1.Conobbi Massimo Nobili, tanti, tantissimi anni fa, quando eravamo giovani; avevo letto il suo libro sul principio del libero convincimento, che mi apparve come un vero e proprio capolavoro, per lo stile essenziale, senza mai una sbavatura, per il rigore dell’argomentare, senza tentennamenti, per l’assoluta condivisibilità degli esiti.
Già conoscevo Franco Bricola, altro grande Maestro, di terra bolognese – come Nobili -, ma nel cui insegnamento ‘costituzionalistico’ si riconobbe – ed io continuo a riconoscermi – un’intera generazione di studiosi italiani. A lui chiesi di presentarmi Nobili ed egli accolse, con la sua consueta amabilità, la mia richiesta: eravamo a Siracusa – all’ISISC centro internazionale di elaborazione e diffusione della cultura penalistica magnificamente diretto da Alfonso Stile – e così conobbi una persona veramente particolare, una figura allampanata, con un forte tratto di riservatezza, di singolare eleganza vagamente anglosassone e di grandissima gentilezza. Io gli feci i complimenti per il suo bellissimo lavoro, lui, borbottando qualcosa, si schernì e immediatamente, quasi interrompendomi chiese di me, dei miei studi germanici di cui era al corrente. Fu veramente un impatto indimenticabile; allora rimanemmo d’intesa di non perderci di vista, infatti restammo sempre in contatto.
Ci ritrovammo a lavorare insieme nella gloriosa rivista Critica del diritto, fondata dal burbero Antonio Bevere, autentico garante della libertà di espressione. Il mio impegno, in questa rivista, resta una delle più gratificanti esperienze della mia vita di studioso. Essa contava collaborazioni di Mario A. Cattaneo, Luigi Ferrajoli, Marcello Gallo, Tullio Padovani, Claus Roxin, Raúl Zaffaroni e di tantissimi altri illustri colleghi, giovani e meno giovani, avvocati, magistrati, tra cui l’impareggiabile, indimenticabile Enzo Albano.
Quando fu declassata, in base a parametri a dir poco indegni rispetto all’assoluta qualità dei contenuti, Massimo, oltre che noi tutti, ci rimase malissimo, ma con una uscita delle sue precisò che avrebbe continuato a collaborare solo se fossimo rimasti in ‘serie b’, a maggior scorno di chi aveva consentito questo scempio.
Altro ricordo incancellabile, la splendida lezione che Massimo ebbe la generosità di tenere nell’aprile del 1995 a Salerno in materia di criminalità organizzata e processo, quando lavoravo nell’Università di quella città. Un venerdì pomeriggio, un’aula stracolma di studenti, ma anche di tanti ‘addetti ai lavori’, e alla fine una standing ovation di diversi minuti. Erano i tempi di seminari, a cui ebbero la bontà di partecipare i più illustri Colleghi, italiani e stranieri; senza voler far torto ad alcuno, voglio ricordare tra tutti Sandro Baratta, gigante nel pensiero e nell’umanità.
- La cifra dell’insegnamento di Massimo, a mio sommesso avviso, fin dal lavoro sul libero convincimento, è la legalità. Qui va fatta una precisazione, il pensiero di Nobili è, ben a ragione, definito garantista, ma vorrei subito chiarire che questa definizione – che pur accomuna anche i miei più modesti scritti a quelli dell’insigne studioso – in fin dei conti non mi sembra utile: e non tanto per il significato insopportabilmente deteriore – ai limiti della contumelia – che è nella vulgata comune, per lo più giornalistica, ma non solo. Ma perchè, se essere garantisti significa il rispetto delle disposizioni di legge, ed in primis della Costituzione, allora si tratta semplicemente di essere giuristi e dunque corretti, fedeli interpreti. Però, a questo punto, il problema riguarda il ‘non garantista’, cioè colui che non applica correttamente le norme, che le forza, che le ignora, finendo così per ispirare la sua azione a finalità che non gli competono ed in tal modo si pone eo ipso fuori della legalità, fuori dello stato di diritto e, dunque, fuori della democrazia.
La legalità a cui fa riferimento Massimo Nobili è da intendersi in senso lato che comprende anche il costume della legalità: esso riguarda leggi e prassi ed io su questo aspetto vorrei soffermarmi. E Massimo Nobili intendendo la procedura penale scienza pratica delle garanzie, denunciava con estrema lucidità la crisi del processo e della giustizia all’interno della più ampia crisi delle istituzioni.
Dalle sue puntuali notazioni, tuttora, attualissime, sembra di aver perso di particolare significatività il fatto che nel processo penale vengano in questione diritti fondamentali dell’individuo e, primo fra tutti, il diritto di libertà. Certamente non può disconoscersi che uno stato di diritto deve tutelarsi nei confronti di fenomeni criminali, realizzando le condizioni per un effettivo esercizio della pretesa punitiva statuale – ma che questa deve esplicarsi con il rispetto delle garanzie – e che la necessità di un giusto processo è essa stessa una condizione vitale per uno stato di diritto. Va, pertanto, scongiurato nei fatti il formarsi di un divario sovente notevole tra l’enunciazione solenne, anche in Costituzione, dei principi e la loro concretizzazione, sia a livello legislativo che di prassi.
Un modello diverso di processo penale sembra invece aver trovato spazio di fronte a vere e/o presunte emergenze. Si è assistito, quindi, ad un revival di criteri legislativi e giurisprudenziali, ‘esemplari’, che si sono concretizzati in un notevole irrigidimento della coercizione processuale, con il ripristino di meccanismi di automatica applicazione della custodia cautelare, in una riespansione dei poteri inquisitori della polizia giudiziaria e, più in generale, nella messa in discussione dei principi basilari del processo accusatorio, quali il contraddittorio e la formazione della prova in dibattimento, con un ampliamento a dismisura dei poteri del pubblico ministero.
Il richiamo ai principi non può considerarsi superfluo nella misura in cui si ripropongono pericolose contrapposizioni tra istanze di garanzia ed istanze di efficienza; tra esse non può esservi divaricazione, si tratta, infatti, di aspetti complementari delle medesime esigenze di giustizia.
La pericolosa illusione di combattere i fenomeni criminali con i giudici e non sul piano politico-sociale e politico-criminale, ha provocato l’imporsi di una ‘politica giudiziaria’ con vere e proprie sovraesposizioni della magistratura, com’è testimoniato a livello normativo, dal progressivo rientro delle indagini nel processo, già iniziato con le sentenze della Corte costituzionale del 1992 e proseguito con la successiva novellazione di adeguamento al nuovo indirizzo. Il risultato è stato la tendenziale disattesa dei diritti fondamentali dell’individuo, sanciti negli artt. 13, 24, 25, 27, 111 Cost.
Va detto che la linea di rigore repressivo sviluppatasi inizialmente per contrastare, anche sotto il profilo processuale, la criminalità organizzata, ha portato a soluzioni normative e prassi giurisprudenziali che hanno travalicato i limiti della specialità antimafia. Così come lo stravolgimento di talune regole basilari in materia di custodia cautelare, realizzato a livello giurisprudenziale, è partito nell’ambito dei processi relativi ai fatti di corruzione di Tangentopoli, per continuare anche successivamente.
Come notava Massimo Nobili (1) può dirsi che vi è stato un superamento del modello accusatorio per privilegiare un orientamento all’accertamento della verità materiale, liberando il processo da sterili formalismi ritenuti d’impaccio. In particolare si è voluto “svincolare il processo dal regno sterile delle forme fini a se stesse” e collocare “legalità e garanzia nell’etica della responsabilità, anziché in quella delle forme”, addebitando a quest’ultimo l’inefficienza che connotava il processo penale, specialmente in un’ottica antimafia; e non si capiva che l’eventuale recupero di efficienza a scapito del rispetto delle forme – cioè delle norme – implicava una caduta in termini di legalità difficilmente sopportabile per uno stato di diritto.
Ed invece, assecondando le stravaganti scelte della Corte costituzionale, si viene a sancire un’assoluta supremazia della funzione punitiva, con l’affidare alla coscienza, se non all’intuizione, del magistrato il potere di punire. Il che, in altri termini, nel postulare un’assoluta subordinazione delle norme procedurali a quelle sostanziali viene a stabilire, secondo Nobili, una nuova forma di autonomia ed indipendenza del magistrato, quella dalla legge processuale. E non è questione di ‘sterili formalismi’, qui è in gioco ben altro: il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento.
Il processo senza le sue forme, le sue regole, non è più tale, gli atti fuori delle regole sono opérationes sublimes – e qui Nobili (2) richiama la felicissima terminologia di Robespierre – ma non atti di giustizia: in luogo della procedura penale e del diritto abbiamo atti politici, eversivi. Gli atti politici spettano al potere politico, che li realizza, certo anche attraverso il diritto, ma all’interno di quelle direttive politiche fondamentali, divenute con la mediazione del diritto, principi.
La procedura penale, ammonisce Nobili (3), va ancora intesa come regola superiore e come limite al potere della magistratura. Abbiamo, invece, assistito ad un complessivo spostamento da un sistema concepito e giustificato sulla supremazia della legge verso uno sempre più imperniato sul potere del magistrato, postulato come immancabilmente affidabile e, quindi, superiore. Questo significa un rafforzato assetto autoritario della giurisdizione, dal momento che la forza dei provvedimenti dei magistrati risiede sempre meno nella legge e sempre più nell’organo che ha il potere; l’importante è che tale provvedimento venga da un organo che ha il potere di emetterlo. A ciò corrisponde un contestuale indebolimento delle procedure di controllo sull’operato dei giudici.
Tutto questo viene visto come una sorta di benefico giacobinismo, senza però avvedersi delle distorsioni sul piano della stessa democrazia, che si connettono ad un tale ruolo dei magistrati. Il processo che emerge si qualifica per l’elasticità delle sue regole, con un fiorire di prassi che solo a stento sono riconducibili alle previsioni normative; con i diritti degli imputati che risultano affidati all’incertezza di queste prassi e non alle certezze delle regulae juris.
L’enfasi posta sul valore dell’autonomia e dell’indipendenza della funzione giudiziaria tende, più o meno consapevolmente, a ridimensionare il valore della stessa categoria “norma giuridica”: essa è espressione di qualcosa d’infido, quale è un potere, da contrastare, rappresentato da un’entità indistinta, comprensiva di classe politica, partitica, parlamentare, governativa. E l’essere ‘potere contro’ finisce per essere anche contro il prodotto di quegli altri poteri: la legge, un frutto impuro di quella classe politica. Serpeggiano, allora, atteggiamenti di indipendenza ed autonomia dalla stessa legge; idee di primato del potere giudiziario rispetto alla norma giuridica ed in particolare rispetto a quella processuale.
