Cass., Sez. I, 30 ottobre 2019 (dep. 17 gennaio 2020), n. 1787
Massima: L’ammissibilità di un’istanza di concessione di una misura alternativa alla detenzione non deve essere valutata tenendo in considerazione la pena espiata al momento della presentazione dell’istanza stessa, quanto piuttosto avendo riguardo alla pena che resta da espiare in concreto al momento della decisione atteso che, diversamente opinando, si incorrerebbe in una indebita diseconomia processuale ed in una del tutto inutile frustrazione dell’attesa del richiedente il beneficio. (La S.C., pur rigettando il motivo proposto dal ricorrente in quanto correttamente il Tribunale di sorveglianza ha ritenuto non integralmente espiata la «pena ostativa», ha incidentalmente precisato che quanto affermato dal Tribunale di sorveglianza in relazione al momento di valutazione della richiesta non fosse condivisibile, così enunciando il principio di cui in massima).
Sommario: 1. Le doglianze del ricorrente e la decisione della Suprema Corte – 2. La concessione di misure alternative alla detenzione – 3. L’obiter dictum della Suprema Corte sul momento di valutazione delle richieste di applicazione della misura alternativa alla detenzione – 4. Chiose finali
- Le doglianze del ricorrente e la decisione della Suprema Corte
Il ricorso de quo è stato presentato alla Suprema Corte dal difensore di un soggetto in vinculis, in seguito alla declaratoria di inammissibilità dell’istanza di concessione di una misura alternativa avanzata al Tribunale di sorveglianza di Catania.
Nell’ordinanza reiettiva ha rilevato il Tribunale di sorveglianza che analoghe istanze del condannato erano state già presentate – ed egualmente respinte in precedenza – in ragione del fatto che detto soggetto stesse ancora espiando una pena relativa ad uno dei c.d. «reati ostativi» ex art. 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario.
Il condannato doveva, infatti, ancora completare l’espiazione dei quattro anni di reclusione inflitti per il reato di trasferimento fraudolento di valori aggravato dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7, c.d. aggravante del metodo e finalità mafiose, ad oggi codificata nell’art. 416-bis1 c.p..
Il Tribunale distrettuale ha ritenuto, in primo luogo, di dover precisare che l’ammissibilità dell’istanza avrebbe dovuto essere valutata alla data di presentazione della stessa e non a quella della decisione e, in secondo luogo, che la pena ostativa avrebbe potuto essere considerata del tutto esaurita soltanto mediante l’espediente di ritenerla espiata anche durante un periodo di affidamento in prova al servizio sociale precedentemente concesso al medesimo condannato in relazione alla pena inflitta per il differente reato di bancarotta fraudolenta (non ostativo).
E tale pretesa, afferma il Tribunale di sorveglianza nell’ordinanza con cui rigetta l’istanza, non è in alcun modo ammissibile, né, per la verità, in alcun modo motivata dal richiedente né richiesta dallo stesso.
Di talché, avendo quella parte di pena natura ostativa e non essendovi stato alcun contegno riconducibile alle ipotesi di collaborazione con la giustizia ex art. 58-ter o.p., ritiene il Tribunale che non sia in alcun modo possibile la concessione del beneficio richiesto.
Ciò in quanto non essendovi stata, come detto, la collaborazione non è dato rinvenirsi l’unica condizione atta a elidere l’ostatività del delitto aggravato dal metodo mafioso, a norma della Legge sull’ordinamento penitenziario.
Avverso la prefata ordinanza la difesa del condannato ha promosso il giudizio di legittimità innanzi alla Suprema Corte.
Il ricorso de quo è stato proposto a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in quanto il ricorrente si duole dell’erronea applicazione di legge e della manifesta illogicità della motivazione del provvedimento di rigetto emesso dal Tribunale di sorveglianza.
In particolare, ciò che sostiene il ricorrente nel proprio ricorso per cassazione è che la pena ostativa era confluita in un cumulo ex art. 663 c.p.p., per cui, in ossequio al principio del favor rei, il cumulo doveva sciogliersi imputando la pena già sofferta al reato ostativo.
Ebbene, questa interpretazione avrebbe consentito – a detta del ricorrente – di verificare che la parte di pena ostativa era stata comunque espiata anche senza computare l’affidamento in prova al servizio sociale di cui aveva beneficiato il condannato in relazione alla pena relativa ad un reato non ostativo (scilicet il delitto di bancarotta).
Il Procuratore Generale, tuttavia, ha ritenuto di dover dissentire rispetto alle argomentazioni proposte dal ricorrente e, di conseguenza, ha chiesto il rigetto del ricorso.
