Sommario: 1. Premessa. – 2. Il codice autoritario. – 3. Il codice della continuità con la tradizione liberale. – 4. Il codice attuale. – 4.1. I primi interventi riformatori. – 4.2. I limiti di una riforma penitenziaria fuori dal codice. – 4.3. La timida riforma Orlando e gli interventi della Consulta nell’ottica costituzionale. – 4.4. Involuzioni normative e tentativi di riforma nell’ottica delle commissioni di studio. – 5. Codice penale e codice processuale penale: quale sintonia? – 6. Conclusione.
1. Premessa.
Una riflessione sui novant’anni di vita del codice penale Rocco, non è un’indagine di poco conto. L’analisi, in una prospettiva critica, evidenzia i limiti e le contraddizioni di tanta longevità. Limiti, dettati dal mutato contesto storico-politico e, soprattutto, da quella trasformazione sociale che ha comportato l’affermazione di nuovi valori ai quali non possono non riferirsi, rispetto a prima, diverse gerarchie e prospettive di valutazione. Nuovi diritti dunque, ma anche nuovi doveri; diritti e doveri che diventano inviolabili ed inderogabili con l’avvento del Patto Costituzionale, ridisegnandosi così il ruolo della materia penale, le cui esigenze di tutela non possono oltrepassare la barriera del rispetto della dignità umana.
Bisogna poi tener presente il fattore tempo, strettamente collegato al dato giuridico; esso, comportando mutamenti significativi nel succedersi dei fatti, evidenzia carenze di tutela rispetto a tipologie di aggressioni tipiche dell’attuale società dinamica, che non possono non tradursi in accadimenti storici normativizzati.
La modernità, largamente intesa, portatrice non solo di valori nuovi, ma anche di ulteriori e più raffinate esigenze di tutela, pretende un ammodernamento normativo capace di fare fronte al fenomeno criminale attuale sempre più sofisticato, sfuggente e globalizzato. Situazioni tutte, lontane ed inimmaginabili rispetto all’esperienza del Codice Rocco. Codice questo, sicuramente attento – fin troppo! – alla prevenzione-repressione del fenomeno criminale dell’epoca, ma insufficiente ed inadeguato rispetto ai nostri tempi. Eppure, ancora oggi celebriamo, critichiamo e, al contempo, ci affidiamo, restiamo ancorati, ad un Codice che sopravvive al momento politico autoritario che l’ha fortissimamente voluto, in un periodo antico, che precede l’avvento della nostra Carta Costituzionale.
Le ragioni di tanta sorprendente longevità, possono trovare comprensione solo attraverso una pur breve indagine sul periodo storico-ideologico che quel codice ha forgiato, e di cui esso stesso è immancabile espressione. Occorre rammentare, che i movimenti di codificazione e le istanze riformatrici, risalivano già alla fine della prima guerra mondiale, a causa del forte divario creatosi tra classi sociali, che sfociò in contrasti politico-ideologici, non facili da fronteggiare per lo Stato liberale dell’ epoca.
Tutto ciò non poteva non riverberarsi sul dibattito tra le diverse correnti penalistiche, evidenziando la necessità-urgenza di sostituire il vecchio Codice dell’Italia unita (c.d. “Zanardelli”), con qualcosa di più moderno, maggiormente attento a quelle ingiustizie sociali incrementate dalla guerra; un codice cioè, che fosse in grado di attenuare il carattere classista del diritto penale liberale. Arturo Rocco si rivelò essenziale per l’attuazione di questo programma; già nel 1910 nella sua prolusione all’Università di Sassari([1]), mise in luce le linee portanti del metodo tecnico-giuridico che, divenendo il nuovo indirizzo penale, influenzò, e non solo in Italia, l’intera impostazione dogmatica del diritto penale, componendo anche il contrasto tra la Scuola classica e quella positiva. Premessa questa fondamentale ed utile per comprendere come, il vigente codice penale, si prestò a diventare espressione dell’assetto statuale voluto dal regime fascista, in un periodo in cui il rispetto delle libertà non occupava, nella scala dei valori, un posto preminente.