In realtà, nota bene a proposito Nobili (4), il sistema italiano, rispetto alla dicotomia aristotelica tra un sistema fondato sulla supremazia della legge ed uno su quella dei giudici, ha optato per una terza via, in cui la supremazia è dei giudici, ma nell’ambito di un assetto che si suppone sia fondato ancora sulla prevalenza della norma. Un esempio lampante è dato dall’ipocrisia dell’asserita permanenza del principio di obbligatorietà dell’azione penale, fondato sul primato della legge. E questo spiega l’accreditarsi di definizioni rozze che non hanno alcunché di dottrina giuridica, come l’espressione ‘prova sociale’ quale convincimento collettivo di reità.
In uno stato di diritto il processo deve identificarsi con il dubbio, con le prove, con il contraddittorio. Deve presumersi la non colpevolezza. Quando si praticano altre vie, si tratta di applicazioni solenni di ‘misure di salute pubblica’, di ‘pubblica tranquillità’, di ‘sicurezza generale’, di ‘zelo per il lavoro pubblico’ tanto per continuare ad adoperare una terminologia cara a Robespierre: si tratta di atti politici.
A partire dalla novellazione del 1992 di attuazione della ‘filosofia procedimentale’ espressa dalla Corte costituzionale, si è capovolta l’impronta garantista del codice del 1988, delineata in termini inequivocabili soprattutto nella legge delega del 1987, ove all’artt. 2 si legge, tra l’altro, chiaramente, che il nuovo codice “deve attuare nel processo penale i caratteri del sistema accusatorio”. Ed invece proprio nella delicatissima materia della prova le sentenze della Corte costituzionale hanno sconvolto il sistema accusatorio quale emergeva dalla riforma del 1988 (5).
In particolare il regime delle prove penali, che nel processo accusatorio trova la sua più chiara espressione nel dibattimento, viene stemperato fino ad ammettere, tra l’altro, la possibilità di recuperare le dichiarazioni rilasciate innanzi agli organi di polizia giudiziaria: non a torto può parlarsi di restaurazione del rito inquisitorio.
Volendo sintetizzare gli aspetti più rilevanti di questa radicale involuzione, va, innanzitutto, posto in risalto il recupero, nella fase dibattimentale, anche ai fini della valutazione probatoria, degli atti compiuti durante le indagini preliminari da parte del pubblico ministero e della polizia giudiziaria, nonché dei documenti e verbali di prova formati in altro procedimento.
Il dibattimento finisce per divenire luogo di controllo e valutazione di prove formate altrove; si viene a prefigurare una sorta di reviviscenza delle vecchia istruzione sommaria, meno garantita della precedente, non essendovi la garanzia della presenza costante del difensore. Sono evidenti le violazioni dei basilari principi dell’oralità, del contraddittorio e del diritto di difesa.
Inoltre, con l’ampliamento dei poteri autonomi d’indagine, viene a delinearsi la possibilità di un’istruttoria di polizia, svincolata dalle direttive del pubblico ministero ed estesa anche ad atti che comportano l’assistenza difensiva, suscettibili di assumere, tramite il nuovo meccanismo delle contestazioni, diretta rilevanza in sede dibattimentale.
Strettamente connessa all’accresciuta rilevanza assunta dalle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari al pubblico ministero è l’introduzione della nuova fattispecie delle false informazioni al pubblico ministero, art. 371 bis c.p. – bilanciata, successivamente, per così dire, dalla fattispecie delle false dichiarazioni al difensore, art. 371 ter c.p. – e in questo contesto di rigore repressivo, si segnala la più severa disciplina dei reati contro l’amministrazione della giustizia, con l’aumento delle pene previste per il reato di falsa testimonianza e la previsione della nuova fattispecie delle false dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’autorità giudiziaria, art. 374 bis c.p.
Appare evidente che questi orientamenti, normativi e giurisprudenziali, tradiscano una concezione del processo, essenzialmente, in termini di difesa sociale, più che di attuazione della giustizia, con tutti i rischi di stravolgimento delle funzioni di un tale sensibile indicatore del grado di civiltà di una compagine statuale: basti solo pensare al consequenziale affievolimento dei diritti dell’individuo che una prospettiva del genere reca con sé.
Quando con il processo s’intende fronteggiare in via primaria il diffondersi di manifestazioni criminali – non quindi, come naturale effetto indotto – ciò significa cedere, come di consueto nelle emergenze di ogni tipo, alle suggestive illusioni della deterrenza, con il risultato di verticali cadute in termini di legalità, senza apprezzabili contropartite in termini di efficienza. Questa obiettiva squalifica delle garanzie formali significa la negazione di quelle scelte di valore, che presiedono all’opzione garantistica, quali il rispetto di libertà, personalità e dignità individuale nei confronti di un possibile arbitrio statuale. È noto che, quando il regime probatorio si deteriora, imputazione e giudizio tendono a confondersi e ciò dà vita ad un appiattimento della funzione del giudice su quella della pubblica accusa e ad una consequenziale predeterminazione della sentenza.
Ma, come sostiene Nobili (6), è possibile anche una via intermedia, più subdola, quando si viene a creare un processo con insofferenza per le regole stabilite dalla legge, o quando è la stessa legge a tradire certe regole, allora si compie una mistificazione, pericolosissima per i diritti dell’uomo. Anche in questo caso abbiamo atti politici, insinuati, però per la pubblica opinione nella ‘funzione’ del processo giudiziario.
La crisi delle forme, qui, paradossalmente avviene per via di legge, ma la qualità dei risultati, rispetto ad operazioni chiaramente eversive dello stato di diritto, non cambia molto: le prove degradano, l’imputazione e il giudizio tendono a confondersi e identificarsi – il secondo è già contenuto nella prima -, il giudice è schiacciato dalla pubblica accusa, la legittimazione viene ricercata non nelle norme, ma in forme variegate di consensi esterni: il processo come garanzia allora scompare.
Tutto ciò sta al fondo della strada che s’imbocca quando entrano in crisi le forme. E, generalmente, sotto la patina rassicurante di involucri processuali, al primo richiamarsi a vere o presunte emergenze, il processo finisce per assumere la funzione di misura politica, quando ai valori delle forme sostituisce i valori dei risultati a tutti i costi, anche di quelli errati.
E qui viene in discussione la stessa partecipazione di accusa e difesa su basi di parità; laddove essa, in ogni stato e grado del rito, rappresenta un postulato di civiltà irrinunciabile, quale espressione di un funzionale rapporto libertà/autorità in termini di adeguatezza allo stato di diritto.
Molteplici, invece, sono stati i fattori che hanno concorso a sbilanciare il contraddittorio, finendo con il porre lo stesso ruolo della difesa in una condizione ambigua. E così l’esigenza del contraddittorio risulta notevolmente affievolita ed il tipo di amministrazione della giustizia che ne deriva pare oscillare tra un modello autoritario e un modello paternalistico.
Si pone allora in evidenza il problema del libero convincimento. L’esperienza, normativa e giurisprudenziale, presa in considerazione ci mostra come polarità di segno opposto una disciplina legale dei mezzi di prova ed il libero convincimento.
Questo viene inteso come elemento di legittimazione di un potere tendenzialmente illimitato del giudice nell’accertamento dei fatti, fondato sul principio, inopinatamente costituzionalizzato dalla Consulta, della non dispersione dei mezzi di prova. Laddove, correttamente intesa, come insegna Nobili, la libertà del giudice è criterio di valutazione e non di formazione della prova; il suo oggetto deve essere dato da materiale probatorio correttamente acquisito al processo nel contraddittorio e, quindi, secondo regole che pongano condizioni severe di attendibilità e controllabilità di mezzi e risultati.
Dunque, con l’adozione di criteri sostanzialistici per formazione e valutazione delle prove, il libero convincimento del giudice pare estendersi fino a poter apprezzare anche dati che non dovrebbero, perché non ne hanno la natura, costituire mezzi di prova legalmente acquisiti, né, tantomeno, averne l’efficacia. È inutile negare che sia il contraddittorio, sia la stessa terzietà del giudice sono stati drammaticamente posti in discussione. E ciò accade quando costituiscono materiale probatorio legittimamente acquisito le dichiarazioni rese, in totale assenza di contraddittorio, al pubblico ministero ed alla polizia giudiziaria nell’ambito delle indagini preliminari, divenuta di ampia, prolungata durata, con uno stravolgimento del regime probatorio del codice di procedura penale del 1988.
È caduta, infatti, quella sorta di presunzione di sospetto nei confronti degli elementi raccolti dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero, anche in relazione a quelli derivanti da interrogatorio senza la presenza del difensore. Il compito della ricerca della verità, come problema attinente all’efficienza nel controllo dei fatti di criminalità, deve, allora, conformarsi alle condizioni di ragionevolezza e legalità, stabilite in via generale ed astratta, senza adattarsi a contingenze e pressioni ‘emergenziali’. Pertanto, all’interno del contraddittorio il valore della garanzia è esaltato proprio dalla possibilità di controllare e discutere la formazione e la valutazione della prova.
Il sistema processuale che si configura in seguito alle varie modifiche più o meno ‘emergenziali’, segnala un ruolo iperattivo del pubblico ministero ed un forte ampliamento dei suoi poteri – come pone in evidenza Nobili (7) – che lo rendono protagonista di un processo con controparti dai diritti notevolmente affievoliti; essi trovano la loro espressione più evidente nel complessivo ridimensionamento del diritto alla difesa, pur costituzionalmente sancito.
Indubbiamente il pubblico ministero è la figura su cui si scaricano le maggiori tensioni sociali e politiche, ma è altrettanto indubbio che dall’azione del pubblico ministero trae origine e si consolida il conflitto tra principi e prassi. Il ‘nuovo’ processo emerso, dopo gli interventi legislativi e le decisioni della Consulta richiamate, appare dominato dalle indagini del pubblico ministero.
Tuttavia, anche se si tratta di controllare, di imporre il rispetto della legge in sfere di potere, occulto o meno, particolarmente forti, che tendono con ogni mezzo a sottrarvisi e che, di converso, quasi impongono la scelta verso un modello di giustizia ‘forte’ – che tende a valorizzare gli strumenti autoritari del processo – non è ammissibile in una democrazia avanzata ispirata al modello dello stato di diritto, mettere da parte, anche solo temporaneamente, vere e proprie conquiste di civiltà, che una lunga, e sovente sofferta, maturazione hanno imposto all’ordinamento giuridico, trovando solenne enunciazione nella stessa Legge fondamentale.
In effetti, quando si accredita un fondamento del sistema diverso da quello della regula juris, si scatenano e si coltivano prassi operative, sinergie con poteri politici, con massmedia, che impongono inquietanti modelli di giustizia, diversi da quello del diritto penale del fatto, creando poteri non ufficiali, illimitati e incontrollabili.
Di qui il passo, pericolosissimo, verso forme dicotomiche, surrettizie rispetto alla legge di ‘legittimazione-delegittimazione’; e qui è l’accusa a porsi come entità già collaudata ed affermata in virtù dei consensi, mentre chi dissente o critica, ‘delegittima’. Addirittura è l’organo giurisdizionale che, se assolve, delegittima; e ciò è palese, se si pensa alle pubbliche reprimende secondo cui un giudice, assolvendo, avrebbe ‘azzerato’ i risultati e l’opera anteriore del pubblico ministero (8).
