercata nel momento stesso del reato e la valutazione del giudice non può che essere rapportata al contenuto che quella regola possedeva al tempo in cui il reato fu commesso.

In caso di modificazione successiva di tale regola non trova quindi applicazione l’art. 2 c. p. poiché, si dice, la nuova legge di riferimento non introduce alcuna differente valutazione in relazione alla fattispecie legale astratta disegnata dalla norma incriminatrice e al suo significato di disvalore (rimanendo immutato il presupposto della “violazione di legge”), ma modifica una disposizione extrapenale che si limita ad influire, nel caso singolo, sulla concreta applicazione futura della stessa norma incriminatrice, nel senso che la sussistenza del requisito della “violazione di legge” va verificata alla luce della nuova regola[35].

Ma se nel delitto di abuso di ufficio la violazione di legge (o di regolamento) costituisse davvero un mero presupposto di fatto della condotta[36] ovvero un presupposto dell’azione[37] o un presupposto del reato[38], allora non dovrebbe essere causalmente collegata all’evento, poiché – comunque li si intenda – questi elementi non entrano a far parte del rapporto di causalità[39], mentre nel caso di specie è assolutamente indiscusso che essa debba porsi in regime di “stretta causalità”[40] con la realizzazione dell’ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero del danno parimenti ingiusto.

L’affermazione, inoltre, non può essere condivisa nemmeno dal punto di vista della realtà materiale descritta dalla norma, poiché è ormai un dato acquisito che l’abuso per violazione di legge è un reato a forma vincolata[41] in cui la violazione del precetto, lungi dal costituire un elemento esterno o un mero presupposto di fatto, incentra su di sé il disvalore della condotta che assume rilievo proprio (ed esclusivamente) perché posta in essere disattendendo una norma alla quale l’autore avrebbe dovuto invece attenersi. Se quindi si tiene presente la struttura della fattispecie si giunge a conclusioni diametralmente opposte a quelle indicate dall’indirizzo appena descritto, poiché non si comprende come possa rimanere intatto “il significato di disvalore” di una condotta quando è stata abrogata la norma che dovrebbe descrivere la modalità causale che rende penalmente rilevante l’aggressione al bene giuridico.

Anche dal punto di vista delle funzioni teleologiche di rango costituzionale assegnate alla pena nel nostro assetto ordinamentale[42] non si comprende, inoltre, quale efficacia rieducativa e risocializzante potrebbe avere sul condannato l’inflizione di una pena per avere violato una norma di legge che, al momento in cui egli dovrà essere sottoposto al trattamento sanzionatorio, non sarà più vigente o che, per assurdo, potrebbe fare riferimento ad un comportamento addirittura dovuto in base alla nuova legislazione. Dal punto di vista della prevenzione generale, d’altro canto, l’inflizione di una condanna emessa per avere violato una norma dell’azione amministrativa non più esistente difficilmente potrà essere condivisa e compresa come giusta dai consociati. Vi è il pericolo, pertanto, che ad essere sanzionata possa essere esclusivamente la mera disubbidienza ad una norma di condotta non più esistente, secondo una prospettiva estranea alla logica ed alla sistematica costituzionale[43].

La soluzione della questione che stiamo affrontando si interseca con un tema particolarmente complesso del diritto penale; quello, cioè, più generale, relativo alle c.d. modifiche mediate della fattispecie incriminatrice, sul quale sono intervenute molteplici soluzioni dottrinali senza che sia stata raggiunta concordia[44].

Con riguardo specifico all’abuso di ufficio, secondo la dottrina che condivide l’impostazione giurisprudenziale appena esposta, essendo l’elemento normativo costituito dalla «violazione di legge» – come si è detto – un «mero presupposto di fatto per l’integrazione del delitto», sono prive di rilevanza le sopravvenute modifiche o le successive abrogazioni della norma violata. Ciò in quanto, trattandosi di una disposizione extrapenale, non può trovare applicazione la disciplina di cui all’art. 2 c.p. La modifica della norma di legge o di regolamento violata dall’agente non introduce perciò alcuna diversa valutazione della fattispecie legale astratta e del suo significato di disvalore, ma si limita a modificare una disposizione extrapenale che va ad influire solo sulla concreta applicazione futura della stessa norma incriminatrice. Essa, quindi, può dar luogo ad una successione di legge solo apparentemente integratrice, incapace di comportare alcuna abolitio criminis, anche parziale[45].

Per altri, invece, l’abuso di ufficio sarebbe un caso tipico di norma penale “parzialmente in bianco” in cui gli elementi della fattispecie come l’evento ed il dolo sono descritti dalla norma incriminatrice, mentre per la condotta le caratteristiche di illiceità si ricaverebbero dalle norme extrapenali integratrici del precetto[46]. In quanto contenuto stesso della condotta, la violazione di legge o di regolamento non costituirebbe un elemento normativo del fatto, utile a qualificare un singolo elemento della fattispecie, come avviene ad esempio per il concetto di altruità della cosa mobile nel delitto di furto, bensì ad integrare ab externo lo stesso precetto, concorrendo nella qualifica dell’illiceità dell’intero fatto[47].

