Sommario: 1. La diffamazione online e a mezzo social network – 2. La responsabilità penale dei providers – 3. La responsabilità penale del blogger e del moderatore di forum – 4. Una possibile soluzione: la diffamazione come reato permanente
Abstract: Il presente contributo si prefigge l’obiettivo di analizzare le problematiche legate al concorso di persone nel delitto di diffamazione a mezzo internet. In primo luogo, l’Autore si prodiga ad analizzare la responsabilità penale dei fornitori di servizi internet e dei social network per i contenuti diffamatori pubblicati dagli utenti. Successivamente, procede con l’analisi della responsabilità penale per il delitto di diffamazione del blogger e del moderatore di forum. Infine, viene presentata una possibile soluzione per affrontare le problematiche correlate alla configurazione del concorso di persone in materia de qua, ipotizzando la qualificazione del delitto di diffamazione quale reato permanente.
Abstract: This contribution aims to analyze the issues related to the complicity of individuals in the crime of defamation through the internet. Firstly, the author examines the problem concerning the criminal liability of internet service providers and social networks for defamatory content published by users. Subsequently, the article conduces an analysis on the criminal responsibility for the offense of defamation concerning bloggers and forum moderators. Finally, a possible solution is presented to address the issues associated with the configuration of complicity in this matter, considering the qualification of defamation as a permanent crime.
1. La diffamazione online e a mezzo social network
Nell’era digitale la diffamazione ha innegabilmente assunto una nuova dimensione con la conseguenza che, almeno in linea teorica, la relativa normativa avrebbe dovuto adeguarsi a tali più che rilevanti mutamenti.
Se, infatti, prima del diffondersi della rete e dei social media, essa trovava terreno fertile nei mezzi di comunicazione tradizionali come giornali, radio e televisione, oggi ha assunto una portata senza precedenti e può raggiungere un ancor più vasto pubblico in pochissimo tempo.
La diffamazione nell’era digitale può assumere le più disparate forme, potendosi estrinsecare in post sui social media, commenti online, blog, recensioni false e diffusione di informazioni errate tramite messaggi di testo o e-mail.
La natura immediata e pervasiva della comunicazione digitale consente a queste informazioni dannose di diffondersi rapidamente e raggiungere un vasto pubblico in tutto il mondo.
Inoltre, l’anonimato relativo su internet può incoraggiare alcune persone a diffondere propalazioni diffamatorie senza temere conseguenze legali.
Conseguentemente, le condotte diffamatorie nell’era digitale determinano delle problematiche inedite e hanno fatto sì che alcune piattaforme di social media abbiano dovuto adottare politiche ad hoc e si siano dovute dotare di procedure per fronteggiare le condotte diffamatorie dei propri utenti, approntando dei canali per la segnalazione dei contenuti diffamatori onde provvedere alla rimozione degli stessi.
Nonostante tali sforzi per contrastare le propalazioni diffamatorie permangono delle rilevanti problematiche in ragione della necessità dell’accorto bilanciamento che si rende necessario tra libera espressione e la protezione della reputazione onde garantire un ambiente online sicuro e rispettoso.
A ciò si aggiunge che in assenza di un corpus normativo disciplinante la materia del web, il diffuso utilizzo di internet ha sollevato problemi di primario rilievo afferenti, in particolar modo, all’estensibilità della disciplina prevista per la stampa e la radiotelevisione[1].
Più specificamente, l’estesa diffusione dell’utilizzo della rete, con la possibilità di accedervi da parte di chiunque vi sia interessato[2], ha costretto la giurisprudenza a verificare – ut amplius infra – quali fra le norme vigenti in materia di diffamazione possano trovare applicazione nel rispetto del principio di tassatività nell’applicazione della norma penale[3].
Bisogna, peraltro, prestare particolare cautela nell’analisi di ciascun mezzo di comunicazione che sfrutti la rete in quanto gli stessi sono assai eterogenei fra loro e, dunque, non possono essere assoggettati semplicisticamente ad una disciplina comune e generalizzata[4].
Basti pensare che laddove la propalazione diffamatoria sia commessa mediante diffusione in online, magari sotto forma di pubblicazione di un post su uno degli innumerevoli social network utilizzati quotidianamente dalla gran parte dei consociati questa avrà un’attitudine lesiva dell’onorabilità tendenzialmente maggiore rispetto all’inoltro di un messaggio su una chat di gruppo su uno degli svariati applicativi di messagistica istantanea che hanno sostituito gli oramai obsoleti S.M.S., condotta questa che, per converso, avrà una minore attitudine a ledere il bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice, in quanto trattasi di strumenti in grado di raggiungere un numero di consociati inferiore rispetto a quello dei social network.
Tali nuovi strumenti determinano, dunque, a ben vedere, nuove modalità di commissione della condotta del delitto di cui all’art. 595 c.p. che, lo si rammenta, è una fattispecie a forma libera sicché ogni contegno atto a ledere l’altrui onorabilità determina l’integrazione della fattispecie. Sul punto, ancorché non vi fossero particolari dubbi a riguardo, la Suprema Corte di Cassazione[5] ha precisato che «il reato di diffamazione, attraverso cui si lede il bene giuridico costituito dall’altrui reputazione, ben può compiersi anche attraverso la rete».
Come anticipato, nel silenzio del legislatore, dottrina e giurisprudenza sono state chiamate a risolvere in via ermeneutica diversi nodi problematici, primo fra tutti quello afferente all’applicabilità della disciplina della stampa anche alle comunicazioni online[6]che, per questioni di opportunità, non sarà oggetto di analisi nel presente contributo.
Il tema su cui, per converso, si intende soffermarsi attiene alla possibilità di contestare il concorso nel delitto di diffamazione a mezzo web nei confronti di soggetti i quali, pur non avendo in prima persona diffuso le propalazioni lesive dell’altrui onorabilità abbiano – in un certo qual senso – manifestato la propria approvazione rispetto alle stesse o, in maniera ancor più grave, avendone la possibilità abbiano omesso di rimuoverle dalla rete.
Quanto a tale ultima ipotesi va osservato come dovrebbe ritenersi possibile il concorso solo laddove il soggetto titolare del potere di rimozione del contenuto digitale avente carattere diffamatorio avesse effettivamente contezza della presenza e della portata di tale propalazione e, ciononostante, avesse scientemente deciso di non rimuoverlo[7].
Differente è la questione relativa al soggetto che abbia meramente manifestato il proprio “apprezzamento” rispetto alle condotte diffamatorie.
In particolare, occorre interrogarsi se la mera apposizione di un “like” possa integrare o meno una condotta concorsuale nel delitto diffamazione.
