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Punti d’incontro tra la teoria del diritto penale del nemico e la legislazione italiana antiterrorismo: diritto penale “al limite”

Abstract

In un contesto globale di minaccia costante e imprevedibile del terrorismo, le nazioni devono bilanciare l’esigenza di pubblica sicurezza con la protezione dei diritti civili e dei principi costituzionali. La legislazione antiterrorismo italiana, evolutasi dagli anni di piombo all’era del terrorismo jihadista, offre un esempio significativo di come uno stato democratico possa rispondere a tali minacce, cercando di mantenere la tenuta dei diritti umani fondamentali. Il presente lavoro ha lo scopo di esplorare come la legislazione penale italiana di contrasto al terrorismo si confronti e talvolta si allinei con la teoria del diritto penale del nemico di Günther Jakobs. Questa teoria, che distingue tra “diritto penale del cittadino” e “diritto penale del nemico”, suggerisce un approccio più severo e meno garantista nei confronti di individui considerati non solo trasgressori della legge, ma ostili agli stessi fondamenti dello stato di diritto. Nell’ambito di un esame relativo alle tensioni che si creano tra prevenzione del terrorismo e rispetto dei diritti fondamentali, si valuterà come le normative antiterrorismo italiane rispecchino i principi del diritto penale del nemico, con l’obiettivo di comprendere meglio come bilanciare sicurezza e libertà e fornire raccomandazioni per l’evoluzione futura delle normative.

In a global context of constant and unpredictable terrorist threats, nations must balance the need for public security with the protection of civil rights and constitutional principles. Italian anti-terrorism legislation, which has evolved from the political terrorism of the seventies and eighties to the era of jihadist terrorism, offers a significant example of how a democratic state can respond to such threats while striving to uphold fundamental human rights. This work aims to explore how Italian criminal law against terrorism compares and sometimes aligns with Günther Jakobs’ theory of enemy criminal law. This theory, which distinguishes between “citizen criminal law” and “enemy criminal law”, suggests a harsher and less protective approach towards individuals considered not only lawbreakers but also hostile to the very foundations of the rule of law. By examining the tensions between terrorism prevention and respect for fundamental rights, this study will assess how Italian anti-terrorism laws reflect the principles of enemy criminal law, with the goal of better understanding how to balance security and freedom and providing recommendations for the future evolution of these regulations.

SOMMARIO: Introduzione – 1. Background teorico: la teoria del diritto penale del nemico – 2. Evoluzione della legislazione antiterrorismo in Italia – 3 Il processo di “costituzionalizzazione dell’emergenza” – 4 Punti d’incontro tra la legislazione di contrasto al terrorismo e la teoria del diritto penale del nemico – 4.1 Anticipazione della tutela – 4.2 Soggettivizzazione delle fattispecie – 4.3 Eccessività del trattamento sanzionatorio – 4.4 Problemi di determinatezza delle fattispecie – Conclusione

Introduzione

Il fenomeno del terrorismo, con le sue molteplici manifestazioni e la sua capacità di evolvere continuamente, rappresenta una sfida cruciale per le società contemporanee e i loro sistemi giuridici. In Italia, la lotta al terrorismo è radicata in un contesto storico particolarmente complesso, caratterizzato da una serie di episodi interni che vanno dagli anni di piombo fino alle minacce più recenti legate al terrorismo internazionale di matrice jihadista. Questo sfondo storico ha plasmato in maniera significativa l’approccio legislativo e giuridico dell’Italia, spingendo verso lo sviluppo di un corpus normativo sofisticato e spesso controverso, volto a contrastare efficacemente le minacce terroristiche mantenendo al contempo il rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali.

La tensione tra la necessità di sicurezza e il rispetto delle garanzie costituzionali è al centro del dibattito sulle leggi antiterrorismo. In Italia questo dibattito si arricchisce e si complica a causa delle specificità del sistema legale e della sua evoluzione storica. Le leggi antiterrorismo italiane, spesso formulate in risposta a crisi specifiche, si sono evolute per affrontare nuove forme di terrorismo, integrando e talvolta sperimentando approcci che riflettono i principi del diritto penale del nemico. Proprio questa teoria, che propone un trattamento giuridico distinto per i “nemici” dello Stato, offre un’ottima visuale attraverso cui esaminare criticamente le strategie adottate dall’Italia nella sua legislazione antiterrorismo.

Il diritto penale del nemico, nonostante non sia formalmente riconosciuto nel sistema giuridico italiano, sembra infatti influenzare alcune delle misure adottate. Questo approccio solleva questioni profonde sul bilanciamento tra efficacia nella prevenzione e repressione del terrorismo e aderenza ai principi di giustizia e legalità. L’analisi di come l’Italia ha modellato le sue leggi antiterrorismo non solo illumina la situazione specifica italiana ma contribuisce anche al più ampio dibattito internazionale su come i governi debbano rispondere alla minaccia del terrorismo senza erodere le fondamenta dei diritti civili e delle libertà individuali.

Il presente lavoro si propone di analizzare la legislazione antiterrorismo italiana, identificando i punti di contatto con la teoria del diritto penale del nemico e valutando l’impatto di tali leggi sulla tutela dei diritti fondamentali e sulla coerenza costituzionale. Attraverso un’analisi delle normative, accompagnata da una riflessione critica sui loro effetti pratici e teorici, si mira a fornire una visione complessa e sfaccettata di uno dei dilemmi più pressanti del nostro tempo.

1. Background teorico: la teoria del diritto penale del nemico

La Teoria del Diritto Penale del Nemico, formulata dal giurista tedesco Günther Jakobs[1] negli anni ’80, rappresenta una delle risposte più provocatorie e discusse alle sfide poste dal terrorismo e da altre gravi minacce alla sicurezza dello Stato. Questa teoria auspica essenzialmente una distinzione tra il diritto penale del cittadino (Bürgerstrafrecht), applicabile ai membri della società che, pur commettendo crimini, riconoscono e rispettano l’ordine giuridico, e il diritto penale del nemico (Feindstrafrecht), destinato a coloro che rifiutano tali fondamenti e minacciano la stabilità dello Stato[2].

Jakobs sostiene che, in circostanze eccezionali, è necessario un approccio giuridico più rigoroso per affrontare coloro che sono considerati “nemici” dello Stato. Tale approccio non si concentra tanto sulla punizione del passato comportamento illecito quanto sulla prevenzione di future minacce. Di conseguenza, il diritto penale del nemico permette e talvolta impone l’adozione di misure severe, come la detenzione prolungata senza processo, sorveglianza intensiva, e l’uso di prove ottenute con metodi che normalmente potrebbero essere considerati controversi nel diritto penale tradizionale. In particolare, i tratti essenziali del diritto penale del nemico, per quanto concerne la differenza di trattamento rispetto al cittadino, sono così riassumibili[3]:

a) estensione dell’incriminazione di atti preparatori: la reazione legale non richiede necessariamente l’effettiva lesione o la messa in pericolo di un bene, contrariamente a quanto avviene nel diritto penale applicato al cittadino, con la conseguenza di una possibile limitazione della libertà individuale fin dalla fase di preparazione del reato;

b) aumento dei livelli sanzionatori, soprattutto in relazione alle azioni di mera partecipazione alle associazioni criminali;

c) considerevoli deviazioni dalle normali regole procedurali, con una significativa riduzione delle garanzie difensive e con un’ampia legittimazione dell’utilizzo di tecniche investigative invasive della sfera privata degli individui;

d) spostamento dell’orientamento delle finalità della pena verso la mera neutralizzazione della pericolosità del condannato, secondo una concezione incentrata sulla sua esclusione, anziché sulla sua re-inclusione nella società.

Il fulcro della critica a questa teoria risiede nella sua potenziale pericolosità in termini di violazioni dei diritti umani[4]. È stato evidenziato, inoltre, che l’applicazione di un tale modello normativo minaccia il principio di legalità e di proporzionalità, pilastri fondamentali di uno Stato di diritto democratico. Infine, si teme che la categorizzazione di individui come “nemici” possa portare a una discriminazione giuridica istituzionalizzata, nella quale il mero sospetto e non l’azione concreta diviene la base per severe restrizioni delle libertà personali.

Nonostante queste preoccupazioni, la necessità di fronteggiare minacce terroristiche e simili sfide alla sicurezza nazionale ha spinto alcuni paesi, inclusa l’Italia, a adottare misure che riflettono, almeno parzialmente, questa teoria. La legislazione antiterrorismo, spesso redatta in un linguaggio che evoca la necessità di protezione contro “nemici” dello stato[5], tende a giustificare misure eccezionali come necessarie per garantire la sicurezza collettiva.

