Abstract
Il contributo nasce dalle considerazioni formulate dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel corpo di una recente sentenza relativa alla previsione con cui l’art. 384 comma 1 c.p. prevede la non punibilità di alcune condotte di reato contro l’amministrazione della giustizia qualora commesse con lo scopo di salvare sé o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore. Secondo l’autore, nonostante la sentenza delle Sezioni Unite possa apparire corretta da un punto di vista sociale, essa non ha correttamente identificato la natura della causa di esclusione della responsabilità prevista dalla norma sopra menzionata ed è andata oltre la massima estensione della possibile interpretazione della disposizione in commento, così creando, tra l’altro, dei possibili rischi in termini di certezza del diritto. Il contributo, in particolare, anche mediante l’analisi della giurisprudenza successiva e degli istituti sostanziali coinvolti, si pone nella prospettiva di una qualificazione della clausola prevista dall’art. 384 c.p. come causa di giustificazione avente natura di eccezione – come tale, non estensibile a soggetti, a reati od a rapporti diversi da quelli indicati dalla norma – piuttosto che come causa di esclusione della colpevolezza determinata dalla inesigibilità della condotta.
The contribution stems from the considerations formulated by the United Sections of the Court of Cassation in a recent judgment concerning the provision whereby Article 384(1) of the Criminal Code provides for the non-punishability of certain criminal conduct against the administration of justice when committed with the aim of saving oneself or a close relative from serious and unavoidable harm to liberty or honour. According to the author, although the ruling of the United Sections may appear to be correct from a social point of view, it did not correctly identify the nature of the cause of exclusion of responsibility provided for by the aforementioned rule and went beyond the maximum extent of the possible interpretation of the provision in question, thus creating, inter alia, possible risks in terms of legal certainty. The contribution, in particular, also by analysis of the subsequent case law and the substantive institutes involved, takes the view of qualifying the clause provided for by Article 384 of the Criminal Code as a cause of justification having the nature of an exception – as such, not extendable to persons, offences or relationships other than those indicated by the rule – rather than as a cause of exclusion of guilt determined by the uncollectability of the conduct.
Sommario: 1. Premessa. 2. La giurisprudenza antecedente le Sezioni Unite del 2021 e l’ordinanza di rimessione. 3. Le Sezioni Unite Fialova. 4. La giurisprudenza successiva. 5. Cenni sulle cause di giustificazione. 6. Perché l’art. 384 comma 1 c.p. sembra una causa di giustificazione. 7. La natura di eccezione rispetto allo standard dello stato di necessità
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- Premessa.
L’articolo 384 comma 1 del Codice penale prevede che non sia punibile chi commette alcuni dei reati contro l’amministrazione della giustizia, ed in particolare contro l’attività giudiziaria, “per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore”.
La disposizione in parola ha sollevato non pochi problemi interpretativi circa la corretta qualificazione giuridica della clausola ivi contenuta, che necessariamente passa attraverso una valutazione comparativa – e ciò anche soltanto ai fini dell’esclusione dell’interferenza – con la disposizione contenuta all’articolo 54 c.p., che prevede la non punibilità, a certe condizioni, ma senza limitazioni da un punto di vista oggettivo (rispetto ai reati applicabili) o relazionale (quanto all’eventuale esistenza di rapporti personali tra il soggetto agente ed il soggetto necessitato), di reati commessi per esser stati costretti dall’esigenza di salvare se stesso od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona (potremmo anche dire alla vita o all’incolumità personale).
Nell’interpretazione della clausola di cui al primo comma dell’art. 384 c.p. l’apparente traguardo sembrava essere stato raggiunto grazie al noto intervento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 2021, che, tuttavia, nonostante l’articolata argomentazione e l’attenta analisi evolutiva della normativa, e sebbene umanamente molto apprezzabile, non sembra altrettanto insuperabile sotto un profilo tecnico.
Tale ultimo arresto, come vedremo, costituisce l’approdo di un orientamento che, probabilmente anche per la particolare delicatezza delle questioni, che subiscono in maniera profonda l’evoluzione del sentire sociale e la cui soluzione – semmai rigorosamente legata al dato normativo – può destare il fianco a contestazioni di natura ideologica, prima di allora non risultava consolidato.
L’ interpretazione delle Sezioni Unite è stata infatti messa in discussione dalla dottrina e dalla giurisprudenza successive, che hanno profilato delle possibili qualificazioni giuridiche alternative della clausola in parola.
La questione porta con se un’ulteriore problematica, ossia quella della eccezionalità della disposizione e, dunque, della sua applicabilità in via di analogia.
- La giurisprudenza antecedente le Sezioni Unite del 2021 e l’ordinanza di rimessione
La Sesta Sezione Penale Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 1825 del 2020, aveva rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa all’applicabilità dell’art. 384 comma 1 c.p. anche rispetto a coloro che abbiano commesso i reati ivi indicati per salvare non tanto sé o un prossimo congiunto, bensì il proprio convivente more uxorio[1], da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.
La questione, in realtà, coinvolgeva non solo, o non tanto, l’art. 384 c.p., quanto l’art. 307 comma 4 c.p., il quale afferma che “agli effetti della legge penale s’intendono per i prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti”[2], ed esclude, quindi, dall’applicabilità della norma, le coppie, eterosessuali od omosessuali, che convivono stabilmente come se fossero coniugi ovvero parti di un’unione civile.
L’esigenza di una pronuncia delle Sezioni Unite traeva origine, secondo la Sezione semplice, dall’esistenza di un contrasto interno all’orientamento della Corte di legittimità al quale si aggiungevano – oltre alle resistenze dottrinali all’estensione dell’applicazione della norma ai soggetti diversi da quelli indicati nel testo della norma – le considerazioni svolte dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale[3] e dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[4].
Secondo il tradizionale orientamento, legittimato dalle pronunce della Consulta, l’indicazione contenuta nell’art. 384 c.p. sarebbe chiusa, ragion per cui la norma in parola non sarebbe applicabile a soggetti (rectius, rapporti) diversi ed ulteriori[5], così come, evidentemente, a fattispecie penali diverse ed ulteriori da quelle espressamente indicate.
In particolare, la natura chiusa dei soggetti tutelabili nonostante la commissione dei reati contro l’attività giudiziaria discendeva dal differente regime giuridico della famiglia fondata sul coniugo e delle altre unioni, alla prima soltanto essendo possibile riconoscere copertura costituzionale ai sensi dell’art. 29 e potendo, invece, le seconde, ricevere tutela in funzione della loro riconducibilità alle formazioni sociali richiamate dall’art. 2 della Costituzione, nelle quali possono svilupparsi le prerogative discendenti dai diritti inviolabili dell’uomo.
Tale differenziazione, come vedremo, aveva sollecitato il legislatore a ponderare l’opportunità di una equiparazione tra situazioni formalizzate e situazioni di fatto potenzialmente identiche, equiparazione che, tuttavia, non è mai stata realizzata.
Siffatto orientamento, nondimeno, era stato disatteso da due pronunce piuttosto recenti, una delle quali della medesima Sezione remittente[6], che, sulla scorta di una serie di argomenti di natura sistematica – rispettivamente incentrati su un concetto dinamico di famiglia e sulla applicazione analogica “in bonam partem” delle disposizioni di interesse, tali da consentire la parificazione, sul piano penale, della famiglia fondata sulla convivenza more uxorio o quella costruita sul matrimonio – avevano entrambe ritenuto che l’art. 384 c.p. potesse essere applicato anche a coloro che avessero commesso uno dei delitti in questione per tutelare il soggetto al quale risultavano legati da un rapporto di convivenza stabile e duratura, eventualmente consolidato dalla presenza di prole.
Il primo di tali arresti, anche alla luce della giurisprudenza già esistente, aveva, anzitutto, ampliato ai conviventi more uxorio l’applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 649 c.p. per i delitti contro il patrimonio commessi nei confronti “del coniuge non legalmente separato” (e, alla luce del più recente addendum legislativo, da parte della c.d. Legge Cirinnà[7], anche “della parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”); aveva, altresì, valorizzato situazioni di fatto corrispondenti al coniugio, tra l’altro, in relazione al delitto di maltrattamenti ed in materia di ammissione al gratuito patrocinio[8].
Con tale intervento giurisprudenziale la Suprema Corte aveva anche precisato che “sotto il profilo penalistico il concetto di famiglia cui fanno riferimento diverse norme incriminatrici vigenti, non è sempre ritenuto legato all’esistenza di un vincolo di coniugio o comunque di una famiglia nata da tale vincolo, ma i precedenti giurisprudenziali spesso si riferiscono a qualsiasi consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e di solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo”, e sottolineato, pertanto, la necessità che il diritto penale, anche per divenire più coerente con lo sviluppo legislativo riscontrato in altre branche dell’ordinamento, si aggiornasse, accogliendo delle nozioni di famiglia e di coniugio “in linea con i mutamenti sociali che questi istituti hanno avuto negli ultimi decenni del secolo scorso”[9].
Tale interpretazione, peraltro, si collocava nel solco della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale, alla luce del contenuto dell’art. 8 comma 1 della CEDU[10], ha accolto una nozione sostanziale di famiglia, tale da ricomprendere anche rapporti di fatto privi di formalizzazione legale ma caratterizzati da legami particolarmente stretti, inquanto fondati su una stabile convivenza, e duraturi.
La sentenza appena citata, infine, ricordava che siffatta interpretazione dell’art. 8[11], quale norma sovranazionale immediatamente cogente, avente efficacia in bonam partem e non confliggente con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, avrebbe comportato il vantaggio di poter giungere all’applicazione analogica delle disposizioni che escludono la punibilità anche a soggetti ai quali i conviventi more uxorio dovrebbero essere equiparabili, in termini immediati e, quindi, senza dover attendere l’intervento del legislatore interno.
