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Presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare per ipotesi di terrorismo

1.            Condannato in Corte di assise ai sensi dell’art. 270 bis c.p. a cinque anni di carcere, dopo tre anni di custodia cautelare, il difensore richiedeva la sostituzione della custodia inframuraria con quella domestica.

Il giudice, riconoscendo il ruolo marginale dell’imputato, l’attuale stato di detenzione degli altri membri del sodalizio e l’inoperatività dell’associazione, pur ritenendo attenuate le esigenze cautelari e condivisibile la richiesta difensiva, essendo la concessione degli arresti domiciliari preclusa, alla luce di quanto previsto dall’art. 275, comma 3 c.p.p. e dalla presunzione assoluta di pericolosità, sollevava questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost.

Erano richiamate le precedenti decisioni della Corte costituzionale con le quali erano state accolte – in relazione all’aggravata situazione processuale – plurime questioni di legittimità costituzionale, rendendo possibile l’applicazione di misure alternative al carcere.

Il giudice a quo non mancava poi di evidenziare la diversità del fenomeno associativo di cui all’art. 416 bis c.p., con quella di cui all’art. 270 bis c.p. “che si presterebbe «a qualificare penalmente fatti e situazioni in concreto molto diversi ed eterogenei tra loro»; ciò che renderebbe impossibile «enucleare una regola di esperienza, ricollegabile ragionevolmente a tutte le declinazioni criminologiche del fenomeno, secondo cui la custodia carceraria sarebbe l’unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari».”

2.            La Corte costituzionale con la sentenza n. 191 del 2020 dichiara la infondatezza della questione, in considerazione della non irragionevolezza della scelta legislativa e della diversità della situazione dedotta rispetto alle proprie precedenti declaratorie di incostituzionalità (C. cost. n. 265 del 2010; n. 164 del 2011; n. 231 del 2011; n. 331 del 2011; n. 110 del 2012; n. 57 del 2013; n. 213 del 2013; n. 232 del 2013; n. 48 del 2015).

La premessa del ragionamento dei giudici della consulta è costituita dalla ricostruzione, fatta dalla giurisprudenza (diritto vivente) del “significato” e del contenuto dell’art. 270-bis c.p. (con esclusione del semplice dissenso o di mera eversione ideologica), non senza aver sottolineato che si tratta di una fattispecie ad ampio spettro, ed unica tra quelle inserite nel comma 3 dell’art. 275 c.p.p.

La ragionevolezza della soluzione normativa non può fondarsi sull’elevato rango del bene giuridico tutelato e neppure nell’allarme sociale (o meglio pericolo sociale e danno sociale) che possono venire in rilievo solo all’esito del giudizio di colpevolezza.

Invero, la fattispecie è caratterizzata dalla precipua finalità di  proporsi «il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico», pertanto non sanziona i “reati fine” dell’associazione, ma proprio e puntualmente le condotte associative costituite dalla promozione, costituzione, organizzazione, direzione, finanziamento e mera partecipazione all’attività terroristica, con la conseguenza che sono questi elementi contenuti nella contestazione a costituire il presupposto del giudizio di responsabilità.

Questi elementi sono ulteriormente corroborati dal triplice finalismo che connota il vincolo associativo: arrecare grave danno ad un intero paese; creare grave rischio di una grave lesione della vita pubblica, del potere pubblico, della stabilità ed esistenza delle istituzioni di una società pluralistica e democratica; proporsi l’eversione dell’ordine democratico.

 

3.            La Corte ha modo di rafforzare le proprie conclusioni, evidenziando – in una prospettiva empirico-fattuale – proprio analogie e differenze col fenomeno della criminalità organizzata.

Da una parte l’adesione a un’ideologia che teorizza l’uso della violenza volta a cagionare un «grave danno» a intere collettività che contrassegnerebbe una “appartenenza”, in sé indicativa di pericolosità, che si pone alla base della valutazione del legislatore e che rappresenta il discrimine rispetto alle diverse fattispecie di cui la Corte si è occupata in precedenza.

Dall’altra, le associazioni di cui all’art. 270 bis c.p. non seguendo rituali di affiliazione e prescindendo dal controllo del territorio che caratterizzano le consorterie mafiose, si connoterebbero di strutture “fluide” e “a rete”, sorrette da dimensioni non agevolmente controllabili, anche in considerazione dell’uso degli strumenti informatici (internet e social media), con capacità di dissolversi e riaggregarsi con estrema facilità, sulla base del solo comune fondamento ideologico– giustificando così ulteriormente le conclusioni in punto di presunzione assoluta di pericolosità, superabile solo dal riconoscimento della mancanza di esigenze cautelari, escludendo misure alternative al carcere.

pronuncia_191_2020

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