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Prospettive per una nuova riforma dell’abuso d’ufficio: è l’abrogazione dell’art. 323 c.p. la soluzione definitiva per superare la “paura della firma”?

ABSTRACT: Il sostanziale svuotamento, operato in sede giurisprudenziale, della portata innovativa – in senso restrittivo – della riforma del reato di abuso d’ufficio adottata nel 2020 ha fatto riemergere la carenza di tipizzazione della fattispecie delineata dall’art. 323 c.p., alimentando pressioni e spinte, soprattutto da parte degli amministratori locali, verso un’abrogazione secca della disposizione, nella convinzione che solo così potrà essere superata la c.d. “sindrome della firma”, fenomeno riconosciuto anche dalla Consulta. La soluzione radicale, sposata per ragioni di opportunità politica e non senza contrasti interni dal Governo con il recente d.d.l. Nordio, solleva più di una perplessità apparendo in contrasto con gli obblighi assunti dall’Italia in ambito sovranazionale (ONU, UE) e suscettibile di essere frustrata da possibili riespansioni di altre fattispecie in sede giurisprudenziale. In attesa della decisione del Parlamento, occorre chiedersi se l‘abrogazione del reato di abuso d’ufficio, senza al contempo risolvere le ulteriori cause che sono all’origine del fenomeno, potrà rivelarsi soluzione definitiva e idonea a superare la “paura della firma”. Nelle more del dibattito parlamentare e dottrinale appare opportuno esaminare gli scenari evocati dalle diverse soluzioni sul tappeto.      

Premessa. L’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri nella riunione del 15 giugno 2023 di un d.d.l. a iniziativa del Ministro della Giustizia Carlo Nordio[1] palesa la scelta governativa orientata verso una soluzione radicale del fenomeno della c.d. “sindrome della firma”, che paralizzerebbe gli amministratori, in particolare i sindaci. La causa di questa “paura” viene ricondotta alla scarsa determinatezza della fattispecie di abuso d’ufficio e quindi alla scarsa prevedibilità e conoscibilità delle condotte punite dalla disposizione di cui all’art. 323 c.p. La riformulazione operata dal legislatore del 2020 con un provvedimento emergenziale giustificato dalla pandemia in atto non aveva risolto il problema, non avendo costituito idoneo baluardo al controllo del giudice penale sull’esercizio della discrezionalità amministrativa. Nel corso del dibattito parlamentare e dottrinale sono emersi numerosi spunti critici sulle possibili conseguenze delle diverse soluzioni prospettate dai d.d.l. già pendenti, che avevano fatto dubitare alcune componenti della maggioranza di governo sull’opportunità della soluzione radicale[2], in particolare per il paventato contrasto con gli obblighi derivanti dalla convenzione ONU in materia di anticorruzione e dalla normativa europea. L’opzione per l’abrogazione secca appare frutto di una scelta politica sofferta, forse anche agevolata da spinte emotive[3].

Il disegno governativo si inserisce comunque nel dibattito in corso in Parlamento, al quale spetterà adottare la soluzione definitiva. Tra le proposte in campo, come si avrà modo di approfondire più avanti, alcune già prevedevano l’abrogazione secca, ipotesi sposata dal d.d.l. Nordio, altre prevedevano la riformulazione dell’art. 323 c.p. Nel corso del lavoro ci si soffermerà pertanto sulle esigenze che le predette proposte mirano a soddisfare e sulle probabili conseguenze anche in termini di criticità che dette soluzioni involgono.  

1. La riforma del 2020. Una soluzione emergenziale per un’esigenza atavica: la ricerca della determinatezza

Il testo attualmente vigente della disposizione dell’art. 323 c.p. concernente il reato di abuso d’ufficio è di recente formulazione, essendo stato introdotto con l’art. 23 del D. L. 16 luglio 2020 n. 76, c.d. “decreto semplificazioni”, emanato al dichiarato scopo di contribuire alla “semplificazione dei procedimenti amministrativi, all’eliminazione e alla velocizzazione di adempimenti burocratici”. La ragione che ha indotto il Governo a intervenire attraverso un provvedimento emergenziale è stata dichiaratamente quella di superare la c.d. “sindrome della firma”, in un momento in cui occorreva far ripartire il Paese dopo la stasi cagionata dalla nota pandemia, come si avrà modo di approfondire più avanti. L’esigenza che il legislatore intendeva soddisfare aveva tuttavia origini più remote e andava al di là della contingenza seguita al diffondersi del COVID 19, essendo già viva nel dibattito dottrinale e anche parlamentare sin dal 1990. Invero, la vaghezza e genericità della formulazione non era ignota allo stesso legislatore del 1930, che aveva tuttavia preferito non appesantire la disposizione con il richiamo ai tipici vizi di legittimità degli atti amministrativi[4]. L’indeterminatezza della disposizione era stata evidenziata, sin dagli anni ’60 del secolo scorso, dalla dottrina che ne aveva denunciato il contrasto con la Costituzione repubblicana[5], ma il giudice delle leggi aveva respinto la questione[6],  in virtù dello stretto legame tra il carattere abusivo della condotta e l’illegittimità dell’atto e della previsione del dolo specifico. La norma, tuttavia, a causa della clausola di riserva, aveva mantenuto una operatività residuale[7]. La riforma operata con la legge n. 86 del 1990 non pose rimedio alla indeterminatezza che già caratterizzava il testo originario dell’art. 323 c.p., ma ne ampliò l’ambito di operatività facendovi di fatto confluire le abrogate fattispecie altrettanto generiche di “interesse privato in atti d’ufficio” (art. 324 c.p.) e di “peculato per distrazione” (art. 314, c. 2 c.p.), consentendo al giudice penale di operare un sindacato incisivo sull’attività dei pubblici funzionari[8].

Al fine di contenere le incursioni dell’autorità giudiziaria penale, il legislatore, mediando tra le soluzioni che propugnavano l’abrogazione e quelle volte a sostituire la disposizione vigente con nuove e specifiche fattispecie[9], optò, intervenendo con la legge n. 234 del 16 luglio 1997, per una rimodulazione dell’art. 323 c.p., introducendovi elementi di tipicità. Fu infatti espressamente previsto che la condotta dovesse estrinsecarsi in una violazione di legge o di regolamento (ciò al fine anche di lasciar fuori il vizio di eccesso di potere, non menzionato); per altro verso, la disposizione venne costruita come reato di evento – di dolo o di vantaggio – caratterizzato dalla ingiustizia e, aspetto non meno importante, venne richiesto il dolo intenzionale. Venne poi introdotta una condotta alternativa di abuso, volta a sanzionare l’inosservanza dell’obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o dei prossimi congiunti o negli altri casi prescritti[10]

Dopo un primo breve periodo di interpretazione strettamente ossequiosa dello spirito della riforma, che mirava a una interpretazione restrittiva del delitto in esame[11], la giurisprudenza iniziò a discostarsene, sanzionando condotte che, pur non costituendo violazione di specifiche disposizioni di legge, si ponevano tuttavia in contrasto con il principio di imparzialità introdotto dall’art. 97 Cost., ritenendosi innegabile che detto principio potesse introdurre nell’ordinamento precetti vincolanti.

Le reazioni della dottrina non mancarono: ci fu chi propugnò una abrogazione, sulla considerazione che “il paventato vuoto di tutela” sarebbe stato ampiamente compensato dal venir meno degli inconvenienti che la fattispecie vigente aveva creato[12], nell’intento di colpire con la sanzione penale, vista come extrema ratio, solo le condotte più gravi e contrastando gli abusi più lievi con sanzioni di natura amministrativa. Siffatta impostazione, seguita anche in altri ordinamenti, era stata accantonata, per ragioni politiche e di contesto venendo ritenuta prematura, per l’inadeguatezza del sistema dei controlli della nostra pubblica amministrazione[13]

A più di venti anni di distanza, dopo che nel 2012 vi era stato un mero intervento volto a ritoccare verso l’alto le pene, il Governo, recependo le istanze provenienti in gran parte dalle amministrazioni locali e rimaste a lungo inascoltate, ha trovato la spinta, sul fronte politico, di introdurre un testo normativo volto a precisare e delimitare ulteriormente i confini della fattispecie, che non si è ritenuto di dover di abrogare, con l’introduzione di una serie di ulteriori paletti.

