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Rito direttissimo e termine a difesa: possibile la successiva richiesta di riti alternativi

Corte costituzionale, 2 dicembre 2022 (ud. 10 novembre 2022), n. 243
Presidente S. Sciarra, Redattore S. Petitti

Con la sentenza in esame, il giudice delle leggi si pronuncia su un tema molto sentito nelle aule di tribunale: la questione riguarda la successiva proponibilità delle istanze di accesso a riti alternativi ove, convalidato l’arresto, il difensore abbia già chiesto la concessione del termine a difesa ai sensi degli artt. 558 co. 7 (rito direttissimo innanzi al giudice monocratico) o 451 co. 6, c.p.p. (rito direttissimo innanzi al tribunale in composizione collegiale). La soluzione, lunghi dall’apparire scontata, è resa opinabile dalla laconicità delle norme su richiamate, le quali non appaiono affatto esaustive.  

Infatti, per quanto attiene al direttissimo monocratico, si prevede che, dopo la convalida si proceda al giudizio (art. 558 co. 6, c.p.p.), che l’imputato abbia facoltà di chiedere un termine per preparare la difesa e che, quando si avvale del termine, il dibattimento resti sospeso fino all’udienza successiva (co. 7); infine, che subito dopo l’udienza di convalidal’imputato possa formulare richiesta di abbreviato o patteggiamento (co. 8).

Allo stesso modo, con riferimento al direttissimo collegiale, si prevede che il presidente avvisi l’imputato delle facoltà di chiedere l’accesso ai riti alternativi e un termine per la preparazione della difesa (art. 451 co. 5 e 6, c.p.p.), e che, quando l’imputato si sia avvalso della facoltà da ultimo citata, il dibattimento sia sospeso fino all’udienza successiva (art. 451 cit., co. 6, secondo periodo).

Va incidentalmente rammentato che trattasi di un diritto che, ove esercitato mediante la richiesta di rinvio, dev’essere salvaguardato dal giudice a pena di nullità a regime intermedio, derivante dalla violazione del diritto all’assistenza dell’imputato (conf. Cass. sez. V, 16 marzo 2022, n. 8951).

Sul punto, in ordine al coordinamento tra termine a difesa e riti alternativi, si sono formati due orientamenti di legittimità.

Secondo l’orientamento maggioritario, la richiesta del termine a difesa preclude la successiva istanza di ammissione a riti alternativi, per due motivi: 1) sotto il profilo letterale, il fatto che la norma menzioni la sospensione del dibattimento presuppone che esso sia già stato dichiarato aperto, con la conseguenza che la richiesta di riti alternativi avanzata all’udienza successiva sarebbe tardiva; 2) sotto il profilo teleologico-funzionale, avuto riguardo al fondamento del direttissimo, i riti alternativi dovrebbero essere chiesti immediatamente dopo la celebrazione dell’udienza di convalida, in base all’esigenza di «immediatezza e contestualità del giudizio rispetto alla convalida» (in tal senso, Cass. sez. V, 10 marzo 2021, n. 9567).

L’adesione a questa opzione ricostruttiva implicherebbe per logica che, ove l’imputato voglia chiedere l’abbreviato o il patteggiamento, deve farlo un istante dopo la convalida del suo arresto; ove invece voglia profittare del termine per allestire la strategia processuale, deve rimanere silente, attendere la costituzione delle parti, la trattazione delle questioni preliminari, la dichiarazione di apertura del dibattimento e poi chiedere la concessione del rinvio.  

Stando all’opposta tesi giurisprudenziale, minoritaria, la concessione del termine a difesa non preclude, sino alla formale apertura del dibattimento di primo grado, la richiesta di riti speciali (Cass. sez. VII, ord. 6 luglio 2017, n. 32867); pertanto, l’imputato fruirebbe della più ampia facoltà di scelta, potendo chiedere l’accesso a un rito alternativo, oppure decidere di sostenere il dibattimento, o chiedere il termine a difesa restando impregiudicate le scelte anzidette, che egli potrebbe attentamente valutare sino alla dichiarazione di apertura del dibattimento nell’udienza successiva.

Prima di esporre le argomentazioni con cui la Corte costituzionale ha risolto il quesito, giova subito rilevare come l’argomento letterale propugnato dalla tesi maggioritaria non appaia poi così solido, in quanto poggia sull’assunto per cui la sospensione del dibattimento presupponga necessariamente che esso sia stato aperto e che, naturalmente, i termini per l’ammissione ai riti alternativi siano stati così varcati.