Va, infatti, evidenziato come tale condotta sia sovente non tanto sintomatica di una piena condivisione del contenuto quanto piuttosto figlia di una mera prassi di apposizione acritica e leggera del “sostegno” ai post altrui.
Sicché, quantomeno sotto il profilo dell’elemento soggettivo, parrebbe assai difficoltoso l’accertamento del dolo di concorso del soggetto che si sia limitato ad apporre un “mi piace” sul contenuto lesivo dell’altrui onorabilità.
Sotto il profilo dell’elemento oggettivo, invece, pare opportuno osservare come la rilevanza di tale condotta ai fini dell’integrazione del concorso parrebbe mal conciliarsi con la natura di reato istantaneo del delitto di diffamazione.
Infatti, secondo la lettura fino ad oggi resa dalla giurisprudenza e dalla maggior dottrina, la lesione del bene giuridico dovrebbe ritenersi determinatasi nel momento in cui il contenuto viene diffuso e, dunque, la condotta del soggetto che a posteriori si limiti ad apporre un like senza condividere il contenuto dovrebbe ritenersi un mero post factum non determinante una nuova ed ulteriore lesione del bene giuridico già compromesso.
Differentemente opinando, per ritenere rilevante tale condotta ai fini di concorso dovrebbe accedersi alla tesi per ci essendo il bene giuridico dell’onorabilità, all’evidenza, “comprimibile” la lesione della reputazione altrui potrebbe ritenersi protratta nel tempo, sotto forma di reato permanente.
Sicché la condotta del soggetto che pur potendo non rimuova un articolo diffamatorio o che apponga il proprio like sullo stesso, determinandone una maggiore diffusione, cagionando una protrazione della lesione dell’onorabilità è del tutto assimilabile ad una adesione alla condotta delittuosa dell’autore a titolo di concorso.
2. La responsabilità penale dei providers
Negli ultimi decenni, l’esplosione delle comunicazioni online ha portato a un aumento esponenziale della quantità di dati e informazioni scambiati attraverso la rete.
Tuttavia, questa crescita ha anche portato con sé una serie di sfide legali e sociali, tra cui la questione della responsabilità degli Internet Service Provider (ISP) per i contenuti trasmessi attraverso le loro reti.
Gli ISP svolgono un ruolo fondamentale nella facilitazione dell’accesso alla rete, ma la loro posizione privilegiata ha anche sollevato preoccupazioni sulla loro responsabilità per i contenuti che passano attraverso le loro infrastrutture.
Si ravvisano diversi approcci alla questione della responsabilità degli ISP, con alcune giurisdizioni che impongono maggiori doveri in capo agli ISP e altre che ne minimizzano la responsabilità.
Questa tematica continua a suscitare interesse e dibattito in tutto il mondo, poiché la regolamentazione degli ISP e la loro responsabilità per i contenuti trasmessi attraverso le loro reti sono importanti per garantire un ambiente online sicuro e legale.
In via preliminare, appare opportuno premettere che ad avviso della dottrina[8] e della giurisprudenza «quando una notizia risulti immessa sui cc.dd. media, vale a dire nei mezzi di comunicazione di massa (cartacei, radiofonici, televisivi, telematici ecc.), la diffusione della stessa, secondo un criterio che la nozione stessa di ‘pubblicazione’ impone, deve presumersi, fino a prova del contrario»[9].
Conseguentemente, non paiono permanere dubbi circa l’applicabilità della disposizione di cui all’art. 595, comma 3, c.p., in quanto fa genericamente riferimento a “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, alla rete, in quanto la stessa rappresenta per certo un sistema di divulgazione delle informazioni ad incertas personas.
Maggiori e ben più complesse sono le problematiche concernenti l’accertamento del ruolo e la eventuale responsabilità penale di coloro che gestiscono servizi interattivi tramite cui soggetti terzi possano immettere e rendere accessibili al pubblico informazioni, sotto forma di testi, disegni o immagini, aventi contenuto illecito.
Occorre, in particolare, interrogarsi circa la possibilità o meno di configurare una responsabilità commissiva mediante omissione degli ISP, a norma degli artt. 110 c.p. e 40 cpv. c.p.[10].
Infatti, per l’ascrizione di una responsabilità a titolo di concorso omissivo è preliminarmente necessario accertare la sussistenza di una eventuale posizione di garanzia, cui è subordinata l’operatività della clausola di equivalenza prevista dall’art. 40 cpv. c.p..
Sicché bisognerà verificare se l’ISP sia effettivamente dotato di un obbligo giuridico di impedire determinati fatti di reato o del potere/dovere di rimuovere specifici contenuti lesivi dell’altrui onorabilità.
È, infatti, certo che i providers possano rispondere degli illeciti posti in essere in prima persona – basti pensare al c.d. content provider, che fornisce personalmente dei contenuti mentre è ben più complesso verificare la possibilità che gli stessi possano rispondere del fatto illecito altrui, posto in essere avvalendosi delle infrastrutture di comunicazione del network provider, del server dell’access provider, del sito creato sul server dell’host provider, dei servizi dei service provider o delle pagine memorizzate temporaneamente dai cache-providers.
Prima di analizzare le responsabilità di tali soggetti, mette conto evidenziare come il quadro normativo di riferimento della disciplina in parola debba essere rinvenuto nel decreto legislativo n.70/2003, emanato in attuazione della Direttiva Europea sul commercio elettronico 2000/31/CE, afferente agli aspetti giuridici della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico.
All’art. 7 di tale atto normativo vengono definiti ISP quali «fornitori di servizi in internet» mentre all’art. 2 viene chiarito che per servizi della società dell’informazione si intendono le attività economiche svolte online nonché i servizi indicati dalla L. n. 317/1986, art. 1, comma 1, lett. b, cioè qualunque servizio di regola retribuito, a distanza, in via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi. Tra queste prestazioni rientrano, a titolo esemplificativo, la fornitura dell’accesso ad internet e a caselle di posta elettronica.
Ma quel che maggiormente rileva ai fini della presente trattazione è quanto sancito dall’art. 15 della citata direttiva 2000/31/CE e, conseguentemente, dall’art. 17 del D.Lgs. 70/2003, per cui «nella prestazione dei servizi di cui agli artt. 12, 13 e 14, gli Stati membri non impongono ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano nè un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. 2. Gli stati membri possono stabilire che i prestatori di servizi della società dell’informazione siano tenuti ad informare senza indugio la pubblica autorità competente di presunte attività o informazioni illecite dei destinatari dei loro servizi o comunicare alle autorità competenti, a loro richiesta, informazioni che consentano l’identificazione dei destinatari dei loro servizi con cui hanno accordi di memorizzazione dei dati».