In primo luogo, si è previsto che la condotta “abusiva” debba porsi in contrasto con regole di condotta specifiche ed espresse, dettate dalla legge e da altre fonti primarie, nell’intento del legislatore di impedire la rilevanza penale della violazione dei regolamenti e al contempo delle condotte contrastanti con meri principi generali. Infine, la rilevanza penale della condotta è stata, nell’intento del legislatore, circoscritta alla sola attività c.d. “vincolata” del pubblico amministratore, con esclusione espressa della rilevanza dell’attività c.d. “discrezionale”. Per il resto è stato mantenuto fermo sia il profilo soggettivo (dolo intenzionale), sia quello concernente l’evento (ingiusto danno o ingiusto vantaggio patrimoniale). È rimasta analogamente inalterata la seconda parte della disposizione concernente l’inosservanza dell’obbligo di astensione[14].

 2. La legittimità costituzionale della novella del 2020: la Consulta riconosce l’incidenza della “sindrome della firma”

L’intervento legislativo, posto in essere con il citato decreto legge, è stato ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 8 del 2022, che ha dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Catanzaro[15], riconoscendo la sussistenza dei requisiti di necessità e urgenza, nonostante le esigenze che si volevano soddisfare fossero analoghe a quelle che avevano ispirato la riforma del 1997 (il superamento della c.d. “paura della firma”), avendo giocato un ruolo rilevante la necessità di far ripartire il Paese dopo la stasi cagionata dalla pandemia conseguita al COVID 19. La Corte ha preso le mosse dall’esame del fenomeno della c.d. “burocrazia difensiva” (o “amministrazione difensiva”), che indurrebbe i pubblici funzionari “ad astenersi dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative (in quanto appiattite su prassi consolidate e anelastiche), o più spesso restare inerti, per il timore di esporsi a possibili addebiti penali (cosiddetta “paura della firma”)”. Detto timore non verrebbe sminuito dalla constatazione della esiguità delle decisioni di condanna, registratosi sul piano statistico, “atteso che il solo rischio, ubiquo e indefinito, del coinvolgimento in un procedimento penale, con i costi materiali, umani e sociali (per il ricorrente clamore mediatico) che esso comporta, basterebbe a generare un “effetto di raffreddamento”, inducendo il funzionario ad imboccare la via per sé più rassicurante”. Ciò comporterebbe “significativi riflessi negativi in termini di perdita di efficienza e di rallentamento dell’azione amministrativa, specie nei procedimenti più delicati”.  La Corte, pur rilevando che detta esigenza fosse già da tempo avvertita, ha giustificato l’intervento del legislatore sottolineando come esso fosse maturato “solo a seguito dell’emergenza pandemica da COVID-19, nell’ambito di un eterogeneo provvedimento d’urgenza volto a dare nuovo slancio all’economia nazionale, messa a dura prova dalla prolungata chiusura delle attività produttive disposta nella prima fase acuta dell’emergenza”. Quanto al merito, la Corte ha superato i dubbi del rimettente, affermando che, sulla base del principio di sussidiarietà del diritto penale, la salvaguardia dei valori costituzionali non si esaurisce nella tutela penale, la qualecostituisce anzi un’extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando, nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l’assenza o l’inadeguatezza di altri mezzi di tutela”.

3. La riespansione della fattispecie operata dalla giurisprudenza. La rilevanza penale del superamento dei limiti esterni della discrezionalità: lo “sviamento di potere”

La costruzione operata dal legislatore del 2020 aveva suscitato non poche critiche nella dottrina, che aveva prefigurato la sostanziale paralisi nell’applicazione della prima condotta prevista dall’art. 323 c.p.: da un lato si rilevava come le specifiche regole, che più puntualmente possono orientare il comportamento del pubblico amministratore, fossero per lo più contenute all’interno dei regolamenti, che erano stati esclusi dal novero delle fonti rilevanti[16], mentre non era mancato chi aveva ritenuto irragionevole la riforma, per eccesso di depenalizzazione[17], per finire a chi[18] aveva ritenuto che la rilevanza penale, limitata ai soli atti vincolati, avrebbe precluso il sindacato del giudice penale sull’eccesso o sviamento di potere[19].  

In sede applicativa, la giurisprudenza ha spazzato siffatti timori, sterilizzando in buona parte l’effetto restrittivo della riforma. Ciò si è verificato in particolare con riferimento al requisito della discrezionalità, la cui presenza, nello spirito della riforma, avrebbe dovuto precludere la rilevanza penale della condotta, venendo a costituire elemento “negativo” del fatto tipico[20]. In proposito, la Suprema Corte, pur premettendo che le regole di condotta penalmente rilevanti devono essere cogenti, fissate dalla legge e disegnate in termini completi e puntuali e che non possono concernere l’attività discrezionale, neppure quella tecnica, ha tuttavia precisato che ciò vale solo in presenza di un “cattivo uso del potere” (quello inerente alla violazione dei limiti interni delle modalità di esercizio) ma non in caso di “uso distorto”: quando cioè nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio l’agente persegua interessi oggettivamente difformi o collidenti con quelli per i quali il potere discrezionale è attribuito, vengono superati i limiti esterni della discrezionalità e si è di fronte a una fattispecie di c.d. sviamento di potere[21]. Per la Suprema Corte l’uso del potere pubblico per una causa diversa da quella che ne ha fondato l’attribuzione continua, pertanto, a integrare un fatto tipico, pur nel vigore della nuova formulazione dell’art. 323 c.p. La giurisprudenza è giunta anche ad ammettere la rilevanza penale della violazione dei regolamenti – nonostante l’espressa esclusione dall’area di tipicità – allorché essi pongano in essere una “minima integrazione”, sempre che la norma di condotta che si assume violata in via principale sia già connotata dei requisiti di tipicità e tassatività[22] . In tal caso la norma regolamentare, sottoposta ed interposta, si risolve in una mera “specificazione tecnica di un precetto comportamentale già compiutamente definito dalla norma primaria”. Non può invece più fungere da parametro la norma di rilevanza legislativa indiretta, quella che si limita ad imporre l’osservanza di una regola di condotta la cui tipizzazione è demandata ad una fonte regolamentare[23].      

Non risultano, allo stato, decisioni volte a ripristinare la rilevanza penale di principi costituzionali come era avvenuto in passato con il richiamo al principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., anzi le decisioni fin qui emanate ribadiscono la sottrazione al giudice penale dell’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali.

4. Le nuove iniziative legislative. Le proposte presentate nella XVIII legislatura  

L’interpretazione estensiva operata dalla giurisprudenza del testo riformato nel 2020 ha dato origine a una immediata reazione in sede parlamentare, dove si è assistito a nuove iniziative, a nuovi d.d.l. diretti a intervenire ancora una volta sulla fattispecie dell’art. 323 c.p., alcuni tesi a ridurne ulteriormente l’ambito di operatività, altri addirittura volti ad abrogare la disposizione o anche a trasformarla in illecito amministrativo. L’esigenza che si coglie in detti tentativi è in particolare quella di salvaguardare l’attività dei sindaci e ridurre l’ambito della loro responsabilità. In proposito, si segnalano anche delle iniziative volte a limitare l’operatività della disposizione di cui all’art. 40 cpv c.p. ai sindaci. Pur trattandosi di disegni venuti meno con la fine della XVIII legislatura, meritano comunque di essere presi in considerazione, perché hanno destato reazioni in dottrina e perché costituiscono punto di riferimento dei disegni di legge presentati in apertura della nuova legislatura.

Trattasi in particolare dei disegni di Legge n. S-2145 Ostellari (Lega), n. S-2324 Parrini (PD) e n. S-2279 Santangelo (M5S), i quali, pur provenendo da formazioni politiche contrapposte, sono animati dal comune scopo di riscrivere ancora una volta la fattispecie di reato dell’art. 323 del c.p. in chiave ulteriormente restrittiva, potenziando l’effetto di parziale abolitio criminis già conseguito dalla novella del luglio del 2020. I tre disegni di legge risultano depositati rispettivamente in data 22 marzo 2021, 19 luglio 2021 e 15 giugno 2021, a meno di un anno dall’entrata in vigore della riforma. Ripercorriamoli velocemente.

