Tanto, veramente tanto si è parlato delle misure di contenimento dell’attuale pandemia, e per molto ancora si continuerà a farlo: si è fatto troppo poco, si è fatto troppo, non si doveva fare nulla, si doveva fare tutt’altro, si doveva farlo prima, si sono violati senza giustificazione i diritti costituzionali dei cittadini.
E altrettanto si è parlato e si parla dei presunti, occulti naturalmente, responsabili della diffusione del virus.
Il Covid-19 non è che l’ultimo dei contagi che in tante occasioni hanno colpito l’umanità, anche in misura ben più dura, e le modalità con cui le epidemie si sono diffuse, così come le reazioni delle comunità e le misure delle autorità che le amministravano, non sono state poi così diverse.
LA PESTE DI ATENE
Corre l’anno 430 a.c., il secondo della guerra con Sparta, e la peste (in realtà dovrebbe trattarsi di vaiolo, almeno a giudicare dai sintomi descritti dagli storici) compare appena trascorso l’inverno.
Benché sia da subito chiaro che il contagio proviene dall’Egitto, dove è giunto a sua volta dall’Etiopia, racconta Tucidide[1] che la prima reazione degli ateniesi è quella di scaricare sugli odiati nemici la colpa della disgrazia, sostenendo che “i Peloponnesi avevano gettato dei veleni nelle cisterne del Pireo”, il luogo dove per primo il popolo inizia ad ammalarsi e a morire.
Gli spartani, per la cronaca, appena saputo cosa accade dentro le mura di Atene, fanno saggiamente fagotto e se tornano a casa loro nel Peloponneso, dove anche l’epidemia arriverà ma sarà molto meno grave.
Dentro la città di Pericle si consuma invece una vera e propria strage, anche a causa del fatto che gli ateniesi “per curarsi a vicenda si contagiavano e morivano l’uno dopo l’altro, come le pecore”. Ad aggravare il tutto, v’è anche la circostanza che a causa della guerra gli abitanti delle campagne si sono rifugiati in città, abitando in baracche ed altri luoghi fatiscenti, dove “la strage avveniva nel massimo disordine”.
E arriva il primo problema di ordine pubblico, quello di cosa fare dei cadaveri: il numero dei deceduti è talmente elevato che – narra sempre Tucidide – “tutte le consuetudini che prima avevano nel celebrare gli uffici funebri furono sconvolte, e si seppelliva così come ciascuno poteva … prevenendo chi elevava la pira, gli uni, posto il loro morto su una pira destinata a un altro, vi davano fuoco; altri, mentre un cadavere ardeva, vi gettavano sopra quello che portavano e se ne andavano”.
Ma l’approfittare delle pire altrui per bruciare i propri morti non è la sola azione illegale che i cittadini di Atene incominciano a compiere: “… il morbo dette l’inizio a numerose infrazioni delle leggi. Più facilmente uno osava quello che prima si guardava dal fare per suo proprio piacere, poiché vedeva avvenire un rapido mutamento tra coloro che erano felici e morivano improvvisamente e coloro che prima non possedevano nulla e avevano poi le ricchezze degli altri. Cosicché consideravano giusto godere quanto prima e con il maggior diletto possibile, giudicando effimere sia la vita che le ricchezze. E ad affaticarsi per ciò che era riconosciuto nobile, più nessuno era disposto, poiché pensava che era incerto se non sarebbe morto prima di raggiungerlo. … Nessun timore degli dèi o legge degli uomini li tratteneva, ché da un lato consideravano indifferente essere religiosi o no, dato che tutti senza distinzione morivano, e dall’altro, perché nessuno si aspettava di vivere fino a dover rendere conto dei suoi misfatti e pagarne il fio; essi consideravano piuttosto che una pena molto più grande era già stata sentenziata ai loro danni e pendeva sulle loro teste, per cui era naturale godere qualcosa della vita prima che tale punizione piombasse su di loro”.
Parole che fanno riflettere e da cui gli ateniesi, padri della scienza filosofica, non escono un granché bene. Ma sono i soli a reagire così o sono solo il primo di una lunga serie di esempi che si ripeteranno nella storia?
Scartati gli spartani, che evidentemente non c’entrano nulla, come colpevoli dell’epidemia, i cittadini se la prendono con il proprio governo, e in particolare con lo stratega-dittatore Pericle, fino a poco prima seguito e approvato da tutti.
Non che questi abbia fatto molto per salvare la città dalla catastrofe in cui si trova (non v’è traccia nelle fonti storiche di provvedimenti sanitari adottati dalle autorità cittadine), ma non gli si può certo imputare di aver fatto scoppiare l’epidemia.