2 Evoluzione della legislazione antiterrorismo in Italia

La legislazione antiterrorismo italiana ha subito significative trasformazioni, adattandosi a diverse ondate di minacce terroristiche nel corso degli anni. In particolare, sono quattro i periodi storici fondamentali in cui si può descrivere l’evoluzione storica e normativa del terrorismo in Italia:

1) Terrorismo interno: la storia del terrorismo in Italia ha le sue radici negli anni ’70 e ’80, periodo in cui la società italiana fu scossa da un terrorismo di matrice politica di sinistra e di destra, culminato in atti di violenza estrema come il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro[6]. In risposta a questa ondata di violenza interna, il governo italiano implementò una serie di leggi speciali, tra cui si può citare la legge Reale del 1975[7], che autorizzava la polizia a effettuare arresti e perquisizioni senza il consueto mandato giudiziario[8], e, soprattutto, il decreto-legge n. 152 del 1978, il quale inserì per la prima volta nell’ordinamento italiano il riferimento al terrorismo. Con tale decreto nacque, infatti, la nuova fattispecie di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, disciplinata dal neo-introdotto art. 289-bis c.p. Tale disposizione utilizzò per la prima volta il concetto di “finalità di reato”, che ha caratterizzato tutta la successiva produzione legislativa in tema di terrorismo. È importante sottolineare come l’intera legislazione di contrasto al terrorismo sviluppatasi in questo contesto sia connotata da un carattere emergenziale, da cui deriva una stratificazione normativa caratterizzata da mancanza di coerenza e, purtroppo, da una restrizione delle garanzie dovuta alla necessità di reprimere fenomeni di così incisiva violenza. In ogni caso, con la sconfitta del terrorismo interno, la legislazione si stabilizzò, ma la situazione fu presto destinata a cambiare, con l’entrata in campo di una nuova forma di terrorismo, quello internazionale di matrice islamica, che ha presentato al Legislatore problemi molto diversi e, per certi versi, ancor più difficili da affrontare.

2) Terrorismo internazionale strutturato[9]: dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, il contesto del terrorismo si spostò significativamente verso la minaccia internazionale, portando il governo italiano a rafforzare ulteriormente la sua legislazione, anche su spinta delle Organizzazioni internazionali di cui l’Italia fa parte, come l’Unione Europea e le Nazioni Unite. Il decreto-legge n. 374 del 2001, convertito con modificazioni dalla legge n. 438 del 2001, modificò l’art. 270-bis del Codice penale, che fino ad allora puniva le organizzazioni terroristiche ed eversive “interne”, ampliandone l’applicazione anche ad organizzazioni dello stesso genere ma che mirano al compimento di atti terroristici nei confronti di uno stato estero, di un’istituzione o di un organismo internazionale[10] e vennero introdotte una serie di leggi che miravano a smantellare le reti terroristiche, impedire l’ingresso di terroristi sul territorio nazionale e facilitare la cooperazione internazionale contro il terrorismo. Il decreto, inoltre, inserì nel Codice penale l’articolo 270-ter, rubricato “Assistenza agli associati”, il quale sanziona chiunque, fuori dal caso di concorso nel reato o di favoreggiamento, dà rifugio o fornisce vitto, ospitalità, mezzi di trasporto o strumenti di comunicazione a persone che partecipino alle associazioni di cui agli artt. 270 e 270-bis c.p.

3) Terrorismo internazionale destrutturato: nel corso degli anni il fenomeno terroristico internazionale è mutato, con la presenza di associazioni terroristiche dotate di una struttura leggera e orizzontale, chiamate per l’appunto “destrutturate”, la cui configurazione si contraddistingueva per la presenza di una rete formata da cellule dotate di una certa autonomia e dislocate all’interno dei singoli Stati obiettivi dell’organizzazione, le quali comunque restavano in contatto con i vertici organizzativi. A seguito degli attentati di Madrid e di Londra, rispettivamente nel 2004 e nel 2005, il Legislatore italiano varò il decreto-legge 144/2005, convertito dalla legge 155/2005. Tale decreto introdusse, sulla base della definizione di terrorismo contenuta nella decisione quadro 2002/475 GAI del Consiglio dell’Unione europea, l’art. 270-sexies c.p., il quale definisce la “finalità di terrorismo”, riferita peraltro a condotte non specificate. Il decreto in questione introdusse, inoltre, agli artt. 270-quater e 270-quinquies c.p. due nuove fattispecie in tema di terrorismo, rispettivamente: arruolamento e addestramento ad attività con finalità di terrorismo.

4) Terrorismo individuale: l’ultima fase nell’evoluzione del terrorismo internazionale è iniziata con gli attentati perpetrati in Europa a partire dal 2012 ed è in corso ancora oggi. In particolare, i nuovi terroristi mostrano una sempre maggiore autonomia dai singoli gruppi[11] radicali, i quali spesso ormai hanno la propria base in Occidente. Tali gruppi ricevono, infatti, messaggi jihadisti generici tramite internet e strumenti telematici ed acquisiscono a distanza, tramite tali mezzi di comunicazione, abilità che in passato avrebbero richiesto un addestramento specifico nei campi situati in Medio Oriente. Le attività di indottrinamento, addestramento e reclutamento avvengono oggi tramite il web, con la conseguenza che sono emerse di nuove figure di terroristi, come i “lupi solitari” e “foreign fighters”, che hanno alimentato le difficoltà poste al Legislatore. In questa fase, il Legislatore italiano ha risposto con l’emanazione del decreto-legge 7/2015, convertito dalla legge 43/2015, il quale ha previsto la punibilità anche dell’arruolato nell’ambito dell’art. 270-quater c.p., e, con riguardo all’addestramento, ha inserito la punibilità anche dell’addestrato nonché dell’auto-addestrato nell’art. 270-quinquies c.p. Inoltre, sempre con lo stesso decreto, è stato introdotto l’art. 270-quater.1 c.p., che punisce chiunque organizza, finanzia o propaganda viaggi in territorio estero finalizzati al compimento delle condotte con finalità di terrorismo di cui all’articolo 270-sexies[12]c.p.  Con la successiva legge 153/2016, sono stati poi puniti i finanziamenti di condotte con finalità di terrorismo (art. 270-quinquies.1c.p.), la sottrazione di beni o denaro sottoposti a sequestro (art. 270-quinquies.2 c.p.) e gli atti di terrorismo nucleare (nuovo art. 280-ter c.p.). Infine, il decreto legislativo 21/2018 ha introdotto il nuovo art. 270-bis.1 c.p. in tema di circostanze aggravanti ed attenuanti.

3 Il processo di “costituzionalizzazione dell’emergenza”

Dall’analisi dell’evoluzione del panorama legislativo italiano in materia di terrorismo effettuata nel paragrafo precedente, emerge come in Italia non si sia dovuti ricorrere ad un modello di tipo bellico per fronteggiare l’emergenza derivante dal terrorismo internazionale, come avvenuto negli Stati Uniti, né sia stato necessario rivolgersi a clausole d’eccezione in quanto non presenti nella Costituzione italiana, a differenza di quanto avvenuto in Francia con l’état d’urgence e lo stato d’assedio[13]. Questa condizione è probabilmente dovuta anche al fatto che, in Italia, non vi è mai stato un punto di rottura così incisivo da determinare la necessità di misure eccezionali immediate che stravolgessero la realtà normativa, con la conseguenza che il contrasto al fenomeno terroristico è stato ricompreso «entro il diritto penale»[14].

Queste condizioni hanno fatto sì che si attivasse un altro tipo di meccanismo, non configurabile in un singolo atto ma in un lento processo, definito da alcuni come costituzionalizzazione dell’emergenza[15],che, seppur stimolato maggiormente nei momenti in cui più si è sentita nel panorama internazionale la pressione del terrorismo di matrice islamica, si è sviluppato lentamente nel corso dell’ultimo ventennio e ha comportato la normalizzazione e la stabilizzazione di una serie di limitazioni dei diritti e delle libertà introdotte per fronteggiare la minaccia terroristica. In particolare, il processo in questione è stato possibile sulla base di un semplice dato di fatto: la Costituzione italiana si compone prevalentemente di principi generali del diritto, interpretabili e adattabili a seconda della situazione che viene in considerazione.

Infatti, come noto, in Italia vige un sistema di Costituzione rigida, sicché qualsiasi tipo di intervento legislativo, quale che sia la motivazione della sua adozione, e quindi anche se derivante da condizioni eccezionali, deve necessariamente rispettare il dettato costituzionale. Tuttavia, la Costituzione si compone in prevalenza di principi, i quali sono carenti della cosiddetta “struttura condizionale” tipica delle norme giuridiche e volta a subordinare un effetto giuridico ad una fattispecie e sono caratterizzati da generalità, vaghezza e indeterminatezza, essendo tendenzialmente norme con fattispecie “apertissima”, o addirittura “norme senza fattispecie”[16], nonché da una particolare flessibilità. Ciò comporta che rimane maggiore spazio alle valutazioni del Legislatore e, poi, dell’interprete, che possono ampliare e ridurre lo spettro di applicazione e di influenza dei singoli principi a seconda della situazione particolare che rileva di volta in volta o della condizione generale e attuale della società[17]. In definitiva, ciò che emerge è che i diritti fondamentali, che fanno evidentemente parte dei principi di cui si è parlato, hanno una possibilità di espansione variabile, con la conseguenza che, nonostante normalmente sussista una «presunzione di massima espansione delle libertà costituzionali»[18], vi sono delle situazioni eccezionali in cui è possibile che siano previste determinate limitazioni delle stesse.