Nell’intervallo tra le pronunce da ultimo citate è intervenuta l’approvazione della c.d. Legge Cirinnà, che ha conferito rilevanza giuridica alle unioni civili tra persone dello stesso sesso, e l’introduzione del D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, che ha aggiunto alla nozione legale di prossimi congiunti, di cui all’art. 307 comma 4 c.p., “la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso”.
A tal riguardo, peraltro, è forse utile rilevare che la Relazione Governativa al Decreto Legislativo riconosce la natura tassativa dell’elencazione contenuta nell’art. 307 comma 4 c.p.[12], e che, significativamente, la riforma in questione, se da un lato ha equiparato, ai fini di interesse, il coniugio all’unione civile tra persone dello stesso sesso, dall’altro non ha inteso disciplinare le situazioni di fatto corrispondenti a tali forme qualificate di unione.
Cionondimeno, secondo l’ulteriore pronuncia citata[13] nell’ordinanza di rimessione per fornire sostegno all’orientamento che l’ha indotta a coinvolgere le Sezioni Unite, l’assenza di una disciplina delle coppie di fatto nella Legge Cirinnà non avrebbe rallentato la progressiva e sostanziale equiparazione sociale delle coppie di fatto a quelle di diritto che legittimerebbe una interpretazione valoriale, non confliggente con i valori Costituzionali, idoneo a ritenere l’istituto dell’art. 384 comma 1 c.p. applicabile anche ai rapporti di convivenza more uxorio.
Nell’ambito del giudizio rescindente la Procura Generale depositava una memoria con la quale sosteneva l’impossibilità di estendere l’ambito applicativo del suddetto articolo a soggetti diversi dai prossimi congiunti di cui all’art. 307 comma 4 c.p.p., adducendo, tra le altre ragioni, il carattere eccezionale della disposizione, che disciplinerebbe una causa di non punibilità.
A ulteriore sostegno di detta tesi, l’ufficio del Pubblico Ministero sottolineava anche che con la Legge Cirinnà si sarebbe definitivamente palesata l’intenzione “istituzionale” del Parlamento di non equiparare le convivenze more uxorio alle unioni civili[14].
Secondo il Procuratore Generale, invero, la mancata considerazione delle coppie di fatto, con la contestuale esclusiva regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, avrebbe consentito di escludere “definitivamente ogni possibile interpretazione estensiva della nozione di coniuge finalizzata a ricomprendervi anche i conviventi”[15].
In sostanza, l’aver lasciato immutata la disciplina penalistica delle convivenze di fatto in occasione di un così significativo intervento legislativo sulle unioni civili non poteva non assumere il significato di una chiara manifestazione della volontà del legislatore di mantenere un diverso statuto normativo tra le due condizioni.
Nello stesso senso, peraltro, militavano delle ulteriori pronunce giurisprudenziali a sostegno della tesi tradizionale, che già in precedenza avevano affrontato la piena compatibilità con la Costituzione della differente regolamentazione delle situazioni di fatto e di quelle di diritto e dell’assenza dei conviventi more uxorio nell’elenco di quei soggetti che il legislatore qualificava come “prossimi congiunti”.
Come già anticipato, a metà degli anni 80 la Corte Costituzionale era intervenuta in argomento poiché sollecitata da molteplici questioni che investivano l’art. 384 comma 1 c.p. nella prospettiva della sua presunta incompatibilità con l’art. 29 comma 1 Cost. nella parte in cui non comprendeva, nella propria elencazione di prossimi congiunti, anche il convivente more uxorio, ed aveva recisamente differenziato la famiglia fondata su matrimonio, cui soltanto poteva riferirsi la tutela di cui all’art. 29, e tutte le altre formazioni sociali genericamente tutelate, ivi compresi i rapporti di fatto, ancorché consolidati.
In particolare, la Corte, da una parte riteneva non fondata la questione di legittimità sull’assunto che la norma Costituzionale fosse da riferirsi alle sole formazioni sociali fondate su un vincolo legale, quale il matrimonio, e dall’altra classificava come inammissibile un’analoga questione, nella prospettiva dell’art. 3 Cost., sostenendo che l’eventuale parificazione della posizione del convivente a quella del coniuge farebbe sorgere l’esigenza di revisionare e modificare una molteplicità di norme, che, a sua volta, implicherebbe una serie di scelte di natura discrezionale che non appartengono all’interprete ma spettano al legislatore[16].
In occasione di detta pronuncia, la Consulta lanciava, quindi, un invito al Parlamento affinché cogliesse l’opportunità di fare chiarezza sulla questione in modo puntuale e non equivoco; come è evidente, realizzare l’evoluzione normativa è compito del legislatore e non dell’interprete, che, nella rigorosa distinzione dei poteri, può sì adeguare l’orientamento alle evoluzioni sociali, ma nel rispetto del contenuto letterale delle disposizioni di diritto positivo come formulate dal Parlamento (qualora non incostituzionali).
L’esigenza di adeguare la legislazione alla presunta equivalenza dei rapporti di coniugio e di quelli di fatto si è persino acuita alla luce degli ulteriori sviluppi legislativi, ed in particolare della Legge Cirinnà, che aveva ampliato il novero di rapporti potenzialmente meritevoli di una disciplina normativa; è del tutto ovvio, infatti, che se il legislatore dovesse decidere di far discendere certe conseguenze giuridiche dalla condizione di conviventi, esse dovrebbero valere tanto per i conviventi more uxorio quanto per quelli more unione civile.
Le considerazioni di fondo della Corte Costituzionale non mutavano nemmeno dieci anni dopo la sentenza appena richiamata, e nonostante nelle more fosse entrato in vigore il nuovo codice di rito, che, all’art. 199 comma 3 lett. a), fornisce rilevanza giuridica alla relazione di convivenza ai fini della attribuzione, al convivente, e limitatamente a quanto accaduto o appreso durante tale relazione, della facoltà di astenersi dal rendere testimonianza[17].
Anche in tal caso la Consulta ribadiva l’inesistenza di una necessaria coincidenza, rispetto all’ordinamento, della posizione della famiglia fondata sul matrimonio e di quella nascente da un rapporto di convivenza – e ciò nonostante il riconosciuto avvicinamento della posizione del convivente a quella del coniuge, pur nella (sola) prospettiva della facoltà di astensione[18] – e affermato che il risultato atteso dal giudice a quo, consistente nell’estensione dell’applicabilità dell’art. 384 comma 1 c.p. anche ai componenti della famiglia di fatto, potrebbe discendere solo da una pronuncia additiva “che manifestamente eccede i poteri della Corte Costituzionale a danno di quelli riservati al legislatore”[19].
- Le Sezioni Unite Fialova
Con la sentenza a Sezioni Unite n. 10381 del 2021 sembrava essersi raggiunto un punto fermo circa la qualificazione giuridica da attribuire alla norma in analisi, la possibile natura eccezionale della stessa e, sulla base delle conclusioni iviraggiunte, la possibile estensione del relativo ambito applicativo, per via analogica, ai conviventi more uxorio.
Rispetto alla qualificazione giuridica, la Suprema Corte ha, in prima battuta, escluso in modo deciso l’orientamento secondo il quale la clausola contenuta nella disposizione in analisi sarebbe da interpretare come causa di non punibilità in senso stretto, circostanza in cui la rinuncia alla pena ubbidisce a ragioni di opportunità politica del tutto estranee al tema del disvalore oggettivo del fatto o del momento psicologico in cui versa l’agente.
Le motivazioni addotte – che anticipano le conclusioni – attengono, precisamente, alla necessità di riconoscere il dovuto rilievo alle ragioni che hanno determinato l’attore alla commissione del reato, le quali hanno una natura squisitamente psicologica e sono legate al mantenimento e alla preservazione del legame familiare.
La Suprema Corte esclude anche l’ulteriore interpretazione per cui l’art. 384 comma 1 c.p. sarebbe classificabile come causa di giustificazione, la cui funzione, come noto, sarebbe caratterizzata dalla compresenza di più interessi tra loro contrapposti che trovano una sintesi e un bilanciamento nell’esimente.
Nel caso di specie, invece, la Suprema Corte esclude l’esistenza di una vera e propria contrapposizione tra interessi differenti e sostiene che la ratio della norma è da ricercare nella valorizzazione di circostanze strettamente soggettive legate alle specifiche relazioni personali dell’agente, di per sé inidonee a far sorgere un conflitto “istituzionale”.
Al contrario, le Sezioni Unite, andando al di là del possibile significato della norma[20], hanno sposato l’interpretazione per cui la norma in questione rappresenterebbe una causa di esclusione della colpevolezza o, meglio, una scusante soggettiva che investe la colpevolezza[21]; le circostanze personali di coinvolgimento, anche affettivo, in cui versa il soggetto agente, secondo il Supremo Collegio, sarebbero tali da influire sulla sua volontà, permettendo, quindi, l’esclusione della rilevanza penale della condotta[22].
Ulteriore questione approfondita dalla Corte riguarda la supposta natura eccezionale e la conseguente possibile estensione della portata applicativa della norma in via analogica.
Come noto, l’articolo 14 delle Preleggi impone il divieto di applicare in via analogica le leggi penali e le disposizioni eccezionali; il dibattitto dottrinale e giurisprudenziale antecedente la sentenza delle SS.UU. sosteneva che l’articolo 384 comma 1 c.p. fosse qualificabile in questi termini poiché disciplinava una causa di esclusione di responsabilità per condotte che altrimenti sarebbero state penalmente rilevanti; ciò, in particolare, alla luce delle differenti condizioni applicative di essa rispetto all’art. 54 c.p.