Si celebrò così il definitivo superamento del Codice Zanardelli (1889), caratterizzato invece da quell’impronta spiccatamente liberale in linea con la politica giolittiana dell’epoca. Venne quindi trasfuso nel codice quel nuovo pensiero giuridico, facente capo ad Arturo Rocco che, senza disconoscere la necessità di uno studio interdisciplinare dei fenomeni criminosi, rivendicava il primato del metodo giuridico ‘distinto’, ma non ‘separato’, dalle altre discipline sociali([2]). L’intento era quello di elaborare un metodo di studio che avesse ad oggetto l’analisi sistematica delle norme penali, libere da qualsiasi contaminazione di cui erano portatrici le due fondamentali scuole di pensiero dell’epoca. S’intendeva propugnare cioè, un metodo autonomo, giuridico-positivo da cui dedurre autonomi principi normativi, fondati su basi giuridicamente rigorose, al di fuori di qualsiasi astrattezza metafisica. La scelta dell’eminente Studioso fu quella di ricostituire in capo al diritto penale, la dignità di scienza giuspositiva, conferendogli autonomia scientifica, per meglio caratterizzarne gli istituti, attingendo comunque alle altre branche del sapere, in funzione, si, complementare, ma, anche, di ausilio necessario per una interpretazione sistematica del diritto, scevra da ogni formalismo([3]). La preponderante natura tecnica del codice sembra prevalere su quella politico-ideologica, ridisegnando un metodo che consegna al diritto il titolo di scienza giuridica, il cui oggetto di studio non sono le cause della criminalità ma le norme giuridiche vigenti. Si delinea così un preciso e necessario spartiacque travasato poi nel codice: la separazione tra dogmatica (scienza giuridica) e politica criminale. L’autonomia di quel pensiero giuridico, improntato ad una severa impostazione dogmatica, seppur ispirato ad una salda dottrina di reazione, non permise mai di definire Arturo Rocco e la sua opera ‘servile’ al regime, quasi un ‘commis de l’Etat’.
In conclusione, la produzione del Codice, nonostante la tendenza autoritaria, rispecchiava i principi della tradizione penalistica liberale, sintetizzandoli con istituti marcatamente autoritari, mantenendo l’influenza della scuola positiva, senza mai perdere coerenza ed unità sistematica. Qualificare, tout court, questo Codice come “fascista”, sarebbe riduttivo e soprattutto non veritiero. Un Codice “solo” fascista, in considerazione del tempo trascorso e, principalmente, dei nuovi valori propugnati nella nostra Carta Costituzionale, non sarebbe in alcun modo utilizzabile, neanche attraverso quell’opera di continuo adattamento, correzione, manipolazione fino ad oggi effettuata, i cui risultati (ahimè!), non possono definirsi encomiabili.
2. Il codice autoritario.
E’ palese come il tecnicismo giuridico si sia facilmente prestato ad un ‘uso politico’, permettendo al giurista, nell’esegesi della legge, di ignorare qualsiasi valutazione critica, rifugiandosi in un formalismo concettuale, consono al clima autoritario, al quale lo stesso Rocco assicurò il proprio appoggio. L’influenza del regime autoritario, sicuramente, ha significato la rinuncia da parte dell’interprete ad ogni funzione critica o giustificazione del diritto penale, assicurandone la fedeltà ideologica che, però, si badi, per il legislatore del 30, non ha mai significato incondizionata adesione politica.
La severa impostazione dogmatica di Arturo Rocco, fondata sulla ricerca di una nuova unità logica per l’ordinamento giuridico, rappresentò l’occasione valida per affidare all’ideologia dello Stato forte e autoritario, il monopolio per operare scelte giuridiche. E proprio nella nuova idea di Stato, così diversa da quella propugnata nel Codice Zanardelli, si evidenziò il pensiero politico dell’epoca, dove il diritto di punire non consisteva in «una graziosa concessione fatta dagli individui allo Stato medesimo ed avente a proprio limite la barriera insuperabile del diritto naturale di libertà dell’individuo», bensì in «un diritto di conservazione e di difesa proprio dello Stato, nascente con lo Stato medesimo e avente lo scopo di assicurare e garantire le condizioni fondamentali e indispensabili della vita in comune»([4]). Le linee portanti di una tale concezione, trasfusa nel Codice, significavano la fine dell’esperienza postunitaria, contrassegnata da quella visione contrattualistica propria dell’illuminismo, dove il diritto era in funzione delle libertà dei singoli. Un’accentuata concezione statalistica-pubblicistica, ha ispirato il Codice del ’30; i beni della persona venivano tutelati in funzione di interessi statuali, cioè si strumentalizzavano per una tutela superindividuale, evanescente, consentendosi così l’intrusione dello Stato nella sfera delle libertà del singolo. Insomma, si è sottratta la titolarità del bene, alla disponibilità del legittimo titolare, rendendosi quel bene, espressione massima del principio di autodeterminazione, indisponibile. Ciò ha comportato quella visione c.d. “paternalistica” del diritto penale, che ancora oggi in alcuni casi permane, nonostante il primato della persona sancito dalla nostra Carta Costituzionale. Visione quella, in assoluta coerenza con l’idea dei rapporti tra Stato e individuo operante nel contesto storico in cui si sviluppò il Codice Rocco. Il diritto, incarnato nello Stato, si sostituisce d’autorità nelle decisioni anche più intime dell’individuo rimuovendone la titolarità individuale, trattandosi di interessi superiori, il cui fondamento risiede nello Stato etico, nella religione di Stato, fino ad immaginare un paradossale interesse statuale allo sviluppo demografico. Una tutela dunque, incentrata sullo Stato-persona, cioè su un elemento spiccatamente politico che incarna la difesa dell’apparato di potere del fascismo, piuttosto che i diritti del singolo individuo. Operazione questa che, senza negare quelli che sono interessi individuali, con sapiente tecnicismo, li ha trasformati in categorie pubblicistiche vaghe ed astratte, dove la persona è un mero riflesso-strumento, utile e necessario allo sviluppo dello Stato-nazione.