Come conseguenza del ragionamento l’errore ricadente sulla norma di legge o di regolamento violata costituirebbe un errore di diritto scusabile secondo i limiti di cui all’art. 5 c.p. e non un errore sugli elementi normativi del fatto ex art. 47 co.3 c.p., scusabile anche se dovuto a colpa; con il vantaggio di evitare la punibilità di chi abbia violato una norma di legge o di regolamento se, ad esempio, non conosceva detta disciplina, ma non fino a ricomprendere anche l’ipotesi in cui lo stesso non si sia attivato per conoscerla[48]. Non si manca, peraltro, di rilevare tutta la problematicità che le norme penali in bianco assumono rispetto sia al principio di riserva di legge che al c.d. principio di precisione ed a quello di colpevolezza[49].

A noi sembra che la tesi appena descritta colga nel segno nella parte in cui evidenzia un dato difficilmente contestabile: che nella condotta abusiva per violazione di legge o di regolamento, cioè, proprio tale violazione costituisca il primo termine del rapporto causale, descrivendo, in particolare, le modalità attraverso le quali l’evento viene cagionato e, quindi, le modalità di aggressione al bene giuridico che giustificano, insieme all’intenzionalità della condotta diretta a cagionare il danno o il vantaggio ingiusti, le ragioni stesse della rilevanza penale del comportamento.

Meno condivisibili appaiono invece le conseguenze che si traggono con riguardo all’errore su norme extrapenali, poiché la non punibilità dell’autore della condotta che, pur se per colpa, omette di attivarsi per conoscere la norma di legge o di regolamento rimane comunque affidata al difetto dell’elemento soggettivo del dolo intenzionale richiesto dall’art. 323 c.p.

In ogni caso deve essere evidenziato che, pure a non volere intendere l’art. 323 c.p. quale norma parzialmente in bianco, così qualificandosi la locuzione “violazione di legge o di regolamento” come elemento normativo del fatto, ciononostante l’abrogazione della norma violata dall’autore della condotta criminosa dovrebbe comportare l’applicazione del principio di irretroattività.

Autorevole dottrina[50], infatti, ha da tempo posto in evidenza come per “fatto” ai sensi dell’art. 2 co.2 c.p. debba intendersi l’accadimento storicamente determinato in tutti gli aspetti rilevanti ai fini dell’applicazione di una disposizione incriminatrice e quindi ogni norma richiamata dall’elemento normativo sarebbe integratrice del precetto. Vi sarebbe abolitio criminis, pertanto, in occasione di ogni variazione normativa in grado di incidere sul disvalore del fatto concreto. Il concetto di fatto, si aggiunge, non può non assumere il medesimo significato nei primi due commi dell’art. 2. “Se nell’ipotesi di nuova incriminazione, la nozione di fatto è comprensiva di tutti i presupposti rilevanti ai fini dell’applicazione della norma penale (a nessuno verrebbe in mente di applicare retroattivamente l’art. 368 c.p. nel caso in cui la falsa incolpazione riguardasse un illecito divenuto di rilevanza penale in un tempo successivo alla presentazione della denuncia) non si comprende perché lo stesso concetto non dovrebbe valere rispetto alle ipotesi di abolitio criminis[51].

Secondo coloro i quali non condividono questa impostazione, invece, si deve negare l’applicazione dell’art. 2 c.p. ogni qual volta l’abrogazione della norma integratrice non fa venir meno il disvalore penale (e, principalmente, l’offensività) del fatto commesso, nel senso che quanto realizzato continua ad esser pregiudizievole per il bene protetto dalla norma incriminatrice richiamante la norma abrogata[52]. Come nel caso del favoreggiamento l’abrogazione del reato commesso dal favoreggiato non comporta il venir meno dell’art. 378 c.p. (vi è stata pur sempre l’offesa all’amministrazione della giustizia, bene che continua ad esser tutelato dalla fattispecie incriminatrice), altrettanto deve dirsi per il delitto di abuso di ufficio: la sopravvenuta abrogazione della norma richiamata non cancella l’offesa ai beni protetti, che continuano ad esser tutelati dall’art. 323 c.p., il che importa l’impossibilità di rinvenire in tale ipotesi un’abolitio criminis[53].

Senonché le affermazioni appena riportate, a nostro giudizio, non solo non tengono conto della differenza strutturale e delle peculiarità dell’abuso d’ufficio rispetto ad altre fattispecie incriminatrici, ma non possono essere condivise nemmeno rispetto al delitto previsto dall’art. 378 c.p., che viene indicato come esempio paradigmatico della impermeabilità degli elementi normativi all’abrogazione delle norme che li descrivono. Sia dal punto di vista della meritevolezza di pena che della coerenza complessiva del precetto penale appare, ad esempio, assurdo che dovesse rispondere di favoreggiamento chi aiutò i partigiani che si opponevano al regime autoritario della R.S.I. a sottrarsi alle ricerche delle SS[54] dopo la sconfitta del nazi-fascismo e la creazione della Repubblica. Lo stesso si può dire con riguardo alla punibilità di coloro che non avessero riferito agli inquirenti i nomi di lavoratori che avevano scioperato, nonostante che la Corte Costituzionale avesse poi sancito l’incompatibilità dell’art. 502 c.p. con la fondamentale libertà democratica prevista dall’art. 40 della Costituzione[55].

Proprio l’ipotesi del favoreggiamento, quindi, da questo punto di vista conferma piuttosto che escluderla l’applicabilità della disciplina dell’art. 2 c.p. agli elementi normativi della fattispecie.

 

  1. Modifiche mediate della fattispecie e giurisprudenza. Anche in giurisprudenza la verifica in ordine alla rilevanza degli elementi normativi della fattispecie ha seguito un percorso complesso con fasi altalenanti[56].