Parrebbe esser stata, dunque, sancita al livello normativo l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza ex ante in capo ai providers.
Non appare, infatti, in alcun modo possibile desumere tale obbligo da fonti differenti.
In primo luogo, infatti, va rilevato come l’art. 57 c.p. sia un istituto pensato dal legislatore quale applicabile a soggetti del tutto differenti e unicamente in materia di stampa, sicché l’eventuale applicazione dello stesso agli ISP si risolverebbe in una evidente analogia in malam partem vietata, ai sensi dell’art. 14 disp. prel. c.c., nel nostro ordinamento[11].
In secondo luogo, simili obblighi non paiono neppure desumibili dalle norme in materia di protezione dei dati personali, che sono state emanate a copertura di comportamenti del tutto differenti rispetto alle condotte di diffamazione[12].
Né, infine, è prevista una responsabilità di carattere generale dei providers, ad opera del D.Lgs. 70/2003, quando svolgono servizi di mere conduit, ai sensi dell’art. 12 della direttiva, consistente nel trasporto dei dati, di caching, ai sensi dell’art. 13, consistente nella memorizzazione temporanea, e di hosting, ai sensi dell’art. 14, consistente nella memorizzazione duratura dei dati.
Come parzialmente anticipato, l’attività di mere conduit consiste nel semplice trasporto di dati e concerne tanto la trasmissione di informazioni fornite da un destinatario del servizio – si pensi ad una email inviata da un utente – quanto il fornire un accesso ad internet.
Trattasi, in altri termini, il ruolo svolto dall’access provider, il quale non sarà responsabile per il contenuto delle informazioni trasmesse telematicamente qualora sussistano tre condizioni negative.
In specie, questi, in primo luogo, non deve dare origine alla trasmissione; in secondo luogo non deve selezionare il destinatario della trasmissione; infine, non deve selezionare né modificare le informazioni trasmesse[13].
In tal caso, il provider limitandosi ad un ruolo meramente passivo di semplice trasmissione tecnica, non piò ritenersi responsabile del contenuto delle informazioni che transitano tramite il servizio offerto.
Tuttavia, la direttiva non esclude la possibilità che ciascun ordinamento possa, come ha fatto l’ordinamento italiano ai sensi dell’art. 14, comma 3, D.Lgs. 70/2003, prevedere che un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa pretendano che il fornitore impedisca o ponga fine alla violazione perpetrata tramite il servizio prestato.
Il servizio di caching consiste, invece, nella memorizzazione automatica, intermedia e temporanea dei dati, sotto forma di file cache, effettuata al solo scopo di rendere più efficace la sua successiva trasmissione ad altri destinatari del servizio.
In relazione a tale successivo inoltro il fornitore è responsabile esclusivamente ove interferisca con le informazioni memorizzate ovvero non proceda alla rimozione dei dati memorizzati non appena venga effettivamente a conoscenza della circostanza che queste sono state rimosse dal luogo di origine o che verranno presto da questo rimosse[14].
Appare, dunque, chiaro che la citata direttiva UE non impone a dette categorie di provider né un obbligo generale di sorveglianza ex ante né alcun obbligo di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite.
Differente e ben più complessa è invece la posizione dei c.d. hosting providers.
La medesima normativa impone, infatti, a detti providers di informare prontamente degli illeciti rilevati le autorità competenti e a condividere con le stesse ogni informazione che possa aiutare a identificare l’autore della violazione.
Nel caso in cui tali soggetti non provvedano a collaborare con le autorità si avrà la possibilità di riconoscere gli stessi civilmente responsabili dei danni provocati.
Questa ipotesi di responsabilità ex post dell’ISP trova il proprio referente normativo nell’art. 14, comma 1, lett. b) della citata direttiva e nell’art. 16 del D.Lgs. 73/2003, per cui i c.d. hosting provider sarebbero responsabili in quanto forniscono agli utenti uno spazio telematico da gestire.
Questi saranno, tuttavia, responsabili solo nel caso in cui siano effettivamente a conoscenza della presenza di un contenuto illecito sui propri server e ciononostante omettano di rimuoverlo.
Sotto il profilo strettamente penalistico ivi d’interesse, come anticipato in premessa, si potrebbe ipotizzare una responsabilità dell’ISP per concorso omissivo nel reato commissivo dell’utente.
Sul punto, tanto la giurisprudenza penale quanto quella civile ha individuato, in una pluralità di pronunce, nella previsione dell’art. 14 della Direttiva Europea e, dunque, dell’art. 16 del D.Lgs. 70/2003, la fonte di un obbligo d’impedimento a carico degli ISP, legittimante un’imputazione di responsabilità degli stessi a titolo concorsuale[15].
È stato, tuttavia, opportunamente osservato come la suddetta norma parrebbe imporre la necessità – ai fini di una responsabilità penale del provider – del dolo diretto con riferimento alla conoscenza del portato diffamatorio del contenuto presente in rete, con conseguente limitazione del ricorso alla categoria del dolo eventuale[16].
Lo sviluppo giurisprudenziale sul tema, però, non è stato accompagnato da modifiche del testo normativo di riferimento, dimostratosi ormai inadeguato alla materia che si prefigge di regolare, sicché la sola giurisprudenza e non anche la normativa si è evoluta parallelamente ai cambiamenti tecnologici verificatisi nel corso degli anni[17].
La frammentarietà delle fonti e degli interventi in materia, infatti, non rende affatto semplice un’analisi sistematica delle fattispecie che vedono coinvolte le diverse tipologie di provider e l’atipicità delle loro attività, che – come sopra si è detto – presentano dinamiche e problematiche differenti.
La più evidente distinzione può essere effettuata tra i motori di ricerca, quali Google, Bing etc…, e i gestori dei siti sorgente e di piattaforme online, quali Facebook, Instagram, Linkedin o YouTube, che ospitano o trasmettono i contenuti organizzati e messi a disposizione dal motore di ricerca.
Sicché in applicazione delle sopra riportate regole generali, i fornitori dei servizi internet potranno concorrere nel delitto di diffamazione solo laddove emerga la prova che gli stessi abbiano dolosamente inteso scientemente diffondere la propalazione altrui consci che la stessa fosse lesiva dell’altrui onorabilità.
Medesime conclusioni possono trarsi con riferimento ai titolari di siti internet i quali ben possono essere chiamati a rispondere per i link ivi riportati laddove emerga che gli stessi abbiano inteso fungere da cassa di risonanza per la notizia diffamatoria[18].