Esempi sconcertanti di una tale visione sono i delitti di aborto e di violenza sessuale, espressioni autentiche di interessi squisitamente personali, essi furono collocati, rispettivamente, tra «i delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe», titolo ormai a ragione abrogato, e tra «i delitti contro la moralità pubblica e il buon costume», questo invece svuotato di qualsiasi contenuto ma (sigh!) ancora esistente. Con ciò si è inteso evidenziare non solo quella subordinazione funzionale della persona alle esigenze dello stato etico, ma anche, in nuce, quell’angolazione palesemente razzista, che sfociò poi nelle leggi razziali. L’autorità dello Stato, rafforzata da un forte inasprimento del sistema sanzionatorio e da una dilatazione dell’area del controllo penale, si realizza e culmina nell’impianto della parte speciale, dove l’ideologia dell’epoca trovò la sua massima espressione. È indubbio che la soppressione, nel libro secondo, «dei delitti contro la libertà», e la sostituzione del titolo previsto sempre nel Codice Zanardelli «dei delitti contro la sicurezza dello Stato», con quello «dei delitti contro la personalità dello Stato», segnano la fine del processo storico di liberalizzazione del diritto penale, cristallizzandosi definitivamente il diritto assoluto dello Stato fascista all’obbedienza per la tutela della propria sicurezza, meglio, esistenza e conservazione. I delitti politici rappresentano l’espressione più bieca del rigorismo autoritario del codice Rocco. La difesa del regime qui esprime la sua massima efficienza, attraverso il proliferare di un numero indefinito ed ideologizzato di fattispecie criminose, caratterizzate da indeterminatezza e pericolosità presunta. Non solo, in tale ottica vengono negati tutti i diritti politici del cittadino, che diventano funzionali allo Stato nell’ambito delle norme che puniscono gli attentati contro la personalità di questo. E proprio attraverso i delitti di attentato, dove l’anticipazione della punibilità agli atti preparatori si unisce ad una costruzione del fatto su concetti vaghi e onnicomprensivi, si è voluto esprimere la “supertutela” accordata dallo Stato a se stesso. Insomma, l’azione politica dello Stato, non poteva essere compromessa in qualsiasi campo essa si fosse svolta. Di qui, la precedenza gerarchica degli interessi pubblici su quelli privati con la massima valorizzazione dello Stato, differenziò in modo evidente il codice Rocco da quello previgente. Basti pensare alla particolare cura dedicata alla costruzione capillare ed organica delle figure dei reati associativi, tesi a colpire soprattutto quelle associazioni politiche che «limitavano la loro attività alla diffusione delle idee, cioè all’affermazione teorica degli obiettivi politici, che costituivano il loro programma»([5]); per questa via la repressione penale del dissenso politico rappresentò lo strumento principale di cui la classe dominante si servì per conservare il proprio potere politico. A tal proposito, utilizzando le parole di Feuerbach, è doveroso affermare come «questo concetto che determina l’alto tradimento semplicemente in base all’intenzione è adeguato ad una legislazione morale che voglia sottoporre al giudice atteggiamenti interiori di alto tradimento, non ad una legislazione civile»([6]).