Tali limitazioni, tuttavia, non sono prive di argine e, infatti, devono rispettare dei cosiddetti “controlimiti”, che sono stati individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza come i seguenti: il già analizzato rispetto delle norme costituzionali, specialmente dei principi supremi, e delle norme ad esse equiparate o prevalenti come alcune norme dell’Unione Europea, nonché il rispetto delle norme processuali poste e garanzia dei diritti stessi. Ma, il controlimite principale, connesso all’eccezionalità delle circostanze causate dall’emergenza che si vuole affrontare, ad esempio per quanto interessa in questa sede il terrorismo, è la temporaneità della deroga[19].

Le condizioni descritte hanno costituito, quindi, la base per l’instaurarsi e l’evolversi del lento processo di costituzionalizzazione dell’emergenza di cui si è detto, che è consistito, nella sostanza, in una stabilizzazione delle misure eccezionali introdotte per fronteggiare il fenomeno terroristico all’interno del panorama normativo italiano. Tale processo ha preso il via nel corso degli “anni di piombo”, durante i quali furono introdotte una serie di misure particolarmente limitative delle libertà fondamentali nell’ambito del contrasto al terrorismo interno. Questa esperienza ha sicuramente rappresentato la premessa per far fronte in modo culturalmente attrezzato alle sfide poste dal terrorismo internazionale, costituendo, quella legislazione emergenziale, l’incubatrice di soluzioni adattate alla complessità del fenomeno nella sua forma più recente. Infatti, le nuove soluzioni sono state basate proprio sul recupero del precedente arsenale antiterroristico e sull’inserimento di nuovi strumenti adattati alla struttura delle nuove organizzazioni[20]. È evidente, allora, che vi è stata una continuità fra le misure in materia terroristica che ha comportato la stabilizzazione di una normativa, quella emanata per far fronte al terrorismo interno, che avrebbe dovuto essere caratterizzata dalla temporaneità, in quanto di natura emergenziale.

Il risultato di questo processo è un sistema caratterizzato dalla presenza di disposizioni, sia di carattere sostanziale che di carattere processuale, dotate di particolare severità. La scelta di conservare questo genere di norme, introdotte in nome di un’emergenza, fa sì che questa, anche se dovrebbe essere caratterizzata dalla temporaneità, diventi fisiologica e stabile nell’ordinamento. Questa condizione comporta, in sostanza, la presenza di una sorta di doppio binario contraddistinto da un trattamento differenziato, da un punto di vista sia sostanziale che processuale[21], nei confronti di determinate categorie di soggetti.

4 Punti d’incontro tra la legislazione di contrasto al terrorismo e la teoria del diritto penale del nemico

Il discorso del presente lavoro ha come oggetto gli aspetti di diritto sostanziale che mettono in risalto gli elementi sintomatici di una tendenza a trattare in maniera diversa determinati soggetti, in questo caso coloro che vengono considerati come facenti parti di organizzazioni terroristiche o, comunque, che siano ad esse in qualche modo collegati. Prima di entrare nel dettaglio delle singole disposizioni e degli elementi di criticità che emergono, è necessario offrire una panoramica generale di quali sono i fattori della legislazione penale di contrasto al terrorismo che evidenziano la presenza di un doppio binario e, quindi, di una disparità di trattamento tra criminale “comune” e terrorista. Tali fattori sono[22]:

  • l’incriminazione di una serie di condotte preparatorie che consentono, essenzialmente, di prevenire la commissione di reati terroristici “fine”;
  • la propensione a dare un’eccessiva rilevanza alla componente soggettivistica del reato;
  • un notevole tasso di genericità e vaghezza delle fattispecie incriminatrici;
  • la severità del trattamento sanzionatorio dei reati con finalità di terrorismo.

4.1 Anticipazione della tutela

Come si è osservato, uno dei tratti tipici della teoria del diritto penale del nemico è l’anticipazione della rilevanza penale ad una soglia anche minima purché dimostrativa dell’appartenenza del soggetto ad una determinata categoria nemicale. Ebbene, è innegabile che le disposizioni in materia di terrorismo siano caratterizzate da una forte anticipazione della tutela, tendendo infatti a punire condotte preparatorie e collaterali rispetto alle fattispecie di attentato o alla fattispecie associativa di cui all’art. 270-bis del codice penale. Infatti, con la marginalizzazione del delitti di attentato  avvenuta nel corso del secolo scorso[23], i reati associativi e quelli che incriminano condotte preparatorie e collaterali hanno assunto sempre maggiore rilevanza, a dimostrazione di una certa propensione a creare un sistema incentrato sulla progressione di tutela[24], con la previsione di «fattispecie che puniscono stadi progressivi di offesa al bene finale, secondo una scala crescente di offesa che dalle condotte preparatorie, autonomamente punite, giunge allo stadio esecutivo dei delitti di attentato»[25].

Le disposizioni di cui agli artt. 270-ter, 270-quater, 270-quater.1 e 270-quinquies c.p., che sono state affiancate alla fattispecie associativa prevista dall’art. 270-bis c.p., possono essere sicuramente inserite nell’ambito di questa tendenza legislativa. Esse prevedono, infatti, delitti preparatori o collaterali che consentono di incriminare condotte che si collocano in uno stadio antecedente a quello disciplinato dai delitti di attentato o dalla fattispecie associativa. Queste disposizioni sono state introdotte prevalentemente con l’intento di rispondere ad un’esigenza processuale, essendosi riscontrata nella prassi una problematica relativa all’incriminazione di soggetti che, pur tenendo determinate condotte ricollegabili al fenomeno terroristico, non potevano essere condannati perché era difficoltoso provare la partecipazione all’associazione di cui all’art. 270-bis c.p. o perché le loro condotte non rientravano nell’ambito applicativo dei delitti di attentato. Tuttavia, questa modalità di strutturazione delle fattispecie può nascondere dei rischi: fuoriuscendo dall’ambito applicativo della fattispecie associativa, la punibilità di determinate condotte non è più ancorata al consistente corredo probatorio necessario per la dimostrazione della commissione di condotte ad essa collegate[26]. In questo modo, nella pratica applicativa potrebbe concretizzarsi il rischio che si vada a punire la libera manifestazione di un pensiero, incriminando condotte prive di offensività sul piano materiale e che si collocano in una fase eccessivamente anteriore rispetto all’effettiva lesione del bene giuridico tutelato e, addirittura, rispetto al tentativo punibile.

È, quindi, in questo arretramento della soglia di punibilità che si può ravvisare il primo punto d’incontro tra la legislazione penale antiterrorismo e la teoria del diritto penale del nemico. Infatti, l’anticipazione della tutela penale comporta in sé il rischio di incriminare determinati soggetti semplicemente per la loro pericolosità soggettiva e non per aver compiuto condotte effettivamente lesive di beni giuridici tutelati. Tralasciando la forte soggettivizzazione delle fattispecie analizzate, che si analizzerà approfonditamente nel prossimo paragrafo, anche la sola condizione di anticipazione della tutela di per sé potrebbe comportare uno spostamento dalla logica del diritto penale del fatto a logiche maggiormente sbilanciate verso un diritto penale d’autore. Un ruolo fondamentale, allora, spetta ai giudici, i quali sono chiamati ad interpretare le fattispecie in materia terroristica conformemente alla Costituzione ed ai principi generali in materia penale da essa stabiliti.

4.2 Soggettivizzazione delle fattispecie

Un altro degli elementi caratterizzanti della teoria del diritto penale del nemico è la logica d’autore, contraria al modello oggettivistico a cui si ispira il diritto penale dello Stato di diritto. Ebbene, la tendenza a virare da un diritto penale del fatto ad un diritto penale d’autore ha avuto i suoi effetti anche sulla legislazione italiana di contrasto al terrorismo internazionale. Oltre alla già analizzata anticipazione della tutela penale, l’elemento psicologico del reato ha assunto un peso sempre maggiore nei reati in materia di terrorismo, che infatti sono tutti caratterizzati dalla presenza della finalità di terrorismo, definita nell’articolo 270-sexies del codice penale.