In altri termini, tutti detti provider, pur non avendo alcun obbligo di vigilanza, potranno tuttavia essere chiamati a rispondere penalmente dell’omessa rimozione laddove, in seguito ad una precipua segnalazione, non si siano attivati per la cancellazione del contenuto[19].
L’argomento in parola ha, peraltro, interessato altresì la Corte E.D.U., che ha avuto modo di chiarire che non sia possibile attribuire automaticamente una responsabilità ai gestori dei siti in quanto ciò parrebbe avere degli effetti negativi sulla libertà d’espressione, dovendosi dunque ritenere più opportuno limitare la tendenza generale alla responsabilizzazione degli intermediari[20].
Conclusivamente, allo stato, parrebbe che il provider possa essere chiamato a rispondere dei contributi di cui è direttamente autore o, a titolo di concorso, laddove abbia offerto un qualsivoglia contributo attivo[21] (che per taluno potrebbe essere integrato anche dalla consapevole omessa rimozione del contenuto diffamatorio), mentre maggiormente dubbia è la possibilità che lo stesso sia chiamato a rispondere della fattispecie omissiva impropria in quanto non parrebbe sussistere alcun dovere di sorveglianza o alcuna posizione di garanzia in capo all’ISP. Preme, peraltro, evidenziare come in dottrina sia stato osservato che alcun rilevo penalistico dovrebbe essere mosso neppure in caso di omessa collaborazione dell’ISP con le autorità e per non aver denunciato gli illeciti di cui ha avuto conoscenza in quanto, almeno allo stato, la violazione di tali obblighi costituirebbe una fonte di responsabilità meramente civilistiche[22].
3. La responsabilità penale del blogger e del moderatore di forum
Tema parzialmente differente rispetto a quello appena affrontato è quello afferente al gestore di un blog.
Tale termine deriva da weblog, ossia“traccia su rete” ed è stato ideato da Jorn Barger nel 1997.
La versione tronca blog parrebbe esser stata, invece, ideata da Peter Merholz il quale nel 1999 ha usato la frase “we blog” nel suo sito, dando origine al verbo “to blog”.
Sul punto si riscontra una vasta giurisprudenza di merito[23] e di legittimità, parzialmente ondivaga sull’ampiezza delle responsabilità del gestore di tali piattaforme.
Parte della giurisprudenza ha, in particolare, ritenuto che pur non utilizzandosi la medesima forma semantica per il gestore e proprietario del sito internet su cui altri possono inserire i propri commenti «colui che gestisce il blog altro non è che il direttore responsabile dello stesso»[24].
Nel caso di specie era stato accertato che alcuni messaggi fossero riconducibili alla digitazione del gestore/titolare del blog – e, dunque, nel caso in cui gli stessi avessero avuto una qualche attitudine diffamatoria non vi sarebbe stato alcun dubbio circa la responsabilità penale personale del blogger –in quanto dallo stesso sottoscritti attraverso uno pseudonimo con il quale era solito firmarsi. Differentemente per altri messaggi, parimenti lesivi della reputazione dei soggetti presi di mira, postati in modo anonimo, l’autore non risultava individuabile.
Il titolare e gestore del blog veniva, dunque, tratto a giudizio per rispondere del reato di diffamazione aggravata, per fatto proprio e per non aver impedito che terzi offendessero la reputazione altrui e, all’esito del dibattimento, veniva condannato ai sensi dell’art. 596-bis c.p., perché riconosciuto responsabile per aver omesso il dovuto controllo sui post da terzi veicolati tramite il servizio dallo stesso offerto e gestito[25].
In specie, il giudice fondava il giudizio di colpevolezza sulla asserita sussistenza in capo al gestore del blog di un potere di filtraggio dei contenuti inseriti da soggetti terzi, con conseguente possibilità per lo stesso di cancellare i messaggi dal contenuto illecito.
Partendo da tali premesse si riteneva possibile ritenere sussistente in capo al predetto gestore l’obbligo di adottare le medesime cautele che sono proprie dell’attività di controllo del direttore responsabile, del vice-direttore, dell’editore e dello stampatore del periodico secondo quanto previsto dagli artt. 57 e ss. c.p..
Sicché, in maniera – ut supra evidenziato – scarsamente rispettosa del principio di legalità, internet e i suoi innumerevoli servizi venivano ritenuti automaticamente assibilabili agli altri mezzi di comunicazione, espressamente indicati dalle norme relative ad altri settori delle comunicazioni[26].
Tale impostazione veniva, tuttavia – ad avviso di chi scrive, opportunamente – censurata dalla Corte di Appello di Torino che, in sede di gravame riformava la sentenza di primo grado, assolvendo il gestore del blog dalle accuse relative all’omesso impedimento delle condotte poste in essere da soggetti terzi non individuati, ferma restando la condanna a titolo di diffamazione aggravata per i soli post allo stesso direttamente riconducibili.
La sentenza di seconde cure muoveva dall’assunto per cui, pur essendo vero che il blogger fosse in grado di cancellare i commenti, si sarebbe, in ogni caso, verificata una sostanziale impossibilità tecnica di un vaglio preventivo del contenuto del materiale postato da terzi.
Veniva, infatti, opportunamente osservato come la quantità dei messaggi veicolati in rete da vagliare caso per caso non consente monitoraggi costanti che abbiano efficacia impeditiva dimostrata anche a causa della possibilità di essere costantemente modificati dall’autore., sicché il preteso dovere d’impedimento ritenuto sussistente dal giudice di prime cure sarebbe, per vero, in sostanza inesigibile[27].
Peraltro, in maniera correttamente rispettosa del principio di legalità, giudici distrettuali evidenziavano l’inapplicabilità ai fatti commessi online delle norme in cui il concetto di stampa atteso che l’attività svolta da coloro che offrono e gestiscono servizi di chat, mailing list, forums, news groups, blogs presenta differenze strutturali rispetto a quella svolta dal direttore di un giornale al punto da non consentire l’estensione ai primi del precetto di cui all’art. 57 c.p..
Conseguentemente, pur volendo ritenere l’applicazione analogica della predetta norma – che comunque non sarebbe ammessa in quanto in malam partem e in materia penale – non sussisterebbe neppure l’eadem ratio giustificativa di tale estensione dell’ambito applicativo dell’istituto invocato.
Per come già evidenziato supra nel paragrafo relativo alla diffamazione a mezzo stampa, la disposizione codicistica appena cita ascrive al direttore e al vice-direttore responsabile di un periodico una responsabilità per fatto proprio omissivo per i reati commessi col mezzo della stampa[28].