Appare allora indispensabile, per ricostruire un piano di complessiva, affidabile legalità, ridimensionare i poteri del pubblico ministero, rielaborare in senso garantistico il sistema probatorio, fissare con estrema chiarezza, al fine di scongiurare ogni tipo di abuso, le finalità della custodia cautelare – sovente intesa come ‘provvisionale penale’ – incatenando a precisi presupposti i poteri di coercizione cautelare e, contestualmente, predisponendo le condizioni per una riduzione dei tempi processuali.
Molti dei disagi traggono, infatti, la loro origine dalle carenze e dalle lentezze della macchina giudiziaria. Il procedere della giustizia si rivela spessissimo troppo faticoso, perché ci si possa permettere di escludere dalla base dei provvedimenti giurisdizionali degli elementi comunque acquisiti. E questo spiega l’accentuata valorizzazione del libero convincimento del giudice, del ruolo inquisitorio del pubblico ministero, rispetto al significato delle forme legali del processo, che non riesce a celare la sua sostanza autoritaria sotto il manto, rispettivamente, dall’efficienza, in rapporto all’accertamento della verità, e della compiutezza delle indagini, in rapporto alla dimostrazione delle ipotesi accusatorie.
Non va dimenticato , infatti, (9) che l’apparenza di una giustizia rapida ed efficiente nasconde meccanismi sommari, tipici delle involuzioni autoritarie. Ciò si verifica, ad esempio, quando si pongono ostacoli, se non veri e propri impedimenti, al confronto con testimoni, quando si affermano libertà di prova in contrasto con le norme, quando si permette l’utilizzazione nel dibattimento di accuse rese solo ‘inter alios’ o raccolte tramite procedure in segreto.
Qui è la stessa tenuta dello stato diritto a venire in questione nei termini del due process. In esso vengono a verificarsi, senza possibili fraintendimenti, termini e qualità del rapporto tra individuo e autorità, che in una democrazia avanzata esige un processo penale, che non abbia come finalità precipua la lotta alla criminalità, ma consideri questa solo un effetto costante dell’accertamento della verità processuale. Un sistema ispirato ai principi dello stato di diritto non ha interesse, né convenienza ad una compressione dei diritti fondamentali, quale che sia la situazione contingente.
Tutto ciò accade ed è destinato ad accadere, quando si scatenano inquietanti, campagne moralistiche di law and order che finiscono per attribuire alla giustizia penale il ruolo di soluzione principe dei conflitti, ben al di là di vere o presunte emergenze. La giustizia, però, secondo gli schemi ricorrenti di una ‘cultura emergenzialista’, risulta assumere una fisionomia particolare, ben diversa da quella che delinea uno stato di diritto; essa determina preoccupanti commistioni di ruoli, di anticipazione di pena, di concerto con i massmedia ed ha come esito la realizzazione di irrituali processi sommari, con l’immancabile corollario della poena extraordinaria della gogna.
- Un’altra, grave, disfunzione strettamente connessa con la diffusione della ‘incultura’ delle garanzie, viene individuata da Nobili nella sistematica violazione del segreto esterno (10). E questo fatto ha dato luogo, all’inquietante, fondata sensazione di una richiesta di consenso esterno all’azione della magistratura; e il più grave scandalo sta proprio nel fatto che il segreto sia per lo più violato strumentalmente al fine di poter indirizzare, anche politicamente il processo, per provocare nella pubblica opinione una reazione di tipo repressivo-giustizialista, di supporto all’azione giudiziaria. In effetti, la cronaca giornalistica e televisiva è stata inondata di messaggi che vanno ben oltre il fatto di cui si tratta e la stessa informazione giudiziaria si è trovata di fronte ad una giustizia cambiata per qualità e quantità. Una parte non trascurabile, ormai, del rapporto tra Stato ed individuo si ferma intorno al fenomeno giustizia e corre il pericolo di essere profondamente turbata dall’esaltazione, impropria per uno stato di diritto, di un modello processuale inteso prevalentemente in termini di vendetta.
È necessario tutelare i diritti della persona, specialmente per quel che riguarda la pubblicizzazione dell’informazione di garanzia, divenuta tradizione massmediale, consolidata e che va severamente censurata: si tende a costruire sin dall’inizio un’immagine di colpevolezza. Eppure la Carta costituzionale stabilisce solennemente, all’art. 27 co. 2, la presunzione di non colpevolezza del soggetto fino alla condanna definitiva; ma la quotazione di questa regola di civiltà appare molto bassa e ciò si deve anche ad un diffuso malcostume giornalistico, oltre che a poco provvide soluzioni legislative e prassi giurisprudenziali che ‘normalizzano’ la custodia cautelare in carcere, autorizzandone implicitamente una surrettizia funzione di anticipazione della pena.
Si è del tutto dimenticato che uno dei cardini del garantismo dello stato di diritto è dato dal diritto dell’accusato ad essere considerato innocente, prima di una sentenza di condanna passata in giudicato, cioè fornita di tutte le prove, le doglianze, le riconsiderazioni possibili. Alla presunzione di non colpevolezza o si crede o non si crede nei fatti: in larga misura non è neanche un problema di norme. A ben vedere è questo un principio di civiltà già alla base della dottrina del giusnaturalismo laico, di cui forse tutti gli altri principi dello stato di diritto in materia processuale costituiscono altrettanti corollari. Sembra, invece, resistere ancora un’ancestrale emozione ‘sacrale’ che spinge all’immediata individuazione del colpevole ed al suo contestuale sacrificio.
Ciò accade, quando si diffonde un atteggiamento ‘culturale’, per lo più d’ispirazione efficientista, che tende a svalutare le stesse decisioni giudiziarie (11), per affidare il compito di giudicare e condannare, sotto le forme della stigmatizzazione e della pubblica squalificazione, ad altre istanze che, nei loro processi sommari, non sembrano avere molto a cuore garanzie relative a diritti della difesa, presunzione di non colpevolezza, riservatezza personale, se non, addirittura, dignità dell’uomo. E la caratteristica pregnante del processo massmediale è data dal ‘deposito degli atti in edicola’.
Se è vero che ad una notevole accelerazione dei mezzi e, quindi, dei tempi di diffusione delle notizie si è abbinata la consueta, insopportabile lentezza dell’amministrazione della giustizia, ciò non significa, tuttavia, che sia auspicabile, o addirittura legittimo, fondare un giudizio extraistituzionale, e ancor meno una pubblica condanna, sulla base di atti procedimentali come l’emissione di un avviso di garanzia o di un’ordinanza di custodia cautelare, che riguardano i momenti iniziali del procedimento, in rapporto ai quali si può essere ben lontani dall’effettiva fondatezza della pretesa persecutoria. E, invece, si finisce con l’attribuire a tali atti un carattere di definitività, che essi non posso avere, e soprattutto li si lascia avvertire in questi termini all’opinione pubblica. Allora al processo penale, o meglio alla sua prima fase del procedimento vengono affidate funzioni che non le sono affatto proprie, non escluse quelle, molto inquietanti, di strumento per azioni politiche. In ogni caso, questo stato di cose, appare gravemente pregiudizievole, sia dei diritti di riservatezza e di tutela della dignità individuale, sia delle ragioni stesse di una serena e corretta amministrazione della giustizia (12).
Va denunciato, pertanto, con chiarezza il fatto che questo stato di cose deriva dalla violazione sistematica del segreto istruttorio, che è resa possibile dalla disattesa, costante e diffusa, da parte degli organi deputati alla sua gestione, delle sue finalità istituzionali. Il segreto che conta andrebbe dunque efficacemente protetto e le sue violazioni andrebbero punite. Ma, sicuramente, ben più segrete del segreto istruttorio si sono rivelate le fonti e le vie della sua violazione.
Alla violazione della regola stabilita nell’art. 329 co. 1 c.p.p. del segreto sugli atti compiuti dal pubblico ministero o della polizia giudiziaria fino alla conoscibilità da parte del possibile imputato, andrebbe applicata la fattispecie di rivelazione di segreti di ufficio, di cui all’art. 326 c.p., sia che si tratti di rivelazione privata che di vera e propria pubblicizzazione, in applicazione della regola di civiltà, di cui all’art. 28 Cost. sulla responsabilità dei funzionari e dei dipendenti dello Stato. E sarebbe auspicabile una modifica della norma di cui all’art. 329 c.p.p., con un’estensione del divieto di divulgazione delle notizie relative a tutti gli atti d’indagine fino all’udienza preliminare, in modo da tener ragionevolmente conto delle esigenze di tutela della riservatezza e dell’onorabilità degli indagati, nonché delle parti private coinvolte nel processo; solo così il segreto troverebbe un’ampia ragionevole tutela nell’ambito del segreto d’ufficio. Ferma restando l’ipotesi esimente dell’esercizio del diritto di cronaca per il giornalista che si limiti a pubblicare le notizie coperte dal segreto: resterebbe, invece, intatta la sua responsabilità, a titolo di concorso, nel caso di istigazione alla rivelazione del depositario delle notizie, o, secondo un titolo autonomo di responsabilità, qualora si fosse procurato con mezzi illeciti la notizia.
È questo un campo in cui vengono a scontrarsi diversi interessi, tutti legati a diritti fondamentali, come la libertà di manifestazione del pensiero, sub specie diritto di cronaca giornalistica, a cui è strettamente connesso il diritto dei consociati ad essere informati su fatti che rivestono pubblico interesse; vengono, quindi, in evidenza i diritti che attengono alla personalità dell’individuo, così come l’interesse alla realizzazione della giustizia, sotto il profilo della serenità e indipendenza del giudice.
I criteri per la soluzione del conflitto possono essere molteplici; pare opportuno soffermarsi, sia pure cursoriamente, sul criterio assiologico-normativo, che fa riferimento ad una soluzione di tipo strutturale, attenta alla logica interna, alla dialettica dei diritti fondamentali, tutti dotati di autonomo riconoscimento costituzionale. Il criterio preso in considerazione origina da considerazioni di valore che traggono il loro fondamento dal rango dei diritti confliggenti. Ciò significa, in concreto, che, per quel che attiene alla difesa dei diritti della personalità individuale, sanciti all’art. 2 Cost. tra i “principi fondamentali” della Costituzione, essa deve avere una considerazione privilegiata sia rispetto alla libertà di stampa, art. 21 Cost., che rispetto alle stesse esigenze processuali artt. 24 e 111 Cost.
Ciò, ovviamente, non significa che queste ultime prerogative debbano sempre soccombere, altrimenti non avrebbe avuto alcun senso il loro riconoscimento, ma soltanto che la violazione dei diritti della personalità debba apparire come l’ultima ratio, per il corretto esercizio delle funzioni legate agli altri interessi richiamati.