4.1. Il disegno di legge Ostellari mirava all’abrogazione della prima parte del primo comma dell’art. 323 del c.p., a espungere cioè la prima delle due condotte sanzionate dalla fattispecie, preso atto del fallimento del tentativo operato dalla riforma del 2020 di circoscrivere l’intervento del giudice penale. La relazione di accompagnamento richiama espressamente la giurisprudenza della Cassazione (Sezione VI, n. 442 dell’8 gennaio del 2021) che aveva operato la distinzione tra “limiti interni” e “limiti esterni” della discrezionalità, evidenziando come questa lettura appaia idonea a “riaprire un nuovo fronte di incertezza giurisprudenziale con il connesso rischio che la magistratura penale, ancora una volta, incuneandosi su una distinzione di carattere giurisprudenziale assolutamente labile, finisca col dare sfogo all’inaccettabile velleità di sostituire le proprie valutazioni a quelle attinenti il merito amministrativo coperte dalla cosiddetta riserva di amministrazione”. Propone pertanto di operare una scelta “coraggiosa”, al contempo foriera di una vera e propria semplificazione dell’attività amministrativa, dando coraggio agli operatori degli apparati pubblici, con l’eliminazione “di qualsiasi sindacato del giudice penale sui provvedimenti vincolati oltre che discrezionali”.
Con riferimento alla ulteriore condotta di abuso d’ufficio per violazione dell’obbligo di astensione, operando l’espunzione dell’inciso “negli altri casi prescritti”, perviene a limitare la rilevanza penale ai soli casi di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, espungendo quelli nei quali la fattispecie opererebbe quale norma penale in bianco.
Viene, tuttavia, eliminato il riferimento allo “svolgimento delle funzioni o del servizio”, in tal modo ottenendo l’effetto, opposto rispetto all’obiettivo, di estendere la responsabilità dell’agente anche per l’abuso delle qualità, al di fuori dell’esercizio delle proprie funzioni.

4.2. Il disegno di legge Parrini prevedeva l’introduzione di un secondo comma all’art. 323 del c.p., volto a contemplare un ulteriore presupposto per la configurazione dell’abuso d’ufficio a carico del sindaco, che si verrebbe a configurare solo se le regole di condotta violate “siano relative a competenze espressamente attribuite al Sindaco”. La norma ha suscitato alcune critiche in dottrina[24], che ha stigmatizzato la limitazione alla sola attività del sindaco – forse spiegabile in termini di mero fatto con la rilevanza quantitativa dei casi che concernono i c.d. primi cittadini – facendo aleggiare eventuali profili di illegittimità costituzionale. Detti potenziali rischi vengono tuttavia esclusi in nuce da una attenta dottrina che ha rilevato come il d.d.l. Parrini non abbia alcuna capacità di ulteriormente selezionare classi di fattispecie né di restringere il campo applicativo dell’art. 323 c.p.; all’iniziativa viene comunque riconosciuto il “merito” di evidenziare che la violazione deve concernere la “competenza espressamente attribuita al Sindaco”, così da poter consentire all’autorità inquirente di immediatamente verificare  e ponderare ab origine quel che costituisce notizia di reato e quel che va qualificato come atto non costituente notizia di reato[25]. Il d.d.l. Parrini prevede poi l’introduzione di una modifica all’art. 50 del T.U. Enti Locali, volta a limitare l’operatività della clausola generale di equivalenza di cui all’art. 40 cpv c.p. con riferimento alla responsabilità del sindaco[26].  

4.3.  Infine, il d.d.l. Santangelo concerneva le attribuzioni del Sindaco nelle funzioni di competenza statale introducendo, dopo il comma 1 dell’art. 54 del T.U. Enti Locali, il comma 1 bis, in base al quale il Sindaco, quale ufficiale del Governo, nell’esercizio delle funzioni individuate dal comma 1, risponde esclusivamente per dolo o colpa grave per violazione dei doveri d’ufficio. La previsione, che mirava a limitare la responsabilità dei sindaci nella commissione di reati omissivi impropri, analogamente a quanto previsto nel d.d.l. Parrini, appare fuoriuscire dalla tematica attinente al reato di abuso d’ufficio. 

5. I progetti pendenti nella XIX e attuale legislatura: i disegni di iniziativa parlamentare e governativa (d.d.l. Nordio)

In apertura della XIX legislatura sono stati presentati alla Camera quattro d.d.l. volti a incidere sulla fattispecie di cui all’art. 323 c.p.

I disegni di iniziativa parlamentare attualmente pendenti alla Camera sono quattro:

a) il d.d.l. Rossello (AC 399), presentato il 19 ottobre 2022 e il d.d.l. Pittalis (AC 645), del 29 novembre 2022: entrambi prevedono l’abrogazione secca della disposizione di cui all’art. 323 c.p. Le Relazioni illustrative dei citati disegni giustificano la drastica soluzione partendo da un dato di fatto, la “difficoltà applicativa della norma e la statistica insoddisfazione dei suoi esiti processuali”, ritenendo che il vuoto di tutela che si verrà a creare sarà “ben poco comparabile con gli inconvenienti che la previsione penale in esame porta con sé”. In sostanza, si argomenta dalla circostanza che la quasi totalità dei processi per abuso d’ufficio è archiviata o comunque non si chiude con una condanna. Un’ulteriore ragione è data dalla articolazione generica dei capi di imputazione, consentita dalla carenza di determinatezza della fattispecie, che consente un utilizzo del reato de quo come un jolly, grimaldello che le Procure utilizzano in modo esplorativo. In definitiva, la ritenuta interpretazione estensiva che ne ha fatto la giurisprudenza negli anni nonostante i numerosi interventi legislativi volti a conferire un maggior grado di tassatività alla fattispecie, rende inutile la ricerca di nuove formulazioni e ne suggerisce l’abrogazione, anche in applicazione del principio di sussidiarietà e di extrema ratio che deve governare il diritto penale.

b) il d.d.l Costa (AC 654), presentato il 29 novembre 2022, che mira a depenalizzare la fattispecie, prevedendo, accanto all’abrogazione della disposizione di cui all’art. 323 c.p., la contestuale introduzione di un articolo 54-ter nel T.U. Enti Locali, volto a reintrodurre come illecito amministrativo la fattispecie contestualmente abrogata, traslando l’illecito dal penale al settore amministrativo. È prevista l’applicazione di una sanzione pecuniaria e la competenza a irrogarla dell’ANAC, all’esito di un’istruttoria nella quale è garantito il contraddittorio tra le parti. La Relazione si sofferma sul dato fattuale che vede quelle – poche – sentenze di condanna molto spesso basate “per lo più irregolarità amministrative, comportamenti che si assumono “parziali” anche se non consistenti in espresse violazioni di una specifica norma (…), fatti il cui disvalore penale in nulla o ben poco obiettivamente si distingue da quello dell’illecito amministrativo e/o disciplinare”.

c) il d.d.l. Pella (AC 716), presentato il 14 dicembre 2022 (recante peraltro quale secondo firmatario lo stesso On. Pittalis) che mira, invece, a una riformulazione dell’art. 323 c.p. La disposizione proposta ricalca la vigente fattispecie, sulla quale opera alcune modifiche e alcuni tagli. L’intento è quello di “ridurre gli effetti inutili del reato nella sua formula vigente”, specificando che deve esserci un effettivo danno diretto, mirato ad una singola persona. Ne consegue l’espunzione dell’abuso c.d. “di vantaggio”, che la Relazione ritiene “desueto” e anche “dannoso sotto il profilo della pendenza del giudizio”. Riprendendo un’espressione attribuita al Ministro della Giustizia, si afferma che bisogna “abbandonare l’idea di tutelare il buon andamento della pubblica amministrazione con minaccia della pena”. L’abuso da sanzionare penalmente resta pertanto solo quello c.d. “di danno” o “di sopraffazione”.
Viene altresì espunto l’avverbio “intenzionalmente” (che era riferito al dolo), mentre, come già anticipato, viene aggiunto l’avverbio “direttamente”, con riferimento al danno cagionato a una singola persona.
Infine, viene specificato che la condotta posta in violazione dell’obbligo di astensione debba essere connotata dalla consapevolezza[27].