L’ispirazione autoritaria del codice del ’30 prese forma anche in quel generalizzato inasprimento sanzionatorio che si manifestò con il ripristino della pena di morte([7]) e con la dilatazione delle fattispecie punite con l’ergastolo, nonché con gli aumenti delle pene principali e l’intensificazione delle pene accessorie. Un arsenale sanzionatorio questo, alla ricerca di una pena “esemplare”, che veniva completato da limiti elevatissimi per il concorso materiale ed anche formale; dall’esclusione del giudizio di prevalenza di equivalenza delle circostanze, imputate a titolo di responsabilità oggettiva; nonché dal principio di identità di pena nel concorso di persone. L’introduzione poi del doppio binario, elemento per l’epoca di assoluta novità e accolto con plauso al livello europeo, ha consentito al volto autoritario del regime, un ulteriore controllo penale scisso da qualsiasi vincolo di garanzia, per un tempo potenzialmente illimitato, prescindendo, in moltissimi casi, dall’accertamento in concreto della pericolosità dell’autore, permettendo in tal modo la neutralizzazione del soggetto dissenziente-pericoloso. L’idea preventiva, sia generale che speciale, particolarmente sentita nella legislazione penale italiana degli anni ’30, sull’onda della scuola positiva, formalmente rifiutò una idea unitaria di sanzione, accettando così un “dualismo” teorico, la cui distinzione tra pena e misura consisteva in un criterio squisitamente nominalistico, accomunato da sicura afflizione. Di qui, il piano penal-penitenziario, aveva un rilievo minimo; il reo ed i suoi diritti non rilevavano, e il trattamento veniva imposto coattivamente attraverso un regolamento di esecuzione (r.d. n. 787 del 1931), da perseguire all’interno della struttura penitenziaria, fondato sull’isolamento e l’emarginazione. La sanzione, che nel codice Zanardelli poteva essere anche alternativa al carcere, fu ridotta nel codice Rocco al binomio pena privativa della libertà personale e pena pecuniaria, dove l’eventuale obiettivo del recupero del reo era previsto solo all’interno della struttura penitenziaria, attraverso il lavoro, l’istruzione e la religione, elementi questi necessari per «trasformare il detenuto in un buon fascista»([8]). È evidente che nell’ottica del Codice, tra le funzioni essenziali della pena non rientrava in alcun modo l’emenda e la rieducazione del reo, costituendo queste, semplicemente degli elementi secondari ed accessori, non necessari, da riservare ad alcune peculiari situazioni (minore età), quindi non passibili di generalizzazione. Nel settore del sistema sanzionatorio, orientato in una prospettiva di rigore, il Codice Rocco ha mostrato idee precise: funzione di prevenzione generale intimidativa-negativa, da realizzare mediante la minaccia di pena detentiva, e funzione retributiva- satisfattoria a quella strumentale, da intendersi come pena fissa-immobile tipica delle teorie assolute, dove il tempo della detenzione si ferma.
3. Il Codice della continuità con la tradizione liberale.
Tuttavia, bisogna dare atto, che il Codice Rocco, nelle sue linee fondamentali, non ha mai sconfessato alcuni fondamentali principi espressione del pensiero liberale, patrimonio della scienza penale italiana sin dai tempi di Beccaria. Confermò e potenziò l’importanza del principio di stretta legalità, diversamente dalla Germania nazista che arrivò ad introdurre l’analogia in malam partem. Seppur con eccezioni significative, mostrò attenzione e ricettività verso i fondamentali principi di colpevolezza, con l’assunzione del dolo e della colpa quali normali criteri di imputazione, rispettivamente, dei delitti e delle contravvenzioni; di offensività, respingendo qualsiasi suggestione riguardo al diritto penale d’autore, ribadendo la propria adesione ad un modello di diritto penale del fatto, in contrasto anche qui con la tendenza della Germania nazionalsocialista, che preferì una concezione del reato in chiave soggettiva, come violazione del dovere di fedeltà verso lo Stato. Non può non riconoscersi al legislatore del ’30, la straordinaria capacità tecnico-giuridica nella definizione teorica degli istituti più importanti di parte generale, dove ha avuto luogo un notevole incremento delle norme che, da 103 articoli previsti dal precedente Codice Zanardelli, diventano 240.