La Suprema Corte ha però esplicitato che perché una norma possa essere qualificata come eccezionale, essa deve necessariamente essere caratterizzata da un elemento innovativo e differenziale rispetto alla disciplina positiva altrimenti valida, nel caso di specie asseritamente inesistente: la norma in parola, invece, non introdurrebbe alcuna deroga alle norme generali poiché, a ben vedere, essa consisterebbe in una causa di esclusione della colpevolezza, il cui fondamento risiederebbe nella categoria della inesigibilità di un comportamento conforme al precetto penale.
L’esclusione della natura eccezionale della norma, quindi, non rappresenta un ostacolo alla sua possibile interpretazione in via di analogia in favore dei conviventi more uxorio: l’applicazione analogica sarebbe inoltre consentita in ragione della natura di favore della norma e non impedita da ostacoli di matrice costituzionale o di ordine pubblico[23].
La possibilità di estenderne l’applicabilità anche ai conviventi more uxorio, sostenuta da ampia dottrina[24] e da un certo orientamento giurisprudenziale[25], discenderebbe, in ogni caso, dalla funzione della stessa clausola normativa.
Essa finisce per fornire una chiave di legittimazione al conflitto interiore del soggetto agente, che si trova a dover scegliere tra i suoi affetti, da un lato, e l’obbligo di assumere un contegno lecito ma, contemporaneamente, contrario agli interessi dei propri congiunti; la fonte sarebbe, dunque, l’affectio, ragion per cui sarebbe illogico far discendere l’applicabilità della norma sulla scorta dell’esistenza di un vincolo formale intercorrente tra i due soggetti coinvolti.
Ciò vale, a maggior ragione, se si tiene a mente che la disposizione è volta a dare rilevanza a circostanze soggettive e psicologiche che inficiano sulla libera determinazione e formazione della propria volontà[26].
Le Sezioni Unite, a tal riguardo, hanno definito l’art. 384 comma 1 c.p. come una disposizione “funzionale alla tutela dell’unità familiare” – aggettivo, quest’ultimo, da interpretare nella prospettiva europeistico-innovativa – avente il fine essenziale di “garantire il singolo componente che si trovi nell’alternativa di porre in essere un reato ovvero di non nuocere a un prossimo congiunto”; il legislatore, dunque, con la norma in questione manifesterebbe in modo chiaro la volontà di anteporre la tutela del singolo rispetto all’interesse dello Stato di punire.
La ratio ispiratrice, allora, corrisponderebbe a quella sottostante la previsione dell’articolo 199 c.p.p., poiché, secondo le Sezioni Unite, entrambe sarebbero strettamente collegate al principio del nemo tenetur se detegere ed ancillari alla salvaguardia del vincolo di solidarietà familiare: destinatario di tutela sarebbe, allora, il vincolo affettivo, da cui discenderebbe la scusabilità dell’agente che si troverebbe ad agire in presenza di un profondo conflitto interiore[27] tra il rispetto della legalità e la conservazione del citato vincolo, che altrimenti rischierebbe di essere – anche se, magari, solo per un certo periodo di tempo – reciso.
4. La giurisprudenza successiva
L’intervento delle Sezioni Unite non sembra aver convinto del tutto la giurisprudenza successiva.
Più di recente, invero, la Corte è tornata sul tema mediante delle considerazioni che, pur manifestando rispetto verso il dictum delle Sezioni Unite, tradiscono l’adesione all’impostazione tradizionale[28]: in un primo caso, invero, la Suprema Corte ha sì qualificato l’art. 384 c.p. come causa di esclusione della colpevolezza (anche se, altrove, l’ha definita “esimente”), ma ha nondimeno affermato che si tratterebbe di “un’ipotesi speciale dello stato di necessità di maggiore ampiezza che consente di estenderne la operatività anche al caso in cui la integrazione del pericolo sia stato volontariamente causato dal soggetto passivo”[29]; la stessa sentenza, ancora, ha più volte formulato delle valutazioni comparative tra la disposizione in parola e quella di cui all’art. 54 c.p., circostanza, questa, che appare sufficientemente indicativa della esistenza, tra tali istituti, di elementi comuni che, a ben vedere, non potrebbero venire in rilievo qualora il fulcro dell’esenzione da sanzione penale si fondasse su un parametro meramente soggettivo.
Ad ulteriore conferma di questa impostazione, si pone anche un ulteriore arresto, nel corpo del quale la Suprema Corte ha rilevato la mancata corretta applicazione della regula iuris secondo la quale “la causa di non punibilità prevista dall’art. 384 c.p., in relazione all’art. 378, postula come condizione, che ne costituisce anche la ragione giustificatrice, lo stato di necessità, ossia una situazione non determinata dal soggetto attivo che, per salvare il congiunto, si vede costretto a fare opera di favoreggiamento”[30].
Ed allora, poiché la complessità della questione induce ancora la Suprema Corte (la stessa Sezione, peraltro, da cui aveva avuto origine la rimessione alle Sezioni Unite) a non appiattirsi sull’argomento, appare possibile partecipare al dibattito provando a ricostruire l’istituto in parola in termini aderenti all’interpretazione tradizionale.
5. Cenni sulle cause di giustificazione
Occorre, a parere di chi scrive, partire da un po’ più lontano.
Se, da un lato, l’ordinamento ritiene necessario sanzionare tutti quei comportamenti idonei a ledere un bene giuridico oggetto di tutela penale, dall’altro è lo stesso ordinamento ad attribuire rilevanza ad alcuni elementi propri di quegli stessi comportamenti al fine di garantire che questi – se ed in quanto finalizzati a tutelare degli interessi non solo meritevoli di tutela, ma anche collocabili, in una scala assiologica, in una posizione corrispondente o superiore rispetto a quella alla quale si colloca l’interesse leso – non siano destinatari di sanzioni (salva, evidentemente, l’eventuale esistenza di profili di compensazione di natura civilistica).
Ciò risponde, in sostanza, all’esigenza, interna all’ordinamento, che esso non si contraddica mediante la previsione di una sanzione penale a carico di un comportamento che, sotto altro profilo e in altro ambito, appare determinato da una finalità che, in quanto satisfattiva di un altro e più rilevante interesse giuridico, risulta legittima[31].
Pare corretto, pertanto, affermare che l’antigiuridicità, in ambito penale[32], rappresenta la violazione, attraverso la condotta tipica ed offensiva, delle esigenze di tutela dell’ordinamento, risolvendosi, in concreto, nel difetto di cause di giustificazione.
Di conseguenza, allorché manchi il contrasto con l’ordinamento giuridico, quale organismo che sovrintende alla sanzione di comportamenti che abbiano offeso degli interessi giuridicamente rilevanti, verrà meno anche l’antigiuridicità: come affermato in una pronuncia di merito, “l’esimente … viene ad incidere sulla struttura oggettiva, prima ancora che soggettiva, del reato facendogli perdere il contenuto proprio della sua antigiuridicità, con la conseguenza che il fatto, pur coincidendo con la figura astratta del reato, viene ad essere esente da pena, per la evidente mancanza di danno sociale, trattandosi di un’azione non più in contrasto con gli interessi della collettività”[33].
Le cause di giustificazione, dunque, hanno la funzione di interrompere il rapporto casuale tra il fatto, che pure è qualificabile in astratto come illecito, e l’effetto consistente nella sanzione da parte dell’ordinamento.
La ricerca della ratio della loro esistenza e della loro funzione è sempre stata un punto piuttosto critico; in questa sede basti ricordare che, secondo la principale impostazione dottrinaria, essa risiede nella maggiore, minore od uguale rilevanza che l’ordinamento giuridico attribuisce agli interessi giuridici coinvolti nella vicenda umana ed alla cui realizzazione o tutela sono state realizzate le condotte, sicché il principio fondante delle cause di giustificazione sarebbe quello della preventiva e generalizzata operazione di bilanciamento tra i possibili beni giuridici in conflitto[34].
Nondimeno, l’esistenza di una possibile graduazione tra valori, e quindi beni giuridici, generalmente riconosciuta dall’ordinamento, potrebbe porre il problema di comprendere se le cause di giustificazione siano a numero chiuso – e dunque la declaratoria dell’assenza di antigiuridicità di un comportamento debba necessariamente confrontarsi con l’ambito applicativo di quanto previsto in termini positivi dal libro primo del codice penale – ovvero se all’interprete sia possibile costruire, sulla base delle circostanze concrete, anche nuove chiavi di legittimazione di comportamenti conformi a fattispecie.
La dottrina tradizionale giunge alla soluzione che le cause di giustificazione non rientrino nei casi in cui l’interpretazione analogica è vietata dall’art. 14 delle preleggi[35]: si afferma, infatti, che le scriminanti non sono, innanzitutto, norme penali in senso stretto perché non rappresentano fattispecie che “ridondino ai danni del reo”[36].
Non sembrano, inoltre, norme eccezionali[37], e ciò in quanto espressione di principi generali che permeano tutto l’ordinamento e che traggono la propria essenza e giustificazione dall’ordinamento stesso[38], ed in particolare dal principio costituzionale di solidarietà sociale, sulla scorta del quale, alla luce di un bilanciamento degli interessi in gioco, è possibile che un fatto illecito, in presenza di determinate condizioni, perda il proprio carattere antigiuridico[39].
Ed allora, se non sono norme penali e non sono nemmeno norme eccezionali, nulla osta ad una loro interpretazione analogica in bonam partem.
Se l’esclusione dell’antigiuridicità deriva da determinate circostanze, riferibili all’atto del comportamento umano, che il legislatore ritiene indicative di un fine giuridicamente apprezzabile e legittimo, sulla scorta di valutazioni di politica criminale, dovrebbe potersi riconoscere che anche altre possibili condotte, pur non espressamente disciplinate negli effetti, possano ricevere – in quanto finalizzate al raggiungimento di un fine altrettanto apprezzabile – un trattamento identico da parte dell’ordinamento.