La formulazione adottata con l’art. 270-sexies c.p., nonostante sia formalmente incentrata sulle condotte (l’articolo è rubricato “condotte con finalità di terrorismo”), definisce in effetti una finalità, delineando un sistema caratterizzato da una doppia tipizzazione, con l’art. 270-sexies c.p. che fornisce una definizione generale della finalità di terrorismo, mentre le singole fattispecie hanno il compito di descrivere il fatto tipico[27]. L’intento del legislatore è stato quello di attribuire particolare rilevanza all’elemento psicologico del reato, attuando «un ricorso sistematico alla “soggettivizzazione” massima delle fattispecie normative»[28]. A tal riguardo, non essendo richiesto nella maggior parte dei casi dalla disposizione un requisito esplicito di idoneità oggettiva della condotta né di chiarezza della direzione e non specificando l’art. 270-sexies c.p. la necessaria natura oggettivamente violenta delle condotte con finalità di terrorismo[29], risulta evidente l’importanza che viene attribuita all’elemento psicologico e, quindi, all’atteggiamento meramente interiore dell’imputato. La conseguenza è che vengono a crearsi delle problematiche non trascurabili riguardo a quelle disposizioni che descrivono condotte materiali costituite dall’esercizio di un diritto, come ad esempio quello di associazione, o comunque da condotte pienamente lecite. Il rischio di una simile condizione è che, in applicazione di questo sistema, vengano punite semplici manifestazioni di volontà di commettere reato o, addirittura, delle forme di simpatia o solidarietà verso determinati progetti eversivi pensati ed attuati da soggetti terzi, con cui si condivide solo l’opposizione ai prevalenti valori dell’Occidente. Una simile conclusione si porrebbe in evidente antitesi con un diritto penale conforme ai principi generali dettati dalla Costituzione, il quale necessariamente richiede che vi sia una precisa distinzione tra l’intenzione di commettere un reato e l’effettiva commissione dello stesso[30]. I problemi in questione derivano proprio dal fatto che la finalità terroristica viene ricompresa nella categoria del c.d. dolo specifico, categoria che appartiene, tradizionalmente, al solo elemento psicologico del reato.

Proprio la soggettivizzazione in questione, che, come si vedrà, è stata sminuita ed in qualche modo negata dalla dottrina maggioritaria, rappresenta un altro probabile punto d’incontro tra la legislazione penale italiana di contrasto al terrorismo e la teoria del diritto penale del nemico. Infatti, la teoria jakobsiana è caratterizzata da logiche tipiche del diritto penale d’autore, con una marcata enfatizzazione dell’elemento soggettivo del reato dovuta alla necessità di individuare il nemico a cui poter applicare il trattamento differenziato privo di garanzie. Ebbene, se risulta ovvio che l’articolo 270-sexies c.p., applicato in combinato disposto con le varie disposizioni che lo circondano, non comporta una conseguenza così drastica, non sembrerebbe tuttavia così irragionevole evidenziare la possibilità che la formulazione della disposizione in qualità di dolo specifico possa comportare un’incriminazione di condotte prive di materialità e di offensività. Infatti, le condotte descritte nelle varie fattispecie, come l’associazione ma anche l’organizzazione di trasferimenti o l’auto-addestramento, sono condotte di per sé lecite e prive di efficacia offensiva sul piano materiale ed il rischio potrebbe essere quello di incriminare determinati soggetti solo perché facenti parte di una determinata categoria, avendo essi prestato un qualsiasi genere di supporto psicologico alla “causa terroristica”. Una simile condizione si porrebbe in contrasto con il principio di materialità, perché l’incriminazione avverrebbe prevalentemente per via dell’appartenenza del soggetto alla categoria dei terroristi, e con il principio di offensività, perché si andrebbero ad incriminare condotte prive di qualsiasi efficacia offensiva nei confronti di beni giuridici. Tale condizione, peraltro, ha avuto effetti anche sulla giurisprudenza, portando i giudici di merito ad estendere – a volte in maniera eccessiva – l’ambito applicativo dell’art. 270-sexies c.p. e ad applicarlo a condotte che poco avevano a che fare con il fenomeno terroristico[31].

Tuttavia, c’è da dire che i rischi di tale soggettivizzazione sono stati attentamente contrastati dalla dottrina maggioritaria, la quale ha svolto un lavoro di degradazione del ruolo del dolo specifico, valorizzando le espressioni che tipicamente sono considerate come indicative della necessaria configurazione di tale dolo (“allo scopo di”, “al fine di”, “per” e via dicendo) in chiave oggettivistica. In questo senso, il dolo specifico perderebbe la sua natura prettamente soggettivistica di volontà seguita dal soggetto agente[32], per configurarsi come un «elemento di tipizzazione del “fatto” oggettivo costitutivo del reato, non riducibile a mera qualificazione del dolo o, comunque, del solo elemento “soggettivo” del reato»[33]. In una simile visione, sarebbero superati i dubbi evidenziati rispetto ad una possibile violazione dei principi di materialità e di offensività. Infatti, considerando le varie disposizioni che rimandano al c.d. dolo specifico indicato dall’art. 270-sexies c.p. applicabili solo quando il fatto compiuto dall’agente abbia delle modalità di attuazione e di esecuzione tali da poterlo ritenere idoneo e adeguato al raggiungimento dello scopo vietato dalle norme, si ricondurrebbe la problematica evidenziata entro i limiti dell’oggettivismo penale tipico dello Stato di diritto. Così, richiedere l’idoneità dell’azione allo scopo indicato dalla disposizione avrebbe la conseguenza di collegarne il disvalore non solo a fattori di tipo soggettivo, ma soprattutto di tipo oggettivo[34].

In una prospettiva di valorizzazione della portata oggettivistica del dolo specifico si è mossa anche la Cassazione, in opposizione alla tendenza sviluppatasi dall’entrata in vigore dell’art. 270-sexies c.p. volta ad estenderne – a volte in maniera eccessiva – l’ambito applicativo e ad applicarlo a condotte che poco avevano a che fare con il fenomeno terroristico[35]. La Cassazione, in una serie di sentenze, ha formulato un’interpretazione restrittiva, introducendo l’elemento dell’idoneità nel dolo specifico[36]. In questa prospettiva, nella sentenza n. 28009 del 2014, ha affermato come «il finalismo terroristico non sia un fenomeno esclusivamente psicologico, ma si debba materializzare in un’azione seriamente capace di realizzare i fini tipici descritti nella norma»[37]. La giurisprudenza di legittimità ha, quindi, riconosciuto una funzione selettiva della portata oggettivistica della definizione, sinteticamente indicata nel requisito del “grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale”, al fine di escludere dall’applicazione della fattispecie condotte di modesta offensività.

L’orientamento della Cassazione dimostra che alla giurisprudenza spetta un ruolo fondamentale nel garantire la tenuta dei principi cardine del diritto penale dello Stato di diritto. Tuttavia, la ricostruzione offerta dalla dottrina e l’interpretazione costituzionalmente orientata effettuata dalla Cassazione restano pur sempre delle interpretazioni, come tali suscettibili di mutare nel tempo. Viene da pensare, tra l’altro, che questo genere di interpretazioni hanno trovato spazio in un contesto in cui, fino ad oggi, non si sono mai verificati nel territorio nazionale attacchi terroristici su larga scala perpetrati da organizzazioni terroristiche di matrice internazionale. Ci si potrebbe chiedere, allora, nella malaugurata ipotesi in cui si dovesse verificare un evento di simile portata, se questo genere di orientamenti sarebbero in grado di resistere, nonostante la percezione nei confronti del fenomeno venga drasticamente influenzata dalla condizione di averlo subito direttamente.

4.3 Problemi di determinatezza delle fattispecie

Un altro punto di avvicinamento tra le disposizioni predisposte dal legislatore italiano per far fronte al fenomeno terroristico e le teorizzazioni di Jakobs è il problema dell’indeterminatezza della maggior parte delle disposizioni in materia terroristica, spesso caratterizzate da un notevole tasso di genericità e vaghezza.