Si tratta di un’affermazione che non convince. Appare infatti alquanto discutibile ritenere che il legislatore abbia inteso regolare una così delicata attività procedurale, imperniata sul rapporto tra riti alternativi, termine a difesa e dibattimento, non in modo espresso ma adoperando una locuzione in grado di evocare, solo implicitamente, la necessaria preesistenza dell’ordinanza di apertura del dibattimento alla richiesta di rinvio con termine a difesa.

Molto più plausibile è, invece, che il legislatore abbia adoperato il lemma “dibattimento” o nella sua accezione ampia idonea a includere tutte le attività disciplinate dal Libro VII, Titolo II del codice (“Dibattimento”), inclusi gli atti introduttivi, o quale sinonimo di “giudizio”, in questo modo considerando anche la possibilità, in effetti concretamente avverabile e anzi particolarmente diffusa nella prassi, che la richiesta di termine a difesa si insinui temporalmente tra la (nuova) costituzione delle parti successiva alla lettura dell’ordinanza di convalida e la pronuncia dell’ordinanza ex art. 492 del codice di rito.

In effetti, interpretando il lemma “dibattimento” secondo un’ampia semantica, non vi sarebbero dilemmi di sorta nell’ammettere un rinvio a dibattimento non ancora aperto, così prevenendo le denunciate incompatibilità col futuro accesso ai riti. 

Neppure inciderebbe in senso ostativo il comma 8 dell’art. 558 c.p.p., nella parte in cui recita «subito dopo l’udienza di convalida, l’imputato può formulare richiesta di giudizio abbreviato ovvero di applicazione della pena su richiesta»: il termine temporale, infatti, non è incompatibile con l’inizio dell’udienza successiva allo spirare del termine a difesa, in quanto si tratterebbe di una richiesta, in buona sostanza, avanzata subito dopo l’udienza di convalida, non essendo state svolte attività intermedie diverse dalla costituzione delle parti – di regola le medesime già presenti alla convalida – e dal rinvio dell’udienza.

La sentenza della Corte costituzionale incide però sul secondo versante, inerente alla non procrastinabilità dei riti alternativi alla luce della ratio del direttissimo, che – secondo il filone di legittimità maggioritario – sarebbe contrassegnato da una esigenza di immediatezza che osterebbe a ogni riserva difensivacirca le istanze ex artt. 438 ss. e 444 ss. c.p.p.; si ritiene tale interpretazione violativa del diritto di difesa ex art. 24 Cost.

Riprendendo una consolidata giurisprudenza costituzionale, la Consulta definisce l’accesso ai riti alternativi una modalità qualificante dell’esercizio del diritto di difesa, che merita di essere soppesata «con piena consapevolezza delle possibili conseguenze sul piano sanzionatorio connesse all’uno o all’altro rito» e non sacrificata «sull’altare della speditezza dei tempi processuali» (paragrafi 4 e 4.1. della motivazione in diritto). Le esigenze di celerità connesse alla natura del rito non possono e non devono, in altri termini, comprimere l’adeguata ponderazione della strategia processuale.

Dunque, si conclude affermando la possibilità – nell’ambito del rito direttissimo – di fruire dei termini a difesa restando impregiudicata la successiva scelta di un rito alternativo; in questo senso, le norme censurate dal giudice rimettente sono dichiarate incostituzionali ove interpretate secondo l’orientamento restrittivo superiormente esposto.

Sotto il profilo dogmatico, trattasi di una particolare tipologia di decisione, classificata come sentenza di incostituzionalità interpretativa, particolarmente dibattuta in dottrina, poiché con essa non si dichiara incostituzionale una norma giuridica ma si stigmatizza, con effetti erga omnes, una sua interpretazione ritenuta contraria ai principi costituzionali.

In effetti, questo tipo di pronuncia mira al superamento di una impostazione giurisprudenziale consolidata, tendenzialmente assurta al rango di diritto vivente, imponendo una diversa esegesi compatibile con l’impianto costituzionale.

Com’è noto, uno dei requisiti affinché la questione di legittimità costituzionale sia ritenuta ammissibile è che il giudice rimettente abbia invano tentato una interpretazione della norma censurata che elimini i punti di attrito con la Costituzione: nel caso di specie, ad esempio, il giudice rimettente avrebbe ben potuto interpretare il coacervo di norme censurate, in modo conforme alla Carta costituzionale, in guisa tale da consentire – in omaggio al canone ex art. 24 Cost. – l’accesso ai riti alternativi anche dopo lo spirare del termine a difesa, poiché trattasi, come anticipato, di interpretazione non in contrasto col tessuto logico-letterale degli artt. 451 e 558 c.p.p.

Tuttavia, si sarebbe trattato di una decisione agevolmente impugnabile e annullabile, alla luce dell’orientamento contrario – quasi granitico – adottato dal giudice di legittimità.

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