Cass., Sez. I, 28 settembre 2021, n. 35595
Sommario: Introduzione – 1. Il caso. – 2. La questione di legittimità prospettata dalla difesa. – 3. La questione di legittimità sollevata d’ufficio. Le fattispecie a confronto.
MASSIMA: Un luogotenente elicotterista della Guardia di Finanza viene riconosciuto colpevole del reato di sabotaggio militare aggravato e continuato di cui all’art. 167, comma 1, e 47, n. 2, c.p.m.p. e 81, comma 1, c.p., per aver reso temporaneamente inservibili alcuni locali tecnici della base militare presso cui prestava servizio, avvicinando un barattolo di contenuto sconosciuto ai sensori di presenza di amianto, così alterando le rilevazioni successivamente eseguite dalle competenti Autorità sanitarie e rendendo necessaria la chiusura di detti luoghi per un limitato periodo di tempo. In considerazione della tenuità della condotta e della levità del danno arrecato dal militare al bene tutelato dall’art. 167 c.p.m.p., la Corte di Cassazione solleva il dubbio, rimettendo gli atti alla Consulta, circa la legittimità costituzionale della norma de qua, nella parte in cui non prevede l’applicabilità della circostanza attenuante della c.d. tenuità del fatto, a differenza della analoga norma del Codice penale (art. 253), che punisce il corrispondente reato comune, ponendosi in contrasto con il principio di uguaglianza e con il principio della finalità rieducativa della pena, consacrati rispettivamente all’art. 3 e all’art. 27, comma 3, della Costituzione.
La Corte di Cassazione rimette d’ufficio gli atti alla Corte costituzionale per dirimere la questione riguardante l’irrazionale disparità di trattamento sanzionatorio rilevabile tra la fattispecie di cui all’art. 167 c.p.m.p. – reato di sabotaggio militare – e la corrispettiva figura ordinaria prevista nel Codice penale all’art. 253 – distruzione o sabotaggio di opere militari – per la quale il Legislatore ha espressamente previsto, attraverso il combinato disposto con l’art. 311 c.p., l’applicabilità della circostanza attenuante per i fatti di lieve entità.
- Il caso.
La decisione della Suprema Corte prende le mosse dal ricorso presentato da un luogotenente specialista di elicotteri della Guardia di Finanza avverso la sentenza della Corte d’Appello militare di Roma, il quale lo ha riconosciuto colpevole del reato di sabotaggio di opere militari aggravato e continuato, previsto e punito dagli articoli 167, comma 1, e 47, n. 2, c.p.m.p. e 81, comma 1, c.p.
I fatti risalgono al periodo tra gennaio e febbraio 2014, quando il militare avrebbe reso inservibili alcuni locali – precisamente un deposito di velivoli, un laboratorio elettroavionico e un’officina meccanica – per aver avvicinato un barattolo, dal contenuto sconosciuto, al filtro rilevatore di fibre di amianto posizionato all’interno di tali spazi. Dagli accertamenti condotti dal personale della ASL, era infatti risultato che il livello di amianto nei predetti locali era superiore ai limiti consentiti, costringendo, di conseguenza, il comandante del reparto a interdirne l’accesso per un periodo di circa tre settimane.
- La questione di legittimità prospettata dalla difesa.
Nel corso del giudizio di cassazione, con separata memoria, la difesa eccepiva l’incostituzionalità della disposizione di cui all’art. 167 c.p.m.p. per violazione degli artt. 3, 25 e 27 Cost., in relazione al principio di tassatività, determinatezza e prevedibilità dell’incriminazione. Rilevato, infatti, che il bene tutelato dalla legge è il servizio militare, la difesa sottolineava che il Legislatore, nel costruire la norma, non ha tenuto conto del significato polisemico del termine, cosicché la disposizione finisce per sanzionare la violazione del servizio stesso, piuttosto che la violazione dei doveri ad esso inerenti e l’effettivo nocumento apportato al suo buon andamento.