Questo “difetto” delle disposizioni in questione, se, dal lato del Legislatore, può comportare una violazione dei principi costituzionalmente derivati di precisione e determinatezza per via dei punti oscuri nella descrizione degli elementi costitutivi che ne possono derivare, dal lato del giudice può creare una problematica relativa all’ambito applicativo delle disposizioni. Infatti, come si vedrà, l’effetto di formulazioni spesso generiche ed imprecise è quello di lasciare all’interprete la possibilità di ampliarne o restringerne la maglia applicativa.  A questo riguardo, si possono richiamare le disposizioni che più sono state criticate riguardo all’indeterminatezza e che hanno causato i maggiori contrasti interpretativi. In particolare, il riferimento primario è all’art. 270-sexies c.p., che fornisce la definizione del concetto di “finalità di terrorismo” e costituisce quindi la base del sistema antiterrorismo. Relativamente a questa disposizione è stato rilevato come essa sia affetta da «gigantismo» e «una certa vaghezza semantica», che determinano difficoltà nell’accertamento[38]. Innanzitutto, tale caratteristica si rinviene con riguardo alla locuzione «grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale». Su di essa sorgono problemi interpretativi sia per quanto riguarda la definizione di Paese e di organizzazione internazionale[39]; sia, soprattutto, con riguardo alla richiesta di gravità, da cui dovrebbe ricavarsi la necessità che il danno colpisca un interesse collettivo. L’aspetto della gravità risulta essere problematico per chi si accinge ad interpretare la disposizione, in quanto non è agevole identificarne la consistenza. Il rischio è quello di ricomprendere nel fenomeno terroristico condotte la cui assimilabilità allo stesso è come minimo discutibile. Altro punto critico della disposizione, per quanto riguarda la determinatezza intesa come verificabilità empirica, è quello relativo alle tre forme di finalità cui deve tendere l’attività terroristica (intimidire, costringere, destabilizzare o distruggere). Infatti, dal punto di vista criminologico, tali condotte non appaiono come delle vere e proprie finalità per le organizzazioni terroristiche. La condotta di intimidire la popolazione appare, piuttosto, come un metodo o un effetto riflesso di altri scopi come quelli religiosi. Costringere Paesi od organizzazioni internazionali a compiere o ad astenersi dal compiere determinati atti non sembrerebbe essere lo scopo di nessuno degli attentati perpetrati finora dalle organizzazioni terroristiche internazionali a danno delle società occidentali. Infine, quello di destabilizzare o distruggere le strutture fondamentali più che uno scopo è da considerarsi come un effetto, in quanto gli attentati «appaiono prevalentemente motivati dall’odio per l’imperialismo occidentale e dunque, eventualmente, fini a sé stessi»[40]. Infine, l’ultimo punto di critica è quello relativo alla clausola di chiusura contenuta nella seconda parte della disposizione, che rimanda alle convenzioni e alle norme internazionali che definiscono il terrorismo. In proposito si è osservato che tale rinvio potrebbe comportare la ricezione nell’ordinamento italiano, peraltro senza necessità di atti di esecuzione, di definizioni che potrebbero contrastare tra di loro o con la definizione fornita dalla prima parte della disposizione[41]. In definitiva, l’art. 270-sexies c.p., che era stato introdotto con il fine di fornire una definizione chiara di terrorismo per porre fine al dibattito che si era formato proprio su tale aspetto e che si basava prevalentemente sulle informazioni fornite dall’art. 270-bis c.p.[42], ha in realtà avuto l’effetto di ampliare l’ambito applicativo della tutela penale e gli spazi interpretativi lasciati al giudice a causa della tecnica d’incriminazione scelta dal legislatore e caratterizzata da un’evidente indeterminatezza ed imprecisione[43]. Questa condizione ha fatto sì che si creassero nuovi dibattiti dottrinali e una pluralità di orientamenti giurisprudenziali[44], che hanno portato poi la Corte di cassazione, come visto, a valorizzare la portata oggettivistica della fattispecie richiedendo il requisito dell’idoneità.

Un’altra questione di precisione e determinatezza è quella relativa all’art. 270-bis c.p., specialmente con riguardo alla partecipazione all’associazione con finalità terroristiche disciplinata dal secondo comma dallo stesso articolo. Sul punto, per quanto qui d’interesse, ci si può limitare a segnalare come la formulazione della fattispecie in questione – che non definisce in termini precisi la condotta di partecipazione – abbia dato vita ad un lungo dibattito volto proprio a definire in maniera univoca questo genere di c­ondotta. In particolare, nella giurisprudenza della Cassazione si è affermata la tendenza a ricomprendere nell’ambito applicativo della fattispecie anche «condotte meramente prodromiche – come la propaganda, il proselitismo o l’arruolamento – purché affiancate dall’adesione psicologica al programma criminoso dell’associazione»[45]. Questa tendenza, giustificata dalla necessità di adattare la fattispecie all’evolversi del fenomeno terroristico caratterizzato dalla disarticolazione delle odierne organizzazioni terroristiche (struttura “a rete”) e dalla loro dislocazione in territori tra loro lontani[46], comporta un duplice rischio. Se da un lato l’espansione eccessiva della fattispecie può determinare difficoltà nell’effettività del controllo giurisdizionale sulla materialità della condotta e sull’incidenza causale che l’apporto del singolo partecipe dell’associazione ha rispetto alla realizzazione delle finalità perseguite dalla stessa[47]; dall’altro tale espansione può determinare che la fattispecie in questione si sovrapponga alle altre condotte disciplinate dagli articoli successivi, comportando un’evidente incertezza di confini tra di esse[48].

Ulteriori questioni problematiche riguardanti i principi di precisione e determinatezza si sviluppano con riguardo agli articoli 270-quater, 270-quater.1 e 270-quinquies c.p. Con riferimento all’art. 270-quater c.p., che disciplina il reato di arruolamento sia dal lato dell’arruolatore che dal lato dell’arruolato, occorre considerare che la disposizione in questione si presta a rilevanti critiche per la mancanza di una descrizione determinata della fattispecie[49]. La condotta tipica indicata nella disposizione è infatti descritta in maniera evidentemente tautologica, con la conseguenza che dottrina e giurisprudenza si sono ritrovate a dibattere sul significato da dare al termine arruolare così semplicisticamente offerto dal Legislatore. Inoltre la disposizione in questione presenta evidenti carenze per quanto riguarda il coordinamento tra le fattispecie[50], carenze che peraltro sono rinvenibili anche con riguardo all’art. 270-quater.1 c.p. Infine, l’articolo 270-quinquies c.p. è stato criticato prevalentemente con riguardo alla fattispecie di auto-addestramento, aggiunta nel 2015, ed ai suoi spazi applicativi che risultano essere particolarmente ristretti, peraltro non senza perplessità in merito all’effettiva necessità di prevedere una fattispecie di questo tipo, dal momento che non vi erano particolari vuoti di tutela da colmare.

Quello che emerge con evidenza dall’analisi svolta, è che il Legislatore, nella fretta di rispondere agli obblighi internazionali e all’emergenza terroristica imperversante, abbia effettuato, tramite l’uso della decretazione d’urgenza che è uno strumento tipicamente poco ragionato, degli interventi sul sistema antiterrorismo caratterizzati da una strategia di redazione normativa che presenta evidenti carenze, manifesta poca considerazione per le questioni giuridiche correlate alla legislazione penale e, soprattutto, si caratterizza per una evidente assenza di coordinamento con le norme esistenti[51]. In questo contesto, è evidente l’attrito della formulazione delle fattispecie in questione con il principio di determinatezza e con quello di precisione, corollari del principio di legalità di cui all’art. 25 Cost. La genericità e l’imprecisione dei testi normativi alimentano il rischio, insito nella crisi della legalità penale, che si diffondano logiche tipiche del diritto penale del nemico. Infatti, è proprio nell’ambito dell’indebolimento della riserva di legge assoluta, in favore degli interventi normativi dell’esecutivo e della crescita del ruolo della giurisprudenza, che questo genere di idee trovano un terreno maggiormente adatto alla diffusione.  È proprio in questo contesto che si potrebbe rilevare la presenza di un doppio binario in materia di terrorismo in grado di porre in condizione di stress alcuni principi fondamentali del diritto penale dello Stato di diritto. Il Legislatore normalmente formula, o quantomeno dovrebbe formulare, disposizioni che siano precise e puntuali, di modo da limitare il più possibile la discrezionalità dell’interprete chiamato ad applicarle. Nel caso della tutela penale contro il terrorismo si registrano disposizioni formulate in maniera così indeterminata ed imprecisa, da rendere l’interprete libero di ampliare o restringerne le maglie applicative, con il conseguente rischio che venga violato anche l’ulteriore principio di ragionevole prevedibilità derivante dalla giurisprudenza della Corte EDU[52]. È evidente, allora, la diversità di trattamento riservata ai sospetti terroristi, i quali sono affidati ad un quadro normativo confuso e spesso impreciso, ma, soprattutto, alla discrezionalità dell’interprete ed ai vari mutamenti giurisprudenziali che caratterizzano la materia.

4.4 Eccessività del trattamento sanzionatorio

Come si è avuto modo di osservare, la teoria del diritto penale del nemico ha come scopo ultimo, una volta individuati i nemici, la loro neutralizzazione. La pena non è indirizzata alla rieducazione del condannato, né al suo reinserimento sociale, ma solamente a far sì che il soggetto, ritenuto pericoloso per la società, venga da questa escluso. È, allora, del tutto naturale che i principi costituzionali che riguardano la pena vengano a scontrarsi con tale teoria. E proprio riguardo al trattamento sanzionatorio viene in considerazione l’ultimo punto d’incontro che si può ravvisare tra la teoria del diritto penale del nemico e la legislazione penale italiana di contrasto al terrorismo. Infatti, sono stati avanzati dei dubbi di compatibilità con la Costituzione delle pene previste per i reati di terrorismo, ritenute da alcuni in contrasto con il principio di proporzionalità e, di conseguenza, con il principio di rieducazione della pena.

