Cass., sez. I, 30 ottobre 2020 (dep. 17 novembre 2020), n. 32262, Di Tomassi, Presidente, Santalucia, Relatore, Tassone, p.m. (concl. diff.).
1. Il precedente da rivedere.
L’ordinanza in rassegna interroga le Sezioni unite circa l’opportunità di rimeditare un precedente – e piuttosto recente – arresto. Più precisamente, chiede di rivisitare il principio, enunciato nella Sentenza Iannelli (Sez. un., 27 aprile 2017, n. 28954, in Cass. pen., 2017, p. 3915, con nota di Rivello, La prevalenza della causa estintiva del reato rispetto alla dichiarazione di nullità della sentenza predibattimentale d’appello), sul tema delle conseguenze derivanti dalla declaratoria di estinzione del reato adottata da parte del giudice di appello con una sentenza predibattimentale assunta senza consentire l’intervento delle parti. In tale occasione, le Sezioni unite – dopo aver premesso che quello regolato dall’art. 469 c.p.p. è un istituto tipico del giudizio di primo grado che, perciò, non può essere esportato nel contesto delle impugnazioni – affermarono che una sentenza di tal fatta è affetta da nullità assoluta per violazione del contraddittorio, ma aggiunsero che contro di essa non può essere proposto ricorso per cassazione poichè la causa estintiva del reato prevale sulla patologia che affligge l’atto conclusivo del giudizio. L’impugnazione, pertanto, deve essere dichiarata inammissibile per carenza di interesse. In simili situazioni, una eccezione è ravvisabile soltanto qualora risulti evidente la prova dell’innocenza dell’imputato, dovendo in tal caso la Corte di cassazione adottare la formula di merito di cui all’art. 129, comma 2, c.p.p. (per una lettura critica della decisione, Spangher, Nullità della sentenza predibattimentale d’appello: escluso l’annullamento con rinvio, in Giur. it., 2017, p. 1698; in generale, sull’istituto disciplinato nell’art. 469 c.p.p. nel giudizio d’appello e di cassazione, Iai, Il proscioglimento predibattimentale, Giuffrè, 2009, p. 129).
2. La rimessione alle Sezioni unite ai sensi dell’art. 618, comma 1-bis, c.p.p.
Nota procedurale di interesse è che la pronuncia costituisce una delle prime applicazioni dell’art. 618, comma 1-bis, c.p.p. in ossequio al quale se una sezione della Suprema Corte ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite è tenuta a rimettere a queste ultime la decisione del ricorso .
Si tratta di una previsione – introdotta nella trama codicistica dalla l. 23 giugno 2017, n. 103 – che uniforma il rito penale a quello civile (nel quale un meccanismo simile era già contemplato dall’art. 374, comma 3, c.p.c.) e mira a rafforzare l’autorità delle decisioni assunte dal vertice del giudice di legittimità (in tema, Aprati, Le sezioni unite fra l’esatta applicazione della legge e l’uniforme interpretazione della legge, in Marandola – Bene, La riforma della giustizia penale, Giuffrè, 2017, p. 275, e Fidelbo, Verso il sistema del precedente? Sezioni unite e principio di diritto, in Bargis – Belluta, La riforma delle impugnazioni tra carenze sistematiche e incertezze applicative, Giappichelli, 2018, in particolare, p. 117; in tema anche Sez. un., 19 aprile 2018, n. 36072, in Cass. pen., 2018, p. 4088).
Nel caso di specie, l’opinione dissenziente è sostenuta da due argomenti: l’ordinanza, in prima battuta, espone il dubbio circa la correttezza della tesi che ritiene integrata una nullità assoluta e afferma che, invece, si configura un atto abnorme; in seconda battuta, ritiene che, anche confermando tale lettura, il trattamento della patologia e le conseguenze in termini di ammissibilità del ricorso debbano essere differenti.
3. L’opinione dissenziente: atto abnorme e non nullo.
In primo luogo, come accennato, la Suprema Corte elabora una diversa interpretazione che intravede i connotati dell’abnormità nella sentenza de qua. In questa ottica, evidenzia che tale sentenza si pone al di fuori di uno schema normativo che il legislatore ha modellato con esclusivo riferimento al giudizio di primo grado ed è perciò connotata da una imprevedibile eccentricità e non già da una violazione di specifiche norme processuali, come quelle in tema di contraddittorio. Sul punto, l’ordinanza richiama i più significativi arresti in materia di abnormità. Muove da quelli sul tema del difetto di potere decisorio in capo al giudice (Sez. un., 26 marzo 2009, n. 25957, in Cass. pen., 2009, p. 4549, con nota di Todaro; Sez. un., 29 maggio 2002, n. 28807, ivi, 2003, p. 2385) per distinguere l’illegittimità di un provvedimento dalla abnormità e dalla inesistenza, e passa a considerare, poi, quelli sui rapporti tra giudice e p.m. (Sez. un., 31 maggio 2005, n. 22909, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2005, p. 787, con nota di Ciavola; Sez. un. 28 novembre 2013, n. 4319, in Cass. pen., 2014, p. 2037, con nota di Alonzi; Sez. un., 22 marzo 2018, n. 40984, ivi, 2019, p. 116, con nota di Varone) per sottolineare come anche in tali situazioni possa sussistere un interesse dell’imputato a impugnare il provvedimento. Da qui, per delineare il rapporto tra tale patologia e il principio del contraddittorio, richiama le sentenze con le quali ancora le Sezioni unite hanno ritenuto abnorme la sentenza di proscioglimento emessa ai sensi dell’art. 129 c.p.p. dopo la proposizione dell’opposizione (Sez. un., 25 marzo 2010, n. 21423, in Cass. pen., 2010, p. 3765, con nota di Scarcella), ma non quella emessa a seguito della richiesta di rinvio a giudizio prima della fissazione dell’udienza preliminari (Sez. un., 25 gennaio 2005, n. 12283, in Cass. pen., 2005, p. 1835, con nota di Varraso, secondo la quale si tratterebbe di nullità e sottoposta, perciò, a serrata critica nell’ordinanza).