In altre parole, se le cause di giustificazione espressamente previste risultano dall’accertamento di requisiti descritti dalla legge, quelle non previste risulterebbero, invece, dall’accertamento di elementi che rivelerebbero all’interprete il valore scriminante di un dato comportamento, valore che, in realtà, può ben essere del tutto identico a quello tipico delle cause di giustificazione tipiche[40].
Altra parte della dottrina, invece, manifesta dubbi rispetto alla possibilità di enucleare delle nuove cause di giustificazione non codificate, aggiungendo che, a ben vedere, con quelle tipizzate, se adeguatamente interpretate, si riuscirebbero a “coprire” tutte le ipotesi per le quali esse sono invocate: le situazioni relative alle esimenti c.d. tacite acquisterebbero quindi rilevanza “o per via indiretta da norme dell’ordinamento giuridico o esclusivamente dai principi che governano le altre cause di giustificazione”[41].
Orbene, nel nostro sistema giuridico l’interpretazione, ed in particolare quella variante di essa che consiste nell’analogia, costituisce il processo logico-giuridico grazie al quale la forza normativa dei principi, in assenza di una disciplina di diritto positivo, precipita, mediante l’opera della giurisprudenza, nell’applicazione concreta del diritto[42].
Ed allora, non apparendo possibile ritenere che il divieto di analogia in bonam partem sia ostacolato dalla ritenuta natura eccezionale delle cause di giustificazione, ed identificando la ratio di queste ultime in principi generali dell’ordinamento, viene possibile immaginare che quello delle cause di giustificazione sia un sistema potenzialmente aperto, la cui applicazione pratica possa realizzarsi anche mediante il ricorso all’interpretazione analogica.
Sarà allora possibile (ma, evidentemente, non potrà essere obbligatorio), per l’interprete, cogliere il fondamento e la funzione delle singole scriminanti esistenti e, in presenza di una eadem ratio, applicarle a casi diversi da quelli previsti dal diritto positivo[43]: attraverso questo meccanismo i princìpi dell’ordinamento si riveleranno come valori normativi idonei ad affermare che in certe situazioni sussista una causa di giustificazione in ragione della concreta inesistenza sostanziale, in un determinato comportamento umano, di un profilo di antigiuridicità[44].
La categoria delle esimenti non codificate acquisterebbe, così, una dimensione di concretezza, e richiamerebbe l’interprete ad un’indagine mirata a verificare, sulla base di un giudizio di natura sostanzialistica, l’eventuale conformità di un comportamento apparentemente illecito ad un principio dell’ordinamento giuridico, con la sola avvertenza – per non giungere all’arbitrio – che si tratti di un principio che abbia già trovato in altre norme la sua manifestazione positiva e che sia funzionale alla tutela di un bene giuridico di valore almeno assimilabile a quello offeso dal comportamento conforme a fattispecie.
Sul punto è opportuno ricordare l’opinione della Corte che, pur diversamente qualificando la fattispecie di cui all’art. 384 c.p., ed inquadrandola tra le cause di esclusione della colpevolezza, ritiene che essa, rispondendo all’impostazione generale dell’ordinamento per cui non può darsi un comportamento penalmente rilevante in assenza di un comportamento alternativo esigibile, possa subire un’interpretazione analogica, ed essere quindi applicabile alle coppie di fatto “senza alcuna forzatura”[45].
Si concorda con tale impostazione nella parte in cui riconosce che la (presunta) eccezionalità di una norma giuridica è concetto relazionale e proteiforme, che origina dalla sua eventuale corrispondenza o deviazione dai principi generali della materia di riferimento: è innegabile, invero, che l’ordinamento penale sia ispirato tanto al principio della necessaria antigiuridicità dei comportamenti sanzionabili (quale precipitato di quello di non contraddizione dell’ordinamento), quanto a quello della necessaria esigibilità delle condotte oggetto del comando penale[46].
Sulla base di quanto fin qui riportato, le Sezioni Unite sostengono la facoltà di interpretare estensivamente, per via analogica, la causa di esclusione della punibilità.
Si può dunque affermare che le Sezioni Unite non solo hanno capovolto l’impostazione giurisprudenziale e dottrinale fino a quel momento seguita, sostenendo la legittimità dell’estensione per via analogica dell’ambito applicativo della disposizione ed escludendone la natura eccezionale, ma hanno anche effettuato una presa di posizione a tratti troppo netta.
La Corte, nella pronuncia oggetto di analisi, riconosce la difficoltà, se non l’impossibilità, di un’interpretazione estensiva in presenza di una norma eccezionale ma, contestualmente, afferma che “la questione deve essere affrontata verificando la natura dell’art. 384 c.p., comma 1, attraverso una lettura costituzionalmente orientata che valorizzi l’elemento della colpevolezza e, soprattutto, inserita nell’ambito delle disposizioni penali che regolamentano istituti analoghi”[47].
Alle medesime conclusioni era pervenuta anche la giurisprudenza di legittimità in un’ulteriore sentenza, che ha affermato che la disposizione contenuta all’art. 384 c.p. co. 1 esclude la colpevolezza, non l’antigiuridicità della condotta, trattandosi, quindi, di un esimente “connessa alla particolare situazione soggettiva in cui viene a trovarsi l’agente, che rende inesigibile un comportamento conforme alle norme indicate dallo stesso art. 384, comma 1”[48].
L’orientamento, dunque, se da un lato esclude il carattere eccezionale della disposizione poiché mancano elementi innovativi e differenti tali da poter generare un regime eccettuativo rispetto quello ordinario, al contempo, sostiene la ricorribilità dell’estensione analogica in tutte quelle situazioni e per tutti quei soggetti che potrebbero astrattamente beneficiarvi, quali i conviventi more uxorio[49]; infatti, escluso il carattere di eccezionalità, non sono ravvisabili altre disposizioni che si frappongono all’estensione dell’ambito applicativo della suddetta causa di esclusione della colpevolezza, essendo questa una disposizione favorevole al reo che non ricade, quindi, nel divieto di analogia in malam partem.
6. Perché l’art. 384 comma 1 c.p. sembra una causa di giustificazione
La soluzione al dibattito circa la corretta qualificazione giuridica della clausola contenuta al comma 1 dell’art. 384 c.p., secondo parte della dottrina, potrebbe risolversi individuando nella stessa, più che una causa di esclusione della colpevolezza, una causa di giustificazione[50].
Di norma, la realizzazione di una condotta tipica è accompagnata da una valutazione di antigiuridicità del fatto oggetto di analisi; tuttavia, questa viene meno qualora dovesse essere presente nell’ordinamento giuridico una qualsiasi norma che facoltizza o, addirittura, impone un determinato comportamento: in queste circostanze si produce un contrasto tra un fatto conforme ad una fattispecie incriminatrice e l’intero ordinamento[51].
A differenza delle altre cause che permettono di escludere altrimenti la punibilità, le cause di giustificazione, incidendo sull’antigiuridicità della condotta tenuta, eliminandola, garantiscono all’agente di andare esente non solo dalla responsabilità penale, ma anche da eventuali ulteriori responsabilità e sanzioni di altra natura.
Di conseguenza, l’esenzione dalla sanzione non solo si estende a tutti i compartecipi ma è applicabile anche quando l’agente non sia a conoscenza della loro esistenza; questo ambito particolarmente esteso di operatività è giustificato in quanto l’esimente opera in modo obiettivo per il solo fatto di esistere, escludendo l’antigiuridicità della condotta a prescindere della condizione soggettiva in cui versa il soggetto[52].
Quindi, secondo un’impostazione più tradizionale, che, oltre a richiamare il contenuto dei lavori preparatori, fa leva sull’omogeneità della previsione dell’art. 384 comma 1 c.p. con quanto previsto in via generale dall’art. 54 c.p. – entrambe le norme esentano da sanzione penale il comportamento finalizzato a scongiurare un nocumento ad un bene giuridico – la fattispecie in esame sarebbe da classificare all’interno genus delle cause di giustificazione, e, in particolare, quale manifestazione particolare dello stato di necessità[53].
Ciò che fa propendere chi scrive per il possibile inquadramento della fattispecie quale causa di giustificazione, che rappresenta il frutto di un’opera di bilanciamento di valori realizzata dall’ordinamento in via preliminare ed assoluta – e, in questo caso, senza possibilità di ampliamenti di sorta (come vedremo infra) – è la selezione delle fattispecie alle quali l’art. 384 comma 1 c.p. è applicabile[54], e ciò perché se essa fosse esplicitazione della inesigibilità del comportamento non si comprenderebbe per quale motivo il riconoscimento di tale particolare condizione psicologica, nella prospettiva della salvaguardia della libertà o dell’onore del congiunto, non dovrebbe valere anche rispetto a fattispecie diverse da quelle ivi indicate, quali, ad esempio, la procurata evasione di cui all’art. 386 c.p. o la procurata inosservanza di pena di cui all’art. 390 c.p., norma, quest’ultima, strutturalmente assimilabile al favoreggiamento personale ma scriminabile ai sensi dell’art. 384 comma 1 c.p.
La qualificazione della norma in parola come causa di esclusione della colpevolezza fondata sulla inesigibilità di un comportamento rispettoso del precetto penale non consente di comprendere per quale ragione essa non potrebbe applicarsi alle fattispecie contro l’autorità delle decisioni giudiziarie, ovvero a quelle condotte che realizzano forme di contrasto all’efficacia ed all’esecuzione dei provvedimenti giudiziari: se la disposizione altro non fosse che la positivizzazione del principio della inesigibilità, e se tale principio fosse effettivamente applicabile anche oltre i profili soggettivi del diritto positivo, per quale ragione essa non dovrebbe essere applicabile, oltre che ai conviventi, anche rispetto a fattispecie non comprese nell’elenco contenuto nella disposizione in parola?
