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Riflessioni di un penalista ai tempi del coronavirus

 

Questa pandemia ha generato un’emergenza sanitaria, sociale ed economica di proporzioni sconosciute. Essa accelererà cambiamenti che già cominciavano a prospettarsi, ma che si ipotizzavano graduabili nel tempo, ed invece richiedono un impegno immediato foriero di nuove energie e di nuove prospettive: sotto tanti profili occorrerà progettare il futuro. E i segni che mi paiono più evidenti da seguire sono quelli della solidarietà, dell’uguaglianza, della dignità; se vogliamo ricostruire una comunità che non faccia solo finta di esserlo dobbiamo impegnarci a far superare le difficoltà enormi, forse insormontabili, in cui si ritroveranno in tanti. Ma tutto deve avvenire in tempi brevi, come reazione allo shock che ci ha colpiti.

Si dice che ognuno debba fare la sua parte; mi turba la consapevolezza dei tanti che mettono a repentaglio la loro vita per salvarci, e qui mi viene in mente la pessima, risalente politica di tagli riservati a sanità e ricerca: l’inversione di rotta dovrà essere immediata.

La mia, modesta, parte è quella dello studioso, di lungo corso ormai, di diritto penale. E in questo settore viene in evidenza l’attuale situazione carceraria, che, com’è stato già più volte rilevato, rappresenta un fattore di grave rischio di contagio epidemico relativamente ai detenuti, al personale carcerario ed ai familiari.

I provvedimenti adottati dal Governo appaiono del tutto insufficienti. Con l’art. 2, co. 8 e 9, d.l. 8 marzo 2020, n. 11, in sostanza ci si è limitati a ‘chiudere’ il carcere, senza tuttavia renderlo impermeabile. L’art. 123 d.l. 17 marzo 2020, n.18, invece, contiene mere semplificazioni dell’accesso all’esecuzione della pena detentiva non superiore a 18 mesi presso il domicilio, già previsto dall’art.1 l.n.199/2010, con l’imposizione del braccialetto elettronico, che rende pressoché inapplicabile la disciplina, data la nota carenza dei relativi dispositivi. L’art. 124 dello stesso d.l. consente di prolungare le licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà” fino al 30 giugno 2020; ma l’incidenza di tale disposizione è scarsissima, dato l’esiguo numero dei beneficiari.

Ci sarebbe invece necessità di ulteriori misure, da inserire al più tardi in sede di conversione del d.l. n.18/2020, quali il differimento dell’emissione dell’ordine di esecuzione delle condanne fino a quattro anni, per limitare i nuovi ingressi in carcere; la modifica dell’art.123 d.l. n.18/2020, con l’innalzamento a due anni del limite di pena detentiva, anche residua, eseguibile presso il domicilio e la previsione della facoltatività del controllo elettronico; la reintroduzione di uno strumento temporaneo già rivelatosi efficace, ossia la liberazione anticipata speciale di cui all’art. 4 d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, che aveva portato da 45 a 75 giorni a semestre la detrazione di pena prevista; la previsione della possibilità per tutti i semiliberi e gli ammessi al lavoro all’esterno, che abbiano già dato prova di buona condotta, di permanere presso il proprio domicilio o altro luogo di assistenza; l’introduzione di una disciplina che imponga al giudice di tener conto, al momento della scelta della misura cautelare, anche dell’attuale emergenza sanitaria legata al coronavirus, in modo da disporre più spesso gli arresti domiciliari in luogo della custodia in carcere; l’adozione di misure straordinarie volte a gestire l’emergenza all’interno delle carceri, così come all’interno delle REMS e dei centri di permanenza per il rimpatrio e di accoglienza per i migranti.

Tutto ciò è stato ampiamente proposto in un eccellente documento a cura del Consiglio direttivo dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale. Ma temo che sia sfuggito al nostro Ministro della Giustizia, molto distratto, poco informato e tuttavia poco propenso a lasciarsi informare, come dimostrano le disastrose riforme in materia di corruzione e di prescrizione.

Ma un discorso di più ampio respiro va riservato alle ragioni dei detenuti, ridotti, per le condizioni in cui versano, ad ‘avanzi della giustizia’. Vanno riviste, in una prospettiva di rifondazione socio-istituzionale, struttura e funzione del carcere. Va subito detto che da decenni ormai l’ispirazione al canone law and order  ha fatto da supporto a prassi e legislazione, connotate in senso autoritario, per una sempre rinnovata esaltazione del carcere. Conseguenze immediate sono state il sovraffollamento e l’abuso della custodia cautelare o carcerazione preventiva, come viene più realisticamente definita in Costituzione la detenzione prima della condanna definitiva. Quest’ultima, in base all’art.13 Cost. avrebbe dovuto essere un’eccezione ben circoscritta, ma così non è; e la detenzione di decine di migliaia di persone in attesa di giudizio, spessissimo di primo grado, mortifica un altro principio costituzionale di altissimo valore civile: la presunzione di non colpevolezza. Per non parlare poi degli abusi della carcerazione preventiva per finalità di ‘collaborazione’, che violano innanzitutto la dignità umana, per dar vita ad una sorta di tortura e, di conseguenza, violano anche il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità.