L’operatività di detto istituto deve, dunque, restare perimetrata esclusivamente ai soggetti qualificati che assumono il ruolo indicato a seguito di specifica nomina ai sensi degli artt. 3 e 5 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, in quanto solo in forza di tale funzione essi assumono la qualifica di «garanti della correttezza dell’informazione»[29].
Sicché non pare in alcun modo possibile ravvisare in capo al mero gestore di un blog quegli obblighi di vigilanza e di sindacato sul materiale e da cui deriva l’obbligo di impedire che con il mezzo della pubblicazione siano commessi reati e che può essere efficacemente espletato mediante una penetrante e capillare verifica sul contenuto della informazione.
D’altra parte, la struttura di un blog non è in alcun modo assimilabile a quella di un giornale tradizionalmente inteso, con la conseguenza che quantomeno sotto il profilo dei risvolti penalistici in caso di omesso controllo del materiale ivi caricato da soggetti terzi non pare possibile effettuare alcuna interpretazione estensiva della normativa vigente in materia di stampa.
Più recentemente, in senso conforme alla pronuncia della corte distrettuale sopra riportata, nell’ambito di un procedimento riguardante la pubblicazione di messaggi diffamatori su un blog, postati da persone terze, e non tempestivamente rimossi dal gestore del blog, la Suprema Corte ha affermato che «il Giudice di primo grado, […], ha diffusamente argomentato per escludere l’equiparazione del blog all’attività di stampa e ha fatto leva su tali principi per negare una responsabilità del gestore di blog equiparabile a quella propria del direttore responsabile ex art. 57 cod. pen. […]. Tale valutazione era del tutto corretta»[30].
Sicché il blogger dovrà esser ritenuto responsabile per i contenuti pubblicati da terzi ivi presenti solo laddove «presa cognizione della lesività di tali contenuti, li mantiene consapevolmente. In particolare la non tempestiva attivazione da parte del blogger al fine di rimuovere i commenti offensivi pubblicati da soggetti terzi sul suo blog equivale non al mancato impedimento dell’evento diffamatorio – rilevante ex art. 40, secondo comma, cod. pen., ma alla consapevole condivisione del contenuto lesivo dell’altrui reputazione, con ulteriore replica della offensività dei contenuti pubblicati su un diario che è gestito dal blogger stesso»[31].
In altri termini la Corte di Cassazione ha confermato che i titolari di siti web, da una parte non possono essere chiamati a rispondere del reato di cui all’art. 57 c.p., ma, dall’altra, al verificarsi di determinate condizioni, possono rispondere a titolo di concorsonel delitto di diffamazione aggravata commesso dall’utente che ha diffuso il contributo offensivo, laddove ne condividono il contenuto non provvedendo tempestivamente alla sua cancellazione[32], ravvisandosi un contributo concorsuale sia morale sia materiale del gestore alla realizzazione del fatto illecito da parte dell’autore del post.
Tale approccio appare pienamente coerente con il quadro dell’ordinamento costituzionale e del tutto rispetto del principio di legalità di cui all’art. 25, comma 2, Cost.[33] e del divieto di analogia in malam partem[34], in quanto esclude che l’attività di chi gestisce siti web e blog soggiaccia alla regolamentazione prevista dalla legge 47/1948 in materia di stampa.
Una volta chiarita la posizione del gestore del blog, preme evidenziare come le medesime considerazioni siano spendibili anche con riferimento al moderatore di forum.
Anche in tal caso, infatti, paiono difettare del tutto i presupposti per l’applicazione dell’istituto di cui all’art. 57 c.p., sicché anche il soggetto in parola potrà essere chiamato a rispondere unicamente a titolo di concorso doloso nella diffamazione posta in essere dal soggetto che abbia in concreto effettuato la propalazione lesiva dell’altrui onorabilità[35].
Sul punto, infatti, si riscontra un orientamento concorde della maggior dottrina[36] e della giurisprudenza di legittimità[37] secondo cui l’amministratore di un sito internet, al pari del blogger e al pari del moderatore di un forum non può essere ritenuto in alcun modo equiparabile al direttore di una testata, cartacea o telematica che sia, in ragione della evidente differenza tra i suddetti strumenti di comunicazione.
Sicché, pur essendovi stato un revirement circa l’applicabilità dell’art. 57 ai direttori di testate telematiche non sarà, in ogni caso, possibile contestare l’omesso controllo a soggetti differenti rispetto a quelli espressamente previsti dalla disposizione richiamata.
Questi potranno, tuttavia, chiaramente rispondere a titolo di concorso in quanto la non tempestiva attivazione del blogger o del moderatore di un forum ai fini della rimozione di un contenuto può essere valutata quale un contributo – a cavallo tra il commissivo e l’omissivo – causalmente determinate una «replica dell’offensività dei contenuti pubblicati»[38].
Sul punto, chi scrive ritiene di condividere – in gran parte – quanto recentemente affermato dalla Suprema Corte in materia de qua[39] che ha avuto modo di evidenziare come per l’accertamento di un concorso omissivo nel reato commissivo altrui occorre la sussistenza di un obbligo giuridico di impedire l’evento determinato dall’esistenza di una posizione di garanzia.
Com’è noto, le condictiones sine qua non per la ricorrenza di una posizione di garanzia sono l’esistenza di un bene giuridico che necessiti di essere protetto, di una fonte giuridica – anche negoziale – posta a tutela dello stesso, l’individuazione di soggetti dotati di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito[40].
Sicché, ai fini dell’operatività della cosiddetta clausola di equivalenza di cui all’art. 40 capoverso del codice penale, nell’accertamento degli obblighi impeditivi gravanti sul soggetto che versa in posizione di garanzia sarà necessario considerare la fonte da cui promana l’obbligo giuridico d’impedimento, che può essere la legge, il contratto, la precedente attività svolta o altra fonte obbligante[41].
Nel caso tanto del blogger quanto in quello del moderatore del forum non pare, invece, configurabile una posizione di garanzia atteso che tali soggetti non sono investite da alcuna fonte di poteri giuridici impeditivi di eventi offensivi di beni altrui.
Ne consegue che la non tempestiva attivazione da parte del ricorrente al fine di rimuovere i commenti offensivi pubblicati da soggetti terzi sul suo blog debba essere equiparata ad una sostanziale consapevole condivisione del contenuto lesivo dell’altrui reputazione.
Le medesime conclusioni sono state raggiunte dalla giurisprudenza di legittimità in materia responsabilità di un gerente di un sito internet, il quale aveva mantenuto consapevolmente un articolo diffamatorio su detto sito, consentendo che lo stesso esercitasse l’efficacia diffamatoria[42].