Il d.d.l. de quo si presta ad alcune considerazioni critiche. Innanzi tutto viene a ridurre notevolmente l’ambito di operatività della disposizione vigente, relegando nella irrilevanza penale la condotta di interesse privato, volta a perseguire una utilità personale di tipo patrimoniale, a vantaggio dello stesso agente o di terzi. La costruzione riecheggia la fattispecie prevista dal Codice Zanardelli, che prevedeva all’art. 175 il reato di “abuso innominato di autorità”, essenzialmente diretto a tutelare il cittadino dagli abusi dell’autorità costituita, secondo il modello della prevaricazione. Nel d.d.l. Pella l’interesse tutelato attiene al solo diritto del cittadino a non venir prevaricato, mentre scompare ogni riferimento alla tutela della Pubblica amministrazione e ai capisaldi introdotti dall’art. 97 Cost., quanto meno il dovere di imparzialità, che la Pubblica Amministrazione è chiamata parimenti a perseguire.  A differenza del modello ottocentesco, la fattispecie non sarebbe “innominata” ma beneficerebbe della tipizzazione introdotta sin dalla novella del 1997.

Quel che desta ancor più perplessità, rispetto all’obiettivo perseguito, è l’eliminazione del dolo intenzionale, previsto anch’esso dal legislatore del 1997 e non intaccato saggiamente dalla novella del 2020: di conseguenza, la giurisprudenza potrebbe pervenire ad ammettere l’operatività del dolo diretto o addirittura del dolo eventuale, finendo quindi per estendere – almeno sotto il profilo soggettivo – l’ambito di responsabilità dell’agente[28].

Sembra pertanto andare in senso opposto rispetto all’intento di restringere la rilevanza penale della fattispecie la sostituzione della locuzione “intenzionalmente“ con quella “direttamente”, in quanto a fronte dell’espunzione di un requisito selettivo – caratterizzante il dolo – se ne è previsto uno che opera sul piano eziologico, che appare al più idoneo a precludere la rilevanza penale del c.d. danno indiretto, cagionato a un terzo quale conseguenza del vantaggio arrecato dall’agente a sé o ad altri[29].

d) di iniziativa governativa è il d.d.l Nordio, approvato, come già anticipato, nella riunione del 15 giugno 2023 dal Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro della Giustizia Nordio, che opta per l’abrogazione secca dell’art. 323 c.p. La misura si inserisce in un più ampio progetto, non organico ma puntiforme, dove è prevista anche una riformulazione del reato di cui all’art. 346-bis c.p. (Traffico di influenze illecite) e l’adozione di alcune misure di ordine processuale, il cui esame esula dal presente lavoro. La soluzione ricalca quella già prevista dai d.d.l. Rossello e Pittalis, di cui si è trattato sopra, prevedendo l’abrogazione integrale della disposizione, compresa l’ipotesi di omessa astensione in presenza di un interesse proprio o di prossimi congiunti o negli altri casi prescritti. Il disegno muove dall’intento di espungere dall’ordinamento una disposizione ritenuta dannosa in quanto causa della c.d. sindrome della firma, ma anche di scarso utilizzo, sulla scorta dei dati statistici che vedono pochi procedimenti attivati, peraltro definiti, in massima parte, con decisioni diverse dalla sentenza di condanna. A differenza della novella del 2020, dove si era fatto ricorso a un decreto-legge, il disegno Nordio dovrà essere approvato dal Parlamento. La valutazione dell’impatto che l’approvazione del disegno avrà, per quel che concerne l’abrogazione dell’art. 323 c.p., verrà esaminata in prosieguo.

5.1. Segue. I lavori della Commissione Giustizia: le audizioni

Le audizioni svoltesi davanti alla II Commissione Giustizia della Camera dei Deputati[30] convergono, sia pur con diverse prospettive, verso alcune risultanze comuni.

a) In primis, viene da più parti prospettata la sostanziale inutilità di un nuovo intervento, tanto più se operato nel senso della abrogazione secca che, per considerazione pressoché  prevalente, non farebbe altro che comportare l’inevitabile riespansione di altre fattispecie, alcune punite anche più gravemente (peculato per distrazione e turbata libertà degli incanti, omissione-rifiuto di atti di ufficio), chiamando in ballo nuovamente la giurisprudenza per una inevitabile delimitazione dei confini in sede interpretativa, a discapito della perseguita esigenza di certezza. In tali termini, si esprimono non solo i pareri di esponenti della dottrina penalistica[31], ma anche organismi rappresentativi dell’avvocatura del libero foro[32] e, in maniera forse sorprendente, la stessa organizzazione rappresentativa dei Comuni, l’ANCI.  Quest’ultima, in particolare, pur partendo da una preferenza di fondo per “un approccio radicale, volto ad eliminare ogni forma di sindacato sull’attività provvedimentale, mantenendo invece il presidio e il sindacato penale sulla violazione degli obblighi di astensione in caso di conflitto di interesse”, finisce per esternare delle perplessità, convenendo che “una ulteriore rimodulazione dell’art. 323 c.p. non ridurrebbe in ogni caso l’area del penalmente rilevante rispetto all’agire dei pubblici amministratori, stante la presenza, nel panorama dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, di altre norme incriminatrici, più specifiche e severe, per punire singole condotte del pubblico ufficiale”. Sollecita, invece, un intervento urgente volto a rivedere le disposizioni di cui agli art. 10 e 11 del D.lgs. n. 235/2012 (cd. Legge Severino) che prevedono la sospensione di diritto dalla carica degli amministratori locali in caso di procedimenti penali per i delitti ivi previsti, ferma restando la decadenza di diritto dalla carica dalla data del passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

Per altro verso, il Movimento Forense manifesta contrarietà all’ipotesi abrogativa, rilevando come il bene giuridico tutelato dall’art. 323 c.p., dato dal buon andamento e dalla imparzialità della Pubblica amministrazione nell’emanazione dei provvedimenti, non possa “essere in alcun modo sostituito dalla discrezionalità o addirittura dal mero libero arbitrio”. Pertanto, un intervento volto a riformulare la norma di cui all’art. 323 c.p. dovrebbe avere il suo punto di partenza nell’“abuso” e nell’eccesso di potere. Andrebbe pertanto individuato concretamente “quando si possa riscontrare il cosiddetto “uso privato” dell’ufficio da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio”. Tale “uso” deve essere caratterizzato da una effettiva e consapevole distorsione funzionale dell’azione amministrativa per meri scopi privati o per arrecare altrui danno. Pertanto, la condotta punibile penalmente dovrebbe essere rilevante all’interno di un illecito utilizzo dell’ufficio che si sostanzi in una reale contrapposizione tra interessi privati e pubblici ed alla cui base vi deve essere una lesione del principio di imparzialità e di buon andamento: ciò a maggior protezione del bene giuridico tutelato.

Questa esigenza di certezza emerge anche dalla audizione di altri esponenti del mondo forense[33], dove si rimarca che “la legge incriminatrice deve permettere al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio di conoscere in apicibus e inequivocabilmente quali elementi della condotta possano costituire atti contrari al rispetto dei doveri d’ufficio, dimodoché, alla lettura del precetto penale, non possa residuare il dubbio se l’azione che intendano porre in essere sia lecita o illecita”.

b) Un secondo non meno rilevante motivo che viene opposto all’abrogazione secca è dato dalla sussistenza di vincoli di natura sovranazionale che imporrebbero al nostro Paese di perseguire penalmente condotte di abuso delle funzioni da parte di pubblici ufficiali. Viene rilevato nelle audizioni sia da componenti della dottrina, sia dai magistrati, sia da diverse istituzioni[34], come una abrogazione secca della disposizione di cui all’art. 323 c.p. – tanto più se “trasformata” in illecito amministrativo, secondo il d.d.l. Costa, che verrebbe ad impedire anche la possibile riespansione di altre fattispecie penali – si porrebbe in aperto contrasto con la Convenzione di Merida, stipulata in ambito ONU nel 2003 e ratificata con la legge n. 116 del 2009, che imporrebbe di perseguire in sede penale ipotesi di strumentalizzazione in danno della pubblica amministrazione, dedicando una specifica disposizione, l’art. 19, alla condotta di Abuso d’ufficio[35]. Ne conseguirebbe la illegittimità costituzionale di una disposizione meramente abrogatrice, per contrasto con l’art. 117 Cost. primo comma, che impone al legislatore nazionale il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali[36].  