In un primo arresto a Sezioni Unite, che sembra sostanzialmente vicino all’impostazione dottrinale favorevole all’utilizzo del meccanismo del riconoscimento della lex mitior anche con riguardo agli elementi normativi del fatto, si è affermato che “Qualora un fatto perda il carattere di illecito penale a seguito di una modifica legislativa intervenuta successivamente che concerna la disciplina normativa extra-penale di riferimento per attribuire la qualità di soggetto attivo di un reato proprio, si applica il principio di retroattività della legge più favorevole affermato dall’art. 2 cod. pen., perché per legge incriminatrice deve intendersi il complesso di tutti gli elementi rilevanti ai fini della descrizione del fatto tra cui, nei reati propri, è indubbiamente compresa la qualità del soggetto attivo (nella fattispecie è stata ritenuta non più ravvisabile l’ipotesi del reato di peculato nella condotta di un dipendente di una cassa di risparmio perché è stata esclusa, a seguito di novatio legis, l’attribuibilità allo stesso della qualifica di pubblico ufficiale)”[57].

Successivamente le stesse Sezioni Unite hanno invece optato per un’opzione intermedia tra la precedente decisione e quelle che escludevano senz’altro la rilevanza del mutamento sopravvenuto dell’elemento normativo favorevole al reo, affermando che “in tema di successione di leggi penali, la modificazione della norma extrapenale richiamata dalla disposizione incriminatrice esclude la punibilità del fatto precedentemente commesso se tale norma è integratrice di quella penale oppure ha essa stessa efficacia retroattiva (nella specie, la Corte ha ritenuto che l’adesione della Romania all’Unione europea, con il conseguente acquisto da parte dei rumeni della condizione di cittadini europei, non ha determinato la non punibilità del reato di ingiustificata inosservanza dell’ordine del questore di allontanamento dal territorio dello Stato commesso dagli stessi prima del 1° gennaio 2007, data di entrata in vigore del Trattato di adesione, in quanto quest’ultimo e la relativa legge di ratifica si sono limitati a modificare la situazione di fatto, facendo solo perdere ai rumeni la condizione di stranieri, senza che tuttavia tale circostanza sia stata in grado di operare retroattivamente sul reato già commesso)”[58].

Non è questo il luogo ove affrontare una specifica disamina delle Sezioni Unite Magera, con riguardo alle quale basti qui ricordare che esse confutano espressamente la tesi dottrinale cui prima abbiamo accennato, che ritiene applicabile anche agli elementi normativi l’art. 2 co.2 c.p., richiamando l’unità concettuale che dovrebbe legare il fatto richiamato nel primo e quello indicato nel secondo comma della medesima norma, e richiedono invece all’interprete un confronto tra la fattispecie astratta e la norma abolitrice, al fine di verificare se quest’ultima abbia eliminato una norma integratrice o meno del precetto penale. L’art. 2 co.2 c.p., potrebbe essere applicato, affermano le Sezioni Unite, solo nel caso in cui il confronto consenta di affermare che la norma abrogata fosse effettivamente integratrice del precetto.

Nonostante in tal modo si corra il rischio, evidenziato dalla dottrina, di aprire il campo a difficoltà ed incertezze applicative che mal si conciliano con la necessità di chiarezza e predeterminatezza del precetto in materia penale[59], è pur vero, come sottolineato dalle Sezioni Unite, che l’operazione ermeneutica richiesta si basa su di una distinzione che non è sconosciuta nel settore degli elementi normativi del fatto ed è anzi richiesta dalla disciplina dell’art. 47 co.3 c.p.

Se prendiamo atto del diritto vivente e verifichiamo la rilevanza che queste affermazioni possono avere per il delitto di abuso di ufficio, dobbiamo dire, in primo luogo, che – pur se in maniera solo incidentale – le stesse S.U. Magera pongono in evidenza la differenza esistente tra gli elementi normativi e le norme penali in bianco affermando che “nell’ambito della fattispecie penale le norme extrapenali non svolgono tutte la stessa funzione e, nel caso delle norme penali in bianco, possono addirittura costituire il precetto, anche se in questo caso, visto la funzione che svolgono, si parla forse impropriamente di norme extrapenali”[60].

Se quindi, come abbiamo ritenuto condivisibile, si ritiene l’ipotesi dell’abuso di ufficio come una norma parzialmente in bianco, e cioè in bianco nella parte in cui consente di elevare a condotta la violazione di tutte (o quasi) le leggi ed i regolamenti dell’ordinamento, distinguendosi in questo modo da quelli che sono comunemente indicati come elementi normativi della fattispecie, non vi sarebbero ostacoli allora all’applicazione del disposto dell’art. 2 co.2 c.p. in caso di abolizione della norma di legge o di regolamento violata anche secondo la giurisprudenza[61].

La questione si proporrebbe, invece, nell’eventualità in cui la condotta di violazione di legge venisse considerata come costituente un elemento normativo della fattispecie, poiché in quel caso dovrebbero invece verificarsi, volta a volta, le caratteristiche della norma violata rispetto al significato complessivo del precetto penale.