Sulla scorta di tale ricostruzione, l’ordinanza aggredisce il caposaldo della Sentenza Iannelli, ossia l’impostazione del rapporto tra la causa estintiva e le patologie che affliggono l’atto impugnato, e l’assunto che attualmente giustifica la prevalenza della prima sulle seconde, ossia il rilievo che il giudice del rinvio non potrebbe che ribadire la sussistenza della causa estintiva già dichiarata, sia pure al di fuori di un corretto schema procedimentale.
Qui, in estrema sintesi, il dato fondamentale è costituito dalla circostanza che se si consentisse, di fatto, al giudice d’appello di procedere de plano, arrestando l’ordinario sviluppo processuale, e si ritenesse preclusa l’impugnazione della sentenza, le parti sarebbero private del diritto di interloquire e l’imputato, in particolare, sarebbe privato della facoltà di rinunciare alla prescrizione medio tempore maturata.
Sul punto, la Suprema Corte critica anche le soluzioni escogitate per risolvere tale problema, censurandole come ulteriori forzature del dato normativo. Il riferimento, tra le altre, è a Sez. III, 30 gennaio 2020, 15758, in C.E.D. Cass., n. 279272, secondo la quale, qualora l’imputato con il ricorso per cassazione avverso la sentenza predibattimentale rinunci alla prescrizione, si innesca un differente percorso procedimentale che ammette l’impugnazione della sentenza d’appello pronunciata de plano in violazione del contraddittorio e si conclude con l’annullamento senza rinvio, la trasmissione degli atti al giudice d’appello e la celebrazione del giudizio. Del resto, si legge ancora nell’ordinanza, la fragilità di una simile impostazione è emersa anche nelle decisioni con le quali, con un significativo allontanamento dall’insegnamento delle Sezioni unite, si è affermato che la sentenza che dichiari de plano l’estinzione del reato per prescrizione, confermando la confisca, deve essere annullata per consentire all’imputato di difendersi su tale aspetto (Sez. II, 15 gennaio 2020, n. 11042, in C.E.D. Cass., n. 278524, alla quale si aggiunge Sez. III, 19 dicembre 2019, n. 10376, ivi, n. 278539, in tema di restituzione delle cose sequestrate). Tali deviazioni dal percorso tracciato nella Sentenza Iannelli confermano che il meccanismo in essa descritto mostra inadeguatezze e insufficienze tali da far emergere la sua inidoneità a governare la generalità e complessità dei casi. D’altro canto, la decisione delle Sezioni unite ha lasciato in ombra anche l’ulteriore questione della sorte della sentenza che abbia erroneamente dichiarato la prescrizione e dei rimedi a disposizione del p.m. e dell’imputato per censurare una simile statuizione.
4. (segue) Il rapporto tra nullità assoluta e causa estintiva.
In secondo luogo, la Corte osserva che, qualora si confermasse l’indirizzo che inquadra il vizio nella categoria della nullità, persisterebbe comunque la necessità di un ulteriore approfondimento critico sulla conclusione che ritiene preminente la causa estintiva.
In questa ottica, ripercorrendo le argomentazioni della Sentenza Iannelli, la Suprema Corte richiama i precedenti evocati a sostegno della decisione avversata (Sez. un., 28 novembre 2001, n. 1021, in Cass. pen., 2002, p. 1308; Sez. un., 27 febbraio 2002, n. 17179, ivi, 2002, p. 2664; Sez. un. 28 maggio 2009, n. 35490, ivi, 2010, p. 4091, con nota di Beltrani) per rimarcare che in tali casi la regola della prevalenza della causa estintiva era accompagnata da “due importanti precisazioni di contenimento” relative al regolare svolgimento del giudizio e alla esplicazione del contraddittorio.
Al contrario, prosegue la Corte, nel caso della sentenza predibattimentale di appello adottata de plano viene a mancare il confronto dialettico delle parti (anche) sulla causa di estinzione e, pertanto, è sintomo di incoerenza la conclusione che fa soccombere la nullità assoluta. In altre parole, non sembra che in una situazione simile si possa ribadire la regola di prevalenza della causa estintiva, modellata dalla giurisprudenza delle Sezioni unite in riguardo a vicende processuali che, per quanto segnate da nullità assolute anche degli atti propulsivi del giudizio, non si sono risolte nella negazione radicale del contraddittorio quale necessario momento preliminare alla emissione della sentenza. L’ordinanza conclude quindi che il mantenimento di siffatta regola, nella consapevolezza della peculiare patologia – al di là delle qualificazioni dommatiche – della sentenza predibattimentale di appello assunta de plano, stabilizzerebbe un fenomeno, costituito dalla pronuncia di una sentenza in assenza del giudizio, che pone il sistema in tensione col principio costituzionale del contraddittorio e quindi del giusto processo.