E allora lo si accusa di essere responsabile della guerra con Sparta, che in realtà avevano voluto tutti: “Dopo la seconda invasione dei Peloponnesi gli Ateniesi, siccome la loro terra era stata per la seconda volta devastata e la pestilenza infuriava insieme alla guerra, cambiarono parere e si misero ad accusare Pericle di averli persuasi a fare la guerra, e per il fatto che per causa sua si trovavano in quelle sventure … Da ogni parte pieni di incertezza sulle loro decisioni, assalirono Pericle”.
Da notare la finezza con cui lo storico descrive il procedimento psicologico dei cittadini. Stanno male, non sanno cosa fare, se la prendono con chi hanno a tiro. L’equivalente di “Piove, governo ladro!” di 2.450 anni fa.
Da abile politico quale è, Pericle riuscirà per un po’ a riportare tutti dalla sua parte: sarà deposto, processato, condannato, riabilitato, rieletto.
Ma l’essere sfuggito all’ira dei propri cittadini non lo salverà. Dopo i suoi figli, anch’egli morirà per il morbo nell’autunno dell’anno successivo, e da allora per la sua città non vi sarà che una decadenza senza fine.
LA PESTE DI GIUSTINIANO
Siamo nel 541 d.c. e a Costantinopoli regna l’ultimo imperatore di lingua latina, quel Giustiniano che ha riordinato l’impero e che vuole riconquistare l’Italia strappandola ai barbari Ostrogoti.
Ma come accaduto agli ateniesi quasi 1.000 anni prima, uno strano terribile morbo giunge dall’Etiopia all’Egitto, e da qui a Bisanzio.
La capitale, che conta almeno mezzo milione di abitanti, viene subito travolta. E questa volta non è vaiolo come ad Atene, non è morbillo come ai tempi della “Peste Antonina”, che pure durerà vent’anni e farà una strage immensa. Questa volta è vera peste bubbonica, che ucciderà quasi la metà della popolazione della capitale imperiale.
Procopio di Cesarea[2] ci fornisce una descrizione agghiacciante sul numero delle vittime: “Quattro mesi durò il male in Bisanzio, e la sua massima virulenza circa tre. E all’inizio i morti erano poco più del normale, poi la mortalità crebbe, e successivamente il numero dei morti raggiunse la cifra di cinquemila al giorno, e poi ancora fino a dieci mila e anche più”.
Cifre terribili, che indicano nei giorni del picco una mortalità quotidiana di circa un cittadino su cinquanta.
Normale dunque che le sepolture divengano subito un problema urgente: “Incominciarono a gettare i propri morti nelle tombe di altri, o di nascosto o usando violenza; dopodiché la confusione e il disordine divennero ovunque totali”.
Ma come veduto sono passati quasi mille anni dal morbo di Atene, e la pubblica autorità interviene: “Toccò all’imperatore, come era naturale, provvedere alla situazione. Distaccò dei soldati da palazzo e distribuì del denaro, ordinando a Teodoro [il suo referendario] di occuparsi della questione. … Teodoro, sia usando il denaro dell’imperatore sia impiegandone del proprio, iniziò a bruciare i corpi abbandonati”.
Ma i sepolcri esistenti non bastano, e i soldati di Teodoro si mettono a crearne nuovi, finché non c’è più posto dove scavare.
E allora si scoperchiano le torri della fortezza di Sycae (l’odierna Galata), le si riempiono di cadaveri fino all’orlo e le si richiudono, ma le morti continuano e si arriva all’estremo: le autorità fanno gettare i cadaveri dalle mura sugli scogli antistanti la città, dopodiché arrivano delle imbarcazioni per portali in mare aperto dove vengono gettati.
È una descrizione che tristemente ricorda le recenti immagini della colonna di camion dell’esercito che trasportano le salme fuori dalla città di Bergamo.
Diversa, almeno in apparenza, è la reazione del popolo rispetto ad Atene , poiché non solo i membri delle diverse fazioni (più o meno criminali) si aiutano a vicenda, ma addirittura “coloro che prima provavano piacere nel dedicarsi al compimento delle cose più vergognose e rozze, si sbarazzarono dell’ingiustizia delle loro precedenti vite quotidiane e si dedicarono con diligenza ai doveri della religione”.