L’inesigibilità è un concetto empirico, che non ha mai trovato cittadinanza nel diritto positivo e che comporta l’assunzione di valutazioni sì discrezionali da rischiare di determinare la legittimazione di condotte illecite sulla scorta di considerazioni di naturale sociale che, in quanto tali, non possono costituire un rigoroso parametro interpretativo ancor prima che normativo.
Contro la qualificazione della norma quale scusante soggettiva milita, ancora, la considerazione per cui l’elemento soggettivo è da ritenersi estraneo alle ragioni (potremmo dire al movente) che determinano il comportamento penalmente rilevante, e quindi la sua successiva impunità: l’agente, con il medesimo comportamento concreto potrebbe integrare diverse fattispecie di reato la cui concreta differenza risiede essenzialmente nella situazione processuale in cui versa il destinatario dell’aiuto.
In altre parole, il soggetto agente assumerebbe un contegno di ausilio del proprio prossimo congiunto da eventuali pregiudizi derivanti dall’esistenza di un procedimento dinanzi all’Autorità Giudiziaria a prescindere dal momento processuale in cui esso si trova e, soprattutto, dalla effettiva conoscenza di quale sia la fase del procedimento.
Un esempio valga fra tutti: la creazione di un nascondiglio per un congiunto e l’ausilio durante la sua “latitanza” potrebbe, da una parte, integrare il reato di favoreggiamento personale e, contestualmente, o in alternativa (ed anche sulla scorta di circostanze che il favoreggiatore ignora) anche la fattispecie di procurata inosservanza di pena: si tratta, evidentemente, di fattispecie del tutto assimilabili tanto sotto il profilo della condotta quanto rispetto all’elemento soggettivo ed ai possibili “motivi a delinquere”[55] – che, comunque, non potendo rilevare ai fini della responsabilità penale, non dovrebbero rilevare nemmeno ai fini di esclusione di essa – salvo che per il bene giuridico.
Rispetto a tali differenti fattispecie, inoltre, appare piuttosto arduo immaginare che in capo al soggetto attivo possa prodursi una differente modulazione dell’elemento soggettivo in ragione della corretta identificazione[56] della fase processuale o, ancor peggio, procedimentale della vicenda giudiziaria del prossimo congiunto che si intende proteggere.
Sulla scorta di ciò, la giustificazione riconosciuta dall’ordinamento nelle circostanze specificamente individuate dall’art. 384 c.p. non appare realmente legata al dolo o, melius, alla componente psicologica connessa alla inesigibilità di una condotta alternativa lecita in capo al soggetto agente, bensì ad una preventiva e generalizzata valutazione assiologica realizzata dal legislatore, che ha identificato in maniera puntuale le condizioni alle quali le prerogative dell’ordinamento penale possono cedere per salvare i rapporti familiari.
Potrebbe apparire più corretto, insomma, conferire valore al conflitto “esterno” di interessi, che coinvolge, da un lato, la volontà-obbligo di rendere, ad esempio, una testimonianza veritiera al fine di non produrre un danno nei confronti dell’amministrazione della giustizia, e, dall’altro, la volontà-obiettivo di garantire se stesso o il proprio congiunto da un nocumento proveniente proprio dalla suddetta testimonianza[57].
In questo senso si pone anche quell’orientamento giurisprudenziale che, qualificata la clausola in esame quale esimente[58] e ricondottane la ratio ad “un oculato bilanciamento di interessi da parte del legislatore, che ha inteso far sempre prevalere il bene dell’integrità della libertà e dell’onore, proprio e dei prossimi congiunti, sui valori protetti da reati”[59] contro l’amministrazione della giustizia, ha subordinato l’applicabilità dell’art. 384 comma 1 c.p. a quelle ulteriori condizioni previste dall’art. 54 c.p., ed in particolare la proporzionalità tra fatto tipico e pericolo[60] e la non ascrivibilità del pericolo del nocumento ad un comportamento volontario del soggetto agente[61].
Secondo tale orientamento, allora, il legislatore avrebbe realizzato un bilanciamento, preventivo ed assoluto, tra l’interesse alla sanzione di un comportamento che abbia messo in pericolo il corretto esercizio dell’amministrazione della giustizia e l’interesse alla salvaguardia dell’unità familiare che si sarebbe incrinata nell’eventualità in cui il comportamento illecito non fosse stato perpetrato.
Ciò consentirebbe anche di alleggerire, in qualche modo, il compito del giudice, che a fronte di siffatta interpretazione potrebbe limitarsi a condurre un accertamento di natura essenzialmente oggettiva in merito alla esistenza di una relazione personale tra l’agente ed il soggetto nell’interesse del quale la condotta illecite è stata posta in essere ed alla finalità di tutela esogena ad essa sottesa, senza doversi interrogare sulla sussistenza di quelle sole condizioni in presenza delle quali poter dedurre l’esistenza di un’induzione al delitto non resistibile che sia causalmente riconducibile alla natura ed alla profondità della relazione interpersonale.
- La natura di eccezione rispetto allo standard dello stato di necessità
Alla luce di quanto già in precedenza riportato, sembra potersi ravvisare nella fattispecie contenuta all’articolo 384 co. 1 c.p. una norma eccezionale individuabile alla luce del rapporto intercorrente con la disposizione ex art. 54 c.p.
Invero, essa rappresenta una deroga[62] al regime della causa di giustificazione di parte generale[63], la quale, come noto, postula l’esistenza di un pericolo attuale di un grave danno alla persona[64] e non di un pericolo di nocumento alla libertà ed all’onore[65], valori, questi ultimi, evidentemente non meritevoli di determinare l’impunità non rispetto a qualsiasi condotta illecita che miri ad una loro tutela, bensì soltanto ad alcune soltanto tra le fattispecie contro l’amministrazione della giustizia la cui elencazione deve sicuramente ritenersi a numero chiuso.
Ancora, a differenza di quanto previsto dall’art. 54 c.p., nel caso che ci occupa non sembrano assumere rilievo, per il legislatore, gli ulteriori presupposti applicativi dell’esimente da ultimo citata.
La disposizione a tutela dei congiunti, invero, postula, innanzitutto, la prossimità di un nocumento, condizione, questa, apparentemente più concreta, nella prospettiva dell’offesa agli interessi protetti dalla norma, rispetto al pericolo, pur attuale, che intende scongiurare chi è necessitato alla perpetrazione di un delitto[66].
La norma di parte generale, poi, presuppone l’estraneità del soggetto attivo rispetto alla produzione del pericolo, circostanza, questa, – la derivazione estranea al soggetto agente del pericolo – che, all’evidenza, nel caso di specie deve escludersi ontologicamente, essendo del tutto evidente, in disparte la specifica struttura di ognuna delle fattispecie menzionate dall’art. 384 c.p., che il concorrente nel reato del soggetto che intende tutelare ha il diritto, ancor prima di proteggere quest’ultimo, di proteggere se stesso da ogni possibile forma di autoincriminazione.
Rispetto, infine, al rapporto di proporzionalità tra il fatto ed il pericolo, appare a chi scrive che anche questo elemento – del tutto essenziale nell’ambito della previsione dell’art. 54 c.p,, norma che, in quanto applicabile a qualsiasi fattispecie di reato, deve essere necessariamente imbrigliata all’interno di parametri applicativi idonei ad evitare l’arbitrio – proprio in ragione dell’avvenuta selezione, da parte del legislatore, delle condotte potenzialmente scriminabili e dei beni familiari alla cui tutela è ispirato il comportamento illecito, sia stato già valutato dal legislatore.
Le due norme, allora, a ben vedere sembrano avere ambiti applicativi concentrici, uno, più ristretto, rappresentato dall’orizzonte proprio della previsione dell’art. 384 comma 1 c.p. – applicabile a soltanto alcuni delitti contro l’amministrazione della giustizia ed allo scopo di evitare esclusivamente il nocumento alla libertà o all’onore[67] – ed un altro, più ampio, ma più rigoroso quanto alle condizioni di attivazione dell’esimente, all’interno del quale rientrano tutte le possibili manifestazioni dello stato di necessità[68]: non sembra si possa negare che le due fattispecie sembrano porsi in rapporto di genere a specie.
In questo senso, peraltro, si è anche espressa alcuna giurisprudenza di legittimità, affermando, in particolare – l’arresto riguarda il profilo delle fattispecie alle quali è applicabile l’esimente, ma il principio di diritto sembra applicabile anche in una prospettiva soggettiva – che “l’esimente dell’art. 384 c.p. sussiste quando uno dei reati ivi richiamati è stato commesso in stato di necessità correlato al bisogno di conservazione della liberà o dell’onore, mentre non sussiste ove il nocumento temuto concerne l’incolumità fisica dell’autore di uno dei fatti criminosi suddetti; la tassatività dei casi in cui opera la causa di giustificazione emerge dalla natura stessa della esimente, stante la limitazione posta dal legislatore per i reati indicati nella norma citata rispetto alla più ampia efficacia della scriminante dell’art. 54 c.p.”[69].
Proprio in ragione di ciò, dovrebbe escludersi la possibilità che la speciale esimente dell’art. 384 comma 1 c.p., anche seguendo il criterio interpretativo della voluntas legis, possa essere sottoposta ad un’applicazione analogica; ciò dovrebbe valere tanto rispetto alle figure delittuose alle quali è applicabile, quando rispetto ai soggetti che se ne possono giovare, come peraltro esplicitamente rappresentato nella Relazione di accompagnamento al D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6.
Appare fin troppo evidente che se il legislatore, pur avendo avuto un’occasione assai propizia – mediante la quale avrebbe potuto riscrivere lo statuto dei rapporti interpersonali –
non ha inteso estendere l’equiparazione dei prossimi coniugi da coniugio e da unione civile anche a coloro che si trovano in una corrispondente condizione di fatto, tale silenzio deve essere interpretato come una chiara volontà di escludere l’equiparazione.