Analizzando da vicino le figure criminose facenti parti del “pacchetto antiterrorismo”, emerge che le fattispecie che incriminano condotte preparatorie rispetto alla fattispecie associativa di cui all’art. 270-bis c.p. o, addirittura, rispetto ad ulteriori atti preparatori, sono punite sostanzialmente allo stesso modo delle condotte di partecipazione all’associazione stessa. Tuttavia, tali condotte, dovrebbero rappresentare invece un grado precedente nella progressione di tutela e che per questo dovrebbero essere punite con pene inferiori, in quanto inferiore è il pericolo in cui viene posto il bene tutelato. Ad esempio, l’art. 270-quater c.p. punisce l’arruolatore con la reclusione da sette a quindici anni, ossia con la stessa pena prevista per i vertici dell’associazione terroristica, mentre l’arruolato è punito con la reclusione da cinque ad otto anni, pena identica nel minimo a quella prevista per il partecipe all’associazione. Inoltre, l’art. 270-quater.1 c.p., punisce l’organizzatore di viaggi, chi li propaganda o li finanzia, con una pena che va dai cinque agli otto anni di reclusione, pena identica nel minimo a quella prevista per il partecipe all’associazione. Anche se l’organizzazione del viaggio si dovrebbe porre, quantomeno in linea teorica, in un grado successivo rispetto all’arruolamento, comportando un pericolo maggiore per il bene giuridico tutelato, l’arruolamento è punito con la reclusione da sette a quindici anni, mentre l’organizzazione del trasferimento con la reclusione che va dai cinque agli otto anni[53]. L’art. 270-quinquies c.p., poi, prevede, per l’addestratore, l’istruttore, l’addestrato, l’istruito e l’auto-istruito, la pena della reclusione da cinque a dieci anni, esattamente la stessa prevista per il partecipe all’associazione terroristica. Qui si pongono anche dei problemi relativi al trattamento sanzionatorio “interno”, in quanto il legislatore ha previsto un’equiparazione sanzionatoria tra le varie condotte, anche se le stesse sono evidentemente dotate di una differenza di offensività[54]. Infine, il finanziatore, incriminato dall’art. 270-quinquies.1 c.p., è punito con la reclusione da sette a quindici anni, con una pena uguale a quella prevista per i vertici dell’associazione terroristica dall’art. 270-bis c.p.

È facile notare, in definitiva, come il Legislatore, nonostante abbia previsto un sistema apparentemente strutturato sulla progressione di tutela tra le varie fattispecie previste, non sia stato in grado di adeguare il trattamento sanzionatorio ai vari stadi progressivi individuati dalle disposizioni anticipatorie. La conseguenza è la possibilità di applicare anche a condotte che non hanno evidentemente la stessa portata offensiva – intesa in termini di messa in pericolo del bene tutelato – pene particolarmente afflittive, nella sostanza identiche a quelle applicabili nel caso di partecipazione all’associazione terroristica che, invero, dovrebbe rappresentare l’ultimo stadio nella progressione criminosa. Tale trattamento sanzionatorio evoca, evidentemente, la teoria del diritto penale del nemico, in quanto sembrerebbe che il Legislatore si sia mosso in un’ottica di neutralizzazione del terrorista, con il rischio di una violazione del principio di proporzionalità e del principio di rieducazione della pena.

Conclusione

Ciò che emerge dall’analisi svolta è che alcune delle disposizioni che il Legislatore italiano ha predisposto per affrontare il terrorismo prima interno e poi internazionale, sono caratterizzate da una certa vicinanza con quelli che sono i principi teorizzati da Günther Jakobs nella sua teoria del diritto penale del nemico. Gli elementi dell’eccessivo arretramento della soglia di rilevanza penale (accompagnato peraltro da un accrescimento dell’importanza dell’elemento soggettivo del reato), dell’indeterminatezza delle fattispecie e dell’inasprimento del trattamento sanzionatorio, che sono emersi dall’analisi sin qui svolta sulla normativa italiana antiterrorismo, ben si conciliano con le finalità di criminalizzazione del soggetto sulla base della mera appartenenza dello stesso ad un determinato gruppo di “nemici”, in questo caso i terroristi, e di neutralizzazione dello stesso[55]. Tuttavia, v’è da chiedersi se, con riferimento a queste disposizioni e misure, si possa effettivamente parlare di un diritto penale del nemico, se le stesse rientrino nella nozione del diritto penale di lotta o se sia necessario trovare un modo più adeguato a descriverle.

Ebbene, a parere di chi scrive, la nozione che meglio descrive la situazione attuale del sistema normativo di contrasto al terrorismo è quella elaborata da Marco Pelissero, ovvero “diritto penale al limite”[56]. Infatti, quelli individuati nei paragrafi precedenti sono dei semplici punti d’incontro tra le disposizioni predisposte dal legislatore e la teoria del diritto penale del nemico che, ovviamente, non bastano per affermarne l’ingresso all’interno dell’ordinamento italiano. Il presente lavoro si è mosso in una prospettiva di analisi critica della realtà giuridica finalizzata ad analizzare le disposizioni della legislazione antiterrorismo per verificare la presenza di elementi sintomatici della tendenza a legittimare compressioni delle libertà di determinati individui sulla base della loro appartenenza a determinate categorie ritenute un pericolo eccessivo ed insostenibile per la società, e non già in una prospettiva di critica alla legislazione stessa perché ritenuta espressione della teoria del diritto penale del nemico.

Come detto, è proprio grazie al funzionamento interno dell’ordinamento costituzionale che il Legislatore italiano non ha potuto ricorrere a modelli come quello bellico statunitense o quello dello stato d’eccezione francese, ma ha adottato un modello basato sulla criminalizzazione delle condotte, includendo il contrasto al terrorismo «entro il diritto penale»[57] e sforzandosi di configurare queste forme di tutela della sicurezza collettiva come rispettose di quelli che sono i principi essenziali dell’ordinamento stesso, nonché del ruolo esercitato dalla giurisdizione[58]. Ciò ha comportato una situazione in cui la sicurezza è entrata a far parte del gioco di bilanciamento fra principi costituzionali, limitata dal rispetto di determinati controlimiti, composti essenzialmente dal cosiddetto “nocciolo duro” dei diritti fondamentali. Tuttavia, il confine tra le esigenze di sicurezza e quelle di libertà non è un confine preciso e vi sono delle “zone grigie” in cui la prevalenza dell’una o dell’altra esigenza non appare per nulla scontata ed in cui si fanno più vive le frizioni tra le stesse.

La normativa di contrasto al terrorismo è una di queste zone grigie; una zona, cioè, in cui aumentano vertiginosamente i rischi di violazione dei diritti umani ed in cui, come si è cercato di evidenziare, sono presenti degli elementi sintomatici di una tendenza a superare i limiti imposti dall’attività di bilanciamento. Finora questi elementi sono stati ritenuti legittimi e mantenuti nell’ordinamento, in quanto evidentemente considerati necessari per fronteggiare il fenomeno terroristico. Tuttavia, è necessario ricordare, come sottolineato dalla Corte costituzionale nella già citata sentenza n. 15 del 1982, che l’emergenza, che sia terroristica o meno, può legittimare l’applicazione di «misure insolite, ma che queste perdono legittimità, se ingiustificatamente protratte nel tempo»[59].

Con la formula “diritto penale al limite”, si intende allora «porre l’accento sul rispetto delle garanzie»[60], nel senso che, muovendosi la legislazione antiterrorismo in questa zona grigia, si espande al suo interno il rischio che la stessa travalichi quel labile confine che vi è tra una legittima compressione dei principi costituzionali dovuta ad esigenze di sicurezza e una vera e propria violazione dei diritti umani. È per questo che la legislazione in questione deve essere tenuta costantemente sotto attenta osservazione[61] e questo arduo compito spetta agli interpreti e, in particolar modo, ai giudici che sono chiamati ad applicare le disposizioni che ne fanno parte: in un ambito come quello del terrorismo internazionale, che è necessariamente influenzato dalle pressanti richieste di sicurezza dell’opinione pubblica, il Legislatore nazionale e sovranazionale rischia di non essere sufficientemente in grado di bilanciare in maniera adeguata gli interessi in gioco.

Sulla giurisprudenza e sulla dottrina grava l’arduo compito di vigilare sul rispetto delle garanzie[62], cercando di non farsi catturare dalla sensibilità comune, influenzata emotivamente dall’efferatezza del fenomeno terroristico e da quell’umano desiderio di reazione nei confronti di chi si macchia di delitti di questo genere. D’altronde è proprio l’indipendenza della Magistratura, cardine dell’ordinamento italiano, il presupposto per il quale, citando Piero Calamandrei, il potere giudiziario può e «si deve limitare ad applicare la legge qual è stata formulata dagli organi competenti, senza curarsi di verificare da un punto di vista politico se essa corrisponda o no agli scopi per i quali è stata emanata»[63]. Nell’ambito de quo, insomma, i giudici hanno il compito di applicare la legge conformemente alla Costituzione, senza essere vincolati ad un eventuale scopo di neutralizzazione o di esclusione voluto dal potere politico a sua volta interessato a dare risposte simboliche all’opinione pubblica. Come già sottolineato, la condizione di affidare questa incombenza agli interpreti porta il rischio di cambiamenti di rotta verso una deriva securitaria, ma si auspica che i magistrati italiani, supportati dalla dottrina, possano svolgere il compito di custodi del garantismo.


[1] Jakobs G., Bürgerstrafrecht und Feindstrafrecht, in HRRS, 3/2004; Jakobs G., Diritto penale del nemico: un ‘analisi sulle condizioni di giuridicità, relazione dattiloscritta del convegno ‘‘Delitto politico e diritto penale del nemico, in memoria di Mario Sbriccoli”, Trento 10-11 marzo 2006; Jakobs G., Terroristen als Personen im Recht?, in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtwissenschaft, 2005; Donini M., Papa M. (a cura di), Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, Giuffrè, Milano, 2007.

