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Riforme: i sogni muoiono all’alba

 

La auspicabile uscita dall’emergenza consegna al confronto politico-istituzionale tutte intere le tematiche alle quali l’emergenza aveva imposto il silenziatore: lodo Conte sulla prescrizione, riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, l’intervento per il processo penale, le modifiche alla disciplina dell’ordinamento penitenziario.

Considerate le non omogenee posizioni delle forze politiche di governo, sarebbe opportuno, per evitare che una riforma paralizzi l’altra, che si procedesse separatamente, anche perché si tratta di problematiche diverse.

Sicuramente prioritario si prospetta l’intervento in tema di prescrizione: trattandosi di norma che è operativa, dispiega i suoi effetti sui processi in corso.

Il dato costituisce un dovere per il Ministro, che si era impegnato, all’atto della discussione sulla mozione di sfiducia, ad aprire un tavolo (ancorché dai contorni incerti) al Ministero e rappresenta un’urgenza politica visti i “messaggi”, di cui peraltro si dovrà verificare la consistenza, di una delle forze politiche che appoggiano il governo.

Sono note le riserve sui contenuti del lodo Conte, soprattutto sul congelamento della decorrenza nei confronti del prosciolto per il quale la prescrizione potrebbe maturare a breve, sia per la mancanza di termini entro i quali celebrare i giudizi di impugnazione.

La criticità e l’impasse della riforma del Consiglio Superiore della Magistratura si sono già evidenziate, soprattutto in relazione all’esclusione dei parlamentari dalla possibilità di essere designati quali componenti laici, con accesso, quindi, alla carica di vicepresidente; e alla prospettiva di garantire il collateralismo con la magistratura, assicurando una riforma che non penalizzi il suo ruolo, al di là d’una rimodulazione del sistema elettorale che non pregiudichi, più di tanto, il peso delle vecchie e nuove aggregazioni.

Sullo sfondo aleggia l’ipotesi di un differimento mirato al pensionamento di un componente togato del Consiglio Superiore della Magistratura.

Restano sul tappeto la proposta sulla discrezionalità dell’azione penale e quella sulla separazione delle carriere che peraltro incontrano non poche resistenze politiche e da parte della magistratura che anche in questo caso trova referenti non insensibili alla sue riserve.

Quanto alla riforma del processo penale, questa, com’è noto, è consegnata ad una legge delega e pertanto destinata a vedere la luce in tempi non brevi, anche a prefigurarsi un lavoro in parallelo tra il procedere della delega e la sua traduzione in decreti legislativi.

Troppi passaggi parlamentari e governativi attendono la riforma, pur ritenuta – come tutto, del resto – indifferibile per attuare la durata ragionevole del processo.

Come è già stato evidenziato nel merito la filosofia di fondo della riforma vede un processo stretto tra la chiusura del corso della prescrizione di cui alla già citata l. n. 3 del 2014 ed il sempre più condizionato accesso alle impugnazioni, governato dalla prospettazione di regole di giudizio orientate ad una anticipazione non più prognostica, ma diagnostica di condanna, così da incanalare le scelte difensive verso i riti premiali.

Invero, lungi dall’attuare un processo di durata ragionevole lo schema processuale presentato dal Ministro non risolve la questione della giustizia penale perché non realizza quella ristrutturazione dell’intera macchina giudiziaria che – integrata da risorse umane e strutturali – sarebbe necessaria.

Non basteranno il previsto reclutamento straordinario e la presenza degli ipotizzati giudici ausiliari.

Si considerino, altresì, l’ingolfamento dei ruoli connesso all’esponenziale aumento dell’arretrato che la stasi processuale ha causato e l’evidente sovraccarico giudiziario connesso alle ricadute penali dell’emergenza sanitaria.

La logica vorrebbe che si prospettasse la possibilità d’un ricorso a provvedimenti clemenziali, ancorché diversamente strutturati rispetto al passato.

