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“MONETE VIRTUALI” E VALUTE VIRTUALI: DISTINZIONI LINGUISTICHE E RICADUTE PENALISTICHE SULLA FATTISPECIE DI ABUSIVA EMISSIONE DI MONETA ELETTRONICA

Abstract: Il contributo prende le mosse dall’analisi di alcuni recenti provvedimenti del Tribunale e della Corte di appello di Milano per interrogarsi sulla possibilità di qualificare le valute virtuali come “moneta elettronica” ai fini della integrazione della fattispecie di cui all’art. 131-bis del TUB. L’autore si sofferma sulla normativa nazionale di cui al d.lgs. 231/2007, sull’uso improprio del concetto di “moneta virtuale” e, infine, analizza il recente Regolamento europeo 2023/1114 e il d.lgs. n. 129/2024, oltre alle neo-introdotte fattispecie di abusivismo.

The contribution starts from the analysis of some recent decisions of the Court and the Court of Appeal of Milan to question the possibility of qualifying virtual currencies as ‘electronic money’ under article 131-bis of the TUB. The author then focuses on the national regulations set forth in Legislative Decree no. 231/2007, on the misuse of the concept of ‘virtual money’ and, finally, analyses both the recent European Regulation 2023/1114 and Legislative Decree no. 129/2024, in particular the newly introduced crimes of abuse.

SOMMARIO: 1. L’innegabile rilevanza delle criptovalute nella società globale. – 2. Il caso concreto: abusiva emissione di “criptomoneta”. – 3. La «valuta virtuale» nella normativa nazionale vigente e la «moneta virtuale» nelle pronunce giurisprudenziali. – 4. Regolamento MiCAR e criptoattività: addio “moneta virtuale”. – 5. Brevi considerazioni finali sulle neo-introdotte fattispecie di abusivismo. 

1. L’innegabile rilevanza delle criptovalute nella società globale.

L’ecosistema delle valute virtuali e i soggetti che prestano servizi in tale settore hanno conquistato un ruolo di primaria importanza all’interno della società globale, come da ultimo dimostrato dalla approvazione dal Reg. U.E. 2023/1114 «relativo ai mercati delle cripto-attività e che modifica i regolamenti (UE) n. 1093/2010 e (UE) n. 1095/2010 e le direttive 2013/36/UE e (UE) 2019/1937» (in seguito, anche Regolamento MiCAR), avente come scopo esclusivo quello di adottare una normativa uniforme sul territorio comunitario concernente tale settore.

In precedenza, nonostante l’interesse destato nella società, l’operato degli organi legislativi nazionali e sovranazionali si è caratterizzato per una certa settorialità. Infatti, in attesa di giungere a una più completa comprensione del fenomeno in esame e dei relativi pericoli e opportunità che lo contraddistinguono, l’attenzione si è focalizzata sull’obiettivo di fronteggiare il principale rischio legato all’utilizzo di tale strumento, ossia quello di facilitazione di schemi di riciclaggio, reso possibile dall’anonimato delle transazioni, tanto che la precedente normativa si è limitata a stabilire che i prestatori di tali servizi sono sottoposti agli obblighi antiriciclaggio. 

Stante tale iniziale “timido” intervento del legislatore, la risoluzione delle problematiche legate alle valute virtuali è stata delegata ai soggetti di volta in volta interpellati sul punto. 

Invero, numerose sono state le tematiche sollevate dalla pratica, legate per lo più alla natura proteiforme delle criptovalute. A mero titolo esemplificativo, si pensi alla problematica concernente l’inquadramento a fini fiscali dei proventi derivanti dalle operazioni compiute su tali strumenti nonché alla possibilità di effettuare un conferimento societario mediante criptovalute. Ancor più complesso – seppur più sul piano pratico che teorico – si è rivelato il tema relativo alla possibilità di disporre un sequestro avente ad oggetto valute virtuali e alle eventuali criticità concernenti, per un verso, l’acquisizione delle stesse al patrimonio dello Stato e, per altro verso, l’individuazione delle somme da restituire nel caso in cui si debba procedere in tal senso. Questioni di non poco rilievo si sono poste anche per quanto concerne il versante sostanziale del diritto penale, con particolare riferimento alla possibilità di ritenere integrate determinate ipotesi di reato.