La peste ha dunque migliorato l’essere umano? Non proprio, stando alla spiegazione che Procopio dà di questo mutamento di condotta: secondo lo storico ciò avvenne “non perché essi avevano appreso la saggezza né perché erano divenuti all’improvviso amanti della virtù… ma poiché essendo completamente terrorizzati da ciò che accadeva, e ritenendo che sarebbero morti a breve, divennero per un attimo persone per bene per pura necessità”, tant’è che, non appena la peste si sposta in altre città e sono sicuri di avere avuto salva la vita, tornano alla vita scellerata di prima, se non anche peggio.
Benché toccato dal morbo, Giustiniano si salverà. Ma l’Impero Romano d’Oriente è messo in ginocchio e dovrà abbandonare per sempre il sogno di tornare a dominare l’Africa e l’Occidente. L’Italia sarà strappata agli Ostrogoti di Totila, ma sarà subito presa dai Longobardi. La Libia, appena conquistata ai Vandali, sarà abbandonata per carenza di truppe in grado di controllarla.
Il regalo fatto a Bisanzio dalla peste bubbonica (che tornerà per altri due secoli e mezzo a intervalli regolari di 15-20 anni), oltre che la morte di quasi la metà della popolazione, saranno 9 secoli di decadenza e lenta agonia, fino alla caduta della capitale per mano dei Turchi Ottomani nel 1453.
LA MORTE NERA DEL 1300
Non è la fortezza dei cattivi di Guerre Stellari ma qualcosa di ben peggiore. È la peggior pestilenza della storia dell’umanità, che tra il 1347 e il 1353 uccide circa un terzo della popolazione europea.
Nata probabilmente al confine tra Cina e Mongolia, viene portata dai guerrieri dell’Orda d’Oro fino in Crimea. Qui l’esercito mongolo, nell’assediare Caffa (colonia della Repubblica di Genova), pensa bene di lanciare con le catapulte i cadaveri dei morti di peste all’interno della città nemica, dove subito scoppia il contagio che, grazie alla rete di navigazione commerciale dei genovesi, si diffonde presto in tutta Europa, in primis a Messina, Genova e Venezia.
La strage è immane, in particolare in Italia: si pensi che a Siena, la popolazione si ridurrà di quattro quinti secondo la fonte (un anonimo) più benevola. Altri, come Tommaso Fecini, nelle sue “Croniche” parla di nove abitanti morti su dieci.
Con cifre del genere è normale che tutto salti in aria: quelli che non muoiono hanno paura di morire, e così i padri e le madri non vogliono neppure vedere i figli morenti, tutti diffidano di tutti, dilagano il caos e l’anarchia, come ben ci descrive Giovanni Boccaccio a proposito di Firenze: “E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri e esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare”.
Chi può fugge in campagna (si vedano i protagonisti del Decamerone), chi non può resta in città, ma tutti ormai pensano solo a se stessi.
Sempre a Siena, il cronista Agnolo di Tura lamenta di non aver trovato nessuno che seppellisse i suoi cinque figli morti a causa del morbo e di aver dovuto provvedervi egli stesso.
In questa apocalisse, oltre alla Polonia di re Casimiro III, si salva solo la città di Milano, il cui signore Luchino Visconti prende per tempo misure durissime per impedire il diffondersi del contagio: le prime tre case infettate alla periferia della città vengono murate con gli abitanti ammalati dentro (che moriranno di malattia o di fame), tutte le merci vengono lasciate in deposito precauzionale e la popolazione viene tutta chiusa in casa, come nel moderno lockdown.
Sono altri tempi, nessuno si sogna di protestare per la violazione di diritti civili né per la crudeltà usata verso le persone murate vive, ma il fatto è che le misure funzionano: a Milano la peste uccide “solo” il 15% della popolazione contro la metà o più nelle restanti città italiane.
Anche a Venezia si tenta di prendere misure (il termine “quarantena” è la versione in dialetto veneziano di “quarantina”, il numero di giorni considerato sicuro di isolamento per ragioni sanitarie), ma si agisce troppo tardi. Solo alla fine di marzo del 1348 il Maggior Consiglio si decide a nominare tre “Savi” – oggi sarebbero “commissari straordinari” – per gestire il problema di eliminare dalle calli i cadaveri, per chiudere le osterie, per chiudere gli accessi alla città e per rintracciare medici che curino gli infermi e notai che redigano i testamenti, i quali nel frattempo o sono morti o se la sono data a gambe.
Saranno necessari alcuni secoli perché la popolazione europea torni ai livelli precedenti la pandemia.