Non dobbiamo nasconderci, peraltro, che – pur se incidentalmente – le Sezioni Unite propsettano una risposta negativa all’applicazione dell’art. 2 c.p. proprio con riguardo al delitto di abuso di ufficio. In particolare, dalla lettura della motivazione emerge innanzitutto come, secondo la Corte, l’art. 2 c.p. detti delle regole da valere oltre che per le leggi penali anche per quelle extrapenali richiamate in qualche modo dalla disposizione incriminatrice: queste ultime avrebbero la natura più varia e potrebbero venire in considerazione anche indirettamente. Proprio con riguardo a tale tema, la sentenza in esame cita esemplificativamente proprio la fattispecie di abuso di ufficio, che richiede genericamente ‘la violazione di norme di legge o di regolamento’ e quindi un rinvio “di un’ampiezza così smisurata” da rendere arduo sostenere che qualunque modificazione di tali norme, intervenuta dopo la loro violazione, possa costituire una parziale abolitio criminis.

Si tratta, per la verità, come si vede, di un’affermazione che rappresenta una conferma più che una smentita della particolarità del richiamo e della struttura del reato di abuso di ufficio e che sembra confermarne la natura di norma (parzialmente) in bianco.

D’altro canto, però, proprio nell’abuso di ufficio non dovrebbe rinunciarsi aprioristicamente a verificare se la norma abrogata abbia avuto o meno carattere integrativo del precetto, se la stessa Corte implicitamente afferma che vi possono essere dei casi in cui essa abbia avuto una rilevanza tale da assumere i caratteri di “norma integratrice” (e non sarebbe pertanto una violazione “qualunque”).

Certo si tratta di una strada complessa e foriera di non pochi problemi, destinata però quantomeno ad esaltare il ruolo e le capacità dell’interprete, mentre l’alternativa sarebbe la scelta – certamente più facile – di ritenere in concreto mai ricorrente l’esistenza di un’integrazione tra la norma abrogata e la condotta di abuso di ufficio.

Numerosi anni or sono autorevole dottrina, trattando le questioni sollevate dal disposto dell’art. 47 co.3 c.p., in cui il rapporto tra norma integratrice e norma non integratrice era esattamente opposto rispetto a quello che ci stiamo ponendo, nel senso che se la norma era ritenuta integratrice del precetto penale non poteva ricadere nel disposto dell’art. 47 co.3 e la condotta rimaneva quindi punibile, giungeva all’amara conclusione secondo cui “anche la giurisprudenza accoglie la distinzione tra norme extrapenali integratrici e norme extrapenali non integratrici del precetto; tuttavia la Suprema Corte ergendosi a tutrice di un rigore in proposito non giustificato, ritiene poi in pratica tutte le norme extrapenali norme integratrici della norma di incriminazione, cosicché l’art. 47 comma III resta concretamente privo di qualsiasi rilievo”[62]. Sarebbe francamente non condivisibile se ora che l’operazione interpretativa, come abbiamo visto, sarebbe destinata a limitare la punibilità di una condotta penalmente rilevante, dovesse invece accadere il contrario.

[1] E. D’ALTERIO, Regolare, vigilare, punire, giudicare: l’ANAC nella nuova disciplina dei contratti pubblici, in Giorn. Dir. Amm, 2016, 4, 436 ss.; R. ROLLI – D. SAMMARRO, Il nuovo codice dei contratti pubblici: l’ANAC e l’uomo di Vitruvio, in Giust. Amm. It., 2014, 4, 7 ss.; M. L. CHIMENTI, Il ruolo dell’Autorità Nazionale Anticorruzione nel nuovo codice dei contratti pubblici, in L’Autorità Nazionale Anticorruzione. Tra Prevenzione e attività regolatoria, a cura di I. NICOTRA, Torino, 2016, pp.47-67; N. LONGOBARDI, L’Autorità Nazionale Anticorruzione e la nuova normativa sui contratti pubblici, in Giust. Amm. It., 2016, 6, 11 ss.; I. CAVALLINI – M. ORSETTI, Le linee guida ANAC n. 4: una rilettura alla luce del nuovo contesto normativo e giurisprudenziale, in Aziendaitalia, 11, 2019, 1519 ss.

[2] Sul punto, di interesse, in diritto penale, A. BERNARDI, Sui rapporti tra diritto penale e soft law, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 536 ss.

[3] I. CAVALLINI – M. ORSETTI, I reali effetti del c.d. “sblocca cantieri” sulle linee guida ANAC: un’occasione mancata per il tramonto del sistema di soft-law, in Aziendaitalia, 2020, 3, 496 ss.

[4] R. GALLI, Nuovo corso di diritto amministrativo, Milano, 2019, p.226.

[5] I. CAVALLINI – M. ORSETTI, cit., 496.

[6] Cons. St., Ad. Comm. Spec. del 1.4.2016 n. 855. Da ultimo in giurisprudenza TAR Puglia Lecce, sez. II, 28.3.2019, n. 519: “Le Linee Guida ANAC non possiedono la forza normativa dei regolamenti ministeriali emanati ai sensi dell’art. 17, c. 3L. n. 400/88, con tutto ciò che ne deriva in termini di forza e valore dell’atto (tra l’altro: resistenza all’abrogazione da parte di fonti sottordinate e disapplicabilità entro i limiti fissati dalla giurisprudenza amministrativa in sede giurisdizionale). Pertanto, nel caso di specie, non essendo le Linee Guida in esame assimilabili alle fonti del diritto, non si vede come esse possano soddisfare il requisito del clare loqui predicato a livello eurounitario. In sostanza, pretendere di ricavare la sanzione espulsiva non già dalla violazione di una precisa norma giuridica, ma da una prassi dettata da una autorità amministrativa (tale dovendosi intendere l’ANAC), cui, non è attribuito alcun potere di normazione primaria o secondaria non soddisfa il requisito della certezza dei rapporti giuridici, ben potendo mutare nel corso del tempo”.