Aggiungeva, inoltre, che il trattamento sanzionatorio risultava lontano dai valori costituzionali e in contrasto con i principi di proporzione ed eguaglianza: un limite edittale inferiore individuato in misura fissa, potenzialmente sproporzionato rispetto al fatto di reato concretamente commesso, appare violativo infatti degli artt. 3 e 27 Cost.
Palese risulta, dunque, la disparità di trattamento rispetto al successivo art. 168 c.p.m.p. il quale, disciplinando il reato di danneggiamento di edifici militari, prevede soltanto un limite edittale superiore, potendo in tal caso il giudice adeguare in maniera concreta ed efficace la pena da irrogare in funzione della gravità del fatto commesso e del danno derivante.
- La questione di legittimità sollevata d’ufficio. Le fattispecie a confronto.
La Corte ha invero ritenuto che la questione di legittimità, nei termini prospettati dalla difesa, sebbene rilevante, sia manifestamente infondata, poiché, se è vero che l’accoglimento della censura, nel caso concreto, avrebbe delle notevoli ricadute applicative in punto di rideterminazione del trattamento sanzionatorio, è altrettanto pacifico che la commisurazione delle pene, nella creazione della figura astratta di reato, è affidata alla discrezionalità del Legislatore, coinvolgendo valutazioni e aspetti tipicamente politici – con il limite che tale “libertà”, concessa in sede di produzione legislativa, non ecceda in una manifesta irragionevolezza. In tal senso si esprime la Corte costituzionale, ex multiis con la sentenza n. 341 del 22 luglio 1994, statuendo che il riconoscimento della discrezionalità del Legislatore nella determinazione della quantità e qualità della sanzione penale costituisce un dato costante della giurisprudenza costituzionale: non spetta infatti alla Corte rimodulare le scelte punitive effettuate dal Legislatore, né stabilire quantificazioni sanzionatorie. Tuttavia, alla Corte rimane il compito di verificare che l’uso della discrezionalità legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza. In particolare, la pronuncia citata rimanda a sua volta alla sentenza n. 409 del 26 luglio 1989, nella quale la Corte ha definitivamente chiarito che «il principio di uguaglianza, di cui all’art. 3, primo comma, Cost., esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali; […] le valutazioni all’uopo necessarie rientrano nell’ambito del potere discrezionale del Legislatore, il cui esercizio può essere censurato, sotto il profilo della legittimità costituzionale, soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza».
Sulla scorta di tali principi, e prendendo spunto dalle rimostranze espresse dalla difesa, i giudici di Piazza Cavour approfondiscono un aspetto diverso, rilevante e manifestamente fondato, della legittimità costituzionale della norma de qua.
L’art. 167 c.p.m.p. prevede, per i fatti di sabotaggio, una pena non inferiore ad anni otto di reclusione militare, senza contemplare ipotesi attenuate del fatto. L’ipotesi analoga di cui all’art. 253 c.p., che incrimina la condotta comune, prevede una pena identica, lasciando, tuttavia, al giudice la facoltà di applicare la circostanza attenuante comune della c.d. lieve entità, in ossequio a quanto disposto dall’art. 311 c.p., che contempla la diminuzione di pena per i delitti previsti dal Tit. I, Libro II quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di scarso rilievo penale.
Se si confrontano le due fattispecie – il reato proprio commesso dal militare e il reato comune previsto dall’art. 253 c.p. – balza all’occhio l’identità di elementi delle condotte sanzionate, prevedendo, in ambo i casi, la punibilità di colui che «distrugge, o rende inservibili, in tutto o in parte, anche temporaneamente, navi, aeromobili, convogli, strade, stabilimenti, depositi o altre opere militari o adibite al servizio delle forze armate dello Stato».
