Il processo penale è governato dal principio di tassatività e di legalità che impone ai suoi protagonisti e comprimari di rispettarle. Succede spesso che le previsioni, per carenza di sanzioni processuali ovvero – e soprattutto – perché aggirate dai soggetti che dovrebbero osservarle. Si tratta di un uso distorto di quanto il legislatore ha previsto per un corretto funzionamento del processo e la tutela dei diritti sottesi e che per l’effetto conseguente al loro mancato rispetto finisce per creare non poche disfunzioni.
Resto convinto che alla lunga tutto ciò non paga, cioè, che di fronte alla loro reiterazione, il legislatore interveniente correggendo prassi distorte tese a pregiudicare diritti e doveri.
Mi sono ripromesso senza pretesa di completezza, di dimostrare, brevemente, alcune situazioni nelle quali tutto ciò si è evidenziato.
Uno dei dati più significativi delle situazioni “patologiche” rispetto alla formulazione – piuttosto trasparente – delle disposizioni normative ha sicuramente riguardato il tema della “immediata” iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p.. La mancanza di sanzioni e il difetto di poteri di controllo del giudice hanno suggerito interpretazioni che hanno consentito al pubblico ministero di eludere il dato codicistico, con prassi che hanno spesso legittimato significative lesioni del diritto di difesa, soprattutto in relazione alla inefficacia della sanzione di inutilizzabilità previsto al completamento dei tempi di indagine, anche in ordine ai quali si è assistito a comportamenti del gip teso a consentire le proroghe al di là di un controllo effettivo sulle ragioni suddette a supporto (vere espressioni di stile).
Il dato, com’è noto, ha trovato un significativo correttivo con la riforma Cartabia anche se con riferimento all’operatività del meccanismo di controllo e della retrodatazione mancano allo stato indicazioni specifiche che consentano di verificare le ricadute delle modifiche introdotte.
Criticità sono emerse anche in relazione ai tempi delle intercettazioni telefoniche perché, anche in questo caso, le richieste di proroga dei p.m. hanno sempre trovato i giudici disposti acriticamente a concederle. Il dato è strettamente legato, per un verso, alla mancanza del fascicolo da parte del gip al momento della richiesta e della comunicazione degli esiti delle intercettazioni al momento della richiesta di proroga.
Ora sta per essere approvata una riforma che fissa in 45 giorni il tempo dell’attività di captazione, fatte salve le ipotesi eccezionali per il quale il tempo potrà essere maggiore.
Due significative deviazioni dalle regole si sono evidenziate anche in tema di misure cautelari, soprattutto con riferimento alla procedura di riesame.
Fra i molti profili critici si segnalavano da un lato quello legato ai tempi della trasmissione degli atti e quello della reiterazione della misura che abbia perso efficacia per mancata osservanza dei termini fissati per la decisione.
I due aspetti sono stati coretti: il primo con una sentenza della Corte costituzionale (C. cost. 1998 n. 232), il secondo con la modifica del comma 10 dell’art. 309 c.p.p..
Le considerazioni qui svolte riguardano anche la difesa. E’ nota infatti la sentenza delle Sezioni unite che ha riguardato il c.d. abuso del processo per effetto delle reiterate sostituzioni del difensore ex art. 108 c.p.p. al fine di lucrare la prescrizione (Cass. sez. un. 10.01.2012).
Un dato estremamente significativo si è evidenziato con riferimento al comportamento dei difensori in caso di rinnovazione del dibattimento per la sostituzione di un giudice (art. 525, comma 2, c.p.p.). Emergeva, infatti, che successivamente alla richiesta della rinnovazione delle dichiarazioni testimoniali, la difesa che prima aveva chiesto una nuova comparizione, non formulasse nessuna nuova domanda consentendo il recupero di quanto detto in precedenza.
A fronte di questo comportamento, sono intervenute le Sezioni unite con la sentenza Bajrami (Cass. sez. un. 21.10.2019) che ha riscritto completamente la previsione con un formante giurisprudenziale fortemente creativo, sicché a correggere alcune forzature ricostruttive ha provveduto la riforma Cartabia con una previsione del tutto inedita (art. 495, comma 4 ter, c.p.p.).