Potrebbe essere una occasione per una riflessione riformatrice più ampia di quella di cui alla citata proposta di delega così da superare quegli interventi frammentati e settoriali incapaci di incidere sulle criticità del processo e suscettibili di creare disorientamenti e discrasie sistematiche.

 

2.

In quali termini dovrebbe svilupparsi un’azione riformatrice?

E’ necessaria una considerazione preliminare: non ci si può discostare dalla nostra storia e dalla connessa impostazione ordinamentale.

Dentro questa rigidità strutturale tre sono sicuramente i profili da affrontare, al di là degli scontati riferimenti alla sburocratizzazione attraverso il ricorso alla tecnologia legata all’evoluzione degli strumenti informatici.

Nella logica della durata ragionevole del processo bisogna evitare i riferimenti temporali che devono essere l’approdo della ristrutturazione e non la premessa spesso velleitaria d’un processo che si vorrebbe efficiente.

La durata ragionevole è figlia d’un sistema efficiente e garantito.

Nonostante le resistenze – anche della Corte costituzionale – bisognerebbe, cioè, porre la questione processuale nella dimensione dell’art. 97 della Costituzione.

In ogni caso, una ridefinizione dei percorsi processuali non potrebbe prescindere dalla necessità d’una integrazione dei vari momenti processuali, riducendo i tempi morti del progressivo svilupparsi del procedimento.

Si tratterebbe, cioè, di superare le segmentazioni e le censure procedimentali a vantaggio di momenti anticipatori capaci di incidere su quelli successivi, secondo una logica complementare.

Si tratterebbe di sviluppare quanto in parte realizzato con la riforma delle impugnazioni operando sulle criticità delle fasi di transito tra indagini preliminari, udienza preliminare e giudizio dibattimentale, fluidificandone i percorsi.

Il secondo nodo da sciogliere attiene alla (ri)definizione del rapporto tra oralità e contraddittorio.

Com’è noto, la riforma del processo del 1988 impostava il processo riformato secondo la logica dell’adozione del metodo orale (che assorbiva il concetto di contraddittorio).

Con le sentenze costituzionali del 1992 – 1994 e la successiva riforma dell’art. 111 Cost. il baricentro probatorio si è spostato sulla regola del contraddittorio nella formazione della prova, superando la filosofia dell’oralità (ed anche quindi del principio di immediatezza e concentrazione).

Il tema coinvolge sicuramente le tematiche probatorie.

Attraverso una declinazione che ampli gli spazi del contraddittorio nelle indagini, anche nella prospettiva di una garanzia nelle decisioni dei riti deflattivi, non superabili con il solo riferimento al consenso, si dovrebbe non irrigidire il sistema del recupero del precedente, sia sotto il profilo di più stringenti limiti alla irripetibilità, sia in relazione al diritto, comunque, adeguatamente motivato, alla ripetizione dell’atto.

Il discorso abbraccia, peraltro, anche tematiche di più ampio respiro.

Escluso il ricorso al c.d. processo da remoto, potrebbero essere approfondite le tematiche della cartolarizzazione in relazione allo svolgimento delle procedure camerali.

Ad una selettiva individuazione di riti non partecipati, potrebbero essere affiancati percorsi cartolarizzati con il riconoscimento del diritto alla partecipazione a richiesta.

Il terzo profilo riguarda il ruolo e i poteri del giudice sia nella fese delle indagini preliminari, sia negli sviluppi successivi, soprattutto in relazione a momenti decisori.

Sotto il primo aspetto va sicuramente  riconsiderato il ruolo del giudice delle indagini preliminari, soprattutto a fronte del gigantismo che le dinamiche sistematiche, ma anche pratico–operativo, hanno determinato sul ruolo degli uffici di procura.

A fronte di un pubblico ministero teso a prospettare elementi privi di valore probatorio, era collocato un giudice intenzionalmente teso a non travalicare precisi limiti funzionali ad una attività di controllo e garanzia, concepito “né forte, né debole”, che, invece, nel tempo è stato attratto, senza poter essere autorevole, nella stessa logica dell’accusatore.