Del resto, l’assenza di una normativa completa e lineare ha fatto sì che la giurisprudenza assumesse l’onere di colmare le predette lacune mediante vere e proprie imprese interpretative. Ciò è avvenuto con riferimento alla possibilità di sussumere la criptovaluta nella categoria di prodotto finanziario ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 166, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (TUF). E talora le soluzioni così fornite hanno suscitato discordanti opinioni, soprattutto in ambito dottrinale.

Parimenti, nella recente giurisprudenza si è registrata una vera e propria contrapposizione tra giudici di merito con riferimento alla possibilità di qualificare la criptovaluta come moneta elettronica ai fini del perfezionamento del reato di cui all’art. 131-bis, d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (TUB). Si fa riferimento, in particolare, alla sentenza del Tribunale di Milano n. 5116, emessa ad esito dell’udienza del 5 aprile 2023, con la quale si è optato per una soluzione positiva alla predetta questione, e alla sentenza della Corte di appello di Milano n. 1879, emessa ad esito dell’udienza del 15 marzo 2024, la quale è pervenuta a conclusioni diametralmente opposte a quelle indicate dal giudice di primo grado.

Due diverse impostazioni, delle quali la prima sembra voler soddisfare l’esigenza di assicurare la tutela del consumatore finale, mentre la seconda si contraddistingue per una maggiore aderenza alla lettera della normativa all’epoca vigente e al divieto di applicazione analogica con effetti sfavorevoli. 

Per comprendere appieno le ragioni per cui – a parere dello scrivente – la conclusione del Tribunale non sembra condivisibile, si procederà dapprima a esporre il caso concreto, le argomentazioni indicate nella sentenza di primo grado e le diverse motivazioni del giudice di appello; successivamente, si analizzerà la normativa italiana sul punto rilevante, con particolare riferimento al concetto di valute virtuali; infine, si concluderà tratteggiando le novità del Regolamento MiCAR e del relativo decreto legislativo di recepimento, per quanto utile ai fini del presente contributo.

2. Il caso concreto: abusiva emissione di “criptomoneta”.

Il procedimento penale oggetto della menzionata sentenza del Tribunale di Milano concerneva diverse fattispecie di reato, tra cui quella relativa all’art. 131-bis del TUB, in relazione alla presunta condotta posta in essere dall’imputata la quale, secondo l’ipotesi accusatoria, in qualità di impiegata e amministratrice di fatto di una società a responsabilità limitata, avrebbe ricevuto in un conto aperto presso una banca somme di denaro, trasferite all’asserito fine di acquistare pacchetti formativi e, in un successivo momento, conseguire il token One Coin.

Ripercorsi gli esiti dell’istruttoria dibattimentale, il giudice di merito affronta il tema relativo alle criptovalute, quale sottospecie del genere cryptoasset.  

Dopo averla definita quale «rappresentazione digitale di valore caratterizzata, a livello tecnico, dall’impiego di meccanismi crittografici»  citando parzialmente l’art. 1, comma 2, lett. qq), d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231, successivamente richiamato -, lo stesso Tribunale precisa che, allo stato attuale, pur in assenza di una «specifica normativa sul punto», è sufficientemente chiaro che la criptovaluta «non può essere equiparata al denaro e ciò per il semplice fatto che essa non ha corso legale nel territorio nazionale». 

Infatti, secondo il giudice di merito, se anche si volesse considerare la criptovaluta come strumento di scambio, la stessa difetterebbe delle funzioni di unità di conto e riserva di valore. 