Anche il comportamento in Cassazione, ove nel corso dell’udienza i legali si richiamano ai motivi del ricorso, deve ritenersi aver innescato la previsione della procedura cartolare davanti al Supremo collegio.
Favorita dallo sviluppo tecnologico è stata soppressa la previsione che consentiva alla difesa di presentare la impugnazione anche nel luogo in cui il difensore si trovava (art. 582 c.p.p., non escluse le sedi all’estero).
Sotto questo profilo, ancorché risalenti, vanno ricordate le prassi interpretative della Procura di Milano, in tema di esigenze cautelari per mancata confessione o per mancata chiamata di correo che ha portato alla riforma dell’art. 274, comma 1, lett. a, c.p.p.
Può farsi riferimento anche al tema del rapporto tra esercizio del diritto di impugnare e decorso della prescrizione che ritenuto spesso esercizio strumentale da parte della difesa ha condotto, dopo l’allargamento dei tempi di decorrenza e di modifiche alla disciplina dell’interruzione e della sospensione, alla riforma – prima Orlando e poi Bonafede – con l’impossibilità della sua operatività dopo la sentenza di primo grado, i cui effetti sono stati solo attenuati dalla introduzione della improcedibilità con la riforma Cartabia (art. 344 bis, c.p.p.).
I riferimenti potrebbero essere ulteriormente arricchiti con ulteriori indicazioni.
A volte, si cerca di evitare che le patologie interpretative si sedimentino ed è la stessa giurisprudenza ad effettuare correzioni, rettifiche e aggiustamenti: da un lato, attraverso l’obliterazione delle decisioni decisamente errate, che non vengono neppure massimate (tipico esempio la decisione del valore della consulenza del p.m. che si è affermato essere superiore alla perizia del giudice o alla consulenza della difesa) ovvero procedendo immediatamente a decisioni che si consolidano di segno contrario, ovvero ancora attraverso l’intervento delle sezioni unite, così da superare i contrasti anche interni alle stesse sezioni ovvero tra le sezioni, con conseguente possibile consolidamento della funzione nomofilattica, oggi perseguita anche attraverso l’art. 418, comma 1 bis, c.p.p..
Sull’intera tematica finisce per esercitare un ruolo decisivo il tema dell’inammissibilità spesso utilizzata dalla giurisprudenza della Cassazione per la “gestione” con profili non secondari di discrezionalità della giustizia penale, in una dimensione sostanzialistica. In questa stessa prospettiva va segnalato l’uso, spesso dilatato, del motivo manifestamente infondato, la dilatazione della interpretazione di merito dei motivi dedotti con il ricorso e la sfuggevole linea di confine tra infondatezza e manifesta infondatezza.
La premessa di questi rilievi è data dalla considerazione che il “diritto” segue, cioè, vive, sulla base delle sue interpretazioni, delle prassi connesse alla valutazione della finalità cognitive e efficientiste del processo.
Sotto questo profilo, prassi e interpretazione faranno la base per la valutazione del legislatore teso da un lato, ad assecondarle, dall’altro, a correggerne le deviazioni e i risvolti patologici.
Sotto questo aspetto non può non segnalarsi su di un piano diverso il ruolo della giurisprudenza creativa, capace di anticipare le scelte legislative, non nel senso della patologia normativa e degli errori interpretativi, quanto nella capacità di modulare il processo nel senso della sua efficienza, anche se non sempre nel senso delle garanzie: si può pensare alle sentenze Drassic, Galtelli, Battistella, oltre alla già citata Bajrami, solo per fare riferimenti del tutto noti e condivisi.
Come si è potuto constatare, la risposta correttiva a volte è molto forte, quasi punitiva dei comportamenti distorti, ma comunque consegnati agli interventi del legislatore ovvero al formante giurisprudenziale, senza escludere l’intervento della Corte costituzionale.