Ma vi è di più. In diverse audizioni è stato segnalato come l’abrogazione secca dell’abuso d’ufficio (o la sua trasformazione in illecito amministrativo) si ponga in potenziale contrasto con la recente proposta di direttiva europea del 3 maggio 2023 in materia di anticorruzione, la quale all’art. 11 prevede l’incriminazione del c.d. abuse of functions. La disposizione, recante in rubrica Abuso di funzioni, impone agli Stati membri di garantire le misure necessarie per fare in modo che i seguenti comportamenti siano punibili come reato, se commessi intenzionalmente: “il compimento o l’omissione di un atto, in violazione di norme di legge, da parte di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, allo scopo di ottenere un vantaggio indebito per il funzionario stesso o per un terzo”. A ben considerare, trattasi proprio del c.d. abuso di vantaggio, che anche il d.d.l. Pella intende abolire.

Se, come appare verosimile, anche alla luce delle dichiarazioni del Presidente della Commissione[37] seguite al c.d. scandalo Qatargate, la direttiva sarà approvata, l’Italia non potrà non avere una figura di reato che efficacemente punisca l’agente pubblico che abusa del suo ufficio o agisce in conflitto di interessi, senza incorrere in contrasto con la disciplina UE[38] .

6. Il superamento della “sindrome della firma”: tra abrogazione e riformulazione dell’art. 323 c.p. è possibile una terza via?

Se una considerazione va fatta, a questo punto, è che la fattispecie dell’abuso d’ufficio si è fino ad ora rivelata caratterizzata da una particolare resilienza, nella accezione tecnica del termine: nonostante i numerosi tentativi di “deformazione” è tornata a riassumere la forma originaria[39]. La giurisprudenza ha sempre contrastato quelle letture volte a ridimensionare la responsabilità del pubblico ufficiale in presenza di situazioni ritenute di sostanziale sfruttamento della funzione, anche a costo di forzare il dato letterale, dando vita, ogni volta, a una reazione da parte del “mondo politico”. Ci si deve a questo punto chiedere quali potranno essere le conseguenze della scelta del legislatore che attualmente si prospetta, frutto delle forti pressioni politiche che vengono soprattutto dal mondo dei sindaci, nell’intento di raggiungere l’obiettivo di superare la c.d. “sindrome della firma”, alimentata, come già anticipato, dalla recente interpretazione della giurisprudenza post novella del 2020 volta a riespandere l’ambito di operatività della fattispecie, contro lo spirito – e in un certo senso contro anche la chiara lettera – della legge.

Queste pressioni hanno indotto il Governo a manifestare, con il d.d.l. Nordio, una preferenza per l’abrogazione, ma le tensioni all’interno della stessa maggioranza non del tutto sopite e l’iter parlamentare che dovrà seguire non chiudono la strada a soluzioni alternative, nel corso del procedimento di approvazione, anche in considerazione delle possibili conseguenze, in ambito sovranazionale, della abrogazione secca (non si possono escludere possibili pressioni, anche indirette, da parte degli organi dell’ UE, nel corso del confronto in atto sull’attuazione del PNRR).

È comunque un dato di fatto che la “sindrome della firma” costituisca un fenomeno con cui fare i conti, la cui incidenza è stata riconosciuta anche dalla Corte costituzionale nella citata decisione n. 8 del 2022. La stessa Corte non ha mancato tuttavia di rilevare come a “frenare” i pubblici agenti non sia soltanto la paura della condanna (emergendo dalle statistiche che solo una minima parte dei procedimenti termina con una condanna), ma anche quella della mera esistenza del procedimento penale.

Si è infatti osservato che ad alimentare la c.d. sindrome della firma basta la proposizione della denuncia e la conseguente apertura di indagini: sul fenomeno della proliferazione delle denunce è stato rilevato  come la “facilità con cui ogni scelta amministrativa di qualche rilievo può essere attaccata, censurata e investita dal sospetto di favoritismi, prevaricazione o indebito profitto” possa ritenersi conseguenza del “sommo disordine che caratterizza il nostro sistema amministrativo”, caratterizzato dal “tumultuoso accavallarsi di competenze”, dalla inestricabilità delle procedure, dalla aleatorietà degli strumenti normativi, dalla carenza di controlli interni. In questo contesto, il rischio di essere contaminato da una denuncia incombe anche sul più scrupoloso ed onesto degli amministratori pubblici[40]. Se ne è dedotta l’inutilità di ogni pretesa volta ad arginare questo fenomeno incidendo sulla struttura della fattispecie incriminatrice, potendo apparire a prima vista la soluzione più logica quella della secca abrogazione dell’art. 323 c.p.

Appare tuttavia ragionevole prevedere che l’eventuale espunzione della fattispecie di cui all’art. 323 c.p. difficilmente potrà costituire ostacolo idoneo a impedire al cittadino di presentare una denuncia all’A.G. penale (atteso che nell’esperienza le denunce per abuso originano dai privati che segnalano episodi di ritenuta “mala gestione amministrativa”[41]), prospettando l’illegittimità di un atto o l’illiceità di una condotta del pubblico amministratore, anche a seguito di una condotta di omessa astensione; invero, non può escludersi che, in mancanza della previsione dell’art. 323 c.p., la condotta non possa essere ricondotta ad altre fattispecie, anche più gravi.

Proprio il timore del possibile effetto riespansivo (imprevedibile nelle concrete modalità e rimesso all’apprezzamento della giurisprudenza), accanto al paventato contrasto con la vigente normativa internazionale pattizia e comunitaria hanno fatto propendere parte della dottrina per una soluzione che potremmo definire “conservativa”, volta a privilegiare l’alternativa della riformulazione dell’art. 323 c.p., in termini da rendere conoscibile e prevedibile l’illiceità penale della condotta e con l’intento di punire condotte realmente offensive. Su quest’ultimo profilo è stato di recente proposto un cambio di paradigma che “superi la prospettiva volta a punire solo le violazioni formali”, limitando il sindacato del giudice all’attività vincolata della pubblica amministrazione, e recuperi l’essenza del concetto di abuso, auspicando uno sforzo da parte del legislatore teso a tipizzare ipotesi di reale sfruttamento privato dell’ufficio, nelle quali il pubblico amministratore abbia realizzato una distorsione funzionale dell’azione amministrativa, a fini privati o di danno[42]. Detto suggerimento implica una valutazione atta a superare il mero riscontro formale per andare nel merito della condotta di abuso, in coerenza con un diritto penale moderno e conforme a Costituzione: la soluzione, tuttavia, incentrandosi sul sindacato da parte del giudice, si muove in direzione diversa rispetto all’obiettivo perseguito dal Governo.

Si è per altro verso osservato come il profilo della prevedibilità e consapevolezza della illiceità della condotta involga una più vasta problematica, segnalata anche nel corso delle audizioni, che non può trovare soluzione nella abrogazione dell’art. 323 c.p. né nella sua riformulazione, concernendo l’esigenza di riorganizzazione della Pubblica Amministrazione. Il problema risiederebbe pertanto a monte della condotta, nella poca chiarezza delle disposizioni inerenti alle competenze dei sindaci (e, a cascata, dei dirigenti e funzionari amministrativi). Sarebbe pertanto necessaria una rimodulazione di alcuni gangli dell’amministrazione pubblica, operata attenuando la polverizzazione di alcune sue strutture (si pensi alle migliaia di inadeguate stazioni appaltanti), ripensando i meccanismi interni di controllo e responsabilità, riattivando robusti interventi di formazione dei funzionari pubblici[43]. Dette considerazioni dovrebbero indurre, anziché a cancellare il controllo di legalità, a definire meglio il perimetro, tramite una normazione ordinata, che chiarisca regole ed eccezioni, delle competenze decisionali e gerarchie delle fonti, dai confini resi ancor più incerti dal decentramento amministrativo, che ha creato sovrapposizioni di competenze. La “sindrome della firma” dipende anche dalle incertezze inerenti alla c.d. “catena di comando”: non sempre è dato sapere con certezza chi, nelle amministrazioni, abbia la responsabilità, anche penale, e di cosa. Si è altresì rilevato come in uno Stato di diritto non si possa pretendere che gli atti dei pubblici poteri siano sottratti al controllo di legalità: occorre tuttavia che le norme e le competenze che regolano ciascuna materia siano chiare[44].