Successivamente, si richiamano alcuni precedenti della Suprema Corte, in cui si precisa la natura dei cryptoassets, la finalità di investimento da cui possono essere caratterizzate le valute virtuali e l’obbligo di iscrizione al Registro tenuto dall’OAM. 

Inquadrato il fatto e la tematica concernente le criptovalute, il Tribunale analizza la fattispecie di abusiva emissione di moneta elettronica di cui all’art. 131-bis del TUB.

Tutto ciò premesso, a conclusione di un (apparente) sillogismo, data la premessa maggiore per la quale la valuta virtuale costituisce una rappresentazione digitale di valore non equiparabile al denaro, tenuto conto della premessa minore ai sensi della quale anche la singola emissione di moneta elettronica integra l’ipotesi di reato di cui all’art. 131-bis del TUB, il giudice di merito ritiene la stessa integrata in tutti i suoi elementi. 

Di diverso avviso la Corte di appello di Milano la quale, per un verso, censura alcune affermazioni contenute nella sentenza di primo grado, ritenute non pienamente corrispondenti alle risultanze istruttorie, e, per altro verso, dopo un approfondito richiamo ai principali documenti predisposti dalle Autorità di Vigilanza sul tema afferma l’impossibilità di equiparare le valute virtuali alla moneta elettronica. 

È pertanto necessario approfondire la normativa all’epoca vigente e i principali interventi in tema di criptovalute per comprendere le ragioni per cui le argomentazioni del Tribunale di Milano non possono essere condivise. 

3. La «valuta virtuale» nella normativa nazionale vigente e la «moneta virtuale» nelle pronunce giurisprudenziali.

Finora sono stati impiegati diversi termini – quali criptovalute, criptomonete, cripto-attività – per lo più in via atecnica e, soprattutto, non corrispondente alla terminologia effettivamente utilizzata dal legislatore. 

Con il d.lgs. 25 maggio 2017, n. 90, avente ad oggetto modifiche normative al d.lgs. n. 231/2007, cd. decreto antiriciclaggio, il Governo italiano, in attuazione della Dir. 2015/849/UE (cd. IV Direttiva antiriciclaggio), ha adottato, sul punto, un primo “nocciolo normativo”. In particolare, nel contesto di questa più ampia riforma, si è stabilita l’introduzione di due distinte definizioni all’interno dell’art. 1, comma 2, d.lgs. 231/2007, rispettivamente lett. qq) e ff): quella di valuta virtuale, come «rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente»; quella di prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale, ossia «ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio e alla conservazione di valuta virtuale e alla conversione da ovvero in valute aventi corso legale».

Come già notato in apertura, l’obiettivo di tale novella normativa è stato quello di mitigare il rischio di utilizzo delle valute virtuali a scopo di riciclaggio, tanto da qualificare come «operatori non finanziari» – e, pertanto, tra i soggetti gravati dagli obblighi anti-money laundering – i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale. Contestualmente, il legislatore nazionale, con l’obiettivo precipuo di censire chi offre i citati servizi nel territorio della Repubblica, ha introdotto all’interno dell’art. 17-bis, d.lgs. 13 agosto 2010, n. 141, dedicato all’attività di cambiavalute e al relativo Registro, i commi 8-bis e 8-ter, concernenti l’istituzione di una specifica Sezione speciale riservata a chi opera in tale ambito di attività.

In realtà, il d.lgs. 90/2017 risulta innovativo rispetto alla normativa sovranazionale, che invece nulla prevedeva in tema di criptovalute. Anzi, solo con la Dir. 2018/843/UE (cd. V Direttiva antiriciclaggio) il legislatore comunitario avverte il rischio che la mancata soggezione dei prestatori di servizi in valuta virtuale agli obblighi antiriciclaggio possa integrare una consistente lacuna normativa. Di conseguenza, solo in quest’ultimo provvedimento viene fornita una definizione di valuta virtuale – nella versione inglese e francese della direttiva, rispettivamente, «virtual currencies» e «monnaies virtuelles» – e si inseriscono tra i soggetti obbligati agli adempimenti antiriciclaggio tanto i prestatori di servizi di cambio tra valute virtuali e valute aventi corso forzato, quanto i prestatori di servizi di portafoglio digitale. 