[7] R. ROLLI – D. SAMMARRO, Il nuovo codice dei contratti pubblici: l’ANAC e l’uomo di Vitruvio, cit. 8; F. MARONE, Le linee guida dell’Autorità Nazionale Anticorruzione nel sistema delle fonti, in Riv. trim. dir. pubbl., 3, 2017, 743 ss.

[8] Cons. St., Ad. Comm. Spec. del 1.4.2016 n. 855.

[9] G. MORBIDELLI, Linee guida ANAC: comandi o consigli?, in Dir. Amm., n.3, 2016, 273 ss. ed ivi indicazioni bibliografiche; MARONE, Le linee guida dell’Autorità Nazionale Anticorruzione nel sistema delle fonti, cit., 5; F. CINTIOLI, Il sindacato del giudice amministrativo sulle linee guida, sui pareri del c.s. precontenzioso e sulle raccomandazioni di ANAC, in Dir. Proc. Amm., fasc. 2, 2017, 381 ss.; contra C. DEODATO, Le Linee guida dell’ANAC: una nuova fonte del diritto?, in Giust. Amm. It., 4, 2016. Sul punto A. AMORE, Gli operatori economici nel ‘labirinto dei gravi illeciti professionali’ e il periodo triennale di esclusione dalla gara dall’accertamento definitivo, in Urb. app., 6, 2019 795.

[10] G. MORBIDELLI, Linee guida ANAC: comandi o consigli?, in Dir. Amm., n.3, 2016, 273 ss.

[11] U. DE SIERVO, Lo sfuggente potere regolamentare del Governo (riflessioni sul primo anno di applicazione dell’art. 17 della legge n. 400/1988, in AA.VV., Scritti per Mario Nigro, vol. I, Stato e Amministrazione, Milano, 1991, 279 ss.; L. CARLASSARE – P. VERONESI, Regolamento (dir. cost.), in Enc. Dir., V, Milano 2001, 951 ss.; V. COCOZZA, La delegificazione, Napoli, 2005, 105-106; N. LUPO, Il Consiglio di Stato individua un criterio per distinguere tra atti normativi e atti non normativi, in Giorn. Dir. Amm., 2012, n. 12, 1209 ss.; B. TONOLETTI, Fuga dal regolamento e confini della normatività nel diritto amministrativo, in Le fonti del diritto amministrativo, AIPDA Annuario 2015, Napoli, 2016, 53 ss.; C. DEODATO, Le linee guida ANAC: una nuova fonte del diritto?, cit., 3 s. A questa tendenza ha peraltro espressamente reagito la giurisprudenza con riguardo a quegli atti governativi di normazione secondaria espressamente autoqualificati in termini non regolamentari, riaffermando che deve, almeno in linea di principio, escludersi che il potere normativo dei Ministri e, più in generale, del Governo possa esercitarsi mediante ‘atti atipici’, di natura non regolamentare, specie laddove la norma che attribuisce il potere normativo nulla disponga in ordine alla possibilità di utilizzare moduli alternativi e diversi rispetto a quello regolamentare tipizzato dall’art. 17 l. n. 400/1988 (Cons. St., Ad. Plen. 4.5.2012, n. 9, su cui si vedano le note di N. LUPO, Il Consiglio di Stato individua un criterio per distinguere tra atti normativi e atti non normativi, cit., 1209 ss. e B. MAMELI, La successione delle fonti atipiche del Governo e il principio del contrarius actus, in Giur. It., 212, 11 ss.).

[12] V. NERI, Disapplicazione delle linee guida ANAC e rilevanza penale della loro violazione, in Urb. App., 2, 2018, 145ss. Su questo argomento, da ultimo, G. SALCUNI, La “disciplina altrove”. L’abuso d’ufficio tra regolamenti e formazione flessibile, Napoli, 2019, passim. I pericoli derivanti dall’avere introdotto nell’abuso d’ufficio la “complessa e problematica” figura del “regolamento” furono immediatamente presenti alla più accorta dottrina: T. PADOVANI, Commento all’art. 1 L. 16.07.1997, n. 234, in Legisl. pen., 1997, 745; G. DE FRANCESCO, La fattispecie dell’abuso d’ufficio: profili ermeneutici e di politica criminale, in Cass. pen., 5. 1999, 1633 ss.

[13] Si pensi che essa, secondo la dottrina, riguarda ad oggi – fatta salva la loro successiva abrogazione al momento dell’emanazione del Regolamento Unico previsto dal d.l. n. 32/2019 – i seguenti argomenti: nomina, ruolo e compiti del responsabile del procedimento per l’affidamento di appalti e concessioni (linee guida n. 3); procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria e formazione e gestione di operatori economici (n.4); criteri di scelta dei commissari di gara e di iscrizione degli esperti nell’Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici (n.5); indicazione dei mezzi di prova adeguati e delle carenze di esecuzione di un precedente contratto di appalto che possono considerarsi significative per la dimostrazione delle circostanze di esclusione di cui all’art. 80 co.5 lett c) del codice (n.6); iscrizione nell’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house previsto dall’art. 192 del codice (n.7); monitoraggio delle amministrazioni aggiudicatrici sull’attività dell’operatore economico nei contratti di partenariato pubblico privato (n.9); indicazioni per la verifica del rispetto del limite di cui all’art. 177 co.1 del codice da parte dei soggetti pubblici o privati titolari di concessioni di lavori, servizi pubblici o privati titolari di concessioni di lavori, servizi pubblici o forniture già in essere alla data di entrata in vigore del codice non affidate con la formula della finanza di progetto ovvero con procedure di gara ad evidenza pubblica secondo il diritto dell’Unione Europea (n.11). Un utile schema riassuntivo si può consultare in I. CAVALLINI – M. ORSETTI, I reali effetti del c.d. “sblocca cantieri” sulle linee guida ANAC, cit.