Il dibattito sull’abuso d’ufficio appare inserirsi, dunque, in un contesto più ampio e più complesso. Se è ragionevole limitare il sindacato penale sull’attività amministrativa (non spetta alla giurisdizione sindacare come venga perseguito l’interesse pubblico), è però irragionevole lasciare scoperti dal presidio penalistico abusi di funzioni e di poteri dall’indubbio disvalore penale[45]. E se può pertanto apparire coerente con le finalità perseguite l’espunzione della prima condotta prevista dall’art. 323 c.p., preso atto della giurisprudenza incline a sindacare il merito della scelta, poco coerente appare l’abrogazione, prevista dal d.d.l. Nordio, anche della condotta di omessa astensione in presenza di un “interesse privato”, già sanzionata dall’art. 324 c.p. e a seguito dell’abrogazione operata con la legge n. 86 del 1990 confluita nell’abuso d’ufficio e non intaccata dalla novella del 2020[46]. È probabile che questa specifica fattispecie – l’omessa astensione – possa tornare ad avere ancora rilievo penale grazie all’intervento giurisprudenziale, con conseguenze forse anche più gravi per il reo, posto che l’inserimento della condotta nell’attuale disposizione dell’art. 323 c.p. impone la sussistenza di puntuali presupposti di carattere oggettivo e soggettivo.

Ove pertanto il legislatore si dovesse limitare, come pare, a intervenire in ambito solo penalistico e con la mera prospettata abrogazione dell’art. 323 c.p., sarebbe opportuno che a questa si accompagnasse la contestuale introduzione di norme incriminatrici più puntuali, specifiche e circoscritte, come anche suggerito nel corso delle audizioni[47]: si tratterebbe di una soluzione intermedia che da un lato consentirebbe di perseguire l’obiettivo di limitare le incursioni dell’Autorità Giudiziaria, dando agli amministratori quella auspicata “tranquillità”, conseguente anche a una maggior determinatezza delle fattispecie, mentre dall’altro non perverrebbe a privare della tutela penale le condotte distorsive più gravi dei pubblici funzionari. Una simile soluzione era stata già prospettata nel c.d. Progetto Morbidelli, formulato nel corso dei lavori che condussero alla riforma del 1997 dalla omonima Commissione e in quel contesto accantonata per ragioni di opportunità politica. L’articolato[48] prevedeva lo “spacchettamento” del delitto di abuso d’ufficio in tre fattispecie: prevaricazione (abuso di danno), favoritismo (abuso di vantaggio patrimoniale ad altri), sfruttamento privato dell’ufficio (abuso di vantaggio patrimoniale per il funzionario pubblico)[49].

7. Considerazioni conclusive

In conclusione, si può prevedere che la soluzione perseguita dal d.d.l. Nordio, puramente abrogativa, in mancanza di interventi normativi collaterali – volti a incidere sulle procedure amministrative e a renderle meno farraginose e tesi a creare nuove fattispecie criminose o a riformulare quelle esistenti – difficilmente consentirà di conseguire i risultati auspicati, in termini di superamento della paura della firma[50]. È agevole ritenere che un immediato effetto benefico possa verificarsi in una prima fase. Tuttavia, con l’inevitabile effetto riespansivo di altre incriminazioni, talvolta più gravemente sanzionate (si pensi all’ omissione di atti d’ufficio – art. 328 c.p., al peculato per distrazione – art. 314 c.p., alla turbata libertà delle gare e del procedimento di scelta del contraente – artt. 353 e 353-bis c.p.), insieme alla ineludibile frammentarietà insita nelle decisioni giurisprudenziali, potrebbe venir meno la prevedibilità della illiceità delle condotte e con essa anche quella certezza e “tranquillità” cui i pubblici funzionari aspirano. Senza peraltro considerare le conseguenze, imprevedibili allo stato, di eventuali interpretazioni giurisprudenziali conformi al diritto europeo, ove venisse approvata la direttiva anticorruzione[51]. Pertanto, il beneficio dato dalla abrogazione secca dell’art. 323 c.p. per gli amministratori potrebbe avere un effetto immediato e limitato a coloro che già sono assoggettati a procedimenti penali per il reato di abuso d’ufficio o hanno subito condanne – conseguendone anche la revoca in sede di giudizio di esecuzione ex art. 673 c.p.p. delle condanne definitive – e comunque a coloro che avranno commesso il fatto prima dell’entrata in vigore della disposizione abrogatrice dell’art. 323 c.p. È stato infatti osservato che, in presenza di abrogazione secca, le fattispecie di reato che verrebbero a riespandersi non potrebbero applicarsi retroattivamente ma potrebbero operare solo per i fatti futuri[52]. Alla stregua di quanto considerato, l’abrogazione secca non appare poter costituire una soluzione definitiva alle esigenze perseguite. Non è pertanto escluso che il problema della burocrazia difensiva torni al centro del dibattito in un prossimo futuro nonostante l’abrogazione dell’art. 323 c.p.


[1] Trattasi del d.d.l. recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario. Interpretazione autentica dell’articolo 9 della legge 10 aprile 1951, n.287”, che al comma 1, punto b) dell’articolo 1 (Modifiche al codice penale) prevede “l’articolo 323 è abrogato”.  

[2] Cfr. Repubblica.it: La riforma della giustizia è pronta. Ma la maggioranza litiga sull’abuso d’ufficio, pubblicato online in data 8.6.2023. 

[3] L’improvvisa scomparsa del leader della componente che più delle altre perseguiva questa soluzione, Sen. Silvio Berlusconi, sembrerebbe aver dato la spinta finale per varare questo disegno, quasi come un “tributo” alla memoria. Cfr. le dichiarazioni del Sottosegretario alla Giustizia, On. Sisto, riportate dal Corriere della Sera del 15 giugno 2023: “La riforma, parla Sisto. L’abuso d’ufficio tolto in suo nome”. Tra i tanti quotidiani che titolano in termini analoghi si richiama La Verità del 16 giugno 2023: “Nordio, sprint dedicato a Silvio. Salta il reato di abuso d’ufficio”.

[4] Cfr. i Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. V, parte II, Relazione al libro II, Roma, 1929, 132 ss.

[5] F. BRICOLA, In tema di legittimità costituzionale dell’art. 323 c.p., in Riv. it. dir. e proc. pen., 1966, 985 ss.; G. GRASSO, Previsioni legali di reato e formazione di massime di giurisprudenza, in Giur. cost., 1965, p. 510.

[6] Corte Cost. 19 febbraio 1965, n. 7 in Giur. cost., 1965, 50.

[7] In relazione al delitto di abuso innominato in atti d’ufficio, si rinvia tra gli altri a E. Contieri, Abuso innominato di ufficio, in Enc. dir., vol. I, Giuffrè, Milano, 1958, 187 ss.; F. BRICOLA, In tema di legittimità costituzionale dell’art. 323 c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 1966, 985 ss., cit.; L. STORTONI, L’abuso di potere nel diritto penale, Giuffrè, Milano, 1976; S. SEMINARA, Riflessioni sul reato di abuso innominato in atti d’ufficio, in Foro it., II, 1984,342 ss.; T. PADOVANI, La riforma dell’abuso innominato e dell’interesse privato in atti d’ufficio, in Riv. it. dir. proc. pen., 1986, 1042 ss.; ID., L’abuso d’ufficio e il sindacato del giudice penale, ivi, 1989, 76 ss.; A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte speciale, 4 ed., Giuffrè, Milano, 1986, 269 ss.; M. PARODI GIUSINO, Abuso innominato d’ufficio, in Digesto pen., vol. I, Utet, Torino, 1987, 41 ss.

[8] Sulla disposizione conseguita alla riforma del 1990, si vedano tra gli altri: G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, parte speciale, vol. I, II ed., Bologna, 1997, 242 ss.; C.F. GROSSO, L’abuso di ufficio, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1991, 321 ss.; F. BRICOLA, La riforma dei reati contro la pubblica amministrazione: cenni generali, in Reati contro la pubblica amministrazione, a cura di F. Coppi, Torino, 1993, 18 ss.; T. PADOVANI, L’abuso d’ufficio, in Studi in onore di G. Vassalli, Milano, 1991, 561 ss.; ID., L’abuso d’ufficio e il sindacato del giudice penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1989; A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte speciale, VII ed., Milano, 1995, 242 ss.; M. PARODI GIUSINO, voce Abuso d’ufficio, in Dig. disc. pen., Torino, 1994, 600 ss.; R. RAMPIONI, L’abuso di ufficio, in Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 1993, 117 ss.; V. SCORDAMAGLIA, L’abuso di ufficio, Reati contro la pubblica amministrazione, cit., 256 ss.; A.M. STILE, Commento all’art. 16, l. 26/4/1990, n. 86, in Leg. pen., 1990, 331 ss. Tra i contributi più recenti, C. CUPELLI, La riforma del 1990, in B. ROMANO (a cura di), Il “nuovo” abuso di ufficio, PISA, 2021, p. 26 ss.