E, a questo proposito, viene in causa il sovraffollamento per cui più volte siamo stati bacchettati da Strasburgo. Esso dà vita ad una situazione di degrado, di malessere, testimoniata dai frequenti suicidi in carcere e dalla pratica impossibilità di realizzare progetti di rieducazione, così come di cura. Ed infatti uno Stato civile deve favorire l’idea del minor numero possibile di persone penalmente perseguite che debba essere carcerizzato. Le cose, invece, stanno in maniera profondamente diversa e ciò dipende da un’esaltazione repressiva, tanto irrazionale sul piano degli effetti, quanto deleteria sul piano dei diritti, come viene confermato dall’assenza di un incremento dei delitti denunciati. Ed è soltanto ingenuo, se non segno di malafede, a fronte di questo dato, attribuire l’incremento delle carcerazioni ad una rinnovata efficienza nella persecuzione di reati di mafia o di corruzione. In termini percentuali i numeri relativi a questi fatti sono del tutto esigui!

Come da tradizione, la repressione finisce per orientarsi verso le fasce di marginalità via via emergenti: gli ‘oziosi’ e i ‘vagabondi’ attuali sono i tossicodipendenti e gli immigrati, preferibilmente di colore. Secondo il consueto, miope schema rigoristico-repressivo, con il ben noto bagaglio di intolleranza, illiberalità, sterile simbolicità, approssimazione, ad un contrasto legittimo, purché sempre rispettoso di regole di umanità, di pur allarmanti fenomeni criminali, si abbina una repressione di tipo carcerario ingiustificata e contraria ai principi costituzionali di riferimento. In realtà il carcere, nella sua concreta articolazione, si è strutturato come un indifferenziato contenitore di varie fenomenologie di devianza, unito dal disegno di indiscriminata repressione, quale esige la dominante, sbrigativa prospettiva della deterrenza; ciò è ampiamente testimoniato dall’abbandono al mero custodialismo di svariate decine di migliaia di persone, con un totale tradimento della funzione di rieducazione normativamente stabilita.

Paradossalmente, più il carcere fallisce, più ne aumenta la richiesta. Le ragioni possono essere le più diverse, ma essenzialmente ciò si verifica perché è ancora radicato l’equivoco – che un improvvido legislatore e parte dei giudici assecondano – dell’equazione carcere uguale giustizia, a cui si aggiunge quello insito nell’idea secondo cui più dura è la pena, maggiormente si realizza la giustizia.

Nulla di più falso! E allora che fare?

Dovremmo, in coerenza con le considerazioni iniziali, immediatamente far fronte al sovraffollamento, intraprendendo un’ampia, articolata e generosa sperimentazione di alternative alla detenzione, in maniera tale da consentire condizioni di vita civili a chi resta in carcere, ovviando anche alle gravi carenze igienico-sanitarie, ma non solo, bensì creando le condizioni per un effettivo esercizio dei diritti alla cura, al lavoro ed all’istruzione. Altrettanto immediatamente dovremmo inoltre sbarazzarci di tutti quegli arnesi rigoristici che affastellano il nostro ordinamento, a partire dalle varie ‘ostatività’ diverse dalla valutazione del percorso di rieducazione del detenuto, dalla eliminazione di forme di carcere duro, pur nel rispetto di eventuali esigenze di controllo stretto per casi particolari; e ciò all’interno di una radicale revisione del sistema delle sanzioni, magari a binario unico, che finalmente si liberi dell’ergastolo, questo retaggio di inciviltà che sicuramente contrasta con il principio della rieducazione e non solo con esso. Ma questo è unicamente il tracciato di una prima tappa. Successivamente, ma non troppo, si dovrà rimettere mano all’intero sistema penale, per renderlo vicino alle ragioni dell’uomo.

La precondizione di queste riforme, riallacciandoci all’inizio di queste considerazioni, consiste in un’opera radicale di ‘rieducazione’, ma della società e delle istituzioni; se questa non avviene, saremo punto e a capo, e non solo in rapporto ai problemi del carcere, ma anche, e soprattutto, a quelli del vivere civile.

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