Essendo in presenza, dunque, di una situazione che non consente di estendere analogicamente l’ambito applicativo della norma in questione nemmeno in bonam partem, la possibilità di andare esente da responsabilità, per i soggetti non compresi nelle elencazioni rilevanti ai fini di interesse, dovrebbe poter discendere esclusivamente dall’applicazione analogica dell’art. 54 c.p. – che sì, come dice un Maestro, è strumento di giustizia[70], ma che non può prescindere da ciò che è più di questo mondo, ossia la legge – a condizione, evidentemente, che ne sussistano tutte le specifiche ed ulteriori condizioni applicative.
Il rischio insito nell’asserire che l’art. 384 comma 1 c.p. possa essere applicato in via analogica, in realtà, potrebbe non determinare problemi di chissà quale natura rispetto alla situazione dei conviventi more uxorio – situazione che, in effetti, potrebbe divenire oggetto di apposita prova mediante l’allegazione di una serie di elementi fattuali idonei a comprovare l’equivalenza della situazione concreta rispetto a quella che fisiologicamente contraddistingue il rapporto di coniugio – ma produrre effetti distorsivi rispetto all’inevitabile dilatazione della compagine ad ulteriori soggetti che rientrerebbero nell’ipotetico elenco allargato: si pensi, ad esempio, agli affini del convivente more uxorio nonché a coloro che ricoprirebbero la posizione di zii o di nipoti di fatto.
Inoltre, a fronte della riconosciuta validità generale – ovvero riconducibilità al principio di colpevolezza – del principio dell’inesigibilità, non può escludersi che quanto asserito dalle Sezioni Unite possa, un domani, essere utilizzato per sostenere la rilevanza di una condizione di stress familiare al fine di giustificare comportamenti illeciti anche del tutto diversi – ed incidenti su valori del tutto eterogenei rispetto all’amministrazione della giustizia – da quelli elencati dalla norma in esame.
Allo stato dei fatti, allora, l’estensione per analogia ai conviventi more uxorio dovrebbe, a stretto rigore, escludersi.
A ciò conduce, innanzitutto, come detto, la tassatività dei casi nei quali la clausola in questione può applicarsi, che sono appositamente individuati dalla fattispecie stessa mediante un’elencazione la cui esistenza e predisposizione trasuda inderogabilità poiché seleziona tra le fattispecie a tutela del medesimo bene giuridico[71].
Nella stessa prospettiva deve intendersi altrettanto tassativa anche l’individuazione dei soggetti a cui è applicabile.
Un ampliamento come quello legittimato dalle Sezioni Unite, concludendo, condurrebbe ad un superamento dei limiti della disposizione, che consentirebbe l’esenzione dalla sanzione penalistica ad una molteplicità di situazioni “di fatto” non previste né volute dal Legislatore che, oltre ad essere difficili da provare[72], produrrebbero contestualmente un’eccessiva indeterminatezza della disposizione; tutto ciò, peraltro, senza considerare che ci troveremmo di fronte ad una norma di matrice giurisprudenziale i cui criteri applicativi dovrebbero, a loro volta, essere dettati dall’interprete, con evidente attrito con la separazione dei Poteri.
Inoltre, qualora si ammettesse l’applicazione proposta dalle Sezioni Unite rispetto ai soggetti, si rischierebbe di dar vita ad una potenziale legittimazione anche rispetto alla possibile apertura, altrettanto contra legem, all’analogia rispetto alle condizioni in presenza delle quali soltanto è possibile invocare la causa di giustificazione – in altre parole, si ammetterebbe che requisiti quali il “grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore” possano essere interpretati estensivamente, circostanze anche solo labilmente connesse ad essi – o al catalogo dei reati cui essa è applicabile.
È chiaro, concludendo, che siamo in presenza di una disposizione di favor per la quale potrebbe essere previsto il ricorso all’analogia, ma tanto il significato del comportamento del legislatore, quanto il rispetto dei limiti alle prerogative della magistratura ordinaria, quanto l’esigenza di certezza del diritto – in presenza di una norma che ha certamente ambito applicativo limitato e si pone in termini di deroga alla disciplina generale – consentono di affermare che lo strumento mediante il quale è possibile realizzare l’evoluzione del diritto penale non può essere rappresentato da una sentenza che, benché coerente con l’evoluzione sociale e rispettosa del principio di uguaglianza, si pone in termini frontali contro il contenuto del diritto positivo.
[1] DI BIASE, Analogia in bonam partem e cause di esclusione della colpevolezza: sull’applicabilità dell’art. 384, comma 1, c.p. ai conviventi more uxorio. Riflessioni a margine di una recente ordinanza di rimessione alle Sezioni unite della Corte di cassazione, in CP, 2020, 2830; MEZZA, “Soccorso di necessità giudiziaria” e convivente more uxorio. Rimessa alle Sezioni Unite la questione dell’ambito applicativo dell’art. 384, comma 1, c.p., in Sistema penale, 2020.
[2] Allo stesso modo, il Legislatore conferma l’estensione del concetto di “prossimi congiunti” anche nelle note a margine al D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6
[3] Corte Cost., 13 novembre 1986, n. 237; Corte Cost., 11 gennaio 1996, n. 8.
[4] Corte Europea dir. uomo, Grande Camera, sent. 3 aprile 2012, Van der Heijden c. Olanda.
[5] In questo senso, ex multis, Cass. Pen. Sez. VI, ord. 20 marzo 1991, n. 132, 5 luglio 1989, n. 9475, e 27 maggio 1988, n. 6365. Nella giurisprudenza più recente si v. Sez. II, 17 febbraio 2009, n. 20827. Nello stesso senso si colloca l’orientamento che, in una prospettiva diversa, ha ritenuto che la disposizione in esame non possa estendersi al rapporto di affinità che lega un coniuge al nipote dell’altro coniuge: Sez. VI, 15 ottobre 2008, n. 3879, e quella sentenza che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione in esame nella parte in cui esclude il convivente more uxorio dal novero dei congiunti: Sez. VI, 26 ottobre 2006, n. 35967.
[6] Cass. Pen. Sez. II, 4 agosto 2015 (ud. 30 aprile 2015), n. 34147; Cass. pen., Sez. VI, 14 marzo 2019 (data ud. 19/09/2018), n. 11476.
[7] Legge 20 maggio 2016, n. 76.
[8] In questo senso, ex multis, Cass. Pen. Sez. IV, 26 ottobre 2005, n. 109, e, prima dell’introduzione del Testo Unico in materia di Spese di Giustizia, Sez. VI, 31 ottobre 1997, n. 4264.
[9] In questo senso anche Cass. Pen. Sez. IV, 6 agosto 2009, n. 32190.
[10] Il testo dell’articolo è il seguente: “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
[11] La pronuncia citata dalla Suprema Corte nell’ordinanza di remissione è quella della Grande Camera nel giudizio Van der Heijden c. Olanda del 3 aprile 2012, in relazione alla quale si v. PELLAZZA, Obbligo di testimonianza del convivente more uxorio: la Corte EDU non apre alle coppie di fatto. Riflessioni su art. 384 c.p. e famiglia di fatto, in www.dirittopenalecontemporaneo.it; più in generale, in relazione al contenuto dell’art. 8 della CEDU, si v. PUTATURO DONATI, Il diritto al rispetto della «vita privata e familiare» di cui all’art. 8 della CEDU, nell’interpretazione della Corte EDU: il rilievo del detto principio sul piano del diritto internazionale e su quello del diritto interno, in www.europeanrights.eu
[12] La relazione è reperibile quale allegato a GATTA, Unioni Civili Tra Persone Dello Stesso Sesso: Profili Penalistici – Note a margine del D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, in cui l’A. qualifica come sostanzialmente neutro, quanto al tema della convivenza di fatto, l’intervento della Legge Cirinnà, e, ciò nonostante, giurisprudenza e dottrina da tempo avessero sollecitato un intervento legislativo volto ad ammodernare la disciplina penale mettendola al passo con la mutata realtà sociale.
[13] Cass. Pen. Sez. VI, 14 marzo 2019 (ud. 19 settembre 2018), n. 11476. Nello stesso senso, e della stessa Sezione, si segnala 11 maggio 2004, n. 22398.
[14] In argomento MACCHIA, Il fine giustifica i mezzi? Le Sezioni Unite e la difficile estensione ai conviventi della causa di non punibilità dell’art. 384, comma 1, cod. pen., in Sistema penale 2021, 9, 13.
[15] Cfr. Cass. Pen., SS.UU., 17 marzo 2021, n. 10381.
[16] In questo senso anche pronunce meno risalenti, Corte Cost., 20 aprile 2004, n. 121; Cass. pen., Sez. VI, 28 settembre 2006, n. 35967; Cass. pen., Sez. II, 17 febbraio 2009, n. 20827; Corte Cost., 08 maggio 2009, n. 140; Cass. pen., Sez. V, 22 ottobre 2010, n. 41139; in dottrina, LIGUORO, Codice penale e convivenza more uxorio, in DeG, 2004, 20. Una nota critica sul punto di LUCCIOLI, La famiglia di fatto dinanzi alla Corte Costituzionale: ancora un rifiuto di tutela, in CP, 1987, 681.
[17] Si richiama la sentenza della Corte Costituzionale precedentemente citata n.8 del 1996, le cui considerazioni vengono riprese e ampliate anche da Corte Cost., 7 aprile 2004, n. 121, e da Corte Cost., 4 maggio 2009, n. 140. Su quest’ultima si v. PASTORELLI, La convivenza more uxorio non esclude la punibilità del favoreggiamento personale, in GiC, 2009, 1525; BERGONZINI, La convivenza more uxorio nella giurisprudenza costituzionale (note a ritroso all’indomani di Corte Cost. n. 140 del 2009), in Studium iuris, 2010, 1 ss. Critica sul punto è, invece, la posizione di MANNA, L’art. 384 c.p. e la “famiglia di fatto”: ancora un ingiustificato “diniego di giustizia” da parte della Corte Costituzionale?, in GiC, 1996, 90.