L’accuratezza formale del Codice si evidenzia inoltre per l’introduzione di svariate norme interpretative-definitorie, la cui funzione, essendo finalizzata a risolvere ambiguità esegetiche, agisce anche da direttiva prefissata dalla legge per facilitare l’interprete nella individuazione delle scelte di valore operate dal legislatore. La disciplina risulta estremamente dettagliata, fino a prevedere norme di legge: 1) per regolamentare lo stesso atto da interpretare (per es. l’art. 12 delle preleggi al Codice civile); 2) per dirigerlo verso una interpretazione predeterminata (“agli effetti della legge penale”, artt. 4, co. 2, 8, 203 c.p.); 3) per serbargli un uso diverso da quello ordinario (artt.4, co. 2, 8, co. 3, 94, 101, 529 c.p.). Seppure la notevole mole di norme definitorie può apparire ridondante, è innegabile la loro natura integrativa e, quindi, innovativa dell’interpretazione, vincolando in vario modo il lettore, sottraendogli, in parte, iniziative autonome che vadano oltre la legge scritta([9]). L’attualità, e soprattutto, la necessità di tecniche normative che propongono l’uso di norme definitorie al fine di assicurare maggiore certezza del diritto, è stata ribadita e riproposta nei recenti Progetti di Riforma ministeriali, attraverso la creazione di ulteriori nozioni e di più precise specificazioni, prevedendo un migliore coordinamento all’interno di un unico articolato ovvero per gruppi di materie([10]).
Il potenziamento delle definizioni teoriche di parte generale, perteneva anch’esso ad esigenze di certezza ma anche di metodo, riguardando la struttura generale-essenziale dei vari istituti, necessaria per l’esistenza del reato e della punibilità. Il legislatore, in alcuni di questi casi, riuscì anche ad aggirare il regime, mediante un erudito utilizzo di costruzioni tecnico-giuridiche di difficile decodificazione, la cui interpretazione sistematica, almeno in una democrazia liberale, avrebbe condotto alla vera ratio legis della norma in questione; Il riferimento è al delitto tentato (art.56 c.p.). Considerazioni politiche([11]), pretesero di anticipare gli atti punibili a titolo di tentativo già nella fase degli atti preparatori, in contrasto con l’art. 61 del Codice Zanardelli che puniva chi «al fine di commettere un delitto ne comincia con mezzi idonei l’esecuzione». La scelta di fondo del legislatore del ‘30 fu, anche qui, nel senso di avvalorare un diritto penale del fatto, dove l’estensione della responsabilità anche a chi tenta di realizzare un fatto delittuoso, fosse consentita solo se gli atti compiuti fossero stati idonei a commettere un delitto, fossero quindi, offensivi di un bene giuridico (con pena diminuita). E non solo, il legislatore ha richiesto anche l’univocità di quegli atti, intendendo con ciò la potenzialità di questi a produrre la lesione del bene giuridico; gli atti cioè, devono rivelare che l’agente ha iniziato a commettere un determinato delitto e non un altro. A conferma di tutto ciò il legislatore del ’30, nella qualificazione del delitto tentato rispetto al consumato, ha utilizzato l’espressione «l’azione non si compie», intendendo che l’azione descritta dalla norma incriminatrice, seppur non completata, risulti essere quantomeno iniziata. L’autorevole conferma a quanto sopra riportato, è comprovata da una pronuncia della Corte costituzionale (n. 177 del 1980), dove si afferma che «diretti in modo non equivoco a commettere un delitto possono essere esclusivamente atti esecutivi, in quanto […] soltanto dall’inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione univoca dell’atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall’agente». Insomma, ciò che si intende affermare è che, l’eliminazione della formula dell’inizio dell’esecuzione, presente nel codice Zanardelli, non sarebbe stata sufficiente ad anticipare agli atti preparatori, la punibilità a titolo di tentativo. Lo vieta la coerenza sistematica che nel codice Rocco è nella direzione di un diritto penale del fatto, a prescindere da alcune incriminazioni di carattere politico dove l’influenza del regime purtroppo ha prevalso. Quel legislatore del ’30, seppur con formule non del tutto limpide, scientemente eliminò dall’area della punibilità gli atti meramente preparatori, lo conferma l’art.115 c.p., in cui l’incontro di due o più volontà, rileva solo sul piano della pericolosità; e lo comprova la Relazione al Re laddove (nonostante le intenzioni espresse altrove), viene cancellata la distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi, affermandosi che l’accordo e l’istigazione non sono punibili se il reato non è commesso; si sottolinea poi, che «le espressioni reato commesso, commettere un reato […] si riferiscono a tutto il processo esecutivo, e quindi anche al tentativo» (n. 6).