[9] Si richiama la tripartizione proposta dalla Commissione Morbidelli, attraverso la quale si era tentato di ovviare agli inconvenienti della formulazione del ’90 disegnando una tripartizione dell’abuso d’ufficio in distinte fattispecie: prevaricazione, favoritismo affaristico e sfruttamento privato dell’ufficio. Sull’argomento si tornerà più avanti.

[10] Sulla riformulazione dell’art. 323 c.p. operata dalla l. 234/1997, si vedano i contributi di T. PADOVANI, Commento all’art. 1. Modifica dell’art. 323 del codice penale. L. 16/07/1997, in Legislaz. pen., 1997; A. PAGLIARO, La nuova riforma dell’abuso d’ufficio, in Dir. pen. e proc., n. 11, 1997; C. BENUSSI, Il nuovo delitto di abuso d’ufficio, Padova, 1998. Più di recente cfr. C. BENUSSI, Diritto penale della pubblica amministrazione, Padova, 2016, 414 ss.; A. MERLO, L’abuso d’ufficio tra legge e giudice, Torino, 2019, 12 ss. Si vedano anche A. MANNA, Abuso d’ufficio e conflitti di interessi nel sistema penale, Torino, 2004, 25 s; V. PATALANO, Amministratori senza paura della firma con i nuovi vincoli alle condotte punibili, in Guida al dir., 1997, n. 29, p. 18.

[11] L’assunto è condiviso in dottrina. Tra i tanti, v. G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale-parte speciale, I, Bologna, 2012, 247 s.

[12] M. DONINI, Osservazioni sulla proposta “Naddeo-Castaldo” di riforma dell’art. 323 c.p. La ricerca di un’ultima ratio ancora più tassativa contro il trend generale dell’espansione penalistica, in AA.VV., Migliorare le performance della pubblica amministrazione. Riscrivere l’abuso d’ufficio, a cura di A.R. CASTALDO, Torino, 2018, 101. In proposito di vedano anche L. STORTONI, Intervento, in AA.VV., Migliorare le performance della pubblica amministrazione. Riscrivere l’abuso d’ufficio, a cura di A.R. Castaldo, Torino, 2018, 117 ss.; S. PERONGINI, Le ragioni che consigliano l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, ibidem, 12 ss.).

[13] V. MANES, Abuso d’ufficio e progetti di riforma: i limiti dell’attuale formulazione alla luce delle soluzioni proposte, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 1902 ss. Più di recente, V. MANES, Corruzione senza tipicità, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 1126 ss..

[14] Recita il vigente testo dell’art. 323 c.p.: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità”. Tra la vasta bibliografia sulla riforma del 2020 si rinvia, tra gli altri, a: L. DELLA RAGIONE, L’abuso d’ufficio riformato tra diritto penale ed extrema ratio di tutela, in A.R. CASTALDO, M. NADDEO (a cura di), La riforma dell’abuso d’ufficio, Torino, 2021, 105 ss.; A. MELCHIONDA, La riforma dell’“abuso d’ufficio” nel caleidoscopio del sistema penale dell’emergenza da Covid-19, in Archivio Penale, 2, 2021; A. MERLO, Quasi come Queneau: il legislatore e l’impresa inane di riformare l’abuso d’ufficio, in Foro it., II, 2021, 231 ss.; G. RUGGIERO, L’abuso d’ufficio fra potere discrezionale e legalità vincolante, in Archivio Penale, 3, 2021; E. MATTEVI, L’abuso d’ufficio. Una questione aperta. Evoluzione e prospettive di una fattispecie discussa, Trento, 2022.  

[15] La questione di legittimità costituzionale concerneva l’art. 23, comma 1, del d.l. 16 luglio 2020, n. 76 ed era stata sollevata dal G.u.p. del Tribunale di Catanzaro non solo con riferimento all’art. 77 Cost., ma anche in relazione ai precetti di cui agli articoli 3 e 97 Cost., venendo a privare di rilevanza penale ogni forma di esercizio della discrezionalità amministrativa del p.u., sostanzialmente equiparandolo al privato. La sentenza 18 gennaio 2022 n. 8 è rinvenibile sul sito www.cortecostituzionale.it.

[16] M. NADDEO, I tormenti dell’abuso d’ufficio tra teoria e prassi. Discrezionalità amministrativa e infedeltà nel nuovo art. 323 c.p., in Penale Diritto e Procedura, www.penaledp.it, 10/8/2020.

[17] G.L. GATTA, Da “spazza-corrotti” a “basta paura”, in www.sistemapenale.it.

[18] M. GAMBARDELLA, Simul stabunt vel simul cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell’abuso d’ufficio, in Sistema penale, fasc. 7/2020, anche in www.sistemapenale.it.

[19] La giurisprudenza colloca tra gli atti vincolati il permesso di costruire, attesa la sua diretta previsione nell’art. 12 del d.P.R. 380/2001, il cui tenore letterale non lascia spazio a margini di discrezionalità: Cass., III Pen., 8.9.2020 n. 26834, Barletta, emanata nel vigore della riforma.

[20] Così riteneva anche PADOVANI, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, in www.giurisprudenzapenale.com, 10, che paventava di conseguenza l’ingiustizia della limitazione di responsabilità del pubblico funzionario che ne derivava.

[21] Cass., VI Pen. 8.1.2021, n. 442, Garau. Nella decisione, tuttavia, la Corte perviene ad escludere la penale responsabilità, non avendo nel caso di specie il p.u. superato il c.d. limite esterno.

[22] Cass., Sez. 6, n. 33240 del 2021: si consideri che la citata sent. Garau, di poco antecedente, aveva invece escluso la rilevanza delle disposizioni regolamentari anche se interposte.

[23] Come avviene di regola nel caso del bando di gara. Analogamente si ritiene in relazione ai c.d. meri atti di normazione flessibile (il c.d. soft law), quali ad esempio le linee guida dell’ANAC:Così DE NOZZA, La riforma dell’abuso d’ufficio: dalla paura della firma alla firma senza paura?, in www.lexambiente.it. L’indirizzo che consente la minima eterointegrazione viene confermato da Cass., Sez. 6, n. 1606 dell’11/11/2021, Iovine

[24] Tra le altre, B. ROMANO, Brevi considerazioni sulle ulteriori proposte di riforma dell’abuso d’ufficio, a partire dalle responsabilità dei sindaci, in www.giurisprudenzapenale.com.

[25] M. GAMBARDELLA, Tre disegni di legge in materia di abuso d’ufficio e responsabilità per i reati omissivi propri, 8, in www.discrimen.it. L’autore fa un’ampia rassegna dei tre d.d.l. richiamati nel testo.

[26]  L’esame di tale parte del d.d.l non viene approfondito nel presente scritto, non incidendo direttamente sull’art. 323 c.p.

[27] Per facilità di comprensione, si riporta il testo come riformulato dal citato d.d.l. Pella: “1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero consapevolmente omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, arreca direttamente ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. 2. La pena è aumentata nei casi in cui il danno direttamente causato ha un carattere di rilevante gravità”.

[28] Con riferimento al requisito della intenzionalità del dolo, la giurisprudenza di legittimità ha finora escluso la configurabilità del reato, per difetto dell’elemento soggettivo, non solo in presenza del dolo eventuale, ma anche in presenza del dolo diretto (rappresentazione dell’evento come verificabile con elevato grado di probabilità o addirittura con certezza, ma non come obiettivo perseguito), essendo, invece, richiesto il dolo intenzionale, inteso come rappresentazione e volizione dell’evento di danno (altrui) o di vantaggio patrimoniale (proprio o altrui), quale conseguenza diretta ed immediata della condotta dell’agente ed obiettivo primario da costui perseguito (Cass. pen. Sez. VI 05-05-2004, n. 21091). L’intenzionalità del dolo di vantaggio o di danno altrui è stata esclusa, pur in presenza di un concorrente scopo in tal senso, allorquando il perseguimento del pubblico interesse ha comunque costituito l’obiettivo principale dell’agente (Cass. pen. Sez. VI, 03/01/2023, n. 42), a meno che il perseguimento del fine pubblico dell’agente non abbia rappresentato un mero pretesto per mascherare l’obiettivo reale della condotta (Cass. pen. Sez. III, 13/05/2011, n. 18895; Sez. VI, 17/06/2010, n. 23421).