E così in effetti è avvenuto.
Difatti, il ricorso è stato rigettato in quanto la Corte Suprema – pur dissentendo su una quaestio iuris affrontata incidentalmente dal Tribunale di sorveglianza nella propria ordinanza[1] – ha ritenuto che la decisione impugnata fosse sostanzialmente corretta, non essendo stati espiati i quattro anni di pena ostativa irrogati al ricorrente per il delitto di trasferimento fraudolento di valori, aggravato dal metodo mafioso.
- La concessione di misure alternative alla detenzione
Com’è noto, le misure alternative alla detenzione, introdotte nel nostro ordinamento con la legge 26 luglio 1975, n. 354, consentono al soggetto condannato di espiare, in tutto o in parte, la pena detentiva irrogatagli al difuori dell’istituto carcerario.
In tal guisa facilita il reinserimento sociale del soggetto che abbia riportato una sentenza di condanna, al fine di ridurre i contatti dello stesso con l’ambiente carcerario, così attenuando i rischi del c.d. “contagio criminale”.
Va infatti rammentato che proprio con tale finalità si prevedeva, a norma dell’art. 656 del codice di rito la sospensione dell’ordine di esecuzione per le pene inferiori ad anni tre. Tuttavia in un’ottica di armonizzazione con il limite di pena per l’applicazione dell’affidamento in prova, la Corte costituzionale[2], ha – condivisibilmente – ritenuto di aumentare sino ad anni quattro il quantum sanzionatorio per cui si prevede la sospensione dell’ordine di esecuzione.
Ed invero, indubbia centralità fra dette misure assume l’affidamento in prova ai servizi sociali, ex art. 47 o.p., misura alternativa cui possono accedere i condannati con una pena (o un residuo di pena[3]) inferiore ai tre anni (o a quattro nell’ipotesi di cui al co. 3-bis del medesimo articolo) e inferiore ai sei anni quando si tratti, a norma dell’art. 94 T.U. stupefacenti, di persone affette da tossicodipendenza.
Fra gli istituti riconducibili al medesimo genus – va rammentato – si annoverano anche la detenzione domiciliare, ex art. 47-ter o.p., fruibile dai condannati che debbano scontare un residuo di pena non superiore a due anni[4], previa valutazione dell’idoneità del condannato per la misura, e la semilibertà ex art. 48 o.p. applicabile laddove il condannato abbia espiato almeno metà della pena, sempre che la condanna fosse superiore ai mesi sei.
Ebbene, il Tribunale di sorveglianza, ai fini della propria decisione deve non solo verificare la necessaria sussistenza dei requisiti applicativi di ciascuna delle singole misure ed effettuare le valutazioni imposte dalla legge sull’ordinamento penitenziario[5] ma è tenuto altresì a verificare l’insussistenza dei divieti di concessione dei benefici ex art. 4-bis della medesima legge.
La disposizione in parola è volta a disciplinare taluni particolari casi in cui è prevista l’esclusione a priori della concessione dei benefici penitenziari per i condannati per taluni reati definiti «ostativi», in quanto considerati di particolare pericolosità sociale e, sostanzialmente instaura un vero e proprio doppio regime penitenziario fra reati ostativi e non.
Con riferimento ai c.d. «i reati di prima fascia», inseriti nel primo comma della disposizione – e d’interesse in relazione al caso de quo – si prevede il divieto di applicazione delle misure alternative alla detenzione previste dal Capo VI, fatta salva l’ipotesi in cui il richiedente abbia collaborato con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo testo normativo.
Nel successivo comma 1-bis, invece, è stato previsto un ulteriore meccanismo di attenuazione della predetta ostatività preclusiva, con conseguente elisione del divieto allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o altresì nei casi in cui la sentenza di condanna abbia accertato la limitata partecipazione al fatto criminoso da parte del condannato, ovvero nell’ipotesi in cui fosse del tutto impossibile un’utile collaborazione con la giustizia.
Ciò brevemente rammentato sul regime generale di applicabilità delle misure alternative alla detenzione, si rende opportuno analizzare funditus la pronuncia in esame.
- L’obiter dictum della Suprema Corte sul momento di valutazione delle richieste di applicazione della misura alternativa alla detenzione
I giudici di legittimità rappresentano in via preliminare l’opportunità di rammentare che il thema decidendum non afferisce alla natura ostativa del delitto di trasferimento fraudolento di valori aggravato dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7, la cui sussumibilità nel catalogo di cui all’art. 4-bis o.p. è indubbia.