Altro elemento di assoluta novità rispetto al codice Zanardelli, è l’inserimento dei primi due titoli, dedicati rispettivamente uno al reato e l’altro al reo ed alla persona offesa dal reato, la cui trattazione si impose per solidità sistematica nel mondo giuridico. La disciplina prevista nel titolo primo, del libro primo, dedicato all’applicazione della legge penale, rispecchia un elemento di grande modernità, concludendo con l’art. 16 c.p. (Leggi penali speciali). Emblematica norma questa, di raccordo tra le diverse parti del sistema penale che, prevedendo l’applicabilità delle disposizioni del codice penale anche alle materie regolate da altre leggi penali, adombra, già all’epoca, l’importanza di una fondamentale unità dogmatica, orientata ad eliminare incertezze sistematiche, fissando nel “Codice” il centro del sistema penale. Centralità che, seppur in un’ottica diversa, è stata ribadita e potenziata dall’introduzione con il d.lgs. n. 21 del 2018, attuativo della Legge delega n. 103 del 2017 (c.d. “Legge Orlando”), dell’art. 3-bis c.p. «Principio di riserva di codice». Tale norma, è stato limpidamente detto([12]), deve costituire “vincolo normativo” per il legislatore, traducendo un valore antico, e cioè il raggiungimento di un processo, purtroppo al momento inattuato, di razionalizzazione del sistema penale, da intendersi come garanzia di conoscenza e comprensione, nella miriade di microsistemi normativi esistenti([13]).
L’impianto sanzionatorio, pur orientato ad un drastico aumento delle pene, da realizzare mediante l’intimidazione (efficace controspinta al delitto), a cui deve far seguito la funzione retributiva-satisfattoria, introducendo il c.d. doppio binario, espressione certamente di un compromesso con la scuola positiva, non si è discostato dai principi fondamentali della responsabilità penale espressi dalla tradizione classica; si applica la pena al soggetto imputabile di un fatto di reato e la misura di sicurezza al soggetto pericoloso dopo la commissione di un fatto reato. Le misure di sicurezza vengono definite «concorrenti, ma nella loro essenza distinte dalla pena»([14]). Lo stesso art.133 c.p., norma questa, non esente da critiche per le forti incertezze applicative che pur contiene, detta al giudice, nell’esercizio del potere discrezionale, indici orientativi sulla commisurazione della pena, ribadendo la necessità di tenere conto della gravità del reato, e cioè del disvalore dell’azione criminosa comprensiva del contributo soggettivo, per poi guardare alla personalità, adeguando-individualizzando la pena alla capacità a delinquere del reo. Si conferma così, l’ancoraggio al diritto penale classico, con qualche agevolazione alla concezione positivistica, contraddistinta dallo studio della personalità umana e del suo trattamento([15]). Certamente la finalità intimidativa-negativa, sovrasta il sistema sanzionatorio, come evidenziano le numerose ipotesi di responsabilità oggettiva nonché la parificazione del trattamento di tutti i concorrenti nel reato. Questo però, non deve considerarsi prerogativa dello stato fascista, appartenendo l’intimidazione alla tradizione della scienza penale. Si deve quindi riconoscere che, nel nostro sistema, la pena, almeno formalmente, non ha mai smesso di coniugarsi con il principio di legalità, che ne impone l’entità predeterminata rispetto all’evento criminoso, misurata in relazione all’effettiva gravità di questo; anche se, va detto, per altri versi, si è lasciato ampio spazio alla discrezionalità ed alla pericolosità sociale. È da aggiungere che il compilatore del Codice, raffinato giurista formatosi comunque in epoca prefascista, non avrebbe mai potuto sconfessare, come accadde in Germania, i principi di garanzia liberale e, pur ispirandosi, ad una filosofia statalistico-conservatrice, ha continuato a coniugarli con lo Stato di diritto([16]).