[2] Jakobs G., Diritto penale del nemico, in Donini M., Papa M. (a cura di), Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 21-22, in cui il filosofo e giurista tedesco afferma che «lo Stato può procedere secondo due diverse modalità contro i delinquenti: può configurarli alla stregua di persone che delinquono, che come tali hanno commesso un errore; ovvero come individui ai quali si deve impedire, mediante il ricorso alla coazione, di distruggere l’ordinamento giuridico».

[3] I primi tre tratti sono affermati dallo stesso Jakobs così come affermato da diez c. g. j., Enemy Combatants Versus Enemy Criminal Law: An Introduction to the European Debate Regarding Enemy Criminal Law and Its Relevance to the Anglo-American Discussion on the Legal Status of Unlawful Enemy Combatants, in New Criminal Law Review: An International and Interdisciplinary Journal, vol. 11, no. 4, 2008, p. 531.Mentre per quanto riguarda il quarto elemento caratterizzante la teoria si veda mantovani f., Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., fasc.2-3, 2007, pag. 470.

[4] In proposito si veda: Pulitanò D., Diritto Penale, 9° ed., Torino, Giappichelli, 2021, p. 29, il quale sottolinea come la teoria del diritto penale del nemico mette in discussione un principio cardine dello Stato di diritto, ovvero quello di «tenere ferma a qualsiasi prezzo la vigenza universale di un diritto fondato sulla dignità dell’uomo»; Bartoli R., Lotta al terrorismo internazionale. Tra diritto penale del nemico jus in bello del criminale e annientamento del nemico assoluto, Giappichelli, Torino, 2008, p. 25, in cui l’autore sottolinea come «assumendo come parametro la nostra Costituzione e gli obblighi posti dai trattati internazionali relativi ai diritti umani e vigenti nei momenti di “normalità”, il diritto penale del nemico deve essere considerato un “non diritto” proprio perché si pone completamente al di fuori dell’assetto delle garanzie tracciato da queste fonti».

[5] Ferrajoli L., Il diritto penale del nemico e la dissoluzione del diritto penale, in Questione Giustizia, 4/2006, p. 91, il quale sottolinea come identificare la lotta al terrorismo ad esempio come una guerra, non sia altro che «una distorsione del linguaggio che è sintomo minaccioso di un possibile totalitarismo internazionale giustificato da una sorta di stato d’assedio globale e permanente. Sembra infatti che, nel momento in cui i fenomeni che dobbiamo capire e fronteggiare si fanno più complessi, il nostro linguaggio e le nostre categorie, anziché farsi a loro volta più complesse e differenziate, si semplifichino e si confondano, fino alla loro estrema semplificazione nell’opposizione elementare del “Bene” contro il “Male”».

[6] Per un approfondimento in merito alla storia del terrorismo interno di matrice politica si veda: Ventura A., Per una storia del terrorismo italiano, Roma, Donzelli Editore, 2010, p. 6 ss.

[7] Legge 22 maggio 1975, n. 152,Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico.

[8] Satta V., La risposta dello stato al terrorismo: gli apparati e la legislazione, in Vene aperte del delitto Moro: terrorismo, PCI, trame e servizi segreti. Radici del presente, Mauro Pagliai Editore, Firenze, 2009, pp. 224-225.

[9] La storia del terrorismo internazionale è suddivisa in tre essenziali fasi da Bartoli R., I punti e le linee nel contrasto al terrorismo internazionale, in Criminalia, 2018, p. 2: il periodo del terrorismo internazionale strutturato, il periodo del terrorismo internazionale “destrutturato” e la fase del terrorismo internazionale individuale.

[10] Casini F., La comunità internazionale nell’era del terrorismo globale, in Politico: rivista italiana di scienze politiche, LXXII, 3, 2007, pp. 58-59.

[11] Vidino L., Marone F., Entenmann E., Jihadista della porta accanto: radicalizzazione e attacchi jihadisti in Occidente, Ledizioni, Milano, 2017, p. 71 ss. In particolare, si noti come la maggior parte degli attacchi perpetrati in questa fase di terrorismo “individuale” (circa il 66%) siano stati attuati da individui che avevano qualche forma di connessione con lo Stato Islamico, ma che hanno agito autonomamente.

[12] Sossai M., Anti-terrorismo, il nuovo decreto, 2015, in www.affariinternazionali.it

[13] Per un approfondimento in materia si veda: Bigo D., Les Modalités Des Dispositifs d’état d’urgence: Introduction, in Cultures et Conflits, no. 113, 2019, pp. 7–16. JSTOR, https://www.jstor.org/stable/27005462

[14] Viganò F., Terrorismo, guerra e sistema penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 679.

[15] Trogu M., La costituzionalizzazione dell’emergenza in Italia, in Democrazia e Sicurezza – Democracy and Security Review, anno VII, n. 1, 2017, p. 175 ss.

[16] Pino G., Principi e argomentazione giuridica, in Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica, 2009, pp. 131-158.

[17] Per comprendere meglio la questione, si veda: Pertici A., op. cit., pp. 40-41, il quale riporta un caso, giudicato dalla Corte costituzionale con sent. n. 15 del 1982, riguardante il tema del prolungamento della carcerazione preventiva.

[18] Barile P., Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Il Mulino, Bologna, 1984, p. 41

[19] Proprio in tema di terrorismo, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 15 del 1982, ha avuto modo di sottolineare l’importanza della temporaneità, configurandola come un vero e proprio requisito di legittimità costituzionale delle misure eccezionali. Infatti, come affermato dalla Corte stessa, «se si deve ammettere che un ordinamento, nel quale il terrorismo semina morte […] e, quindi […] versa in uno stato di emergenza, si deve, tuttavia, convenire che l’emergenza, nella sua accezione più propria, è una condizione certamente anomala e grave, ma anche essenzialmente temporanea. Ne consegue che essa legittima, sì, misure insolite, ma che queste perdono legittimità, se ingiustificatamente protratte nel tempo», Corte costituzionale, sentenza 1° febbraio 1982, n. 15.

[20] Spangher G., Considerazioni sul processo “criminale” italiano, Torino, Giappichelli, 2015.

[21] Donini M., Mafia e Terrorismo Come «parte Generale» Del Diritto Penale., in Meridiana, no. 97, 2020, pp. 203–28.

[22] Viganò F., Sul contrasto al terrorismo di matrice islamica tramite il sistema penale tra ‘diritto penale del nemico’ e legittimi bilanciamenti, in Studi Urbinati, A – Scienze Giuridiche, Politiche Ed Economiche58(4), 2014, p. 336.

[23] Per approfondire il processo di marginalizzazione del ruolo dei delitti di attentato si veda: Pelissero M., Contrasto al terrorismo internazionale e il diritto penale al limite, in Questione Giustizia, Speciale settembre 2016, p. 102.

[24] Bartoli R., Legislazione e prassi in tema di contrasto al terrorismo internazionale: un nuovo paradigma emergenziale, in Diritto Penale Contemporaneo, 3/2017.

[25] Pelissero M., Contrasto al terrorismo internazionale e il diritto penale al limite, cit., p. 104.

[26] Viganò F., Il contrasto al terrorismo di matrice islamo-fondamentalistica: il diritto penale sostanziale, in De Maglie C.; Seminara S. (a cura di) Terrorismo internazionale, Padova, 2007, p. 136 ss.

[27] Stanig E., Il nuovo diritto penale d’autore, in Pittaro P. (a cura di), Scuola Positiva e sistema penale: quale eredità?, Trieste, EUT Edizioni Università di Trieste, 2012, p. 58.

[28] Picotti L., Terrorismo e sistema penale: realtà, prospettive, limiti – Relazione di sintesi, in Dir. Pen. Cont., 1, 2017, p. 255.

[29] Martini A., La nuova definizione di terrorismo: il D.L. 27 luglio 2005, come convertito con modificazioni in legge 31 luglio 2005, n. 155, in Studium Iuris, 2006, p. 1217; picotti l., Terrorismo e sistema penale: realtà, prospettive, limiti – Relazione di sintesi, cit., p. 255, in cui si evidenzia come, a differenza dei reati di cui agli artt. 270-bis ss. c.p., i requisiti di idoneità oggettiva e di univocità di direzione sono stati «estesi in via interpretativa alle molteplici fattispecie di attentato presenti nel nostro codice, e per alcuni di essi poi inseriti espressamente dalla novella portata dalla legge 24 febbraio 2006, n. 85, con l’aggiunta che deve altresì trattarsi di “atti violenti”».

[30] In proposito si veda la sentenza della Cassazione, 21 novembre 2001, Pelissero, in Foro Italiano, II, 2004, c. 29, in cui i giudici di legittimità hanno sottolineato come «ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 270-bis c.p. non è sufficiente l’intenzione eversiva manifestata dai componenti del sodalizio criminoso, essendo altresì indispensabile che il comportamento associativo sia idoneo a cagionare un pericolo per l’ordinamento democratico».