È stato, per vero, evidenziato come il tema problematico ai fini della configurazione del concorso tanto omissivo quanto commissivo nel delitto di diffamazione sarebbe correlato al fatto che, essendo – discutibilmente, ad avviso di chi scrive – incontroversa in giurisprudenza la natura di reato istantaneo del delitto di diffamazione,[43] parrebbe difficile dare rilievo alle condotte successive alla diffusione della propalazione, quali quelle di omessa rimozione del contenuto diffamatorio.
Infatti, proprio in materia di diffamazione a mezzo web, ai fini della verifica della tempestività della proposizione della querela, la Suprema Corte ha affermato che «la diffamazione, avente natura di reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione ingiuriosa e, dunque, nel caso in cui frasi o immagini lesive siano immesse sul web, nel momento in cui il collegamento sia attivato, di guisa che l’interessato, normalmente, ha notizia della immissione in internet del messaggio offensivo o accedendo direttamente in rete o mediante altri soggetti che, in tal modo, ne siano venuti a conoscenza»[44].
Ne consegue che, perfezionandosi la fattispecie nel momento della pubblicazione in rete del contenuto offensivo, l’eventuale condotta di omessa rimozione del contenuto sarebbe collocata temporalmente dopo la consumazione del reato.
Al fine di superare tali perplessità sulla configurabilità di una responsabilità in concorso tanto ex artt. 40 e 110 c.p. la giurisprudenza ha fatto ricorso alla figura della pluralità di reati, integrati dalla ripetuta trasmissione del dato denigratorio[45].
Dello stesso avviso parrebbe essere la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per cui il soggetto che, pur avendone la possibilità, ometta di rimuovere i contenuti diffamatori li farebbe, in buona sostanza, propri, commettendo un’ulteriore condotta diffamatoria[46].
Tuttavia, preme evidenziare come la condotta di omessa rimozione (differentemente rispetto a quella di ripubblicazione) possa difficilmente qualificarsi come commissiva, sicché, in assenza di una fattispecie omissiva propria e a meno che non si voglia ritenere sussistente in capo al gestore del blog o del forum una posizione di garanzia, non parrebbe possibile contestare allo stesso alcun concorso omissivo nel reato commissivo altrui.
4. Una possibile soluzione: la diffamazione come reato permanente
Ad avviso di chi scrive, per come parzialmente anticipato, il vero problema attiene alla qualificazione della fattispecie di diffamazione quale reato istantaneo[47].
Come anticipato, infatti, ritenendo che la fattispecie diffamatoria abbia natura istantanea, consumandosi nel momento della pubblicazione in rete del contenuto offensivo, l’eventuale condotta di omessa rimozione del contenuto collocherebbe temporalmente dopo la consumazione del reato.
Sicché al più la “condivisione” – c.d. “repost” – del contenuto potrebbe ritenersi integrante una nuova e differente fattispecie diffamatoria, mentre più problematico sarebbe ritenere penalmente perseguibile la mera omessa rimozione in quanto, come detto, al più si tratterebbe di un post-factum non punibile.
Tali problematiche potrebbero, tuttavia, esser superate – ad avviso di chi scrive – attraverso la qualificazione della fattispecie in parola quale reato eventualmente permanente onde superare le difficoltà sin qui rappresentate.
D’altra parte, nei reati istantanei la condotta ha un effetto irreversibile (si pensi ad esempio alla fattispecie di omicidio) mentre nella diffamazione la lesione dell’altrui onorabilità parrebbe del tutto reversibile, anche ad avviso dello stesso legislatore che ha previsto degli istituti, quale quello della rettifica, che presuppongono ontologicamente la possibilità di rimuovere le conseguenze dell’offesa.
La qualificabilità del delitto di diffamazione quale reato permanente è corroborata dalla natura comprimibile del bene giuridico tutelato dell’onore che, al pari della libertà personale, al termine dell’offesa può – in astratto – tornare “integro”[48].
Basti pensare che nel novero dei reati eventualmentepermanenti, prima della depenalizzazione, veniva annoverata l’ingiuria qualora non si verificasse una tantum[49].
Peraltro, la dottrina dominante, ritiene che la condotta tipica – anche a titolo di concorso – possa compiersi indifferentemente mediante un’azione o un’omissione: ciò che rileva è il perdurare di quest’ultima che viene considerata, infatti, come un unico reato, in quanto offensiva dello stesso bene giuridico.
Sicché, nel caso di specie, la condotta del blogger o del moderatore di forum che non rimuovano il contenuto, ad avviso dello scrivente, parrebbe assimilabile a quella del carceriere intervenuto in un momento successivo rispetto a quello della privazione della libertà personale del soggetto sequestrato il quale si inserisce nel decorso causale in un momento in cui la lesione del bene giuridico si è già verificata ma si sta protraendo in ragione di ulteriori condotte.
Appare, tuttavia, sussistere un ultimo nodo gordiano da sciogliere.
La condotta del provider, del blogger o del moderatore del forum che non rimuova l’altrui contenuto appare, per vero, difficilmente qualificabile come propriamente commissiva, sicché, dovendosi qualificare come commissiva mediante omissione imporrà, in ogni caso, l’accertamento della sussistenza di una posizione di garanzia in capo a detto soggetto.
È stato supra evidenziato come sia certo che in capo a tali soggetti non sussista alcun generale obbligo di sorveglianza o di preventivo impedimento dell’evento diffamatorio ma, tuttavia, non appare corretto affermarsi che gli stessi non siano dotati di poteri/doveri d’impedimento della protrazione delle condotte lesive dell’altrui onorabilità.
Basti pensare che in una recentissima pronuncia – per vero in materia civile – i giudici meneghini[50], nell’ambito della controversia Facebook vs. SnaiTech hanno contestato al provider di aver concorso a titolo omissivo «nel comportamento lesivo altrui a consumazione permanente».
È, infatti, opportuno ritenere che l’art. 16 del D.Lgs. n. 70/2003, secondo la lettura resane dalla più recente giurisprudenza, è fonte di una posizione di garanzia dell’hosting provider, che, se per definizione è estraneo alla originaria perpetrazione dell’illecito del destinatario del servizio, ne diviene giuridicamente responsabile laddove per la sua sciente inerzia non ne impedisca la protrazione.
Sotto il differente profilo soggettivo invece, occorre evidenziare come una siffatta ipotesi si sostanzi non in una responsabilità oggettiva o per fatto altrui, ma in una vera e propria responsabilità per fatto proprio, tanto da esser subordinata alla effettiva conoscenza della manifesta illiceità dell’altrui condotta di cui non si impedisce la prosecuzione.