Contestuale al Codice penale Rocco e retto da un’unica filosofia, fu il Codice di procedura penale anch’esso entrato in vigore il 1 luglio 1931. Il rigoroso coordinamento tra i due testi normativi consentì un funzionamento che, seppur criticabile, sicuramente assicurò efficienza al regime([17]). L’ideologia politica dell’epoca, intendendo affermare la preminenza dello Stato sull’individuo, non poteva non rafforzare, anche nel campo processuale penale, la pretesa punitiva, con conseguente affievolimento dei diritti della persona. Le novità caratterizzanti il Codice di procedura penale, seppur conservasse una struttura bifasica tipica dei sistemi misti, erano tutte nella direzione reazionaria. Risultavano accresciuti i poteri del pubblico ministero, agente del potere esecutivo, che tornava a poter archiviare senza alcun controllo giurisdizionale; si alzarono i termini massimi della carcerazione preventiva, diventando questa quasi la regola, dal momento che la libertà personale non aveva un ruolo centrale nel processo, dovendo la potestà punitiva perseguire il crimine senza indulgere verso i delinquenti. Il regime autoritario non poteva consentire alcuna dialettica processuale, né tantomeno parità di diritti e poteri tra l’organo accusatorio e l’imputato. La scelta operata dal legislatore nel suddividere il processo penale in due fasi processuali nettamente distinte e, per alcuni versi, anche antitetiche, non fu frutto di distrazione bensì di avvedutezza in una certa direttiva ideologica. La fase istruttoria, ispirata ad un sistema inquisitorio, veniva connotata da caratteristiche di segretezza sia interna che esterna, da un pubblico ministero che in alcuni casi agiva come se fosse un giudice, ricercando e formando prove, e poi utilizzandole nel dibattimento, questa volta in veste di parte; le più gravi nullità formali, un tempo rilevabili d’ufficio, vennero tutte sottoposte a termini di rilevazione brevi. La fase dibattimentale poi, veniva in gran parte vanificata dalle numerose letture di atti istruttori segretamente assunti, invertendosi, così, il rapporto tra regola ed eccezione previsto nei codici precedenti. Insomma, le prove si raccoglievano nella fase segreta condotta dal giudice istruttore, ovvero dal pubblico ministero nell’istruzione sommaria; l’imputato era presunto colpevole e sottoposto a carcerazione preventiva; il dibattimento per la difesa costituiva spesso solo una farsa, un inutile esercizio di retorica, dal momento che il convincimento del giudice si fondava su quanto già risultava nei verbali. In breve, le deviazioni dal modello classico, nonostante alcuni principi formalmente riconosciuti, erano evidenti sia nel codice penale che in quello processuale penale, deviazioni tutte orientate verso la direttiva ideologica dello Stato fascista. Un tale armamentario normativo, imponente e coerente, indipendentemente da ogni giudizio in ordine al suo contenuto, non poteva non assurgere a sistema e, quindi, funzionare, anche se, probabilmente, tanta armonia solo «un regime dittatoriale poteva realizzare [la] in tanto breve tempo e con tale simultaneità»([18]).
4. Il Codice attuale.
4.1. I primi interventi riformatori.
L’apparente rispetto dei principi fondamentali, e l’impareggiabile tecnica legislativa, riflettendo un Codice chiaro nelle scelte di politica criminale e preciso nel come perseguirle, ne decretarono la permanenza ad oltranza. La capacità di coordinare armonicamente i vari indirizzi giuridici, raccogliendo da ciascuno gli elementi migliori, ne avrebbe consentito nel tempo un opportuno utilizzo. L’indirizzo eclettico, seguito dal codice Rocco, avrebbe permesso di eludere le pur numerose involuzioni autoritarie esistenti, proprio utilizzando la capacità di fondere insieme istituti di matrice autoritaria insieme a principi appartenenti alla tradizione penalistica liberale, senza mai, almeno apparentemente, negarne il valore([19]). Quindi non serviva disfarsene, nè porre mano ad una complessa riforma in un momento così delicato per la storia del Paese; sarebbe bastato emendarlo, modificandone gli aspetti più autoritari e illiberali e, conservando quanto di buono esso conteneva, adattarlo alla nuova realtà costituzionale. Questo, probabilmente, il ragionamento che ha guidato la politica legislativa, nonché la dottrina, nell’immediato dopoguerra. Insomma, né la caduta del regime, nè tantomeno l’entrata in vigore nel 1948 della Costituzione repubblicana che, nel ribaltare il rapporto Stato-cittadino, segnava il nuovo volto della materia penale, ed elevava a centro del sistema la dignità umana presidiata con un elevato numero di garanzie, furono sufficienti ad affrontare la grande riforma del sistema penale. Si è inteso cioè, privilegiandone i ‘pregi’([20]), optare per interventi settoriali, aggiustamenti, leggi extra codicem di facile scrittura, sottraendoli ad ogni confronto con la formidabile tecnica normativa che Arturo Rocco seppe tradurre in Codice. Non sono mancate riforme tese ad eliminare gli aspetti più manifestamente autoritari: si pensi all’abolizione della pena di morte e alla reintroduzione delle attenuanti generiche, della scriminante della reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale e della prova liberatoria nei delitti contro l’onore; nonché, all’abrogazione del titolo X, «dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe», il cui contenuto è stato riscritto ed è confluito nella L. n. 194 del 1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza; legge questa la cui centralità è comunque la tutela del nascituro e della madre, valori quindi fondamentali per una società che si fonda sul principio personalistico, che bene avrebbe meritato l’inserimento all’interno del codice, tra i delitti contro la persona([21]). La stessa farraginosa “Legge Merlin” (n. 75 del 1958), seppur apprezzabile nelle intenzioni, in quanto abolì la regolamentazione della prostituzione ed il severo regime di controllo sanitario e poliziesco all’epoca vigente, introdusse i reati di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione che, per la loro portata, avrebbero meritato una ordinata e meglio studiata sistemazione all’interno dell’impianto codicistico, trattandosi di fattispecie che offendono primariamente la dignità della persona([22]). La stessa materia in tema di stupefacenti, prima contenuta all’interno del codice penale e limitata a sanzionare i profili negativi del fenomeno sull’ordine pubblico, è stata estrapolata e disciplinata in modo autonomo con un susseguirsi di provvedimenti non sempre lineari.