Non è quindi chiara la motivazione per cui sussista una tale disomogeneità tra il trattamento punitivo previsto per la condotta del milite e quello adottato per la sanzione del quisque de populo. Discrepanza che non è altrimenti superabile in via interpretativa, poiché il nostro sistema non permette un controllo di costituzionalità c.d. diffuso, attribuito direttamente al giudice ordinario, tale da consentirgli di disapplicare la norma ritenuta non conforme alla Costituzione ovvero di applicare disposizioni che, pur coperte da un’identità o un’omogeneità di ratio, non siano espressamente richiamate dal precetto della cui legittimità costituzionale si dubita.
Se da un lato le norme in discorso sono essenzialmente sovrapponibili tra di loro per quanto concerne la struttura e la tipicità delle condotte previste, dall’altro lato esse si diversificano in quanto il reato di cui all’art. 167 c.p.m.p. consiste in una condotta esplicata dal militare nei confronti della res militare, mentre il delitto punito dall’art. 253 c.p. può essere commesso, in generale, da chiunque su res militare. Differenza che conduce a caratterizzare il primo come reato proprio, e il secondo come reato comune, e che tuttavia non appare sufficiente a giustificare l’esclusione dell’applicazione della circostanza attenuante ex art. 311 c.p. alla fattispecie del sabotaggio militare, con conseguente violazione dei principi di ragionevolezza e uguaglianza, cristallizzati nella Carta costituzionale.
Anche a voler motivare il maggior rigore previsto dal codice penale militare in considerazione delle diverse sfaccettature del bene protetto in rapporto alla qualità rivestita dal soggetto attivo e alla necessità di tutelare il servizio militare nella sua integrità, non si spiegherebbe comunque la scelta di riservare un trattamento “di favore” alla sola figura di reato comune, considerato che la diminuente della tenuità del fatto ha a riguardo soltanto la portata lesiva concreta e oggettiva della condotta.
A ben vedere, non è possibile escludere una maggiore lievità della condotta nemmeno nell’ambito applicativo della fattispecie del sabotaggio militare, specie in quelle ipotesi in cui, come nel caso portato all’attenzione della Corte, il bene sia stato reso inservibile solo temporaneamente, escludendo per ciò stesso sia un pregiudizio permanente e irreversibile a danno del bene, sia una compromissione di ulteriori beni giuridici di primaria importanza, quali il patrimonio, la salute o l’incolumità personale. Da qui discenderebbero i dubbi di razionalità del quadro normativo sollevati dalla Cassazione, concretizzandosi tale trattamento sanzionatorio, così diversificato, in una lesione del valore di uguaglianza sostanziale e di ragionevolezza, come prospettati e salvaguardati dall’art. 3 Cost.
Nota la Suprema Corte che non è possibile avere immediata contezza della ratio sottostante a tale scelta del Legislatore, posto che la proiezione della tutela penale deve essere in ogni caso coerente con la finalità intrinseca dell’incriminazione e deve esprimere un rapporto di proporzione e adeguatezza che sia collegato all’entità concreta dell’aggressione al bene protetto.
La finalità perseguita dalla circostanza attenuante si lega indissolubilmente, quindi, allo spessore del danno criminale o del pericolo, ossia all’offensività in concreto della condotta perpetrata dal reo. Laddove la risposta sanzionatoria sia fissa e inderogabile e, vieppiù, improntata a un’inusitata asprezza, essa corre il rischio di perdere il suo «profilo di duttilità dinamica», non potendosi adattare completamente alla varietà delle situazioni che astrattamente possono rientrare nell’ambito di applicazione del paradigma legale di incriminazione.
D’altro canto, un trattamento eccessivamente severo e non mitigabile in proporzione al concreto disvalore del fatto risulta contrario ai principi dell’ordinamento altresì sotto il profilo normativo dell’art. 27, comma 3, Cost., laddove una pena percepita come ingiusta e sproporzionata è inidonea ad attuare la tipica finalità di rieducazione che l’ordinamento attribuisce alla sanzione penale.