Vi dev’essere, allora, la verosimiglianza della possibile lesione del diritto fondamentale al rispetto della dignità e personalità individuale, per la presenza di presupposti incerti sulla fondatezza dei dati – quali i primi atti d’indagine – che non giustifica la condotta orientata alla soddisfazione dell’interesse confliggente: quest’ultima, infatti, necessita, ai fini di un corretto espletamento, dell’esistenza di dati tutt’altro che vaghi, proprio per la presenza di un interesse contrastante di particolare, notevole significatività.
Una riforma che voglia assicurare una migliore tutela della riservatezza, della dignità e della reputazione delle persone coinvolte nel processo – e che, al tempo stesso, sia idonea a tener conto anche degli altri interessi, di tipo istituzionale – per essere efficace dovrà eliminare le cause degli effetti che s’intendono evitare: questi il più delle volte sono prodotti già della notizia della semplice iscrizione del nome della persona nel registro delle notizie di reato.
Appare, allora, evidente che si dovrà intervenire non sulla disciplina degli “atti non pubblicabili”, di cui all’art. 114 c.p.p. – divieto “relativo” – posta prevalentemente a tutela di esigenze di natura endoprocessuale – con l’eccezione delle “tre situazioni speciali” – ma su quella degli “atti segreti”, art. 329 c.p.p. – divieto “assoluto” – laddove i diritti delle persone coinvolte nel procedimento sembrano trovare una maggiore considerazione.
Si tratterà, allora, di modificare l’art. 329 co. 1 c.p.p., eliminando il riferimento al limite della conoscibilità da parte dell’imputato e della sua difesa. In tal modo, il termine finale del segreto diventa la chiusura delle indagini preliminari. Ad essere resa pubblica sarà, allora, la richiesta di rinvio a giudizio del pubblico ministero e, quindi, non ancora il decreto del giudice dell’udienza preliminare che lo dispone. In tal caso verrebbe abbracciata anche l’ipotesi dei riti alternativi in cui manca l’udienza preliminare.
Inoltre si dovrebbe modificare l’art. 329 co. 2 c.p.p., eliminando il potere di desegretazione del pubblico ministero, e l’art. 329 co. 3 lett. a) e b) c.p.p., eliminando perché, inutili, i poteri di segretazione del pubblico ministero.
In considerazione del fatto che l’art. 329 co. 1 c.p.p. fa riferimento agli “atti di indagine”, si è ritenuto di non considerare tali l’avviso di garanzia e l’iscrizione del nome della persona nel registro delle notizie di reato; questi atti, dunque, non sarebbero coperti da alcuna forma di segreto.
Per superare questo inconveniente, di non poco momento, si potrebbe fare riferimento alla figura, derivata dal diritto amministrativo degli “atti presupposti”: modificando l’art. 329 co. 1 c.p.p. si potrebbero inserire dopo il riferimento “alla polizia giudiziaria”, le parole “ogni atto presupposto”. Il testo del’art. 329 co. 1 c.p.p. dunque dovrebbe essere il seguente: “Gli atti d’indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria ed ogni altro atto presupposto sono coperti dal segreto fino alla chiusura delle indagini preliminari”. Una soluzione di tal genere avrebbe il pregio di rivitalizzare la fattispecie di rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio, art. 326 c.p., che, anche in riferimento alla disciplina attuale della pubblicità degli atti del procedimento penale, appare, invece, del tutto desueta; la sua applicazione riporterebbe sui soggetti tenuti al segreto il baricentro per la garanzia della tutela di diversi interessi, che vengono in rilievo in questo contesto e che, a causa di una normativa farraginosa, e poco perspicua, risultano costantemente offesi.
È evidente, tuttavia, che tale soluzione non risolve affatto tutti problemi; essa lascia aperti margini per possibili strumentalizzazioni. È solo una solida cultura delle garanzie – quella propugnata in tutta la sua opera da Massimo Nobili – che potrà assicurare il cittadino contro indebite violazioni della sua dignità, sub specie riservatezza, operate all’interno del procedimento penale.
- In conclusione un cenno all’ultimo capolavoro di Massimo, “L’immoralità necessaria” del 2009, una originalissima riflessione sulla giustizia penale. L’opera attinge ad un arsenale culturale smisurato, le “aree limitrofe” del diritto e della procedura penale, quali letteratura, antropologia, storia, belle arti, religione, musica. E così la gran parte dell’universo penalistico viene offerta, accompagnata dai profondi turbamenti d’animo di un coltissimo ‘uomo di buona volontà’, che da Le Erinni, Il castigo; si snoda lungo Sonde nel processo penale; Prova, accertamento, errori; Specchi della Storia; Giustizia, parole, insegnamenti; Sproporzioni; Colpevolezza: i capitoli del libro. Ed in ognuno di questi capitoli una parte è anche dedicata all’iconografia connessa, pur essa attraversata in lungo e in largo, a partire dalle miniature medievali, sino a giungere all’espressionismo, passando per le fasi più significative dello sviluppo delle arti figurative. E non mancano i riferimenti alla musica colta.
E a questo proposito, egli richiama l’Adagietto della Quinta sinfonia di Gustav Mahler (13), che rappresenta per me il sublime nella musica con un andante melodico ammaliante che tocca l’anima, a cui segue un tratto maestoso, espressivo di sentimenti titanici in un movimento a spirale che potrebbe continuare all’infinito.
In realtà l’Autore, attraverso 964 citazioni o, “trapianti” come egli preferisce dire, mette in campo un raffinatissimo arsenale argomentativo, funzionale alla ricostruzione di impostazioni di fondo, problemi generali, singole opzioni, istituti relativi al diritto e alla procedura penale. Va in atto un confronto con le espressioni più alte della cultura nel corso della Storia in un contesto di sapiente strategia espositiva. E un confronto di tal genere, con il richiamarsi contestualmente ai saperi ed alle esperienze artistiche, anche fortemente distanti le une dalle altre, per genere, tempo e spazio, finiscono per dar vita ad un riconoscimento al valore dell’affascinante sfida dello strutturalismo critico, che tanto entusiasmò la nostra generazione alla fine degli anni Sessanta, quando al di là di inutili steccati di genere o di ‘provinciali’ tecnicismi, si tendeva a forme critiche, complesse di conoscenza, innanzitutto dell’uomo – non più ad una dimensione – e di ciò che dell’uomo e della società erano ragioni, problemi, esigenze, prospettive. Vale la pena di sottolineare che l’orientamento ‘critico’ equivaleva, ed equivale ancora, alla ferma persuasione che noi non viviamo affatto nell’unico dei possibili mondi, tutt’altro! E a trarne le debite conseguenze.
Certo, a pensarci bene, quanto risultano attuali queste tematiche !
Spingere a riflettere di nuovo strutturalisticamente è un altro grande merito del lavoro di Massimo.
All’interno di un Seminario pensato per giovani, mi pare giusto soffermarmi su un aspetto che Nobili tratta in maniera semplicemente toccante: quello relativo a “Giustizia, insegnamento, atenei” di cui ogni docente delle nostre materie dovrebbe tener conto: “Tutti crediamo di conoscere l’insegnamento che occorre per la giustizia penale. Tale consapevolezza è invece rara. I destinatari sarebbero estremamente recettivi: ma in realtà chi, quando e in che modo insegna ai ragazzi italiani come mai una buona perizia, tuttavia compiuta senza certe regole, la si butta nel nulla ? E perché ha un senso il favor rei. Non sono faccende per specialisti e tale larga trascuratezza causa il disastro di incomprensioni quotidiane …
Le facce di quel nesso (giustizia-insegnamento) sono numerose. Dalle opere che contano spicca anche la magia, il prodigio insondabile … dei rapporti individuali di insegnamento” (14) .
E, continuando, Nobili pone felicemente in rilievo che “moltissimo sta in relazioni personali di tipo straordinario; qualcosa d’inesprimibile che entra in strati sconosciuti” . E “deve coinvolgere la parte più profonda dell’individualità, toccare le corde più intime” (15) . “È il prodigio della trasmissione; passa per le capacità di accendere il fuoco nelle anime degli allievi; invade, dischiude, può anche distruggere. Tutto questo accade mentre trattiamo del reato continuato, della motivazione, della bancarotta” ; quando cioè facciamo della didattica accademica, che Nietzsche maliziosamente definisce quella “strana procedura che consiste nel parlare e nell’ascoltare” (16) .
È certo che vi sia della magia nel discorso che Nobili ci propone sull’insegnamento universitario; un dover essere contrafatticamente avversato da miserie di istituzioni ed uomini.
È inutile negarlo – anche in seguito a disastrose riforme ordite nei confronti dell’Università – attualmente si assiste ad una forte demotivazione nell’apprendimento, dovuta ad una radicata tendenza ad una spersonalizzante oggettivazione: si giudicano gli studenti in base al mero profitto, termine mutuato dal gergo aziendale, che porta a risolvere la formazione in un puro fatto quantitativo, dove a sommarsi sono nozioni e voti. Siccome la quantità è misurabile con il calcolo, dall’Università vengono espulse tutte quelle dimensioni che sfuggono alla calcolabilità, quindi reattività, emozioni, identificazioni, proiezioni, desideri, piaceri, dolori che costellano la crescita giovanile.
E ciò spiega, perché, sovente, prendono bei voti quei giovani che hanno un basso livello di creatività, scarsi impianti emozionali, limitate proiezioni fantastiche, perché, libera da questi ‘inconvenienti’, la mente può disporsi ad immagazzinare tutte quelle nozioni che si ordinano con rigore e precisione; più sono disanimate, meno coinvolgono l’anima, all’insegna di quel risparmio emotivo che rende l’incasellamento delle informazioni molto più agevole.
Un’offerta culturale così disanimata può essere foriere solo di vuoto emotivo ed esistenziale, con tutto quel che consegue, talora, anche in termini drammatici.
Spesso, allora, l’identità degli studenti cosiddetti bravi si costruisce sulle disfatte di quelli cosiddetti non bravi; le valutazioni avvengono tanto spesso sulla base di impressioni soggettive, dove le proiezioni sfuse di studenti e professori si mescolano e approdano ad una valutazione costruita in un colloquio di trenta/quaranta minuti che si svolge tra due sconosciuti.
Si dice che sovente l’insuccesso sia un problema di volontà, d’impegno da parte di chi studia: ma la volontà non esiste al di fuori dell’interesse e l’interesse non esiste separato da un legame anche emotivo. Ed il legame emotivo non si costruisce quando il rapporto tra professore e studente è un rapporto di reciproca diffidenza, se non di assoluta incomprensione.
E non vale obiettare che compito dell’Università è di istruire la mente e non prendersi cura dei fattori emotivi, perché dal topolino nel labirinto al giovane studente, non si dà apprendimento senza gratificazione emotiva e l’incuria dell’emotività è un gran rischio che uno studente corre, ma lo corre anche un docente.
Quando la poesia è in crisi – scriveva George Bernanos – non servono i critici, servono i poeti e cerchiamoli allora questi poeti dell’Università che è in crisi: Massimo Nobili era uno di questi.