Lo Stato italiano ha, pertanto, anticipato l’intervento del legislatore comunitario e, conseguentemente, con il d.lgs. 4 ottobre 2019, n. 125 si è premurato esclusivamente di colmare alcune carenze della normativa nazionale rispetto a quella sovranazionale. Perciò, è stato inserito un esplicito riferimento al servizio di portafoglio digitale ed è stata modificata la nozione di valuta virtuale. Inoltre, si è stabilito che la stessa può essere correlata anche a una finalità di investimento, pur in assenza di una esplicita affermazione in tal senso nella normativa comunitaria. È stata, infine, ampliata la categoria dei servizi aventi ad oggetto valuta virtuale e comportanti l’obbligo di iscrizione. 

Sintetizzando l’evoluzione precedentemente illustrata e focalizzando l’analisi su quanto di interesse in questa sede, la normativa nazionale attuale impiega il concetto di “valuta virtuale” come rappresentazione digitale di valore, anche svincolata da una «valuta avente corso legale».

La scelta di utilizzare il termine “valuta” è stata oggetto di critiche da parte di alcuni Autori, tenuto conto che per essa si dovrebbe intendere solamente la moneta ufficiale di uno Stato. Difatti, l’art. 1277 c.c., con riferimento all’estinzione delle obbligazioni pecuniarie, riferisce il concetto di «corso legale» non al termine valuta, ma al termine «moneta». Pertanto, tenuto conto che la valuta può essere solo quella caratterizzata da un obbligo di accettazione della stessa in quanto mezzo ordinario per adempiere i debiti pecuniari, sarebbe del tutto improprio l’impiego del concetto “valuta virtuale”.

In ogni caso, posizioni discordanti si sono registrate anche con riferimento alla possibilità di parlare di una vera e propria moneta. Questa è tale, secondo l’impostazione tradizionale, se assolve alle tre seguenti funzioni: riserva di valore, con conseguente tendenziale immutabilità del potere di acquisto; unità di conto, potendo valere come mezzo per la determinazione del valore di beni e servizi; mezzo di scambio. Secondo alcuni Autori, bitcoin e simili non presenterebbero caratteristiche idonee per poter soddisfare tutte e tre le citate esigenze. Ciononostante, una diversa impostazione, non reputando indispensabile la funzione di riserva di valore per il concetto di moneta ma solo per quello di valuta, ritiene corretto associare l’aggettivo “virtuale” alla parola “moneta”.

A parte le disquisizioni dottrinarie, si deve notare che, prima ancora del d.lgs. n. 90/2017, la Banca d’Italia aveva trattato l’argomento parlando di valute virtuali, all’interno dell’avviso del 30 gennaio 2015, denominato “Avvertenze sull’utilizzo delle cosiddette valute virtuali”, escludendo tuttavia che la scelta linguistica sottintendesse una effettiva presa di posizione sul tema. 

Nel documento della Banca d’Italia si richiama anche una opinion dell’European Banking Authority (EBA) del 4 luglio 2014, 2014/08, in cui si afferma che l’utilizzo del termine “currency”, pur usato comunemente per definire il fenomeno, potrebbe creare degli equivoci, potendo condurre alla conclusione che le virtual currencies siano sempre convertibili in altre tipologie di valuta. Ancor prima, nell’ottobre del 2012, la European Central Bank (ECB o, all’italiana, Banca Centrale Europea BCE) aveva approfondito il tema dei “Virtual currency schemes”.