[18] Sul punto, la stessa Consulta, con la sentenza del 25 luglio 2000, n. 352, resa però in relazione ad una questione avente ad oggetto l’art. 649 c.p., ha ricordato che dalla previsione dell’art. 199 c.p.p., nella parte in cui rende equivalente il coniuge al convivente, non può discendere “un principio di assimilazione dotato di vis espansiva fuori dal caso considerato”.
[19] Considerato in diritto, § 3.
[20] BARTOLI, Con una lezione di ermeneutica le Sezioni Unite parificano i conviventi ai coniugi, nota a sentenza Cass. pen. Sez. Unite Sent., 26 novembre 2020, n. 10381, in Diritto Penale e Processo, n. 8, 1° agosto 2021, 1084. Parla di “torsione del dato normativo di riferimento” FORNASARI, Cause di non punibilità – applicazione dell’art. 384 c.p. e famiglia di fatto: brusco overruling delle Sezioni Unite, in Giur. It., n. 7, 2021, 1725
[21] Su cui si vv. PALAZZO, Corso di Diritto Penale, Parte Generale, Torino 2013, 457 ss.; FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova 1990, 355 ss.
[22] Anche in altre pronunce già richiamate la Corte di Cassazione afferma che la disposizione “tipizza una situazione oggettiva in cui il procedimento motivazionale del soggetto risulta ‘alterato’, tanto da poter escludere la colpevolezza attraverso la valorizzazione del coinvolgimento psichico […] Alla condotta dell’agente, che risulti ‘motivata’ secondo quanto prevede la norma, corrisponde un abbassamento della pretesa statuale, in base alla ratio dell’inesigibilità”.
[23] L’analogia in bonam partem è ormai ammessa nel nostro ordinamento, secondo un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato tra le tante si v. Cass. pen. Sez. 5, 22 maggio 1980 n. 10054.
[24] ACETO, Le SS. UU. estendono l’esimente di cui all’art. 384 c.p. ai conviventi “more uxorio”, in Quot. giur., 2021; GALLUCCI, Le Sezioni unite risolvono la questione dell’applicabilità dell’articolo 384, comma 1, c.p. ai conviventi more uxorio, in CP, 2021, 1929.
[25] In questo senso anche Cass. Pen., Sez. III, 12 gennaio 2018, n. 6218; Cass. Pen. Sez. VI, 19 settembre 2018, n. 11476.
[26] ZANOTTI, Una questione di costituzionalità mal posta: la facoltà di astensione dal dovere testimoniale del convivente di fatto e l’art. 29 Cost., in GiC, 1996, 98.
[27] In argomento Cass. Pen. SS.UU, 29 agosto 2007, n. 7208.
[28] In favore di questa interpretazione la dottrina, PISANI, La tutela penale delle prove formate nel processo, Milano, 1959, 240; RUGGIERO, Profilo sistematico delle falsità in giudizio, Napoli, 1974, 289; SUCHAN, Stato di necessità e cause di non punibilità previste dall’art. 384 c.p., in CP, 1977, 66. In giurisprudenza v. Cass. Pen., Sez. I, 28/04/1976; Cass. pen., Sez. I, 30/06/1975. Sul punto, per la dottrina del secolo scorso, ROCCO, L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale, Torino, 1913, 538. Secondo la tesi c.d. oggettiva, la facoltà di ledere è riconosciuta in capo all’agente alla luce dell’esistenza di un conflitto di interessi di diversa natura, uno tipicamente dello Stato alla conservazione dei beni ed un altro strettamente personale: l’assenza di sanzione nei riguardi di colui che agisce per “necessità” appare possibile laddove, alle condizioni espressamente previste dalla norma – che consentono di escludere un’applicazione arbitraria della scriminante – ci si trovi in presenza di interessi di pari grado e, soprattutto, quando la situazione nei riguardi della società comune rimane immodificata. Dunque, data l’equivalenza tra i beni e la circostanza per cui uno dei due deve necessariamente soccombere, non vi è danno per la comunità sociale (in argomento AZZALI, Stato di necessità (dir. pen.), in Noviss. Dig. It., XVIII, Torino, 1971, 363; GROSSO, Difesa legittima e stato di necessità, Milano, 1964, 303; MOLARI, Profili dello stato di necessità, Padova, 1964, 97; NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, Padova, 1975, 197). Pertanto, l’eccezione alla generale punibilità deriva dalla presenza di un conflitto tra interessi sottostante che viene risolto in bilanciamento dal Legislatore ex ante, dal quale risulta prevalente l’interesse dell’agente rispetto a quello punitivo dello Stato; in aggiunta, nel caso dello stato di necessità, si potrebbe essere in presenza anche di un conflitto di doveri, ossia di una situazione in cui l’agente si trova a dover adempiere due obblighi in contemporanea, peraltro l’uno contrario all’altro, tanto che l’adempimento di uno comporterebbe l’automatico ed inevitabile inadempimento dell’altro.
[29] Cass. pen., Sez. VI, Sent., (data ud. 05/07/2022) 01 agosto 2022, n. 30335.
[30] Cass. pen., Sez. VI, Sent., (data ud. 22/06/2022) 05 settembre 2022, n. 32578.
[31] Secondo PADOVANI, Le cause di giustificazione, Padova 2006, 140, “… in termini dogmatici, la circostanza che il fatto tipico sia stato commesso sovvertendo il criterio di priorità stabilito dall’ordinamento (e quindi in assenza di causa di giustificazione), lo qualifica come obiettivamente antigiuridico; nell’ipotesi inversa (e cioè in presenza di una causa di giustificazione), esso risulta invece obiettivamente lecito”. MANTOVANI, Diritto Penale – Parte generale, Padova 2007, 233, afferma che il fondamento logico-giuridico delle scriminanti è dato dal principio di non contraddizione, per cui uno stesso ordinamento non può imporre o consentire e, ad un tempo, vietare il medesimo fatto senza rinnegare sé stesso e la sua pratica possibilità di attuazione.
[32] In ambito civile, al contrario, non ogni fatto che rechi danno, si sostiene, genera obbligo di risarcimento, poiché esso deve essere in contrasto con un dovere giuridico: è proprio “questa relazione di difformità (che) si esprime appunto come antigiuridicità”. Ad esempio, la giurisprudenza, in numerose pronunce, ha riconosciuto il risarcimento per lesione all’integrità del patrimonio, nonché per la perdita di opportunità (chance), identificando nell’art. 2043 c.c. una clausola generale in base alla quale è risarcibile la lesione di qualunque interesse, rilevante per l’ordinamento; progressivamente, la situazione soggettiva suscettibile di risarcimento ha, apparentemente, acquistato nettezza ed omogeneità di contorni, ed il danno ingiusto è stato assimilato al pregiudizio arrecato in violazione di un dovere giuridico (ovvero in caso di antigiuridicità obiettiva). Proprio in ragione di ciò, in presenza di una delle due cause di giustificazione previste dal codice civile, ossia la legittima difesa e lo stato di necessità (artt. 2044 e 2045 c.c.), non sussiste un diritto al risarcimento del danno. Per la prima ipotesi si prevede che nulla è dovuto per il danno che sia stato cagionato per legittima difesa, per la nozione della quale deve evidentemente farsi riferimento all’art. 52 del codice penale, mentre il successivo articolo prevede che “quando chi ha compiuto il fatto dannoso vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, e il pericolo non è stato da lui volontariamente causato né era altrimenti evitabile, al danneggiato è dovuta una indennità, la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice”. Nel vigore del codice del 1865, invece, era assai discusso se in caso di danno cagionato in stato di necessità fosse o meno escluso il risarcimento del danno. All’atto della nuova codificazione, e stante la previsione dell’art. 54 c.p., che prevedeva (e prevede) la non punibilità per il reato commesso in stato di necessità, ai più non sembrava equo che tutte le conseguenze dannose rimanessero a carico della vittima; tuttavia, era difficile, in assenza di una previsione specifica accordare una forma di ristoro, ragion per cui il codificatore ha previsto, in tal caso, il diritto del danneggiato ad una indennità. Secondo VISINTINI, Trattato breve della responsabilità civile, Padova 2005, 587, l’influenza del diritto penale sulla teorizzazione del diritto civile è comune anche a molti altri ordinamenti. In particolare, tale dipendenza è molto forte nel sistema francese dove il code civil non contiene, a differenza del nostro, alcuna disposizione con riguardo ai “faits justificatifs” e solo nel 1968 è stata emanata una leggina che ha introdotto un regime speciale di responsabilità dell’incapace affetto da disturbi mentali. Si veda a questo proposito anche PELLISSIER, Faits justificatifs et action civil, Dalloz, 1963, 121: VINEY, La responsabilitè: conditions, in Traitè Ghestin, Paris 1982, 666.
[33] C. App. Perugia 6 giugno 2001, in RGU, 2002, 63.
[34] In argomento WACHINGER, Der übergesetzliche Notstand nach der neuesten Rechtsprechung, in Frank.fest, I, Tübingen, 1930, 476, nota 1. Questa teoria sarebbe idonea, se ulteriormente sviluppata, potrebbe rappresentare la chiave di legittimazione delle esimenti non codificate, istituto che negli anni ha subito molteplici applicazioni pratiche, prima fra tutte quella relativa all’attività medico chirurgica, rispetto alla quale si può ritenere che, a determinate condizioni (ad esempio in caso di intervento urgente e di grave pericolo di vita per il paziente), l’eventuale mancata manifestazione del consenso del paziente e la limitazione della sua libertà decisionale costituiscano il sacrificio di un bene che è inferiore a quello della salute e dell’integrità fisica, valori che, in quanto di rango superiore, a certe condizioni possono essere tutelati anche a discapito della libertà personale.