Ne consegue che, pare possibile affermare che pur non sussistendo in capo ai provider un dovere di vigilanza ex ante sui contenuti sussisterebbe, tuttavia, un dovere di rimozione ex post dei contenuti manifestamente illeciti, sanzionabile a titolo di reato omissivo improprio.
Dopo tale – neppur troppo breve – chiosa, traendo le somme dalle riflessioni sin qui rese, appare possibile affermare, da un lato, che ciascuna forma di comunicazione telematica e ciascun servizio offerto dalla rete debbano essere disciplinati in maniera distinta e specifica rispetto alle comunicazioni a mezzo stampa[51] e, dall’altro, che le responsabilità di ciascun soggetto che operi attraverso i vari strumenti di comunicazione debbano essere accertate caso per caso, sulla base dei poteri e doveri sussistenti in capo allo stesso.
Seppur non possa ritenersi ancora posta l’ultima parola sulla responsabilità dei soggetti responsabili delle varie piattaforme a titolo di concorso, ciò che pare possibile affermarsi con ragionevole certezza è che, specie a determinate condizioni, non parrebbe affatto corretto prevedere delle sacche di inopportuna impunità per soggetti che siano pienamente consapevoli del fatto che, all’interno degli spazi dagli stessi gestiti, vi siano utenti che pongono in essere delle condotte gravemente lesive di un bene giuridico di elevatissimo rilievo costituzionale, quale l’onore.
*Il presente contributo inedito è tratto dai lavori preparatori per la tesi di dottorato dell’Autore, Corso di Dottorato in Medium e Medialità – Università degli Studi e-Campus.
[1] G. Corrias Lucente, Il diritto penale dei mezzi di comunicazione di massa, CEDAM, 2000, 259.
[2] A. Chimenti, Informazione e televisione. La libertà vigilata, Laterza, 2000, 16, osserva a tal riguardo che «poiché internet è una rete il cui utilizzo è libero, aperto a tutti, e l’accesso è facilitato da procedure molto semplici, in tempi brevi la Rete è destinata a diventare il primo mezzo di informazione mondiale», così vasto a tal punto che «ogni strumento di controllo da parte dei singoli ordinamenti statati appare inadeguato».
[3] V. Pezzella, La diffamazione, UTET, 2020, 402.
[4] La Corte ha, peraltro, evidenziato come le modalità di commissione della fattispecie possano essere integrate fruendo degli strumenti più eterogenei e variegati fra loro: «il messaggio viene inoltrato a destinatari molteplici e diversi, per esempio attraverso la funzione di forward o a gruppi di Whatsapp, su Twitter o Facebook […]», cfr. Cass. Pen., Sez. I, sent. 22 gennaio 2014 n. 16712; Cass. Pen., Sez. V, 19 settembre 2011, n. 46504.
[5] Cass. Pen., Sez. V, Sent. n. 4741 del 17/11/2000 – Rv. 217745
[6] M. Fumo, La diffamazione mediatica, UTET, 2012, 44.
[7] In dottrina cfr. P. Galdieri, Il diritto penale dell’informatica: legge, giudice e società, Giappichelli, 2021, p. 154 e in giurisprudenza cfr. ex plurimis,Trib. Vallo della Lucania, GUP, 24 febbraio 2016, n.22.
[8] L. Picotti, Profili penali delle comunicazioni illecite, cit., p. 288 ss., nonché V. Spagnoletti, Profili problematici del reato di diffamazione a mezzo internet, in Giur. merito, 2003, p. 1622; e seppure con diverse sfumature M. Nisticò, Sui reati contro l’onore per via telematica, in Dir. pen. proc., 2002, p. 57 ss.; D. De Natale, La responsabilità dei fornitori di servizi di informazione in Internet, in F. Ruggeri-L. Picotti, Nuove tendenze della giustizia penale di fronte alla criminalità informatica. Aspetti sostanziali e processuali, Giappichelli, 2011.
[9] Cfr. Cass. Pen., Sez. V., 25 luglio 2006, n. 25875, con nota di A. Macrillò, Presunzione iuris tantum di pubblicazione e prova del delitto di diffamazione con il mezzo della rete telematica, in Dir. Internet, 2007, p. 166.
[10] G. Grasso, Il reato omissivo improprio, Giuffrè, 1983.
[11] G. Resta, La responsabilità penale del provider: tra lasseiz faire ed obblighi di controllo, in Giust. di merito, 2004, 1719; V. Pezzella, Google Italia, diffamazione e riservatezza: il difficile compito del provider (e del giudice), in Giustizia di merito, 2010, 2232; S. Gatti, Con la polarizzazione su libertà e responsabilità internet ancora alla ricerca di regole condivise, in Guida al diritto, 2010, 25, p.8.
[12] C. Parodi – A Calice, Responsabilità penale e internet, Giuffrè, 2001, 35.
[13] S. Bolognini-A. D’Avirro-M. D’Avirro, La diffamazione. A mezzo stampa, radio e televisione, Giuffrè, 2022, 135.
[14] G. Stea, La responsabilità penale dell’internet provider, in Giurisprudenza penale, 2016.
[15] Ex aliis, cfr. Cass. Pen., Sez. V, 12 luglio 2016, n. 54946.
[16] In tal senso, cfr. G. Corrias Lucente, Ma i network providers, i service providers e gli access providers rispondono degli illeciti penali commessi da un altro soggetto mediante l’uso degli spazi che loro gestiscono, in Giurisprudenza di merito, 2004, 2523; S. Bolognini-A. D’Avirro-M. D’Avirro, La diffamazione. A mezzo stampa, radio e televisione, Giuffrè, 2022, 138.
[17] M. Cuniberti, Il contrasto alla disinformazione in rete tra logiche del mercato e (vecchie e nuove) velleità di controllo in MediaLaws. Rivista di diritto dei media, 2017, n.1, 34.
[18] M. Berlini – P. La Gumina, La (non) responsabilità di eBay per gli illeciti commessi dai propri utenti, in Dir. Internet, 2007, n.4, 342.
[19] S. Bolognini-A. D’Avirro-M. D’Avirro, La diffamazione. A mezzo stampa, radio e televisione, Giuffrè, 2022, 141.
[20] S. Vimercati, La Corte di Strasburgo torna sulla responsabilità del gestore del sito: il caso Rolf Anders Phil c. Svezia, in MediaLaws. Rivista di diritto dei media, 2017, n.1, 152.