In realtà, per poter individuare il motivo per cui si è optato per l’utilizzo del concetto di “virtual currency” e “valutavirtuale” si deve guardare al report predisposto nel 2014 dalla Financial Action TASK Force (FATF o, in italiano, Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale, GAFI) e denominato “Virtual Currencies. Key Definitions and Potential AML/CFT Risks”. Al suo interno si utilizza il concetto di “virtual currency” in contrapposizione a quello di “FIAT currency”, anche definita come “national currency”, e la distinzione fra le due viene individuata non tanto nella diversa capacità di assolvere alle funzioni precedentemente citate, quanto piuttosto nella circostanza che la prima non ha corso legale in alcuna giurisdizione. 

In sintesi, dall’analisi di tali documenti emerge che, quantomeno a partire dal 2012, si è optato per utilizzare il concetto di “valuta virtuale” non tanto con il fine di prendere posizione sulla natura delle criptovalute e sugli ulteriori strumenti basati sul sistema di blockchain, quanto piuttosto per recepire una terminologia invalsa nella prassi al mero scopo di uniformare il linguaggio normativo per evitare possibili fraintendimenti, equivoci ed errori.

Non a caso i plurimi documenti fin qui citati si sono preoccupati di individuare le differenze con la moneta avente corso legale e con la moneta elettronica. Infatti: l’ECB afferma che i virtual currency schemes differiscono dagli electonic money schemes per la circostanza che i primi non hanno una contropartita in moneta avente corso legale; il FATF specifica che la virtual currency è distinta dall’e-money, che consiste in una rappresentazione digitale di fiat currency usata per operazioni di eletronically transfer value denominati in fiat currency; l’EBA ha precisato che l’obiettivo della definizione adottata è quello di distinguere le virtual currencies dalla (fiat) currency e, in particolare, dall’e-money come rappresentazione digitale di fiat currency; da ultimo, nel considerando 10 della Dir. 2018/843/UE, il legislatore comunitario si è premurato di precisare che le valute virtuali non dovrebbero essere confuse con la moneta elettronica. 

L’esigenza di specificare le differenze tra tali strumenti può essere compresa solo dopo aver analizzato la definizione normativa di moneta elettronica.

Ai sensi della definizione fornita dall’art. 1, comma 2, lett. h-ter), del TUB, per moneta elettronica si intende un valore monetario memorizzato elettronicamente rappresentato da un credito nei confronti dell’emittente per effettuare operazioni di pagamento, il quale deve essere accettato da persone fisiche e giuridiche diverse dall’emittente. 

Ciò che parrebbe difettare nelle valute virtuali, a parere dello scrivente, è l’assenza a monte di un valore monetario in senso stretto. Sul punto rileva la lettera della normativa in precedenza citata: la moneta elettronica è essa stessa valore monetario, diverso dal contante in quanto memorizzato elettronicamente; la valuta virtuale è, invece, una rappresentazione digitale di un valore, eventualmente collegata a una valuta avente corso legale, ma da essa pur sempre distinta. 

Un indice della differente natura tra i due strumenti è, del resto, ricavabile dal contenuto del Regolamento MiCAR, come si vedrà più approfonditamente nel prosieguo. In questa sede, è sufficiente rilevare che, ai sensi della normativa nazionale e comunitaria, virtuale non vuol dire elettronico, così come valuta non vuol dire moneta. I due concetti dovrebbero e devono essere tenuti distinti. Del resto, l’impossibilità di pervenire a una equiparazione è suggerita dalle rispettive ipotesi di illecita prestazione di attività: nel caso di abusiva emissione di moneta elettronica, si integra il delitto di cui all’art. 131-bis del TUB; nel caso di prestazione di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale e servizi di portafoglio digitale, rileva l’illecito amministrativo previsto in generale dall’art. 17-bis, comma 5, del d.lgs. n. 141/2010 per le ipotesi di esercizio dell’attività di cambiavalute in assenza di iscrizione nel relativo Registro.

