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L’INGANNO. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene.

La recente pubblicazione del libro di Alessandro Barbano, lucida rappresentazione delle gravi torsioni e delle evidenti storture illiberali che caratterizzano l’attuale sistema Antimafia, ha riportato in particolare l’attenzione su un istituto, quello delle misure di prevenzione patrimoniali fondate sul mero sospetto, che appare ormai perfettamente “incardinato” nella prassi pur in assenza di un suo valido inquadramento costituzionale.
Sotto tale profilo, la riflessione dell’autore, che si sofferma sulle matrici storiche ed ideologiche di tale strumento ancor prima che sulla sua sofisticata disciplina tecnico-giuridica, prende opportunamente le mosse proprio dall’avvenuta trasposizione della confisca di prevenzione, originariamente finalizzata a sottrarre alla criminalità mafiosa le ingenti risorse patrimoniali su cui essa tende storicamente ad edificare un potere territoriale strutturato e pervasivo, verso comportamenti delittuosi di segno completamente diverso, comunemente riferibili a singoli individui piuttosto che a gruppi organizzati.
Ebbene, lungi dal rivelarsi il più evidente punto di caduta di una disciplina che si voleva di natura manifestamente emergenziale, come sarebbe stato logico attendersi sul piano logico-giuridico, l’estensione dello spazio applicativo delle confische senza condanna ne ha invece allargato a dismisura le potenzialità applicative, introducendo stabilmente nel sistema giurisdizionale un autonomo binario “patrimoniale” che si muove del tutto al di fuori delle regole costituzionali tradizionalmente condivise e che trarrebbe la sua asserita legittimazione proprio dalle moderne esigenze di contrasto dei più gravi fenomeni criminali.
La documentata analisi critica dell’istituto condotta da Barbano, animata per larghi tratti dalla coinvolgente illustrazione di alcune vicende emblematiche, pone allora opportunamente in luce tutti i suoi aspetti più paradossali: l’abituale ricorso alle misure di prevenzione anche nei confronti delle vittime della criminalità organizzata (spesso proprio a seguito delle sentenze di assoluzione pronunciate nei loro confronti); l’indelebile marchio di infamia che continua ad accompagnare i prevenuti, ed i loro eredi, a prescindere dall’esito dei giudizi di merito (un marchio tale da evidenziare, già di per sé solo, la natura schiettamente penale dell’intervento ablatorio); i danni irreparabili costantemente determinati dalla gestione “commissariale” delle imprese e la conseguente inutilità pratica del procedimento di accertamento conseguente all’iniziale sequestro; gli evidenti interessi professionali destinati a pervadere simili forme di gestione di beni e di imprese altrui; la totale inconsistenza logica, prima ancora che giuridica, di gran parte delle motivazioni abitualmente addotte a sostegno dei provvedimenti ablatori di merito, spesso fondati su presunti collegamenti indiretti di natura familiare o imprenditoriale che nulla dicono invece sulle attività e sulla condotta di vita dell’interessato.
Dopo aver nitidamente tratteggiato questo vero e proprio quadro dell’assurdo, unitamente alle tragiche ingiustizie che si verificano quotidianamente al suo interno, le riflessioni dell’autore pongono pertanto in rilievo come una simile deriva costituisca la naturale conseguenza di norme ispirate da una concezione poliziesca dello Stato e come la scelta di affidarne l’operatività alla riconosciuta autorevolezza della magistratura di settore abbia purtroppo finito per trascinare anch’essa in dinamiche assai poco commendevoli, nelle quali le dichiarate finalità politico-ideologiche hanno aperto progressivamente spazio ad un ben più prosaico compiacimento per il potere in tal modo acquisito.
Lasciando da parte gli ineludibili profili politici sottesi alle diverse questioni affrontate, la forza e la precisione della denuncia svolta dall’autore inducono allora ad interrogarsi, anche in questa sede, sulla tenuta delle prime considerazioni che sono state sinora svolte, sul piano costituzionale, a sostegno della asserita legittimità di una simile deriva.
Come è noto, nella sentenza n.24 del 2019, la Corte Costituzionale aveva avuto modo di escludere, ancora una volta, la natura penale di simili interventi ablativi, prendendo al contempo atto anche dell’evidente scoloritura delle sue dichiarate finalità “preventive” ed aprendo piuttosto la strada alla possibile teorizzazione di un diritto di proprietà eternamente sottoposto ad una possibile verifica in merito alla sua sospetta provenienza.
Vale allora la pena di riportare testualmente il passaggio di interesse, nel quale la nuova funzione sottesa all’istituto viene finalmente espressa senza alcun infingimento: “nell’ottica del sistema, l’ablazione di tali beni costituisce non già una sanzione, ma piuttosto la naturale conseguenza della loro illecita acquisizione, la quale determina (…) un vizio genetico nella costituzione dello stesso diritto di proprietà in capo a chi ne abbia acquisito la materiale disponibilità, risultando sin troppo ovvio che la funzione sociale della proprietà privata possa essere assolta solo all’indeclinabile condizione che il suo acquisto sia conforme alle regole dell’ordinamento giuridico. Non può, dunque, ritenersi compatibile con quella funzione l’acquisizione di beni contra legem, sicché nei confronti dell’ordinamento statuale non è mai opponibile un acquisto inficiato da illecite modalità.”
In questo modo, il limite costituzionale legato alla “funzione sociale” della proprietà privata, da sempre inteso in chiave prospettica, viene invece per la prima volta autorevolmente evocato quale condizione intrinseca, da riferire alla sua effettiva legittimità etico-giuridica e da esaminare quindi in chiave retroattiva.
Proprio al cospetto di un dibattito costituzionale che fatica terribilmente ad astrarsi da una mera difesa pregiudiziale dell’esistente, il saggio di Alessandro Barbano ha allora il merito di evidenziare, con estrema chiarezza, che una simile affermazione di principio non può che determinare, nella pratica, l’immediato svuotamento di qualsiasi forma di garanzia individuale, non appena l’inafferrabile logica del sospetto, unanimemente ritenuta inammissibile in ambito penalistico, venga invece incredibilmente elevata a criterio di valutazione del patrimonio altrui.
E proprio il fatto che ciò possa avvenire nei confronti di soggetti che non siano mai stati destinatari di alcuna condanna, su discrezionale impulso degli organi inquirenti, denota un surrettizio ribaltamento di qualsiasi visione liberale del rapporto fra Stato e cittadini, ponendo a repentaglio anche alcune conquiste che parevano invece definitivamente acquisite.

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