1) Principio di legalità e processo penale (in Ricordo di Franco Bricola), in Riv. it. dir. proc. pen. 1995, 651
2) Cosa si può rispondere all’invettiva di Robespierre contenuta nel discorso per la condanna a morte del Re: “Voi invocate le forme perché non avete principi”?, in Crit. dir. 1994, 67
3) Principio di legalità e processo penale, cit., 651
4) Principio di legalità e processo penale, cit., 652
5) Prove a “difesa” e investigazioni di parte nell’attuale assetto delle indagini preliminari, in Riv. it. dir. proc. pen. 1994, 414 ss.
6) Principio di legalità e processo penale, cit., 652
7) Associazioni mafiose, criminalità organizzata e sistema processuale (1995), in AA.VV., Criminalità organizzata e risposte ordina mentali. Tra efficienza e garanzia, Napoli 1999, 240; L’accusatorio sulle labbra, l’inquisitorio nel cuore, in Crit. dir. 1992, IV-V, 11ss.
8) Principio di legalità e processo penale, cit., 654-655
9) Cosa si può rispondere all’invettiva di Robespierre, cit., 70
10) Principio di legalità e processo penale, cit., 658
11) Associazioni mafiose, criminalità organizzata e sistema processuale, cit., 227-228
12) Verso un nuovo garantismo?, in Crit. dir. 1996, 248 ss.
13) L’immoralità necessaria. Citazioni e percorsi nei mondi della giustizia, Bologna 2009,
14) L’immoralità necessaria, cit., 329
15) L’immoralità necessaria, cit., 331
16) L’immoralità necessaria, cit., 331
Massimo Nobili: il costume della legalità
1.Conobbi Massimo Nobili, tanti, tantissimi anni fa, quando eravamo giovani; avevo letto il suo libro sul principio del libero convincimento, che mi apparve come un vero e proprio capolavoro, per lo stile essenziale, senza mai una sbavatura, per il rigore dell’argomentare, senza tentennamenti, per l’assoluta condivisibilità degli esiti.
Già conoscevo Franco Bricola, altro grande Maestro, di terra bolognese – come Nobili -, ma nel cui insegnamento ‘costituzionalistico’ si riconobbe – ed io continuo a riconoscermi – un’intera generazione di studiosi italiani. A lui chiesi di presentarmi Nobili ed egli accolse, con la sua consueta amabilità, la mia richiesta: eravamo a Siracusa – all’ISISC centro internazionale di elaborazione e diffusione della cultura penalistica magnificamente diretto da Alfonso Stile – e così conobbi una persona veramente particolare, una figura allampanata, con un forte tratto di riservatezza, di singolare eleganza vagamente anglosassone e di grandissima gentilezza. Io gli feci i complimenti per il suo bellissimo lavoro, lui, borbottando qualcosa, si schernì e immediatamente, quasi interrompendomi chiese di me, dei miei studi germanici di cui era al corrente. Fu veramente un impatto indimenticabile; allora rimanemmo d’intesa di non perderci di vista, infatti restammo sempre in contatto.
Ci ritrovammo a lavorare insieme nella gloriosa rivista Critica del diritto, fondata dal burbero Antonio Bevere, autentico garante della libertà di espressione. Il mio impegno, in questa rivista, resta una delle più gratificanti esperienze della mia vita di studioso. Essa contava collaborazioni di Mario A. Cattaneo, Luigi Ferrajoli, Marcello Gallo, Tullio Padovani, Claus Roxin, Raúl Zaffaroni e di tantissimi altri illustri colleghi, giovani e meno giovani, avvocati, magistrati, tra cui l’impareggiabile, indimenticabile Enzo Albano.
Quando fu declassata, in base a parametri a dir poco indegni rispetto all’assoluta qualità dei contenuti, Massimo, oltre che noi tutti, ci rimase malissimo, ma con una uscita delle sue precisò che avrebbe continuato a collaborare solo se fossimo rimasti in ‘serie b’, a maggior scorno di chi aveva consentito questo scempio.
Altro ricordo incancellabile, la splendida lezione che Massimo ebbe la generosità di tenere nell’aprile del 1995 a Salerno in materia di criminalità organizzata e processo, quando lavoravo nell’Università di quella città. Un venerdì pomeriggio, un’aula stracolma di studenti, ma anche di tanti ‘addetti ai lavori’, e alla fine una standing ovation di diversi minuti. Erano i tempi di seminari, a cui ebbero la bontà di partecipare i più illustri Colleghi, italiani e stranieri; senza voler far torto ad alcuno, voglio ricordare tra tutti Sandro Baratta, gigante nel pensiero e nell’umanità.
La legalità a cui fa riferimento Massimo Nobili è da intendersi in senso lato che comprende anche il costume della legalità: esso riguarda leggi e prassi ed io su questo aspetto vorrei soffermarmi. E Massimo Nobili intendendo la procedura penale scienza pratica delle garanzie, denunciava con estrema lucidità la crisi del processo e della giustizia all’interno della più ampia crisi delle istituzioni.
Dalle sue puntuali notazioni, tuttora, attualissime, sembra di aver perso di particolare significatività il fatto che nel processo penale vengano in questione diritti fondamentali dell’individuo e, primo fra tutti, il diritto di libertà. Certamente non può disconoscersi che uno stato di diritto deve tutelarsi nei confronti di fenomeni criminali, realizzando le condizioni per un effettivo esercizio della pretesa punitiva statuale – ma che questa deve esplicarsi con il rispetto delle garanzie – e che la necessità di un giusto processo è essa stessa una condizione vitale per uno stato di diritto. Va, pertanto, scongiurato nei fatti il formarsi di un divario sovente notevole tra l’enunciazione solenne, anche in Costituzione, dei principi e la loro concretizzazione, sia a livello legislativo che di prassi.
Un modello diverso di processo penale sembra invece aver trovato spazio di fronte a vere e/o presunte emergenze. Si è assistito, quindi, ad un revival di criteri legislativi e giurisprudenziali, ‘esemplari’, che si sono concretizzati in un notevole irrigidimento della coercizione processuale, con il ripristino di meccanismi di automatica applicazione della custodia cautelare, in una riespansione dei poteri inquisitori della polizia giudiziaria e, più in generale, nella messa in discussione dei principi basilari del processo accusatorio, quali il contraddittorio e la formazione della prova in dibattimento, con un ampliamento a dismisura dei poteri del pubblico ministero.
Il richiamo ai principi non può considerarsi superfluo nella misura in cui si ripropongono pericolose contrapposizioni tra istanze di garanzia ed istanze di efficienza; tra esse non può esservi divaricazione, si tratta, infatti, di aspetti complementari delle medesime esigenze di giustizia.
La pericolosa illusione di combattere i fenomeni criminali con i giudici e non sul piano politico-sociale e politico-criminale, ha provocato l’imporsi di una ‘politica giudiziaria’ con vere e proprie sovraesposizioni della magistratura, com’è testimoniato a livello normativo, dal progressivo rientro delle indagini nel processo, già iniziato con le sentenze della Corte costituzionale del 1992 e proseguito con la successiva novellazione di adeguamento al nuovo indirizzo. Il risultato è stato la tendenziale disattesa dei diritti fondamentali dell’individuo, sanciti negli artt. 13, 24, 25, 27, 111 Cost.
Va detto che la linea di rigore repressivo sviluppatasi inizialmente per contrastare, anche sotto il profilo processuale, la criminalità organizzata, ha portato a soluzioni normative e prassi giurisprudenziali che hanno travalicato i limiti della specialità antimafia. Così come lo stravolgimento di talune regole basilari in materia di custodia cautelare, realizzato a livello giurisprudenziale, è partito nell’ambito dei processi relativi ai fatti di corruzione di Tangentopoli, per continuare anche successivamente.
Come notava Massimo Nobili (1) può dirsi che vi è stato un superamento del modello accusatorio per privilegiare un orientamento all’accertamento della verità materiale, liberando il processo da sterili formalismi ritenuti d’impaccio. In particolare si è voluto “svincolare il processo dal regno sterile delle forme fini a se stesse” e collocare “legalità e garanzia nell’etica della responsabilità, anziché in quella delle forme”, addebitando a quest’ultimo l’inefficienza che connotava il processo penale, specialmente in un’ottica antimafia; e non si capiva che l’eventuale recupero di efficienza a scapito del rispetto delle forme – cioè delle norme – implicava una caduta in termini di legalità difficilmente sopportabile per uno stato di diritto.
Ed invece, assecondando le stravaganti scelte della Corte costituzionale, si viene a sancire un’assoluta supremazia della funzione punitiva, con l’affidare alla coscienza, se non all’intuizione, del magistrato il potere di punire. Il che, in altri termini, nel postulare un’assoluta subordinazione delle norme procedurali a quelle sostanziali viene a stabilire, secondo Nobili, una nuova forma di autonomia ed indipendenza del magistrato, quella dalla legge processuale. E non è questione di ‘sterili formalismi’, qui è in gioco ben altro: il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento.
Il processo senza le sue forme, le sue regole, non è più tale, gli atti fuori delle regole sono opérationes sublimes – e qui Nobili (2) richiama la felicissima terminologia di Robespierre – ma non atti di giustizia: in luogo della procedura penale e del diritto abbiamo atti politici, eversivi. Gli atti politici spettano al potere politico, che li realizza, certo anche attraverso il diritto, ma all’interno di quelle direttive politiche fondamentali, divenute con la mediazione del diritto, principi.
La procedura penale, ammonisce Nobili (3), va ancora intesa come regola superiore e come limite al potere della magistratura. Abbiamo, invece, assistito ad un complessivo spostamento da un sistema concepito e giustificato sulla supremazia della legge verso uno sempre più imperniato sul potere del magistrato, postulato come immancabilmente affidabile e, quindi, superiore. Questo significa un rafforzato assetto autoritario della giurisdizione, dal momento che la forza dei provvedimenti dei magistrati risiede sempre meno nella legge e sempre più nell’organo che ha il potere; l’importante è che tale provvedimento venga da un organo che ha il potere di emetterlo. A ciò corrisponde un contestuale indebolimento delle procedure di controllo sull’operato dei giudici.
Tutto questo viene visto come una sorta di benefico giacobinismo, senza però avvedersi delle distorsioni sul piano della stessa democrazia, che si connettono ad un tale ruolo dei magistrati. Il processo che emerge si qualifica per l’elasticità delle sue regole, con un fiorire di prassi che solo a stento sono riconducibili alle previsioni normative; con i diritti degli imputati che risultano affidati all’incertezza di queste prassi e non alle certezze delle regulae juris.
L’enfasi posta sul valore dell’autonomia e dell’indipendenza della funzione giudiziaria tende, più o meno consapevolmente, a ridimensionare il valore della stessa categoria “norma giuridica”: essa è espressione di qualcosa d’infido, quale è un potere, da contrastare, rappresentato da un’entità indistinta, comprensiva di classe politica, partitica, parlamentare, governativa. E l’essere ‘potere contro’ finisce per essere anche contro il prodotto di quegli altri poteri: la legge, un frutto impuro di quella classe politica. Serpeggiano, allora, atteggiamenti di indipendenza ed autonomia dalla stessa legge; idee di primato del potere giudiziario rispetto alla norma giuridica ed in particolare rispetto a quella processuale.