Sarebbe necessario, pertanto, un utilizzo rigoroso della terminologia adottata dal legislatore, evitando ogni possibile diverso concetto, anche ibrido, che presenta il rischio di generare equivoci. Una esigenza, quella di una stretta aderenza alla lettera della legge, che deve essere rispettata a maggior ragione nel diritto penale, ambito in cui vige il principio di legalità e il divieto di analogia in malam partem

Ci si deve a questo punto chiedere se l’equiparazione tra valute virtuali e moneta elettronica effettuata dal Tribunale di Milano sia stata frutto di un equivoco, quasi profeticamente anticipato dal FATF, e quale possa essere la causa dello stesso.

Nella sentenza n. 5116 del 5 aprile 2023 sono state richiamate alcune precedenti sentenze della Corte di cassazione che si sono interrogate sulla legittimità dell’adozione di sequestri preventivi per ipotesi di reato aventi ad oggetto valute virtuali. In particolare, si citano le sentenze della Seconda Sezione penale, n. 26807 del 25 settembre 2020, con riferimento alle fattispecie di riciclaggio ex art. 648-bis c.p., di abusivismo di cui all’art. 166 del TUF e di indebito utilizzo di strumenti di pagamento diversi dal contante di cui all’art. 493-ter c.p., e n. 44378 del 22 novembre 2022, relativamente al reato di autoriciclaggio di cui all’art. 648-ter.1 c.p.

Analizzando la terminologia impiegata nel primo provvedimento, la Suprema Corte si serve indifferentemente dei termini “criptovaluta” e “valuta virtuale” che, come precedentemente evidenziato, possono essere ritenuti effettivamente interscambiabili. Diversamente, nella seconda sentenza menzionata, il giudice di legittimità utilizza, in via alternativa, i termini “valuta virtuale” e “moneta virtuale”, con netta preponderanza di quest’ultimo se si escludono i richiami testuali alla normativa. 

Al di là delle sentenze espressamente richiamate dal Tribunale di Milano, una ricerca più approfondita ha consentito di rintracciare una pluralità di provvedimenti della Suprema Corte che, a volte, richiamano esclusivamente il concetto di valuta virtuale; altre volte, indicano esclusivamente l’espressione “moneta virtuale”; altre volte ancora, utilizzano i due concetti come sinonimi, se del caso in via alternativa a quello di criptovaluta. 

Ad onor del vero, l’espressione “moneta virtuale” non è prerogativa esclusiva della giurisprudenza penale, tenuto conto che alcuni riferimenti alla stessa sono rinvenibili, per un verso, nella giurisprudenza civilistica e amministrativa e nei provvedimenti di alcune Autorità, nonché, per altro verso, anche in alcuni interventi della dottrina.

Se, come in precedenza esplicitato, l’utilizzo della parola “currency” e “valuta” può essere fonte di equivoci, a maggior ragione, a parere dello scrivente, risulta impropria l’espressione “moneta virtuale”. Infatti, oltre ad avallare l’idea che la valuta virtuale e la moneta siano del tutto sovrapponibili, la stessa induce all’ulteriore errata conclusione per la quale la “valuta virtuale” altro non sarebbe che una “moneta elettronica”. 

Del resto, che gli aggettivi “virtuale” ed “elettronico” possano essere adoperati in via alternativa è dimostrato dalla stessa esistenza di una pronuncia della Corte di cassazione, ben anteriore all’adozione del d.lgs. n. 90/2017, in cui, con riferimento a una ipotesi di peculato avente ad oggetto pagamenti effettuati da un Sindaco con una carta di credito intestata al Comune, viene utilizzata l’espressione “moneta virtuale”. 

Indipendentemente dalla impostazione che si vuole adottare in merito ai presupposti per considerare “moneta” un determinato bene, sarebbe più corretto attenersi alla terminologia adottata dal legislatore che, proprio nell’ottica di adottare una disciplina uniforme dello strumento, ha voluto utilizzare il concetto di “valuta virtuale” anche ai fini della individuazione delle fattispecie di abusivismo. Una scelta che, si sottolinea nuovamente, è stata effettuata a livello internazionale, sulla base di quanto ormai invalso nella prassi, ma nella consapevolezza che le criptovalute non possono essere equiparate alla moneta elettronica. 