[21] In tal senso S. Bolognini-A. D’Avirro-M. D’Avirro, La diffamazione. A mezzo stampa, radio e televisione, Giuffrè, 2022, 142.
[22] A. Ingrassia, Il ruolo dell’ISP nel ciberspazio: cittadino, controllore o tutore dell’ordine? Le responsabilità penali dei provider nell’ordinamento italiano, in L. Luparia (a cura di), Internet provider e giustizia penale, Giuffrè, 2012, 66.
[23] Trib. Aosta, sent. 26 maggio 2006, n. 553, con nota critica di I. Salvadori, I presupposti della responsabilità penale del blogger per gli scritti offensivi pubblicati su un blog da lui gestito, in Giur. merito, 2007, p. 1065 ss;P. Galdieri, Giornalismo, diffamazione e blogging, in Dir. Internet, 2006, p. 486 ss.; Trib. Milano, sent. 18 marzo 2004, in Giur. merito, 2004, p. 1713 ss., con nota di F. Resta, La responsabilità penale del provider: tra laissez–faire e obblighi di controllo.
[24] Trib. Aosta, sent. 26 maggio 2006, n. 553, in Giur. merito, 2007, p. 1065 ss., con nota critica di I. Salvadori, I presupposti della responsabilità penale del blogger per gli scritti offensivi pubblicati su un blog da lui gestito.
[25] La vicenda de qua è citata altresì in D. De Natale, La responsabilità dei fornitori di servizi di informazione in Internet, in F. Ruggeri-L. Picotti, Nuove tendenze della giustizia penale di fronte alla criminalità informatica. Aspetti sostanziali e processuali, Giappichelli, 2011.
[26] Contra, cfr. V. Zeno-zencovich, La pretesa estensione alla telematica del regime della stampa: note critiche, in Dir. inf., 1998, p. 15 s.
[27] G. Fornasari, Il ruolo dell’esigibilità nella definizione della responsabilità penale del Provider, in L. Picotti (a cura di), Il diritto penale dell’informatica nell’epoca di internet, Cedam, 2004, p. 423 ss.
[28] In tal senso, cfr. M. Romano, sub art. 57, in M.Romano-G.Grasso, Commentario sistematico del codice penale, Giuffrè, 2004, vol. I, p. 616, per cui l’art. 57 prevede un’ipotesi speciale di agevolazione colposa geneticamente dipendente dalla condotta dell’autore dell’articolo a contenuto illecito.
[29] D. De Natale, La responsabilità dei fornitori di servizi di informazione in Internet, in F. Ruggeri-L. Picotti, Nuove tendenze della giustizia penale di fronte alla criminalità informatica. Aspetti sostanziali e processuali, Giappichelli, 2011.
[30] Cass. Pen., sez. V, 22 gennaio 2019, n. 2929.
[31] Cass. Pen., sez. V, 20 marzo 2019, n. 12546.
[32] Cass. Pen., sez. V, 12 gennaio 2021, n. 7220
[33] I. Salvadori, I presupposti della responsabilità penale del blogger per gli scritti offensivi pubblicati su un blog da lui gestito e in Dir. Internet, 2006, p. 1071, nonché P. Galdieri, Giornalismo, diffamazione e blogging, in Dir. Internet, 2006, p. 490.
[34] S. Tabarelli De Fatis, La controversa disciplina penale della diffamazione tramite Internet, in Dir. inf., 2001, p. 314 e 317; D. De Natale, La responsabilità dei fornitori di servizi di informazione in Internet, in F. Ruggeri-L. Picotti, Nuove tendenze della giustizia penale di fronte alla criminalità informatica. Aspetti sostanziali e processuali, Giappichelli, 2011, p.54.
[35] S. Bolognini-A. D’Avirro-M. D’Avirro, La diffamazione. A mezzo stampa, radio e televisione, Giuffrè, 2022, 149.
[36] Ex plurimis, C. Pedullà, L’amministratore di un sito internet non è responsabile i sensi dell’art. 57 c.p., in Cass. Pen., 2018, n.2, 3744.
[37] Ex aliis, Cass. Pen., Sez. V, 19 febbraio 2018, n. 16751; Cass. Pen., Sez. V, 10 luglio 2016, n. 54946.
[38] S. Bolognini-A. D’Avirro-M. D’Avirro, La diffamazione. A mezzo stampa, radio e televisione, Giuffrè, 2022, 150.
[39] Cass. Pen., Sez. V, 8 novembre 2018, n.12546.
[40] Cass. Pen., Sez. IV, 10 giugno 2010, n. 38991, rv. 248849.
[41] Cass. Pen., Sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 9855, Rv. 262440.
[42] Cass. Pen., Sez. IV, 14 luglio 2016, n. 54946.
[43] Cass. Pen., Sez. V, 19 ottobre 2010 n. 1763, Rv. 24950701; Cass. Pen., Sez. I, ordinanza 15 maggio 1979 n. 1524.
[44] Cass. Pen., Sez. V, 27 aprile 2012, n. 23624, Rv. 25296401.
[45] Cass. Pen., Sez. V, 8 novembre 2018, n.12546.
[46] C.E.D.U., 9 marzo 2017, Rolf Anders Daniel Pihl c. Svezia. In senso parzialmente critico, cfr. C. Pagella, La cassazione sulla responsabilità del blogger per contenuti diffamatori (commenti) pubblicati da terzi, in penalecontemporaneo.it, 17 maggio 2019.
[47] Cass. Pen., Sez. V, 19 ottobre 2010 n. 1763, Rv. 24950701; Cass. Pen., Sez. I, ordinanza 15 maggio 1979 n. 1524.
[48] Sulla differenza tra reati permanenti e istantanei si fa rinvio a E. Mezzetti, Diritto Penale. Dottrina, casi e materiali, Zanichelli, 2020.
[49] Cfr. E. Mezzetti, Diritto Penale. Dottrina, casi e materiali, Zanichelli, 2020.
[50] Tribunale di Milano, 15 febbraio 2023, sent. n. 1208.
[51] Si veda D. De Natale, La responsabilità dei fornitori di servizi di informazione in Internet, in F. Ruggeri-L. Picotti, Nuove tendenze della giustizia penale di fronte alla criminalità informatica. Aspetti sostanziali e processuali, Giappichelli, 2011, p. 55, il quale a sua volta richiama V. Zeno-Zencovich, I “prodotti editoriali” elettronici nella l. 7 marzo 2001 n. 62 e il preteso obbligo di registrazione, in Dir. inf., 2001, p. 158 e P. Galdieri, Giornalismo, diffamazione e blogging, cit., p. 490.