[14] Sui pericoli derivanti in materia penale dalla possibilità di considerare le linee guida come regolamenti ai sensi dell’art. 323 c.p., S. PERONGINI, Le ragioni che consigliano l’abrogazione del reato di abuso di ufficio, 21, in AA.VV., Migliorare le performance della Pubblica Amministrazione, a cura di A.R. Castaldo, Torino, 2018. M. DONINI, Osservazioni sulla proposta “Castaldo-Naddeo” di riforma dell’art. 323 c.p. La ricerca di un’ultima ratio ancora più tassativa contro il trend generale all’espansione penalistica, in AA.VV., Migliorare le performance della Pubblica Amministrazione, cit. 99. “Si consideri che ancora di recente spinte ermeneutiche anomale, veicolate dalla cultura panpenalistica proveniente da magistrature amministrative, vorrebbe far assurgere a “regolamento” rilevante per il vigente abuso d’ufficio persino la violazione delle linee guida ANAC”. Completamente diversa è, invece, la prospettiva di utilizzare “de lege ferenda” le linee guida come causa di non punibilità del reato di abuso d’ufficio: sul punto si veda M. NADDEO, Abuso d’ufficio: tipicità umbratile o legalità crepuscolare del diritto vivente? Dogmatica di categorie e struttura del tipo nella prospettiva de lege ferenda, in AA.VV. ult. cit., 31; v. anche V. VALENTINI, Abuso d’ufficio e fast law. Antichi percorsi punitivi per nuovi programmi preventivi, in Arch. Pen., 3, 2018.

[15] V. per tutti S. MOCCIA, La promessa non mantenuta. Ruolo e prospettive del principio di determinatezza/tassatività nel sistema penale italiano, Napoli, 2001, passim. Sulle varie accezioni dei concetti di determinatezza e tassatività e con ampi riferimenti anche alle decisioni delle Corti internazionali in materia di tassatività da ultimo G. COCCO – E.M. AMBROSETTI, La legge penale, Milano, 2019, p.55 ss.

[16] Sulla frammentarietà del diritto penale e sui rapporti con il principio di legalità T. VORMBAUM, Il diritto penale frammentario nella storia e nella dommatica, in Dir. pen. cont., trad. it. di M. DONINI, 1, 2015, 51 ss; G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 1989, p.43 ss.

[17] Sui rapporti tra principio di colpevolezza e funzioni della pena, fondamentali i contributi di C. ROXIN, Sinn und Grenzen staatlicher Strafe, in Jus, 1966, ora in Strafrechtliche Grundlagenprobleme, Berlin – New York, 1979, 20 ss.; ID., Kriminalpolitik und Strafrechtssystem (Politica criminale e sistema del diritto penale), 1ª ed. 1971, trad. it. a cura di S. Moccia, 1986 e, nella nostra letteratura, F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nov. Dig. It., XIX, Torino 1974, 15 ss.; T. PADOVANI, Teoria della colpevolezza e scopi della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, 738 ss.; G. FIANDACA, Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, 836 ss.; S. MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992, p.83 ss. Per ulteriori riferimenti bibliografici ci sia consentito rinviare al nostro scritto Riflessioni su responsabilità personale e imputabilità nello stato sociale di diritto, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 485 ss.

[18] Come invece accade in Germania dove l’art. 103 comma II della Costituzione espressamente prevede che la punibilità di un fatto debba essere “legislativamente determinata” (gesetzlich bestimmt) prima della sua commissione. Sul punto, per tutti, C. ROXIN, Strafrecht. Allgemeiner Teil, Band I, München, 2006, p.70.

[19] C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, ed. a cura di F Venturi, Torino, 1965, 17.; M. D’AMICO – G. ARCONZO, Commentario alla Costituzione, art. 25, Torino 2013, p.3 ss.

[20] F. BRICOLA, Teoria generale del reato, cit., 15 ss.; F. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1988, p.98 s.; S. MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, cit., p.123 s.

[21] S. MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, cit., p.127 s.

[22] Corte Cost., sent. 24.3.1988, n. 364. Anche la CEDU ha affermato che l’art. 7 co.1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo impone che la legge penale definisca chiaramente i reati e le pene e che tale requisito è soddisfatto se la persona sottoposta a giudizio è posta in grado di sapere, attraverso il testo della disposizione (se necessario attraverso l’interpretazione giudiziale e con l’ausilio di esperti), per quali atti e omissioni le viene attribuita una responsabilità penale e di quale pena è passibile per tali atti (CEDU Del Rio Prada c. Spagna n. 42750/09; Contrada c. Italia n. 66655/13).