In questo senso si riporta l’orientamento della Corte costituzionale (C. cost., 22.07.1994, n. 341, cit.), la quale recepisce le precedenti decisioni in materia, raccomandandosi che «la finalità rieducativa della pena non sia limitata alla sola fase dell’esecuzione, ma costituisca una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue: tale finalità rieducativa implica pertanto un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra».
In applicazione di questi principi, la Corte costituzionale è giunta a dichiarare costituzionalmente illegittime, come palesemente irragionevoli, diverse previsioni di sanzioni penali, giudicando che la loro manifesta mancanza di proporzionalità rispetto ai fatti-reato si traducesse in arbitrarie e ingiustificate disparità di trattamento, o in violazioni dell’art. 27, terzo comma, Cost. In particolare, la sentenza n. 343 del 20 luglio 1993 ha affermato che «la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale» provocata dalla previsione di una sanzione penale manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell’illecito «produce […] una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione, che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione».
Diversamente opinando, la pena si tradurrebbe nell’attuazione di un rapporto punitivo di mera matrice retributiva, imposto dall’alto, autoritativamente, discostandosi pienamente dalle altre finalità parallele cui, per ispirazione costituzionalistica e giurisprudenziale, la sanzione dovrebbe tendere. Così, ammonisce la Suprema Corte, la pena non proporzionata alla gravità del fatto e non percepita come tale dal condannato si risolve in un vero e proprio ostacolo alla sua funzione rieducativa.
Sul tema la sentenza in esame richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 236 del 16 novembre 2016, la quale precisa che «laddove la proporzione tra sanzione e offesa difetti manifestamente, perché alla carica offensiva insita nella condotta descritta dalla fattispecie normativa il legislatore abbia fatto corrispondere conseguenze punitive di entità spropositata, non ne potrà che discendere una compromissione ab initio del processo rieducativo, processo al quale il reo tenderà a non prestare adesione, già solo per la percezione di subire una condanna profondamente ingiusta (sentenze n. 251 e n. 68 del 2012), del tutto svincolata dalla gravità della propria condotta e dal disvalore da essa espressa».
Sulla base delle considerazioni espresse dalla Consulta nella citata pronuncia, i giudici nomofilattici rilevano infatti che «l’esigenza di mobilità, o individualizzazione, della sanzione […] costituisce naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio di uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale, rispetto ai quali l’attuazione di una giustizia riparatrice e distributiva esige la differenziazione più che l’uniformità.»
Il principio di uguaglianza in materia penale, dunque, deve estrinsecarsi tanto nei presupposti quanto nei fini della pena, poiché la possibilità di commisurare la pena alla reale offensività del reato contribuisce, da un lato, a “personalizzare” la responsabilità penale, in ossequio al primo comma dell’art. 27 Cost., mentre, dall’altro, concorre a finalizzare la sanzione nel senso indicato dal terzo comma della citata norma, ossia alla rieducazione del condannato.
Più nello specifico, l’uguaglianza di fronte alla pena si traduce in una proporzione di questa rispetto alle personali responsabilità e alle esigenze di risposta che ne conseguano, svolgendo una funzione essenzialmente di giustizia e di tutela delle posizioni individuali, nonché di limite della potestà punitiva statuale.
La sanzione punitiva, dunque, dovrebbe sempre avere come punto focale il rispetto dei principi costituzionali dell’eguaglianza e della finalità rieducativa della pena, dovendosi poter adattare alla reale offensività della condotta e all’effettiva messa in pericolo o lesione del bene giuridicamente tutelato. Per tale motivo, si auspica un intervento risolutivo da parte della Consulta, nel senso di riportare l’art. 167 c.p.m.p. nell’alveo della costituzionalità, di talché, nella futura applicazione di detta norma, la sanzione da irrogare possa essere percepita dal condannato come “giusta”, equa, proporzionata, tale da rendere effettivo quell’elemento di adesione psicologica alla pena che, secondo una visione costituzionalmente orientata, condurrebbe il reo verso la strada della rieducazione e del corretto reinserimento dello stesso nella comunità dei consociati.