[29] L’effetto paradossale è sottolineato anche da G. RUGGIERO, L’attrazione fatale per il delitto di abuso d’ufficio, 7, in rivista.camminodiritto.it, 25.1.2023.

[30] Le audizioni richiamate nel testo si sono tenute nella seduta del 18 maggio 2023. Le relative relazioni sono state acquisite e pubblicate sul sito web della Camera dei Deputati-Commissioni permanenti- Commissione II Giustizia, raggiungibile al seguente link: https://www.camera.it/leg19/1347?shadow_organo_parlamentare=3502&id_tipografico=02.

[31] Si vedano le audizioni dei professori G.L. GATTA e M. GAMBARDELLA.

[32] Cfr. Relazione del Movimento Forense.

[33] Cfr. Relazione dell’Avv. Ivano IAI, che ritiene dannosa la fattispecie e, in ottica di sussidiarietà del diritto penale, ne auspica l’abrogazione, ritenendo sufficiente la previsione di illeciti disciplinari e contabili.

[34] Un simile rilievo è presente nella Relazione ANAC, ma anche nelle citate audizioni dei professori G.L. GATTA e M. GAMBARDELLA ed emerge anche dalle audizioni del dr. F. PRETE, Procuratore della Repubblica di Brescia e del dott. P. DAVIGO, magistrato in congedo. Contra, L. STORTONI – G.S. CALIFANO, Ex falso sequitur quodlibet: l’invocazione di vincoli sovranazionali nel dibattito sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio, in www.discrimen.it, 8.6.2023, che contestano che dalla citata normativa sovranazionale derivi l’obbligo per gli Stati di sanzionare penalmente la condotta di abuso, emergendo invece una facoltatività della incriminazione, ritenendo sufficiente sanzionare la condotta con illecito amministrativo.

[35] L’Art. 19 – Abuso d’ufficio, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la Corruzione (UNCAC) recita: “Ciascuno Stato Parte esamina l’adozione delle misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando l’atto è stato commesso intenzionalmente, al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della sua posizione, ossia di compiere o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio per se o per un’altra persona o entità”. 

[36] C.CUPELLI, Sulla riforma dell’abuso d’ufficio, 3, in www,sistemapenale.it, 23.1.2023.

[37] L’intenzione è stata annunciata dalla Presidente Ursula Von der Leyen nello scorso mese di settembre nel suo discorso sullo stato dell’Unione 2022 con queste nette parole: “Se vogliamo risultare credibili quando chiediamo ai paesi candidati di rafforzare le loro democrazie, dobbiamo eliminare la corruzione anche all’interno dell’Unione. Per questo motivo il prossimo anno la Commissione presenterà misure per aggiornare il nostro quadro legislativo di lotta alla corruzione. Adotteremo un atteggiamento più duro nei confronti di reati come l’arricchimento illecito, il traffico d’influenza e l’abuso di d’ufficio, oltre che della corruzione in senso più classico…”. L’espressione è riportata da G.L. GATTA, nella Relazione relativa alla citata audizione.

[38] Esulando da questa trattazione, non si approfondirà la tematica del rapporto tra ordinamento dell’Unione Europea e diritto penale interno, limitandoci a rinviare alla sentenza della Corte Costituzionale n. 115 del 2018 sul “caso Taricco” in materia di prescrizione.

[39] L’analogia è di M. GAMBARDELLA, Tre disegni, cit., 3.

[40] T. PADOVANI, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, 15, in www.giurisprudenzapenale.com, 28/7/2020.

[41] M. GAMBARDELLA, Simul stabunt, cit.

[42] Così C. CUPELLI, loc. ult. cit., 3.

[43] Così R.GAROFOLI, che nella sua audizione ricollega le preoccupazioni dei sindaci a tre fattori: a) la lamentata attitudine del solo avvio delle indagini a minare la credibilità degli amministratori locali – il che tuttavia varrebbe per tanti altri reati oggetto di iscrizione o contestazione; b) la contestata sospensione del mandato prima della condanna definitiva per abuso di ufficio; c) la preoccupante dilatazione della posizione di garanzia talvolta desunta in sede giudiziale dai poteri di ordinanza che gli artt. 50 e 54 TUEL assegnano ai Sindaci, destinata ad integrare (in forza della clausola di equivalenza di cui all’art. 40, co. 2, c.p.) variegate e significative ipotesi di reato contestate in forma omissiva impropria (non certo il solo abuso di ufficio). Quest’ultimo profilo era oggetto del d.d.l. Parrini, citato supra al par. 4.

[44] Le ultime considerazioni riportate nel testo sono formulate da G. ZACCARO, Il problema non è l’abuso d’ufficio ma le norme poco chiare per i sindaci, in editorialedomani.it del 19.5.2023.

[45] In tal senso si esprime in maniera condivisibile G.L. GATTA nella citata audizione parlamentare.

[46] L’abuso per omessa astensione era mantenuto nel d.d.l Ostellari, che prevedeva l’aggiunta di un inciso volto a garantire una maggior determinatezza. Si rinvia in proposito supra, al par. 4 

[47] Una simile soluzione viene riproposta da G.L. GATTA, nella citata Relazione inerente all’audizione davanti alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, seduta del 18 maggio 2023, relativa ai d.d.l. citati nel testo. In senso analogo sembrava andare il suggerimento che l’ex Procuratore della Repubblica di Roma già avanzava nel corso del dibattito che aveva portato alla novella del 2020. Cfr R. PIGNATONE, La riforma necessaria. Se l’abuso d’ufficio e la burocrazia difensiva imbrigliano il Paese nell’immobilismo, in La Stampa, 14 giugno 2020, p. 9, che proponeva, a latere dell’abrogazione dell’art. 323 c.p., la codificazione di alcune figure criminose più specifiche in particolare in materia di appalti o a tutela della concorrenza.

[48] Dall’articolato Morbidelli: “Art. 323 (Prevaricazione) – Il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio, che, esercitando ovvero omettendo di esercitare in maniera arbitraria e strumentale i poteri inerenti alle funzioni o al servizio, arreca intenzionalmente ad altri un danno che sa essere ingiusto, è punito, se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a lire venti milioni”.

Art. 323 bis (Favoritismo affaristico) – “Il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio, che, esercitando ovvero omettendo di esercitare in maniera arbitraria e strumentale i poteri inerenti alle funzioni o al servizio, al fine di favorire taluno gli procura un vantaggio patrimoniale che sa essere ingiusto, è punito, se il fatto non costituisce reato più grave, con la reclusione da uno a cinque anni”

Art. 323 ter (Sfruttamento privato dell’ufficio) – “Il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio, che, esercitando ovvero omettendo di esercitare in maniera arbitraria e strumentale i poteri inerenti alle funzioni o al servizio, si procura intenzionalmente un vantaggio patrimoniale che sa essere ingiusto, è punito, se il fatto non costituisce reato più grave, con la reclusione da due a cinque anni”.

[49] La soluzione proposta dalla Commissione Morbidelli, citata supra, nota 6, oltre a prevedere pene diverse per le varie ipotesi di reato, introduceva una causa di non punibilità applicabile in presenza di fatti commessi nell’esclusivo interesse della pubblica amministrazione oppure di danno patrimoniale pubblico o privato non superiore a un certo ammontare, purché integralmente riparato. Sulle vicende della Commissione governativa presieduta dal prof. Morbidelli e sulle ragioni del suo accantonamento, cfr. C. CUPELLI, La riforma del 1990, in B. ROMANO (a cura di), Il “nuovo” abuso di ufficio, Pisa, 2021, cit.

[50] La preoccupazione è espressa anche da A. MERLO, Il diritto penale non è una clava, abrogare l’abuso d’ufficio non basta, nel quotidiano Il Dubbio del 15 giugno 2023 e dal Prof. Ugo Maiello, nell’intervista rilasciata a Il Mattino del 15 giugno 2023, dove auspica una più puntuale ridefinizione del confine tra sfera pubblica e privata, riscrivendo le nozioni di pubblica funzione e di pubblico servizio maggiormente in linea con gli odierni compiti della pubblica amministrazione, soprattutto sul versante del suo intervento nelle attività economiche.

[51] In merito, si rinvia alle considerazioni espresse supra, al par. 4.

[52] Cfr anche M. GAMBARDELLA, nelle audizioni parlamentari citate supra.

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