[23] E. INFANTE, Abuso di ufficio, in Trattato di diritto penale. I delitti contro la pubblica amministrazione., a cura di A. CADOPPI – S. CANESTRARI – A. MANNA – M. PAPA, Torino 2008, p.320 ss.; A. SEGRETO – G. DE LUCA, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1999, p.504 ss.; M. DE BELLIS, Il delitto di abuso d’ufficio e la violazione di norme contenute in decreti del presidente del consiglio dei ministri, in Cass. Pen., 2007, 2017 ss. Sul tema anche C. PINELLI, Profili costituzionalistici del reato di abuso d’ufficio, in Giust. It., 2000, 2 ss. dell’estratto; S. MASSI, Parametri formali e “violazione di legge” nell’abuso d’ufficio, in Arch. Pen., 1, 2019, 5 ss. dell’estratto.

[24] C. BENUSSI, Trattato di diritto penale. Parte Speciale. I delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, 2013, 958 ss.; ID., Diritto penale della Pubblica Amministrazione, Milano, 2016, 432 ss.

[25] Si veda sul punto C. BENUSSI, Trattato di diritto penale. Parte Speciale. I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 958 ss.

[26] Cass. pen., Sez. VI, 3.10.2000, n. 11933, Rv. 217402; Cass. pen., sez. VI, 2.10.1998, n. 11984, Rv. 213035; C. BENUSSI, Art. 323 c.p., in AA.VV., Codice penale commentato, a cura di E. DOLCINI – G. L. GATTA, Milano, 2015, p. 491 ss. Contra Cass. pen., sez. VI, 16.10.2012, n. 43467, Rv. 253793.

[27] Nello stesso senso, diffusamente, E. INFANTE, Abuso di ufficio, cit., 327 s.

[28] I. CAVALLINI – M. ORSETTI, I reali effetti del c.d. “sblocca cantieri” sulle linee guida ANAC, cit.

[29] G. MORBIDELLI, op.cit., 5.

[30] Per una disamina completa dell’evoluzione storica dell’abuso d’ufficio v. A. MANNA, Profili storico-comparatistici dell’abuso d’ufficio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, 1201 ss. e A. GARGANI, L’abuso innominato di autorità nel pensiero di Francesco Carrara, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 1224 ss.

[31] Cons. St., Sez. Con., 30.4.2019, n. 1312.

[32] I. CAVALLINI – M. ORSETTI, I reali effetti del c.d. “sblocca cantieri” sulle linee guida ANAC, cit. 3 dell’estratto.

[33] C. BENUSSI, Codice penale, cit., 489 ss.; ID., Trattato di diritto penale. I delitti contro la pubblica amministrazione, cit. 955 ss.; E. INFANTE, Abuso di ufficio, cit., 323; G. COCCO – R.M. AMBROSETTI, La legge penale, Milano, 2019, 85. Contra S. VINCIGUERRA, Delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, 2008, 265; A. TESAURO, Brevi note in tema di abuso d’ufficio, modifiche mediate e leggi-provvedimento, in Foro It., 2004, II, 249 ss.; G. L. GATTA, Abolitio criminis e successione di norme integratrici: teoria e prassi, Milano, 2008, 606 ss.

[34] Cass. pen., sez. VI, 7.4.2005, n. 18149, Rv. 231342.

[35] Cass. pen., sez. VI, 15.1.2003, n. 10656, Rv. 224017-01.

[36] F. ANTOLISEI – L. CONTI, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 1985, p.183 ss.

[37] G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, Bologna, 1989, p.169 s.

[38] S. RICCIO, Presupposti del reato, in Nov. Dig. It., XVIII, Torino 1966, 795 ss.

[39] S. RICCIO, op. cit., p.798 ss.

[40] Cass. pen., sez. VI, 9.7.1998, n. 12320, Rv. 212319-01.

[41] Per tutti in dottrina C. BENUSSI, Trattato di diritto penale. Parte Speciale. I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 990; in giurisprudenza Cass. pen., sez. VI, 4.3.1999, n. 6274, Rv. 214156.

[42] S. MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, cit., p.89 ss.

[43] In tal senso con riguardo al tema specifico di cui ci stiamo occupando: A. GARGANI, Il controverso tema delle modifiche mediate della fattispecie incriminatrice al vaglio delle Sezioni Unite, in Cass. pen., 6, 2008, 2694 ss.; S. DEL CORSO, Successioni di leggi penali, in Dig. Disc. Pen., Torino 1999, p.19 dell’estratto.

[44] T. PADOVANI, Tipicità e successioni di leggi penali. La modifica legislativa degli elementi della fattispecie incriminatrice o della sua sfera di applicazione nell’ambito dell’art. 2, 2° e ° comma c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 1982, 1356 ss.; D. MICHELETTI, Legge penale e successione di norme integratrici, Torino, 2007, passim; G.L. GATTA, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici” nella recente giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in Dir. Pen. Cont., 15.10.2010, ID., Abolitio criminis e successione di norme “integratrici”: teoria e prassi, cit., passim; A. GARGANI, Il controverso tema delle modifiche mediate della fattispecie incriminatrice al vaglio delle Sezioni Unite, cit., passim; M. GAMBARDELLA, L’art. 2 del codice penale tra nuova incriminazione, abolitio criminis, depenalizzazione e successione di leggi nel tempo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, 1194 ss.; C. PECORELLA, sub art. 2, in Codice penale commentato, a cura di G. MARINUCCI – E. DOLCINI, vol. I, Milano 2006, 50 ss.; G. MARINUCCI – E. DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 2001, p.273 ss.; D. PULITANO’, Diritto penale, Torino, 2007, p.686.