[35] Si deve infatti ricordare che l’art 14 delle preleggi, rubricato “applicazione delle leggi penali ed eccezionali” sancisce il principio per il quale “le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempo in esse considerate”.
[36] ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte Generale, Milano 2003, 95. In argomento si v. anche, nella manualistica, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale – parte generale, Bologna 2001, 165.
[37] In questo senso ROMANO, Commentario sistematico del codice penale cit., 50 ss. nonché alcuni arresti giurisprudenziali, tra cui Cass. Pen. Sez. IV, 8 marzo 2016, n. 9559; contra MARINUCCI – DOLCINI, Manuale di Diritto Penale – Parte Generale, Milano 2012, 349, secondo cui “eventuali lacune in materia di scusanti possono essere colmate solo dal legislatore, e non dal giudice in via analogica”.
[38] Si v. sul punto, anche per i richiami dottrinali, DI BIASE, Analogia in bonam partem e cause di esclusione della colpevolezza, cit., 2850.
[39] Diversamente NUVOLONE, I limiti taciti della norma penale, Padova 1972, 33 e ss., evidenzia che la logica del comando comporta un’esigenza di tipicità che si riverbera anche sui limiti dell’obbligo ed esclude, pertanto, la possibilità di ricorrere all’analogia in bonam partem.
[40] In argomento si v. MIELE, voce Cause di giustificazione, in Enciclopedia del diritto, vol. VI, 590 – 598.
[41] ROSSI, La collocazione dogmatica delle scriminanti. Ammissibilità delle scriminanti tacite, in www.diritto.it.
[42] MIELE, ibidem, 598 per chiarire attraverso quale procedimento giuridico opera la efficienza normativa dei principi nelle cause di giustificazione non previste, “si devono registrare due atteggiamenti che risultano storicamente condizionati dal modo in cui funziona un sistema normativa e dalla posizione che occupa la dommatica nel concreto funzionamento dell’esperienza giuridica. Infatti, c’è da segnalare che dove la dottrina ha assunto una posizione di preminenza, come in Germania, la forza normativa dei principi opera nella giurisprudenza per l’autorità diretta della elaborazione dommatica, nel nostro sistema giuridico invece si fa ricorso alla logica dell’interpretazione e viene esattamente impiegato quel particolare procedimento di interpretazione che è appunto l’analogia”.
[43] In questo senso MIRRA, Causa di giustificazione non codificate e fenomeno sportivo, in www.altalex.it.
[44] VASSALLI, Limiti del divieto di analogia in materia penale, Milano 1942, 117.
[45] DI BIASE, Analogia in bonam partem¸ cit. 2851.
[46] DI BIASE, op. cit., 2852.
[47] Cass. Pen. SS.UU., 17 marzo, n. 10381, cit., §9.
[48] Cfr. Cass. pen. Sez. V, 12 marzo 2018, n. 18110.
[49] SCHIRÓ, Brevi note a partire dall’informazione provvisoria delle Sezioni unite sull’applicabilità dell’art. 384, comma primo, c.p. al convivente more uxorio, in FI, 2020; ID, Per le Sezioni Unite, l’art. 384, 1° comma, c.p., in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile anche al convivente more uxorio, in FI, 2021; ID, Le Sezioni Unite sul 1° comma dell’art. 384 c.p.: il «sentimento affettivo» può escludere esigibilità e colpevolezza, in FI, 2021, II, 389.
[50] ROMANO, Cause di giustificazione, cause scusanti, cause di non punibilità, in RIDPP, 1990, 61; ZANOTTI, Nemo tenetur se detegere: profili sostanziali, in RIDPP, 1989, 183; FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990, 353.
[51] In materia, MARINUCCI, Agire lecito in base a un giudizio ex ante, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2011, 393; VASSALLI, La dottrina italiana dell’antigiuridicità, in Festschrift für H.-H. Jescheck, 1985, 427; ROMANO, Cause di giustificazione, causa scusanti e causa di non punibilità in senso stretto, in riv. It. Dir. Proc. Pen., 1990, 55; MEZZETTI, Le cause di esclusione della responsabilità penale nello Statuto della Corte internazionale penale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2000, 237ss.
[52] FIANDACA – MUSCO, Diritto penale. Parte generale, ed.8., Bologna, 2019, 271ss.
[53] ANTOLISEI, Manuale di Diritto Penale – Parte Speciale – I, Milano 2003, 568 ss. In argomento si v. anche ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I (artt. 1 – 84), Milano 2004, 51 ss. Nella giurisprudenza risalente Cass. Pen. Sez. VI, 23 marzo 1983, n. 2537.
[54] Ad un primo esame, le ragioni dell’identificazione di tali fattispecie, evidentemente a numero chiuso, potrebbero risiedere nella tendenziale natura di pericolo e della complessiva minore gravità dei delitti in questione, del mancato coinvolgimento di interessi di terzi (con l’esclusione della falsa testimonianza e dei delitti in materia di dichiarazioni, che potrebbero incidere negativamente su terzi incolpevoli ma che non lo fanno necessariamente), e nell’esclusione delle fattispecie a tutela dell’autorità delle decisioni dell’Autorità Giudiziaria.
[55] Secondo FERRI, Principi di diritto criminale, Torino 1928, pagg. 313 ss., il motivo determinante è “l’atto psichico (sentimento e idea) che precede e determina così la volontà come l’intenzione”.
[56] Con il rischio, a questo punto ipotizzabile, di ritenere legittimabile anche la condotta di ausilio al prossimo congiunto che esuli dalle fattispecie contro l’attività giudiziaria ma in presenza di una condizione di ignoranza, in capo all’agente, della specifica fase processuale nella quale si è sviluppato il comportamento illecito.
[57] Secondo Cass. Pen., Sez. VI, 5 ottobre 2010, n. 37467, tale conflitto sembra essere risolto in via preventiva ed assoluta dal legislatore mediante una valutazione ex ante specificamente finalizzata a prevenire situazioni di incertezza o tensione.
[58] Nello stesso senso, Cass. pen., Sez. I, 18 febbraio 1988, n. 2145; Cass. Pen. Sez. VI, 14 gennaio 2015, n. 1401.
[59] Cass. Pen. Sez. VI, 8 gennaio 2003, n. 3397.
[60] Cass. Pen. Sez. I, 30 giugno 1975.
[61] Così Cass. Pen. Sez. VI, 20 febbraio 2009, n. 10654, 3 novembre 1989, secondo cui condizione per l’applicabilità della norma, quale manifestazione dello stato di necessità, è rappresentata dalla involontarietà della condizione di pericolo, e 24 febbraio 1986, n. 5046; in senso diametralmente opposto la giurisprudenza più recente della stessa Sezione: Sez. VI, 29 luglio 2019, n. 34543. In argomento si v. anche SCARCELLA, Punibile il falso teste “avvisato” di astenersi nel processo a carico del prossimo congiunto, in Diritto Penale e Processo, 2009, n. 167.
[62] Il medesimo rapporto, con buona approssimazione, potrebbe esistere tra il consenso dell’avente diritto e l’omicidio del consenziente.
[63] Cass. Pen. Sez. VI, 23 marzo 1983, n. 2537.
[64] Nondimeno, Cass. Pen. Sez. VI, 20 settembre 1989, n. 12672, e 15 novembre 1985, n. 10707, affermano la necessità che anche l’art. 384 c.p. vada applicato a condizione che vi sia prova non di un pericolo di nocumento “genericamente temuto”, ma di un pericolo attuale e concreto.
[65] In tale prospettiva Cass. Pen. Sez. VI, 8 aprile 2008, n. 26560.
[66] I fattori sarebbero da una parte la probabilità di un evento temuto e dall’altra la certezza del verificarsi di un nocumento: così Cass. Pen. Sez. VI, 4 febbraio 1997, n. 1908. Nello stesso senso Sez. I, 9 maggio 1992, n. 5414, secondo cui l’evento oggetto della situazione di necessità di cui all’art. 384 c.p. non è costituita da un evento di pericolo ma da uno di danno.
[67] Tale interpretazione produce una restrizione tanto dal punto di vista dei soggetti la cui messa in pericolo diviene rilevante per l’ordinamento, poiché si passa da una rilevanza assoluta ad una relativa, in quanto la rilevanza è ristretta ai soli prossimi congiunti; ma si riscontra un restringimento anche per il bene messo in pericolo: da un lato abbiamo “il danno grave alla persona” (art. 54 c.p.), che premette l’ingresso ad un numero esteso di fatti concreti, mentre dall’altro abbiamo il grave “nocumento nella libertà o nell’onore” (art. 384 c.p.), che apre le porte dell’esenzione ad un ristretto novero di casi.
[68] In senso contrario Cass. Pen. Sez. I, 14 aprile 1989. n. 5759, e Sez. VI, 30 aprile 1988, n. 5232, che hanno ritenuto applicabile l’art. 384 comma 1 c.p. anche qualora il nocumento temuto avesse ad oggetto non la libertà o l’onore ma l’incolumità fisica.
[69] Cass. Pen. Sez. VI, 23 marzo 2006, n. 12799; nei medesimi termini Cass. Pen. Sez. VI, 14 novembre 1979.
[70] PALAZZO, Conviventi more uxorio e analogia in bonam partem: prima lettura di una sentenza “giusta” più che ardita, in Sistema penale 2021, 9.
[71] ROMANO, Delitti contro l’amministrazione della giustizia, 7a ed., Milano, 2022, 232; Romano, La subornazione. Tra istigazione, corruzione e processo, Milano, 1993, 219; ZOTTA, Casi di non punibilità, in Coppi (a cura di), I delitti contro l’amministrazione della Giustizia, Torino, 1996, 533, nt. 6.
[72] Sulle prove potenzialmente adducibili si v. GALLUCCI, Le Sezioni Unite, cit., 6.