[31] Valsecchi A., I requisiti oggettivi della condotta terroristica ai sensi dell’art. 270 sexies c.p. (prendendo spunto da un’azione dimostrativa dell’Animal Liberation front), in Diritto Penale Contemporaneo, 21 febbraio 2013, p. 4.

[32] Picotti L., Terrorismo e sistema penale: realtà, prospettive, limiti – Relazione di sintesi, cit., p. 255.

[33] Picotti L., Terrorismo e sistema penale: realtà, prospettive, limiti – Relazione di sintesi, cit., p. 255.

[34] A questo riguardo si veda: Donini M., Lotta al terrorismo e ruolo della giurisdizione. Dal codice delle indagini preliminari a quello postbattimentale, in Questione Giustizia numero speciale settembre 2016 – Terrorismo internazionale, politica della sicurezza, diritti fondamentali, 2016, p. 134 ss.

[35] Valsecchi A., I requisiti oggettivi della condotta terroristica ai sensi dell’art. 270 sexies c.p. (prendendo spunto da un’azione dimostrativa dell’Animal Liberation front), in Diritto Penale Contemporaneo, 21 febbraio 2013, p. 4.

[36] Donini M., Lotta al terrorismo e ruolo della giurisdizione. Dal codice delle indagini preliminari a quello postbattimentale, cit., p. 133.

[37] Cass., sez. VI, 15 maggio 2014 (dep. 27 giugno 2014), n. 28009, disponibile in Zirulia S., No Tav: la Cassazione fissa i parametri interpretativi in merito alle condotte di attentato ed alla finalità di terrorismo, in Dir. Pen. Cont., 30 giugno 2014.

[38] Masarone V., Politica criminale e diritto penale nel contrasto al terrorismo internazionale. Tra normativa interna, europea ed internazionale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2013, p. 220.

[39] La questione è stata risolta considerando come vittime effettive o potenziali sia lo Stato-istituzione, comprensivo quindi di territorio, sovranità e popolo, sia lo Stato-apparato, con i suoi organi e funzioni, sia lo Stato-comunità, inteso come collettività, sia infine, il patrimonio dello Stato. Per quanto riguarda le organizzazioni internazionali, invece, si sono intese come potenziali condotte lesive tutte quelle attività che ne impediscano o ostacolino l’attività normativa, esecutiva, giurisdizionale o di controllo. In proposito si veda: leccese m., Il codice penale si allinea a Bruxelles, in Dir. giust., 2005, p. 91.

[40] Masarone V., Politica criminale e diritto penale nel contrasto al terrorismo internazionale. Tra normativa interna, europea ed internazionale, cit., p. 222.

[41] Mantovani M., Le condotte con finalità di terrorismo, in kostoris r. e., orlandi r. (a cura di), Contrasto al terrorismo interno e internazionale, Giappichelli, 2006, p. 101 ss.

[42] Per un’analisi approfondita degli orientamenti che si erano diffusi sulla definizione di terrorismo prima dell’introduzione dell’art. 270-sexies c.p., si veda: Antolisei F., Manuale di diritto penale. Parte speciale, II, XVII edizione, Giuffrè, 2022, pp. 854-859.

[43] Flora G., Profili penali del terrorismo internazionale: tra delirio di onnipotenza e sindrome di autocastrazione, in Studi Urbinati, A – Scienze Giuridiche, Politiche Ed Economiche58(4), 2014, p. 306 ss.

[44] masarone v., Politica criminale e diritto penale nel contrasto al terrorismo internazionale. Tra normativa interna, europea ed internazionale, cit., pp. 223-224.

[45] Miccichè M., La partecipazione all’associazione terroristica di cui all’art. 270-bis c.p.: tra concorso esterno e reati di supporto, in Giurisprudenza penale web, 4, 2019, p. 4.

[46] D’agostino L., I margini applicativi della condotta di partecipazione all’associazione terroristica: adesione psicologica e contributo causale all’esecuzione del programma criminoso, in Diritto Penale Contemporaneo, in Diritto Penale Contemporaneo, 1/2017, pp. 85-86.

[47] In proposito si veda: Valsecchi A., Per la prova della partecipazione all’Isis sono necessari e sufficienti contatti anche indiretti fra adepto e membri dell’organizzazione (accompagnati dall’adesione ideologica al programma terroristico), in Sistema penale, 15 marzo 2021.

[48] Miccichè M., La partecipazione all’associazione terroristica di cui all’art. 270-bis c.p.: tra concorso esterno e reati di supporto, cit., p. 4.

[49] È opportuno rilevare, in proposito, come simili critiche erano state già sottolineate dalla dottrina quando la disposizione è stata introdotta nel 2005 e che la riforma del 2015 non ha fatto nulla per specificarne la formulazione e risolvere i dubbi in merito. A riguardo si veda: Marino G., Il sistema antiterrorismo alla luce della l. 43/2015: un esempio di “diritto penale del nemico”?, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, n. 3/2016, p. 1388 ss.

[50] Marino G., Il sistema antiterrorismo alla luce della l. 43/2015: un esempio di “diritto penale del nemico”?, cit., p. 1388 ss., il quale sottolinea come «A parere di chi scrive, la norma possiede importanti spunti applicativi ma, per come è impostato il rapporto tra le disposizioni in esame, il suo spazio nel sistema antiterrorismo è assolutamente ristretto».

[51] Ibidem.

[52] In proposito, per eventuali approfondimenti, si veda: Zagrebelsky V., La Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed il principio di legalità nella materia penale in Manes V. e Zagrebelsky V. (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, Giuffrè, Milano, 2011, 69 ss.

[53] Marino G., Il sistema antiterrorismo alla luce della l. 43/2015: un esempio di “diritto penale del nemico”?, cit., p. 10.

[54] A riguardo si veda Bartoli R., Legislazione e prassi in tema di contrasto al terrorismo internazionale: un nuovo paradigma emergenziale, cit., p. 252.

[55] In questo senso: Marino G., Il sistema antiterrorismo alla luce della l. 43/2015: un esempio di “diritto penale del nemico”?, cit., p. 1388 ss., il quale evidenzia come il sistema antiterrorismo italiano sia caratterizzato da un «eccessivo arretramento della soglia dell’intervento penale» e da una «pena finalizzata alla neutralizzazione del reo» le quali sono, essenzialmente «due dei tre punti cardine della dottrina del diritto penale del nemico», mentre il terzo cardine, ovvero il profilo relativo alla degiurisdizionalizzazione del processo penale «sembra non essere, allo stato, pienamente integrato». Mentre in senso contrario si veda: Romanelli M., Riflessioni sul complessivo sistema di contrasto al terrorismo internazionale in Italia, cit., p. 7, il quale sottolinea che, con riferimento prevalentemente all’esperienza pratica, in Italia vi è «tutto il contrario, quindi, sempre in via generale, del diritto penale simbolico, di una impostazione diretta a “neutralizzare nemici” con qualsiasi mezzo. Tutto il contrario di una deriva verso lo “stato di polizia” et similia».

[56] Pelissero M., Contrasto al terrorismo internazionale e il diritto penale al limite, cit.; Pelissero M., La legislazione antiterrorismo. Il prototipo del diritto penale del nemico tra garanzie e rischi di espansione, cit.

[57] Viganò F., Terrorismo, guerra e sistema penale, cit., pp. 679 ss.

[58] Pelissero M., La legislazione antiterrorismo. Il prototipo del diritto penale del nemico tra garanzie e rischi di espansione, cit., p. 745 ss.

[59] Corte costituzionale, sentenza 1° febbraio 1982, n. 15.

[60] Pelissero M., La legislazione antiterrorismo. Il prototipo del diritto penale del nemico tra garanzie e rischi di espansione, cit., p. 745 ss.

[61] Pelissero M., La legislazione antiterrorismo. Il prototipo del diritto penale del nemico tra garanzie e rischi di espansione, cit., p. 745 ss., il quale evidenzia che questa necessità di tenere sotto osservazione il sistema antiterrorismo, deriva dal fatto che «è in questo contesto che si sviluppa un diritto penale che accentua irragionevolmente profili di differenziazione».

[62] Pelissero M., La legislazione antiterrorismo. Il prototipo del diritto penale del nemico tra garanzie e rischi di espansione, cit., p. 745 ss., che sottolinea la necessità che la giurisprudenza e la dottrina svolgano il ruolo di: «segnalare quando le leggi penali non fungono da strumenti efficaci per la vera tutela della sicurezza pubblica, ma servono solamente a scopi politici in merito a quest’ultima; discernere ciò che, pur essendo legittimo, risulta irragionevole e, dunque, entra in conflitto irreparabile con i principi costituzionali; valutare con attenzione l’adeguatezza della politica criminale nelle eccezioni alle regole generali, poiché la limitazione delle garanzie, tollerabile nel caso di un nemico noto, non trova giustificazione nella creazione di nuovi nemici».

[63] Calamandrei P., Opere giuridiche. Magistratura, avvocatura, studio e insegnamento del diritto, Volume II, Roma, RomaTre-press, 2019, p. 200.

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