[45] C. BENUSSI, Trattato di diritto penale. Parte Speciale. I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., p.995 s.

[46] A. MANNA, Abuso d’ufficio e conflitto di interessi nel sistema penale, Torino, 2004, p.39. Nello stesso senso M. RONCO – B. ROMANO, Codice penale commentato, Torino, 2012, p.1700 ss. In giurisprudenza l’affermazione si può leggere in Cass. pen., sez. VI, 3.10.2000, n. 11933, Rv. 217402: “Il d.P.R. n. 616 del 1977, delegando ai Comuni funzioni in determinate materie, prevede il potere di autorizzazione all’esercizio dei parcheggi privati ma non dispone che le modalità in cui esso si esplica siano delimitate da un previo regolamento: ne segue che la delibera municipale che fissa il prezzo della sosta in un’area privata non ha natura di regolamento, agli effetti di cui all’art. 323 cod. pen., atteso che tale qualifica spetta alle sole fonti sub-primarie adottate attraverso un iter regolamentare configurato da un provvedimento di legge ed in tal senso formalizzato con la qualifica espressa dell’atto come regolamento, alla cui violazione soltanto il Legislatore circoscrive la previsione di norma penale in bianco in cui parzialmente si risolva il precetto dell’art. 323 cod. pen.”. Contra C. BENUSSI, Trattato di diritto penale. Parte Speciale. I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., p.990 s. secondo cui l’art. 323 c.p. non avrebbe le caratteristiche della norma penale in bianco poiché, specie dopo la riforma del 1997, il fatto di reato nasce in sé «chiuso», ossia è già integralmente descritto dalla norma legislativa senza alcun coinvolgimento della pubblica amministrazione, nel ruolo di «fonte» di norme. Nello stesso senso G. COCCO – E.M. AMBROSETTI, La legge penale, cit., p.44 ss.

[47] In generale sul particolare rapporto intercorrente tra norme integratrici e norme penali in bianco C. PODO, Successioni di leggi penali, in Nov. Dig. It., XVIII, Torino 1971, p.658.

[48] A. MANNA, cit., p.40.

[49] A. MANNA, cit., p.41 ss.

[50] T. PADOVANI, Diritto penale, Milano, 2006, p.83 ss.; G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., p.94 s.; F. C. PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 2007, p.168; S. DEL CORSO, Successioni di leggi penali, in Dig. Disc. Pen., Torino 1999, p.19 dell’estratto.

[51] A. GARGANI, Il controverso tema delle modifiche mediate della fattispecie incriminatrice al vaglio delle Sezioni Unite, in Cass. pen., 6, 2008, 2649 ss., 3 dell’estratto.

[52] Per questa impostazione C.F. GROSSO, Successioni di leggi integratrici di legge penale e successione di leggi penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1960, 1205; E. INFANTE, Abuso di ufficio, cit., 238.

[53] E. INFANTE, Abuso di ufficio, cit., 238.

[54] Un altro esempio è quello dell’elemento normativo rappresentato dal concetto di “reato”, che deve essere oggetto della falsa incolpazione nel delitto di calunnia, e che viene utilizzato, per la verità, a volte in senso diametralmente opposto, cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1988, p.118; G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., p.94 s.

[55] Corte Costituzionale, sent. 4.5.1960, n 29.

[56] G.L. GATTA, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici” nella recente giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, cit.

[57] Cass. pen., S.U., 23.5.1987, n. 8342, Tuzet. Sulla stessa scia sembra porsi Cass. pen., sez. V, 4.2.2005, n. 8045. “Nel novero delle norme integratrici della legge penale, cui è applicabile il principio di retroattività della legge più favorevole, ai sensi dell’art. 2, comma terzo, cod. pen., debbono ricomprendersi tutte quelle che intervengano nell’area di rilevanza penale di un fatto umano, escludendola, riducendola o comunque modificandola in senso migliorativo per l’agente; e ciò quand’anche la nuova norma non rechi testuale statuizione in tal senso ma, comunque, regoli significativamente il fatto in termini incompatibili con la precedente disciplina penalistica ovvero incidenti, per il nuovo caso regolato, nella struttura della norma incriminatrice o, quanto meno, sul giudizio di disvalore in essa espresso (nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che potesse valere ad escludere la configurabilità del reato di violazione di domicilio – addebitato ad un esponente di un’associazione per la tutela degli animali per essersi egli introdotto e trattenuto, per dichiarate finalità ispettive, contro la volontà del proprietario, in un locale privato adibito a canile – la sopravvenuta emanazione di una norma regionale che imponeva ai gestori di strutture di ricovero per animali di consentire l’accesso, senza bisogno di speciali procedure o autorizzazioni, ai responsabili locali delle associazioni protezionistiche o animalistiche)”.

[58] Cass. Pen., S.U., 27.9.2007, n. 2451, Magera. In dottrina: F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 118; M. GAMBARDELLA, L’art. 2 del codice penale tra nuova incriminazione, abolitio criminis, depenalizzazione e successione di leggi nel tempo, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2009, 1194 ss., 15 dell’estratto.

[59] A. GARGANI, Il controverso tema delle modifiche mediate della fattispecie incriminatrice al vaglio delle Sezioni Unite, cit., 3 dell’estratto.

[60] Cass. pen., S.U., 27.9.2007, n. 2451, Magera.

[61] D. PULITANO’, Diritto penale, cit., p.886.

[62] M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1987, p. 422.

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