4. Regolamento MiCAR e criptoattività: addio “moneta virtuale”.

Gli equivoci fin qui descritti parrebbero ormai dissolversi alla luce della recente normativa europea, denominata Regolamento MiCAR, la quale si caratterizza per aver rinnegato l’antecedente terminologia e per essersi riferita al concetto di “criptoattività”.

In precedenza, giurisprudenza e autorità del settore erano solite distinguere tre diverse tipologie di valute virtuali: quelle di Tipo 1, definite «a schema chiuso», non acquistabili e principalmente utilizzabili su siti di gaming; quelle di Tipo 2, a flusso unidirezionale, in cui la valuta FIAT può essere convertita in quella virtuale, ma non viceversa; quelle di Tipo 3, in cui la conversione può avvenire in entrambi i sensi. 

La nuova normativa comunitaria sceglie, invece, pur mantenendo il medesimo significato, di modificare il significante in “criptoattività”, un genus all’interno del quale distingue tre sottocategorie: quella degli utility token, destinata unicamente a fornire l’accesso a beni o a servizi prestati dall’emittente; token collegati ad attività (asset referenced token, cd. ART), distinti dai token di moneta elettronica, che hanno l’obiettivo di mantenere un valore stabile nel tempo facendo riferimento a un altro valore o diritto, comprese valute ufficiali; i token di moneta elettronica (e-money token, cd. EMT) che mirano a mantenere il proprio valore stabile facendo riferimento al valore di una valuta ufficiale.

È opportuno precisare, a scanso di equivoci, che le sottocategorie menzionate non esauriscono le tipologie di criptoattività, potendosi immaginare dei tokens che, non limitandosi ad attribuire il diritto all’accesso a un bene o un servizio, non abbiano lo scopo di mantenere inalterato il proprio valore. Non a caso, il Regolamento MiCAR, nei Titoli II, III e IV, dedica una specifica disciplina alle «Cripto-attività diverse dai token collegati ad attività o dai token di moneta elettronica», una ai «Token collegati ad attività» e una ulteriore ai «Token di moneta elettronica».

I nuovi termini impiegati dal legislatore comunitario suggeriscono una netta presa di posizione in merito alla differenza tra l’ordinaria valuta/moneta (finanche elettronica) e le criptoattività, le quali non necessariamente rappresentano un’alternativa agli ordinari mezzi di pagamento. Inoltre, il Regolamento MiCAR specifica esclusivamente con riferimento agli EMT, ai sensi dell’art. 48, par. 2, che gli stessi sono considerati moneta elettronica, in ragione della circostanza che solo enti creditizi e istituti di moneta elettronica possono provvedere alla loro emissione. 

Tale disposizione parrebbe, pertanto, suffragare l’ipotesi che le valute virtuali – ora criptoattività – non potevano in precedenza essere considerate moneta elettronica, essendosi resa necessaria una esplicita equiparazione in tal senso. Tale conclusione risulta ulteriormente avvalorata dalle scelte legislative effettuate dal legislatore nazionale in sede di recepimento della normativa comunitaria. 

In particolare, analizzando l’iter che ha portato dallo “Schema di decreto legislativo per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2023/1114, relativo ai mercati delle cripto-attività e che modifica i regolamenti (UE) n. 1093/2010 e (UE) n. 1095/2010 e le direttive 2013/36/UE e (UE) 2019/1937” predisposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze per la consultazione pubblica fino all’approvazione dell’attuale d.lgs. 5 settembre 2024, n. 129, si nota una modificazione di non secondaria rilevanza.