Di talché, secondo la Suprema Corte, appare corretto quanto affermato dal Tribunale di Sorveglianza di Catania.
Difatti, a norma di legge, il primo periodo del comma 1 dell’art. 4-bis della Legge sull’ordinamento penitenziario enumera quelle ragioni di ostatività ai benefici penitenziari che vengono ordinariamente definite come di “prima fascia” e che richiedono, per il loro superamento, l’accertamento della collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter o.p..
Nel novero dei reati ostativi, il legislatore ha infatti contemplato non solo la partecipazione alle attività illecita di una consorteria mafiosa ex art. 416-bis c.p., ma anche tutti i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. o comunque commessi per agevolare l’attività di associazioni per delinquere di tipo mafioso[6], locuzione quest’ultima che è da ricondursi all’evidenza alla circostanza aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, ad oggi codificata nell’art. 416-bis1.
Ed invero, il ricorrente non si duole di siffatta ricostruzione interpretativa dell’art. 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, quanto piuttosto sostiene che, pur escludendo dal computo il periodo espiativo patito in regime di affidamento in prova al servizio sociale, la quota di pena già scontata aveva comunque ottenuto il risultato dell’espiazione della sanzione inflitta per il reato aggravato dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7.
Tuttavia, i giudici di legittimità, seppur in un mero obiter dictum, ritengono di dover dissentire rispetto ad una delle affermazioni del Tribunale di Sorveglianza relativamente al momento in cui andava valutata l’ammissibilità della richiesta.
Per la verità, è proprio tale obiter dictum a rendere d’estremo interesse la pronuncia in esame. Ciò in quanto viene espresso un principio che – seppur di buon senso – all’evidenza non è universalmente accettato, per come emerge dalle affermazioni del Tribunale di sorveglianza di Catania positivizzate nell’ordinanza reiettiva oggetto di impugnazione dinanzi alla Suprema Corte.
Difatti, nella gravata ordinanza si è affermato che, in linea generale, la valutazione in merito all’ammissibilità dovesse essere compiuta in relazione al momento di presentazione dell’istanza. Per converso, reputano i supremi giudici che ragioni di ordine sistematico inducano a valutare l’ammissibilità della richiesta non in relazione al momento di presentazione, bensì in relazione al momento della decisione.
E detto ragionamento non è affatto peregrino. La Suprema Corte, difatti, fornisce una sintetica ma solida motivazione a sostegno delle proprie affermazioni.
Proseguono i giudici, sottolineando che prendendo quale paradigma la misura alternativa di più ampio respiro, ovverosia quella dell’affidamento in prova al servizio sociale, deve ritenersi che la locuzione «pena detentiva inflitta», utilizzata dal legislatore nel testo della L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 47 vada interpretata come «pena che resta da espiare in concreto».
Dunque, va intesa come pena residua, per come già affermato apertis verbis dalla medesima Suprema Corte in una propria tanto risalente quanto – nell’ottica di chi scrive – condivisibile pronuncia sul punto[7].
Ciò in ragione del fatto che littera legis del D.L. n. 152 del 1991, art. 14-bis, rubricato «Interpretazione del comma 1 dell’art. 47 dell’ordinamento penitenziario» non lasciava particolari margini di dubbio, facendo espresso riferimento alla pena da espiare in concreto[8].
Ne discende inevitabilmente che la soluzione prospettata dalla disposizione di interpretazione autentica costituisce, all’evidenza, un parametro oggettivo ed unitario.
Pertanto, detta interpretazione può essere estesa ad ogni possibile ipotesi applicativa: parrebbe, dunque, irragionevole che la valutazione di ammissibilità della richiesta, specie nei casi in cui l’istruttoria fosse stata prolungata e complessa, venisse poi collocata nel passato, e cioè al momento di proposizione dell’istanza.
Difatti, diversamente opinando, si rischierebbe una lapalissiana diseconomia processuale in ragione della dispersione delle risorse processuali impiegate, cui conseguirebbe una del tutto inutile frustrazione dell’attesa del richiedente il beneficio.
In conclusione, sottolineano i giudici di legittimità, il parametro di riferimento impone soltanto di considerare la pena residua in concreto, dovendo dunque tener conto non dell’ammissibilità dell’istanza al momento della presentazione della stessa, bensì al momento della decisione.