E’ necessario ridisegnarne il ruolo, proprio per il ridefinito generale baricentro del rapporto tra procedimento e processo.

Il riferimento è orientato alle c.d. finestre di giurisdizione, ma anche all’esercizio di incisivi poteri di controllo (termini delle indagini, qualificazione del fatto, autorizzazione allo svolgimento di attività, verifica penetrante dei presupposti).

Sotto il secondo aspetto, è necessario ridefinire scopo e contenuti dei poteri probatori del giudice che, superata l’originaria dimensione di residualità, ha finito per espandersi in una dimensione alla quale non sfugge l’orizzonte dell’attrazione al finalismo del processo.

E’ necessario ricondurre il suo ruolo alle sole situazioni nelle quali sia per il giudice impossibile determinarsi sulla scorta delle risultanze processuali, evitando che la sussistenza di oun fatto implichi l’obbligatoria determinazione di un colpevole.

Si tratterà di impostare questo profilo secondo la logica delle regole di giudizio di cui all’art. 530 cpv. ed all’art. 533 c.p.p.

Come detto in premessa, le prospettive riformatrici non possono non muoversi al di fuori della cornice storica e ordinamentale del nostro Paese.

Ci si interroga spesso sulle ragioni per le quali la scelta del 1988 non abbia fatto maturare i frutti che si auspicavano.

Non bastano le etichette a plasmare un processo: ci vuole una cultura, cioè, un dato che si radica nel sentimento di una società.

Al di là delle possibili etichette che spesso servono a confondere la realtà con i propositi, un sistema processuale va letto in relazione alle attribuzioni e ai poteri attribuiti ai singoli organi.

Sarà opportuno citare Carrara “Quando nel decimoterzo secolo la foggia torta di giudicare (propria delle ordalie) screditossi sotto gli anatemi del quarto Concilio Lateranense del 1215, nacque il processo inquisitorio: la giustizia penale venne in mano dei legisti. Modulatosi nel tempo in quello che si usa definire sistema misto, il processo si connota per la sua perpetua variabilità, derivante dalla maggiore o minor prevalenza dell’uno sull’altro elemento di cui si fa la mistura.

Il concetto generale del processo misto non è la compenetrazione dei due processi, per guida che ne sorga un terzo metodo tutto speciale; non è la mixtio in senso proprio; è piuttosto la riunione e l’alternamento di ambedue le vecchie forme.

Non è il metallo corinzio risultato dalla fusione di molti metalli; è un mobile del quale una parte è di rame e una parte di argento; in cui possono le parti erose prevalere sulle argentine, e viceversa a piacimento dell’artefice. La parte di rame si rappresenta qui dal processo inquisitorio; la parte di argento dallo accusatorio. Il pregio della istituzione aumenterà quanto più predomina lo elemento di maggior valore, che è quanto dire quanto più il processo inquisitorio troverà confinata la sua efficacia nello stadio preparatorio del giudizio criminale, ed anche in questo potrà cedere il luogo a forme accusatorie, e quanto meno avrà influenza nello stadio esecutivo del medesimo.

La mistura nel moderno giudizio penale sta nel fare due processi distinti: l’uno dei quali nella prima formazione di questo nuovo processo fu tutto inquisitorio, l’altro ha certi caratteri dell’accusatorio. Laonde in questo sistema bisogna distinguere i due periodi che lo compongono”.

Queste riflessioni consentono di chiarire le difficoltà di far circolare dentro il nostro sistema culturale i parametri di un modello che nel tempo ha assorbito e metabolizzato i tratti del riferito schema processuale, strutturandolo nel suo codice genetico.

Le possibili variabili che si è cercato e si cerca di introdurre trovano, così, non secondarie azioni di rigetto e di resistenza da parte dei pubblici operatori di giustizia – sia giudici sia pubblici ministeri – titolari di una comune visione del processo.

Anche in tema di giustizia – e soprattutto di giustizia penale – non si può non continuare a fare i conti con il passato.

 

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