In realtà, nota bene a proposito Nobili (4), il sistema italiano, rispetto alla dicotomia aristotelica tra un sistema fondato sulla supremazia della legge ed uno su quella dei giudici, ha optato per una terza via, in cui la supremazia è dei giudici, ma nell’ambito di un assetto che si suppone sia fondato ancora sulla prevalenza della norma. Un esempio lampante è dato dall’ipocrisia dell’asserita permanenza del principio di obbligatorietà dell’azione penale, fondato sul primato della legge. E questo spiega l’accreditarsi di definizioni rozze che non hanno alcunché di dottrina giuridica, come l’espressione ‘prova sociale’ quale convincimento collettivo di reità.
In uno stato di diritto il processo deve identificarsi con il dubbio, con le prove, con il contraddittorio. Deve presumersi la non colpevolezza. Quando si praticano altre vie, si tratta di applicazioni solenni di ‘misure di salute pubblica’, di ‘pubblica tranquillità’, di ‘sicurezza generale’, di ‘zelo per il lavoro pubblico’ tanto per continuare ad adoperare una terminologia cara a Robespierre: si tratta di atti politici.
A partire dalla novellazione del 1992 di attuazione della ‘filosofia procedimentale’ espressa dalla Corte costituzionale, si è capovolta l’impronta garantista del codice del 1988, delineata in termini inequivocabili soprattutto nella legge delega del 1987, ove all’artt. 2 si legge, tra l’altro, chiaramente, che il nuovo codice “deve attuare nel processo penale i caratteri del sistema accusatorio”. Ed invece proprio nella delicatissima materia della prova le sentenze della Corte costituzionale hanno sconvolto il sistema accusatorio quale emergeva dalla riforma del 1988 (5).
In particolare il regime delle prove penali, che nel processo accusatorio trova la sua più chiara espressione nel dibattimento, viene stemperato fino ad ammettere, tra l’altro, la possibilità di recuperare le dichiarazioni rilasciate innanzi agli organi di polizia giudiziaria: non a torto può parlarsi di restaurazione del rito inquisitorio.
Volendo sintetizzare gli aspetti più rilevanti di questa radicale involuzione, va, innanzitutto, posto in risalto il recupero, nella fase dibattimentale, anche ai fini della valutazione probatoria, degli atti compiuti durante le indagini preliminari da parte del pubblico ministero e della polizia giudiziaria, nonché dei documenti e verbali di prova formati in altro procedimento.
Il dibattimento finisce per divenire luogo di controllo e valutazione di prove formate altrove; si viene a prefigurare una sorta di reviviscenza delle vecchia istruzione sommaria, meno garantita della precedente, non essendovi la garanzia della presenza costante del difensore. Sono evidenti le violazioni dei basilari principi dell’oralità, del contraddittorio e del diritto di difesa.
Inoltre, con l’ampliamento dei poteri autonomi d’indagine, viene a delinearsi la possibilità di un’istruttoria di polizia, svincolata dalle direttive del pubblico ministero ed estesa anche ad atti che comportano l’assistenza difensiva, suscettibili di assumere, tramite il nuovo meccanismo delle contestazioni, diretta rilevanza in sede dibattimentale.
Strettamente connessa all’accresciuta rilevanza assunta dalle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari al pubblico ministero è l’introduzione della nuova fattispecie delle false informazioni al pubblico ministero, art. 371 bis c.p. – bilanciata, successivamente, per così dire, dalla fattispecie delle false dichiarazioni al difensore, art. 371 ter c.p. – e in questo contesto di rigore repressivo, si segnala la più severa disciplina dei reati contro l’amministrazione della giustizia, con l’aumento delle pene previste per il reato di falsa testimonianza e la previsione della nuova fattispecie delle false dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’autorità giudiziaria, art. 374 bis c.p.
Appare evidente che questi orientamenti, normativi e giurisprudenziali, tradiscano una concezione del processo, essenzialmente, in termini di difesa sociale, più che di attuazione della giustizia, con tutti i rischi di stravolgimento delle funzioni di un tale sensibile indicatore del grado di civiltà di una compagine statuale: basti solo pensare al consequenziale affievolimento dei diritti dell’individuo che una prospettiva del genere reca con sé.
Quando con il processo s’intende fronteggiare in via primaria il diffondersi di manifestazioni criminali – non quindi, come naturale effetto indotto – ciò significa cedere, come di consueto nelle emergenze di ogni tipo, alle suggestive illusioni della deterrenza, con il risultato di verticali cadute in termini di legalità, senza apprezzabili contropartite in termini di efficienza. Questa obiettiva squalifica delle garanzie formali significa la negazione di quelle scelte di valore, che presiedono all’opzione garantistica, quali il rispetto di libertà, personalità e dignità individuale nei confronti di un possibile arbitrio statuale. È noto che, quando il regime probatorio si deteriora, imputazione e giudizio tendono a confondersi e ciò dà vita ad un appiattimento della funzione del giudice su quella della pubblica accusa e ad una consequenziale predeterminazione della sentenza.
Ma, come sostiene Nobili (6), è possibile anche una via intermedia, più subdola, quando si viene a creare un processo con insofferenza per le regole stabilite dalla legge, o quando è la stessa legge a tradire certe regole, allora si compie una mistificazione, pericolosissima per i diritti dell’uomo. Anche in questo caso abbiamo atti politici, insinuati, però per la pubblica opinione nella ‘funzione’ del processo giudiziario.
La crisi delle forme, qui, paradossalmente avviene per via di legge, ma la qualità dei risultati, rispetto ad operazioni chiaramente eversive dello stato di diritto, non cambia molto: le prove degradano, l’imputazione e il giudizio tendono a confondersi e identificarsi – il secondo è già contenuto nella prima -, il giudice è schiacciato dalla pubblica accusa, la legittimazione viene ricercata non nelle norme, ma in forme variegate di consensi esterni: il processo come garanzia allora scompare.
Tutto ciò sta al fondo della strada che s’imbocca quando entrano in crisi le forme. E, generalmente, sotto la patina rassicurante di involucri processuali, al primo richiamarsi a vere o presunte emergenze, il processo finisce per assumere la funzione di misura politica, quando ai valori delle forme sostituisce i valori dei risultati a tutti i costi, anche di quelli errati.
E qui viene in discussione la stessa partecipazione di accusa e difesa su basi di parità; laddove essa, in ogni stato e grado del rito, rappresenta un postulato di civiltà irrinunciabile, quale espressione di un funzionale rapporto libertà/autorità in termini di adeguatezza allo stato di diritto.
Molteplici, invece, sono stati i fattori che hanno concorso a sbilanciare il contraddittorio, finendo con il porre lo stesso ruolo della difesa in una condizione ambigua. E così l’esigenza del contraddittorio risulta notevolmente affievolita ed il tipo di amministrazione della giustizia che ne deriva pare oscillare tra un modello autoritario e un modello paternalistico.
Si pone allora in evidenza il problema del libero convincimento. L’esperienza, normativa e giurisprudenziale, presa in considerazione ci mostra come polarità di segno opposto una disciplina legale dei mezzi di prova ed il libero convincimento.
Questo viene inteso come elemento di legittimazione di un potere tendenzialmente illimitato del giudice nell’accertamento dei fatti, fondato sul principio, inopinatamente costituzionalizzato dalla Consulta, della non dispersione dei mezzi di prova. Laddove, correttamente intesa, come insegna Nobili, la libertà del giudice è criterio di valutazione e non di formazione della prova; il suo oggetto deve essere dato da materiale probatorio correttamente acquisito al processo nel contraddittorio e, quindi, secondo regole che pongano condizioni severe di attendibilità e controllabilità di mezzi e risultati.
Dunque, con l’adozione di criteri sostanzialistici per formazione e valutazione delle prove, il libero convincimento del giudice pare estendersi fino a poter apprezzare anche dati che non dovrebbero, perché non ne hanno la natura, costituire mezzi di prova legalmente acquisiti, né, tantomeno, averne l’efficacia. È inutile negare che sia il contraddittorio, sia la stessa terzietà del giudice sono stati drammaticamente posti in discussione. E ciò accade quando costituiscono materiale probatorio legittimamente acquisito le dichiarazioni rese, in totale assenza di contraddittorio, al pubblico ministero ed alla polizia giudiziaria nell’ambito delle indagini preliminari, divenuta di ampia, prolungata durata, con uno stravolgimento del regime probatorio del codice di procedura penale del 1988.
È caduta, infatti, quella sorta di presunzione di sospetto nei confronti degli elementi raccolti dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero, anche in relazione a quelli derivanti da interrogatorio senza la presenza del difensore. Il compito della ricerca della verità, come problema attinente all’efficienza nel controllo dei fatti di criminalità, deve, allora, conformarsi alle condizioni di ragionevolezza e legalità, stabilite in via generale ed astratta, senza adattarsi a contingenze e pressioni ‘emergenziali’. Pertanto, all’interno del contraddittorio il valore della garanzia è esaltato proprio dalla possibilità di controllare e discutere la formazione e la valutazione della prova.
Il sistema processuale che si configura in seguito alle varie modifiche più o meno ‘emergenziali’, segnala un ruolo iperattivo del pubblico ministero ed un forte ampliamento dei suoi poteri – come pone in evidenza Nobili (7) – che lo rendono protagonista di un processo con controparti dai diritti notevolmente affievoliti; essi trovano la loro espressione più evidente nel complessivo ridimensionamento del diritto alla difesa, pur costituzionalmente sancito.
Indubbiamente il pubblico ministero è la figura su cui si scaricano le maggiori tensioni sociali e politiche, ma è altrettanto indubbio che dall’azione del pubblico ministero trae origine e si consolida il conflitto tra principi e prassi. Il ‘nuovo’ processo emerso, dopo gli interventi legislativi e le decisioni della Consulta richiamate, appare dominato dalle indagini del pubblico ministero.
Tuttavia, anche se si tratta di controllare, di imporre il rispetto della legge in sfere di potere, occulto o meno, particolarmente forti, che tendono con ogni mezzo a sottrarvisi e che, di converso, quasi impongono la scelta verso un modello di giustizia ‘forte’ – che tende a valorizzare gli strumenti autoritari del processo – non è ammissibile in una democrazia avanzata ispirata al modello dello stato di diritto, mettere da parte, anche solo temporaneamente, vere e proprie conquiste di civiltà, che una lunga, e sovente sofferta, maturazione hanno imposto all’ordinamento giuridico, trovando solenne enunciazione nella stessa Legge fondamentale.
In effetti, quando si accredita un fondamento del sistema diverso da quello della regula juris, si scatenano e si coltivano prassi operative, sinergie con poteri politici, con massmedia, che impongono inquietanti modelli di giustizia, diversi da quello del diritto penale del fatto, creando poteri non ufficiali, illimitati e incontrollabili.