LA PESTE MANZONIANA DEL XVII SECOLO
Sorprendono non poco le analogie tra i fatti occorsi durante la pestilenza, narrata da Alessandro Manzoni ne “I promessi sposi”, che nel 1630 imperversò nell’Italia settentrionale e ciò che è accaduto con la pandemia odierna.
In entrambi i casi le prime avvisaglie risalgono all’autunno dell’anno precedente, anche se i luoghi dove le epidemie si sviluppano prima di entrare in Italia sono differenti: la Cina oggi, la Svizzera e la Germania meridionale per la peste manzoniana.
Dopo il primo morto accertato di peste, tale Pietro Antonio Lovato, un fante originario di Lecco o di Chiavenna che aveva avuto a che fare con soldati alemanni (e pare che l’odierno coronavirus sia stato portato nella lodigiana da un cittadino tedesco asintomatico), le autorità di Milano proibiscono baratti e contatti in genere con i lanzichenecchi di passaggio, mentre gli ufficiali sanitari introducono l’utilizzo obbligatorio delle “bollette personali di sanità”, una sorta di passaporto medico che attesta la provenienza da territori sani di ogni persona che intende entrare in Milano, un po’ come i blocchi dei voli dalla Cina del febbraio scorso e le patenti di immunità di cui si parla in questi giorni.
Anche allora il contagio per un po’ sembra rallentare, in realtà più per l’arrivo dell’inverno che per l’efficacia delle misure.
Anche allora, con l’epidemia che corre sotto traccia, la gente non vuole pensare a ciò che potrebbe accadere e si diverte come non mai durante il carnevale, al punto che si balla e si fa baldoria anche all’ancora semivuoto lazzaretto, tanto che le autorità emanano ordini severissimi, richiamando la popolazione al senso di responsabilità, un po’ come quest’anno quando all’inizio di marzo, a epidemia già scoppiata, la movida del fine settimana continuava a impazzare e tutti erano ammassati a fare gli aperitivi: “Il Tribunale della Sanità, chiedeva e implorava cooperazione, ma otteneva poco o niente”, racconta Manzoni, il che non può non ricordarci gli appelli disperati del governo e dei governatori delle regioni colpite dal Covid-19 allo scoppio dell’epidemia.
Il transito nel marzo di 4.000 lanzichenecchi dalla Valsassina fa precipitare la situazione: i morti raggiungono presto livelli tali che il lazzaretto all’inizio di maggio esplode, si provano a costruire di corsa altri ospedali, si ipotizza addirittura di sigillare la zona di Milano dove si conta il maggior numero di contagi, tutte misure viste anche nell’emergenza attuale, inefficaci probabilmente perché prese troppo tardi.
Anche allora mancano personale e attrezzature sanitarie: “Bisognava tener fornito il lazzaretto di medici, di chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli attrezzi d’infermeria; bisognava trovare e preparar nuovo alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno. Si fecero costruire in fretta capanne di legno e di paglia…”.
E fuori da Milano, città maggiormente colpita in cui alla fine muore tra il 60 e il 75% della popolazione, tentativi di arrestare la diffusione della pestilenza vengono fatti un po’ ovunque. Quando, all’inizio di maggio, la peste dilaga anche a Bologna, Firenze prova a sigillare i suoi confini, ma il morbo arriva lo stesso e si diffonde in tutta la Toscana e lo stesso accade in Veneto, in Piemonte, in Liguria. Le stesse regioni maggiormente colpite quest’anno.
E anche allora, neanche a dirlo, si cercherà disperatamente un responsabile. Quella volta furono i presunti “untori”, oggi sono stati a turno: i governi che hanno creato allarme per un virus innocuo allo scopo di chiuderci in casa, controllarci e ridurci all’obbedienza; la rete dati 5G che, non a caso, sarebbe stata prima attivata a Wuhan e poi nel Nord Italia; l’esercito americano, che prima ha sparso il virus in Cina durante i Giochi Militari del 2019, poi voleva fare un’esercitazione in Europa (senza mascherine, prova che i militari USA sarebbero già stati vaccinati) per verificare gli effetti del contagio; le case farmaceutiche che avrebbero un vaccino già pronto da vendere; la Cina, che ha prodotto un’arma biologica, che le è sfuggita dal controllo per incuria o che l’ha diffusa per precisa volontà; Bill Gates che, non pago di essere già l’uomo più ricco del mondo, in un delirio di onnipotenza avrebbe commissionato a un laboratorio la creazione sia del virus che del vaccino da vendere poi; per finire, gli alieni. Mancano stranamente i russi, presenza quasi fissa in questi casi.