Invero, l’art. 30 del primo documento, relativo a diverse ipotesi di abusivismo, prevedeva l’applicazione diretta dell’art. 131-bis del TUB per l’emissione di token di moneta elettronica in violazione della riserva prevista dal regolamento europeo. Tale approccio normativo avrebbe sottinteso l’idea per cui gli EMT non sono considerati, ma sono a tutti gli effetti moneta elettronica. Del resto, il legislatore aveva ipotizzato, per la violazione della riserva di attività concernente l’emissione di ART o la prestazione di servizi in criptoattività, una cornice edittale autonoma sebbene identica a quella di abusiva emissione di moneta elettronica.

Diversamente, nel decreto legislativo definitivamente approvato in sede di Consiglio dei Ministri è stato eliminato ogni esplicito riferimento alla fattispecie di cui all’art. 131-bis del TUB e l’abusiva emissione di token di moneta elettronica è attualmente sanzionata al pari delle altre condotte punite dall’art. 30.

5. Brevi considerazioni finali sulle neo-introdotte fattispecie di abusivismo.

Il problema relativo alla qualificazione delle ex valute virtuali sembra ormai essere stato risolto a monte dal legislatore comunitario e, in seconda battuta, da quello nazionale anche per il tramite dell’espressa previsione di nuove ipotesi di delitti per abusiva attività. Nonostante tale intervento abbia definitivamente risolto la predetta problematica, è opportuno concludere le osservazioni fin qui svolte con alcune riflessioni sulle scelte punitive previste negli artt. 30 e seguenti del d.lgs. n. 129/2024.

Anzitutto, la completa equiparazione delle ipotesi di emissione di ART e EMT in violazione della riserva di attività suscita qualche perplessità. Invero, pur volendo il legislatore assicurare una sorta di coerenza delle cornici edittali rispetto alle ipotesi di abusivismo previste all’interno del TUB, sembra anomala la previsione di una medesima cornice edittale per criptoattività aventi diverso regime sia per quanto concerne i soggetti che possono operare rispetto alla singola tipologia di cryptoasset, sia per quanto attiene alla specifica normativa in tema di informazioni al pubblico.

Inoltre, non si comprendono le ragioni per cui mentre l’attività abusiva di emissione e offerta al pubblico di criptoattività diverse dagli ART e EMT sia considerata un illecito amministrativo, ai sensi dell’art. 31 del d.lgs. n. 129/2024, la violazione della riserva di attività relativa alla prestazione di servizi sulle stesse medesime criptoattività sia punita come delitto. Infatti, l’art. 30, comma 1, lett. b), non distingue tra tipologia di cryptoassets, ma si limita a punire la prestazione di servizi per le criptoattività in violazione dell’art. 59, paragrafo 1, lett. a), del Regolamento MiCAR. 

Ancora, perplime la scelta di punire come reato la prestazione di servizi per le cripto-attività da parte di un qualsiasi soggetto non autorizzato, e come illecito amministrativo la medesima attività offerta dai soggetti indicati dall’art. 59, paragrafo 1, lett. b) del regolamento europeo, ossia, un ente creditizio, un depositario centrale di titoli, un’impresa di investimento, un gestore del mercato, un istituto di moneta elettronica, una società di gestione di un OICVM o un gestore di un fondo di investimento alternativo autorizzato a prestare servizi per le cripto-attività a norma dell’art. 60. Infatti, ciò è quanto parrebbe desumersi dal combinato disposto dell’art. 30, comma 1, lett. b), e dell’art. 31 del d.lgs. 129/2024, disposizione che, salvo che il fatto costituisca reato, prevede sanzioni amministrative per le violazioni delle altre norme richiamate dall’art. 111 del Regolamento MiCAR, tra cui 59, 60, e 64 dello stesso regolamento europeo.

Tali anomalie non sembrano essere state sufficientemente tenute in considerazione da parte del legislatore, potendo suscitare nella prassi non pochi dubbi, anche sul versante della conformità ai principi costituzionali, quali quelli di proporzionalità della pena e di ragionevolezza. 


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