Di qui il passo, pericolosissimo, verso forme dicotomiche, surrettizie rispetto alla legge di ‘legittimazione-delegittimazione’; e qui è l’accusa a porsi come entità già collaudata ed affermata in virtù dei consensi, mentre chi dissente o critica, ‘delegittima’. Addirittura è l’organo giurisdizionale che, se assolve, delegittima; e ciò è palese, se si pensa alle pubbliche reprimende secondo cui un giudice, assolvendo, avrebbe ‘azzerato’ i risultati e l’opera anteriore del pubblico ministero (8).
Appare allora indispensabile, per ricostruire un piano di complessiva, affidabile legalità, ridimensionare i poteri del pubblico ministero, rielaborare in senso garantistico il sistema probatorio, fissare con estrema chiarezza, al fine di scongiurare ogni tipo di abuso, le finalità della custodia cautelare – sovente intesa come ‘provvisionale penale’ – incatenando a precisi presupposti i poteri di coercizione cautelare e, contestualmente, predisponendo le condizioni per una riduzione dei tempi processuali.
Molti dei disagi traggono, infatti, la loro origine dalle carenze e dalle lentezze della macchina giudiziaria. Il procedere della giustizia si rivela spessissimo troppo faticoso, perché ci si possa permettere di escludere dalla base dei provvedimenti giurisdizionali degli elementi comunque acquisiti. E questo spiega l’accentuata valorizzazione del libero convincimento del giudice, del ruolo inquisitorio del pubblico ministero, rispetto al significato delle forme legali del processo, che non riesce a celare la sua sostanza autoritaria sotto il manto, rispettivamente, dall’efficienza, in rapporto all’accertamento della verità, e della compiutezza delle indagini, in rapporto alla dimostrazione delle ipotesi accusatorie.
Non va dimenticato , infatti, (9) che l’apparenza di una giustizia rapida ed efficiente nasconde meccanismi sommari, tipici delle involuzioni autoritarie. Ciò si verifica, ad esempio, quando si pongono ostacoli, se non veri e propri impedimenti, al confronto con testimoni, quando si affermano libertà di prova in contrasto con le norme, quando si permette l’utilizzazione nel dibattimento di accuse rese solo ‘inter alios’ o raccolte tramite procedure in segreto.
Qui è la stessa tenuta dello stato diritto a venire in questione nei termini del due process. In esso vengono a verificarsi, senza possibili fraintendimenti, termini e qualità del rapporto tra individuo e autorità, che in una democrazia avanzata esige un processo penale, che non abbia come finalità precipua la lotta alla criminalità, ma consideri questa solo un effetto costante dell’accertamento della verità processuale. Un sistema ispirato ai principi dello stato di diritto non ha interesse, né convenienza ad una compressione dei diritti fondamentali, quale che sia la situazione contingente.
Tutto ciò accade ed è destinato ad accadere, quando si scatenano inquietanti, campagne moralistiche di law and order che finiscono per attribuire alla giustizia penale il ruolo di soluzione principe dei conflitti, ben al di là di vere o presunte emergenze. La giustizia, però, secondo gli schemi ricorrenti di una ‘cultura emergenzialista’, risulta assumere una fisionomia particolare, ben diversa da quella che delinea uno stato di diritto; essa determina preoccupanti commistioni di ruoli, di anticipazione di pena, di concerto con i massmedia ed ha come esito la realizzazione di irrituali processi sommari, con l’immancabile corollario della poena extraordinaria della gogna.
È necessario tutelare i diritti della persona, specialmente per quel che riguarda la pubblicizzazione dell’informazione di garanzia, divenuta tradizione massmediale, consolidata e che va severamente censurata: si tende a costruire sin dall’inizio un’immagine di colpevolezza. Eppure la Carta costituzionale stabilisce solennemente, all’art. 27 co. 2, la presunzione di non colpevolezza del soggetto fino alla condanna definitiva; ma la quotazione di questa regola di civiltà appare molto bassa e ciò si deve anche ad un diffuso malcostume giornalistico, oltre che a poco provvide soluzioni legislative e prassi giurisprudenziali che ‘normalizzano’ la custodia cautelare in carcere, autorizzandone implicitamente una surrettizia funzione di anticipazione della pena.
Si è del tutto dimenticato che uno dei cardini del garantismo dello stato di diritto è dato dal diritto dell’accusato ad essere considerato innocente, prima di una sentenza di condanna passata in giudicato, cioè fornita di tutte le prove, le doglianze, le riconsiderazioni possibili. Alla presunzione di non colpevolezza o si crede o non si crede nei fatti: in larga misura non è neanche un problema di norme. A ben vedere è questo un principio di civiltà già alla base della dottrina del giusnaturalismo laico, di cui forse tutti gli altri principi dello stato di diritto in materia processuale costituiscono altrettanti corollari. Sembra, invece, resistere ancora un’ancestrale emozione ‘sacrale’ che spinge all’immediata individuazione del colpevole ed al suo contestuale sacrificio.
Ciò accade, quando si diffonde un atteggiamento ‘culturale’, per lo più d’ispirazione efficientista, che tende a svalutare le stesse decisioni giudiziarie (11), per affidare il compito di giudicare e condannare, sotto le forme della stigmatizzazione e della pubblica squalificazione, ad altre istanze che, nei loro processi sommari, non sembrano avere molto a cuore garanzie relative a diritti della difesa, presunzione di non colpevolezza, riservatezza personale, se non, addirittura, dignità dell’uomo. E la caratteristica pregnante del processo massmediale è data dal ‘deposito degli atti in edicola’.
Se è vero che ad una notevole accelerazione dei mezzi e, quindi, dei tempi di diffusione delle notizie si è abbinata la consueta, insopportabile lentezza dell’amministrazione della giustizia, ciò non significa, tuttavia, che sia auspicabile, o addirittura legittimo, fondare un giudizio extraistituzionale, e ancor meno una pubblica condanna, sulla base di atti procedimentali come l’emissione di un avviso di garanzia o di un’ordinanza di custodia cautelare, che riguardano i momenti iniziali del procedimento, in rapporto ai quali si può essere ben lontani dall’effettiva fondatezza della pretesa persecutoria. E, invece, si finisce con l’attribuire a tali atti un carattere di definitività, che essi non posso avere, e soprattutto li si lascia avvertire in questi termini all’opinione pubblica. Allora al processo penale, o meglio alla sua prima fase del procedimento vengono affidate funzioni che non le sono affatto proprie, non escluse quelle, molto inquietanti, di strumento per azioni politiche. In ogni caso, questo stato di cose, appare gravemente pregiudizievole, sia dei diritti di riservatezza e di tutela della dignità individuale, sia delle ragioni stesse di una serena e corretta amministrazione della giustizia (12).
Va denunciato, pertanto, con chiarezza il fatto che questo stato di cose deriva dalla violazione sistematica del segreto istruttorio, che è resa possibile dalla disattesa, costante e diffusa, da parte degli organi deputati alla sua gestione, delle sue finalità istituzionali. Il segreto che conta andrebbe dunque efficacemente protetto e le sue violazioni andrebbero punite. Ma, sicuramente, ben più segrete del segreto istruttorio si sono rivelate le fonti e le vie della sua violazione.
Alla violazione della regola stabilita nell’art. 329 co. 1 c.p.p. del segreto sugli atti compiuti dal pubblico ministero o della polizia giudiziaria fino alla conoscibilità da parte del possibile imputato, andrebbe applicata la fattispecie di rivelazione di segreti di ufficio, di cui all’art. 326 c.p., sia che si tratti di rivelazione privata che di vera e propria pubblicizzazione, in applicazione della regola di civiltà, di cui all’art. 28 Cost. sulla responsabilità dei funzionari e dei dipendenti dello Stato. E sarebbe auspicabile una modifica della norma di cui all’art. 329 c.p.p., con un’estensione del divieto di divulgazione delle notizie relative a tutti gli atti d’indagine fino all’udienza preliminare, in modo da tener ragionevolmente conto delle esigenze di tutela della riservatezza e dell’onorabilità degli indagati, nonché delle parti private coinvolte nel processo; solo così il segreto troverebbe un’ampia ragionevole tutela nell’ambito del segreto d’ufficio. Ferma restando l’ipotesi esimente dell’esercizio del diritto di cronaca per il giornalista che si limiti a pubblicare le notizie coperte dal segreto: resterebbe, invece, intatta la sua responsabilità, a titolo di concorso, nel caso di istigazione alla rivelazione del depositario delle notizie, o, secondo un titolo autonomo di responsabilità, qualora si fosse procurato con mezzi illeciti la notizia.
È questo un campo in cui vengono a scontrarsi diversi interessi, tutti legati a diritti fondamentali, come la libertà di manifestazione del pensiero, sub specie diritto di cronaca giornalistica, a cui è strettamente connesso il diritto dei consociati ad essere informati su fatti che rivestono pubblico interesse; vengono, quindi, in evidenza i diritti che attengono alla personalità dell’individuo, così come l’interesse alla realizzazione della giustizia, sotto il profilo della serenità e indipendenza del giudice.
I criteri per la soluzione del conflitto possono essere molteplici; pare opportuno soffermarsi, sia pure cursoriamente, sul criterio assiologico-normativo, che fa riferimento ad una soluzione di tipo strutturale, attenta alla logica interna, alla dialettica dei diritti fondamentali, tutti dotati di autonomo riconoscimento costituzionale. Il criterio preso in considerazione origina da considerazioni di valore che traggono il loro fondamento dal rango dei diritti confliggenti. Ciò significa, in concreto, che, per quel che attiene alla difesa dei diritti della personalità individuale, sanciti all’art. 2 Cost. tra i “principi fondamentali” della Costituzione, essa deve avere una considerazione privilegiata sia rispetto alla libertà di stampa, art. 21 Cost., che rispetto alle stesse esigenze processuali artt. 24 e 111 Cost.
Ciò, ovviamente, non significa che queste ultime prerogative debbano sempre soccombere, altrimenti non avrebbe avuto alcun senso il loro riconoscimento, ma soltanto che la violazione dei diritti della personalità debba apparire come l’ultima ratio, per il corretto esercizio delle funzioni legate agli altri interessi richiamati.
Vi dev’essere, allora, la verosimiglianza della possibile lesione del diritto fondamentale al rispetto della dignità e personalità individuale, per la presenza di presupposti incerti sulla fondatezza dei dati – quali i primi atti d’indagine – che non giustifica la condotta orientata alla soddisfazione dell’interesse confliggente: quest’ultima, infatti, necessita, ai fini di un corretto espletamento, dell’esistenza di dati tutt’altro che vaghi, proprio per la presenza di un interesse contrastante di particolare, notevole significatività.