LA SPAGNOLA
Viene ricordata con questo nome non perché nata in Spagna, ma per il fatto che quando scoppiò nel 1918 i giornali di quel paese, rimasto neutrale nel corso della prima guerra mondiale, erano gli unici non sottoposti a censura e che quindi ne parlavano.
Sorta pare negli Stati Uniti e portata in Europa nella primavera del 1918 dai soldati di quel paese, registra una prima ondata che, tutto sommato, non fa troppi danni. Ma quando si riacutizza, verso la fine di agosto dello stesso anno, compie una vera e propria strage: le stime parlano di 50 milioni di vittime, quando il pianeta contava 2 miliardi scarsi di abitanti e non i quasi 8 attuali.
Anche qui sorprendono, e non potrebbe essere diversamente vista la prossimità temporale e la natura virale e non batterica della malattia, le numerose analogie con la situazione presente.
All’inizio le autorità oscillano tra la negazione del problema e la sua sottovalutazione, tant’è che, come veduto, ad eccezione della stampa iberica dalle altre parti semplicemente non se ne parla. Ma quando diventa impossibile far finta di nulla, si prendono provvedimenti molto blandi: isolamento dei malati, identificazione e denuncia dei focolai, inviti ad evitare assembramenti, pulizia e disinfezione di strade ed edifici.
Ma il contagio, allora come ora, non si ferma, anzi dilaga, e all’inizio di ottobre si passa a misure ben più radicali, molto simili a quelle adottate quest’anno: chiusura delle scuole, delle chiese, dei teatri, delle osterie e dei negozi di alimentari, divieto di tenere riunioni pubbliche e di fare visita alle persone malate, limitazione dei viaggi in treno, proibizione dei funerali.
Viene raccomandato il distanziamento sociale, ma la gente continua ad abbracciarsi, a baciarsi e a darsi la mano, e si raccomanda l’uso di disinfettanti, che però spariscono immediatamente dalle farmacie, giacché sono stati venduti tutti, tra l’altro a prezzi da rapina.
Dopodiché iniziano a scarseggiare anche i medici, in gran parte contagiati, e vengono arruolati di corsa gli studenti degli ultimi anni di medicina, e non si sa più cosa fare dei morti, che vengono portati via accatastati dai camion militari. Il pensiero non può non andare alle immagini della colonna di mezzi militari che escono di notte con le salme da Bergamo.
Le analogie con quanto accaduto quest’anno sono impressionanti.
E le tesi “complottiste”? Ovviamente non mancano. La stampa nostrana parla della pandemia come di “un regalo della Germania”, che avrebbe creato un’arma biologica per farci perdere la guerra (peccato che la gente muoia anche là). In Polonia, che sta per entrare in guerra contro la Russia rivoluzionaria, l’influenza prende il nome di “malattia bolscevica”.
La Spagnola ebbe tre ondate: la prima, nella primavera del 1918, fu poco più di un’influenza aggressiva; la seconda, dalla fine di agosto a novembre dello stesso anno, provocò una strage; la terza, nella prima parte del 1919, si collocò a metà tra le due
BREVI RIFLESSIONI
Le pandemie, siano di vaiolo, di morbillo, di peste, di influenza o altro, hanno sempre caratterizzato la storia dell’umanità, come è naturale che sia data la naturale tendenza di questa all’aggregazione.
E l’umanità ha reagito sempre più o meno nello stesso modo: l’elevata mortalità mette in crisi il sistema di organizzazione sociale, e mentre alcuni individui mostrando maggiore senso di responsabilità, altri temendo la prossima fine si danno all’anarchia e al disordine.
Le autorità, per quel che possono, agiscono, ma spesso lo fanno troppo tardi, perché all’inizio della diffusione pensano erroneamente di poter contenere il contagio con misure più blande e hanno timore di imporre alla popolazione un rigido confinamento che, oltre ad esasperare gli animi producendo impopolarità per i governanti, determina effetti nefasti su altri fronti quali l’economia o il decorso di una guerra in corso, come nel caso della Spagnola.
I 75 anni di pace trascorsi dall’ultimo conflitto mondiale, l’evoluzione della società, l’aumento del benessere economico, il progredire della scienza, soprattutto quella medica, ci avevano dato l’illusione di essere divenuti immortali.
Il Covid-19 ci ha ricordato che non lo siamo.
[1] La guerra del Peloponneso, Libro II (traduzione di Franco Ferrari, Milano, 1985).
[2] Le guerre persiane, Libro I, Capitoli XXII-XXIII.