- Chiose finali
Ciò che emerge da quanto sin qui rappresentato è che, pur non ritenendo sussistente il vizio di cui all’art. 606 comma 1, lett. e) del codice di rito, la Suprema Corte ha ritenuto opportuno dover egualmente intervenire per chiarire l’interpretazione resa in motivazione dal Tribunale di sorveglianza siciliano non fosse quella corretta.
In un certo qual senso, quanto sopra potrebbe astrattamente apparire come una contraddizione in termini.
Come può non essere illogica e contraddittoria una motivazione che parte da una premessa che viene espressamente definita errata dalla stessa Corte?
E ancora. Come si può affermare che non vi sia stata una violazione di legge se i giudici di legittimità ritengono che il dato normativo dovesse essere interpretato in maniera diametralmente opposta rispetto a quanto effettuato dal Tribunale di sorveglianza?
Probabilmente la risposta è da ricercarsi nel “limite” correlato al principio devolutivo.
Difatti, il ricorrente nulla osserva sul punto relativo al momento in relazione al quale deve essere effettuata la valutazione dell’istanza, incentrando le proprie doglianze sull’espiazione integrale della pena ostativa. In altri termini, nessuna contraddizione.
Concludendo, la pronuncia in esame, ad avviso di chi scrive, è un esempio di positivo zelo della Suprema Corte.
Difatti ancorché spesso ci si debba interrogare in merito all’opportunità di taluni interventi dei giudici di legittimità ai limiti della novazione legislativa, appare opportuno apprezzare obiter dicta di questo genere, in quanto non travalicano in alcun modo il ruolo che la Suprema Corte è chiamata ad assumere nell’ordinamento.
Non si assiste infatti ad una indebita ultrapetizione rispetto al thema decidendum, quanto piuttosto ad una opportuna attività nomofilattica ad opera dei giudici di legittimità, peraltro in un’ottica di favor rei. Ne consegue che la pronuncia in esame non può che essere accolta di buon grado per il contributo chiarificatore opportunamente reso.
[1] Amplius infra sub par. 3.
[2] C. Cost., 2.03.2018 n.41.
[3] Tale fondamentale innovazione è stata introdotta a seguito dell’intervento della Corte costituzionale sul punto, c. cost. 11.07.1989 n. 386, in Giur. Cost., 1989, 1740 ss.
[4] Dal 2010, peraltro, è possibile fruire, a norma della l. 26.11.2010, n.199, della c.d. detenzione domiciliare speciale, concedibile direttamente dal Magistrato di sorveglianza per gli ultimi 12 mesi di pena (18 mesi a norma della novella del 2012).
[5] In via esemplificativa, con riferimento all’affidamento in prova si richiede di valutare la personalità e la condotta collegialmente per almeno un mese nel caso in cui il soggetto sia recluso, e mediante l’intervento dell’UEPE, se l’istanza è proposta da soggetto in libertà, laddove si possa ritenere che il provvedimento stesso contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati.
[6] «L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, esclusa la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e internati per i seguenti delitti solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma dell’articolo 58-ter della presente legge o a norma dell’articolo 323-bis, secondo comma, del codice penale: […] 416-bis e 416-ter del codice penale, delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste».
[7] Cass. pen, Sez. I, 18.11.1996 n. 6013, Rv. 206244, per cui « La locuzione “pena detentiva inflitta”, che figura negli art. 47 e 47 bis l. 26 luglio 1975, n. 354 e 94 d.P.R. n. 309/90, equivale a “pena che resta da espiare in concreto”, sicché, quando la pena residua, relativa al titolo da cui è scaturita l’applicazione della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, sommata all’ammontare della pena relativa al titolo sopravvenuto, non supera i limiti di legge, deve essere disposta, da parte del magistrato di sorveglianza, la prosecuzione della misura in corso, che potrà, poi, essere estesa dal tribunale di sorveglianza». Nell’enunciare il principio di cui in massima, la Suprema Corte ha fatto espresso riferimento ad una pluralità di sentenze della Corte costituzionale, tra le quali C. cost. 13.05.1985 n. 185 e C. cost. 6.12.1985 n. 312, secondo cui, in caso di annullamento o di revoca della misura per motivi non dipendenti dall’esito negativo della prova, il tempo trascorso in affidamento in prova vale come pena espiata.
[8] Difatti, detta disposizione testualmente recita: «La disposizione della L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 47, comma 1 nella parte in cui indica i limiti che la pena inflitta non deve superare perché il condannato possa beneficiare dell’affidamento in prova al servizio sociale, va interpretata nel senso che deve trattarsi della pena da espiare in concreto, tenuto conto anche dell’applicazione di eventuali cause estintive».