Una riforma che voglia assicurare una migliore tutela della riservatezza, della dignità e della reputazione delle persone coinvolte nel processo – e che, al tempo stesso, sia idonea a tener conto anche degli altri interessi, di tipo istituzionale – per essere efficace dovrà eliminare le cause degli effetti che s’intendono evitare: questi il più delle volte sono prodotti già della notizia della semplice iscrizione del nome della persona nel registro delle notizie di reato.
Appare, allora, evidente che si dovrà intervenire non sulla disciplina degli “atti non pubblicabili”, di cui all’art. 114 c.p.p. – divieto “relativo” – posta prevalentemente a tutela di esigenze di natura endoprocessuale – con l’eccezione delle “tre situazioni speciali” – ma su quella degli “atti segreti”, art. 329 c.p.p. – divieto “assoluto” – laddove i diritti delle persone coinvolte nel procedimento sembrano trovare una maggiore considerazione.
Si tratterà, allora, di modificare l’art. 329 co. 1 c.p.p., eliminando il riferimento al limite della conoscibilità da parte dell’imputato e della sua difesa. In tal modo, il termine finale del segreto diventa la chiusura delle indagini preliminari. Ad essere resa pubblica sarà, allora, la richiesta di rinvio a giudizio del pubblico ministero e, quindi, non ancora il decreto del giudice dell’udienza preliminare che lo dispone. In tal caso verrebbe abbracciata anche l’ipotesi dei riti alternativi in cui manca l’udienza preliminare.
Inoltre si dovrebbe modificare l’art. 329 co. 2 c.p.p., eliminando il potere di desegretazione del pubblico ministero, e l’art. 329 co. 3 lett. a) e b) c.p.p., eliminando perché, inutili, i poteri di segretazione del pubblico ministero.
In considerazione del fatto che l’art. 329 co. 1 c.p.p. fa riferimento agli “atti di indagine”, si è ritenuto di non considerare tali l’avviso di garanzia e l’iscrizione del nome della persona nel registro delle notizie di reato; questi atti, dunque, non sarebbero coperti da alcuna forma di segreto.
Per superare questo inconveniente, di non poco momento, si potrebbe fare riferimento alla figura, derivata dal diritto amministrativo degli “atti presupposti”: modificando l’art. 329 co. 1 c.p.p. si potrebbero inserire dopo il riferimento “alla polizia giudiziaria”, le parole “ogni atto presupposto”. Il testo del’art. 329 co. 1 c.p.p. dunque dovrebbe essere il seguente: “Gli atti d’indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria ed ogni altro atto presupposto sono coperti dal segreto fino alla chiusura delle indagini preliminari”. Una soluzione di tal genere avrebbe il pregio di rivitalizzare la fattispecie di rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio, art. 326 c.p., che, anche in riferimento alla disciplina attuale della pubblicità degli atti del procedimento penale, appare, invece, del tutto desueta; la sua applicazione riporterebbe sui soggetti tenuti al segreto il baricentro per la garanzia della tutela di diversi interessi, che vengono in rilievo in questo contesto e che, a causa di una normativa farraginosa, e poco perspicua, risultano costantemente offesi.
È evidente, tuttavia, che tale soluzione non risolve affatto tutti problemi; essa lascia aperti margini per possibili strumentalizzazioni. È solo una solida cultura delle garanzie – quella propugnata in tutta la sua opera da Massimo Nobili – che potrà assicurare il cittadino contro indebite violazioni della sua dignità, sub specie riservatezza, operate all’interno del procedimento penale.
E a questo proposito, egli richiama l’Adagietto della Quinta sinfonia di Gustav Mahler (13), che rappresenta per me il sublime nella musica con un andante melodico ammaliante che tocca l’anima, a cui segue un tratto maestoso, espressivo di sentimenti titanici in un movimento a spirale che potrebbe continuare all’infinito.
In realtà l’Autore, attraverso 964 citazioni o, “trapianti” come egli preferisce dire, mette in campo un raffinatissimo arsenale argomentativo, funzionale alla ricostruzione di impostazioni di fondo, problemi generali, singole opzioni, istituti relativi al diritto e alla procedura penale. Va in atto un confronto con le espressioni più alte della cultura nel corso della Storia in un contesto di sapiente strategia espositiva. E un confronto di tal genere, con il richiamarsi contestualmente ai saperi ed alle esperienze artistiche, anche fortemente distanti le une dalle altre, per genere, tempo e spazio, finiscono per dar vita ad un riconoscimento al valore dell’affascinante sfida dello strutturalismo critico, che tanto entusiasmò la nostra generazione alla fine degli anni Sessanta, quando al di là di inutili steccati di genere o di ‘provinciali’ tecnicismi, si tendeva a forme critiche, complesse di conoscenza, innanzitutto dell’uomo – non più ad una dimensione – e di ciò che dell’uomo e della società erano ragioni, problemi, esigenze, prospettive. Vale la pena di sottolineare che l’orientamento ‘critico’ equivaleva, ed equivale ancora, alla ferma persuasione che noi non viviamo affatto nell’unico dei possibili mondi, tutt’altro! E a trarne le debite conseguenze.
Certo, a pensarci bene, quanto risultano attuali queste tematiche !
Spingere a riflettere di nuovo strutturalisticamente è un altro grande merito del lavoro di Massimo.
All’interno di un Seminario pensato per giovani, mi pare giusto soffermarmi su un aspetto che Nobili tratta in maniera semplicemente toccante: quello relativo a “Giustizia, insegnamento, atenei” di cui ogni docente delle nostre materie dovrebbe tener conto: “Tutti crediamo di conoscere l’insegnamento che occorre per la giustizia penale. Tale consapevolezza è invece rara. I destinatari sarebbero estremamente recettivi: ma in realtà chi, quando e in che modo insegna ai ragazzi italiani come mai una buona perizia, tuttavia compiuta senza certe regole, la si butta nel nulla ? E perché ha un senso il favor rei. Non sono faccende per specialisti e tale larga trascuratezza causa il disastro di incomprensioni quotidiane …
Le facce di quel nesso (giustizia-insegnamento) sono numerose. Dalle opere che contano spicca anche la magia, il prodigio insondabile … dei rapporti individuali di insegnamento” (14) .
E, continuando, Nobili pone felicemente in rilievo che “moltissimo sta in relazioni personali di tipo straordinario; qualcosa d’inesprimibile che entra in strati sconosciuti” . E “deve coinvolgere la parte più profonda dell’individualità, toccare le corde più intime” (15) . “È il prodigio della trasmissione; passa per le capacità di accendere il fuoco nelle anime degli allievi; invade, dischiude, può anche distruggere. Tutto questo accade mentre trattiamo del reato continuato, della motivazione, della bancarotta” ; quando cioè facciamo della didattica accademica, che Nietzsche maliziosamente definisce quella “strana procedura che consiste nel parlare e nell’ascoltare” (16) .
È certo che vi sia della magia nel discorso che Nobili ci propone sull’insegnamento universitario; un dover essere contrafatticamente avversato da miserie di istituzioni ed uomini.
È inutile negarlo – anche in seguito a disastrose riforme ordite nei confronti dell’Università – attualmente si assiste ad una forte demotivazione nell’apprendimento, dovuta ad una radicata tendenza ad una spersonalizzante oggettivazione: si giudicano gli studenti in base al mero profitto, termine mutuato dal gergo aziendale, che porta a risolvere la formazione in un puro fatto quantitativo, dove a sommarsi sono nozioni e voti. Siccome la quantità è misurabile con il calcolo, dall’Università vengono espulse tutte quelle dimensioni che sfuggono alla calcolabilità, quindi reattività, emozioni, identificazioni, proiezioni, desideri, piaceri, dolori che costellano la crescita giovanile.
E ciò spiega, perché, sovente, prendono bei voti quei giovani che hanno un basso livello di creatività, scarsi impianti emozionali, limitate proiezioni fantastiche, perché, libera da questi ‘inconvenienti’, la mente può disporsi ad immagazzinare tutte quelle nozioni che si ordinano con rigore e precisione; più sono disanimate, meno coinvolgono l’anima, all’insegna di quel risparmio emotivo che rende l’incasellamento delle informazioni molto più agevole.
Un’offerta culturale così disanimata può essere foriere solo di vuoto emotivo ed esistenziale, con tutto quel che consegue, talora, anche in termini drammatici.
Spesso, allora, l’identità degli studenti cosiddetti bravi si costruisce sulle disfatte di quelli cosiddetti non bravi; le valutazioni avvengono tanto spesso sulla base di impressioni soggettive, dove le proiezioni sfuse di studenti e professori si mescolano e approdano ad una valutazione costruita in un colloquio di trenta/quaranta minuti che si svolge tra due sconosciuti.
Si dice che sovente l’insuccesso sia un problema di volontà, d’impegno da parte di chi studia: ma la volontà non esiste al di fuori dell’interesse e l’interesse non esiste separato da un legame anche emotivo. Ed il legame emotivo non si costruisce quando il rapporto tra professore e studente è un rapporto di reciproca diffidenza, se non di assoluta incomprensione.
E non vale obiettare che compito dell’Università è di istruire la mente e non prendersi cura dei fattori emotivi, perché dal topolino nel labirinto al giovane studente, non si dà apprendimento senza gratificazione emotiva e l’incuria dell’emotività è un gran rischio che uno studente corre, ma lo corre anche un docente.
Quando la poesia è in crisi – scriveva George Bernanos – non servono i critici, servono i poeti e cerchiamoli allora questi poeti dell’Università che è in crisi: Massimo Nobili era uno di questi.
1) Principio di legalità e processo penale (in Ricordo di Franco Bricola), in Riv. it. dir. proc. pen. 1995, 651
2) Cosa si può rispondere all’invettiva di Robespierre contenuta nel discorso per la condanna a morte del Re: “Voi invocate le forme perché non avete principi”?, in Crit. dir. 1994, 67
3) Principio di legalità e processo penale, cit., 651
4) Principio di legalità e processo penale, cit., 652
5) Prove a “difesa” e investigazioni di parte nell’attuale assetto delle indagini preliminari, in Riv. it. dir. proc. pen. 1994, 414 ss.
6) Principio di legalità e processo penale, cit., 652
7) Associazioni mafiose, criminalità organizzata e sistema processuale (1995), in AA.VV., Criminalità organizzata e risposte ordina mentali. Tra efficienza e garanzia, Napoli 1999, 240; L’accusatorio sulle labbra, l’inquisitorio nel cuore, in Crit. dir. 1992, IV-V, 11ss.
8) Principio di legalità e processo penale, cit., 654-655
9) Cosa si può rispondere all’invettiva di Robespierre, cit., 70
10) Principio di legalità e processo penale, cit., 658
11) Associazioni mafiose, criminalità organizzata e sistema processuale, cit., 227-228
12) Verso un nuovo garantismo?, in Crit. dir. 1996, 248 ss.
13) L’immoralità necessaria. Citazioni e percorsi nei mondi della giustizia, Bologna 2009,
14) L’immoralità necessaria, cit., 329
15) L’immoralità necessaria, cit., 331
16) L’immoralità necessaria, cit., 331
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