Non sono mancati interventi riformatori in direzione del dettato costituzionale, accolti con un iniziale entusiasmo, naufragati poi, in mancanza di quell’adeguato e coerente sviluppo che avrebbe potuto effettivamente trasformare la legislazione penale rispetto alla filosofia del Codice Rocco. Si pensi alle robuste campagne di depenalizzazione iniziate con la L. n. 689 del 1981 e proseguite con la Legge delega del 1999 n. 205 e, ancora, con la Legge delega n. 67 del 2014, nonché con i collegati d.lgs. n. 7 e n. 8 del 2016. Com’è noto la L. n- 689 del 1981, oltre ad occuparsi di depenalizzazione ed a disporre in modo organico le basi del diritto penale amministrativo nella direzione del principio di sussidiarietà, ha dettato una politica sanzionatoria differenziata attraverso l’introduzione delle pene sostitutive, rimaste per lo più sulla carta in assenza di un doveroso coordinamento con quanto già previsto, per es. con l’istituto della sospensione condizionale.
Non può non citarsi il d.l. n. 99 del 1974 (convertito nella L. n. 220 del 1974) che, al fine di mitigare il rigorismo sanzionatorio presente nel codice Rocco, è intervenuto su vari numerosi istituti in tema di pena, lasciando però immutata la struttura del sistema, limitandosi ad un generalizzatoammorbidimento delle sanzioni,perseguito attraverso un’ampia discrezionalità del giudice([23]); a tutto ciò non ha fatto seguito un programma coerente di politica criminale, teso a rivedere il sistema circostanziale, che riducesse la valenza delle circostanze rispetto al fatto di reato([24]).
4.2. I limiti di una riforma penitenziaria fuori dal codice.
Il vero cambiamento, almeno nei principi ispiratori, avvenne solamente nel 1975 con la L. n. 354 (riforma dell’ordinamento penitenziario), che ha segnato la storica svolta in punto di esecuzione della pena. L’idea dell’emenda del reo e della sua rieducazione attraverso la pena, così come impone il dettato costituzionale all’art. 27, co. 3, non traspare nel codice Rocco, che alla prevenzione speciale dedicava uno spazio esiguo, esclusivamente a proposito dei minori. È evidente che il piano penal-penitenziario aveva un rilievo minimo; il reo e i suoi diritti non rilevavano, e il trattamento veniva imposto coattivamente attraverso un regolamento di esecuzione (r.d. n. 787 del 1931), da perseguire all’interno della struttura penitenziaria, fondato sull’isolamento e l’emarginazione. È necessario ricordare che l’esecuzione, nel codice di procedura penale del 1930, non era parte del processo, bensì un’appendice di quello, e quindi, ad essa non poteva riconoscersi quella natura giurisdizionale che solo il processo di cognizione possedeva. La sanzione diveniva operativa ed era eseguita nel concreto da organi diversi dal giudice, attribuendosi a questa fase natura “amministrativa”, in contrapposizione alla natura “giurisdizionale” che era solo del processo di cognizione. Si evidenziava così il carattere incidentale delle decisioni dopo il giudicato, fondato proprio sulla stabilità assoluta della cosa giudicata e sulla funzione retributiva della pena. La riforma, per quanto encomiabile nelle intenzioni, è risultata parziale, cioè limitata al solo ordinamento penitenziario, quasi che l’esecuzione costituisse l’unico terreno per attuare nel concreto il principio rieducativo, a fronte dell’immobilismo della pena principale detentiva. Infatti, attraverso le misure alternative alla detenzione, la cui precipua finalità special-preventiva avrebbe reso possibile il recupero del detenuto, si doveva operare una effettiva trasformazione della pena già dalla fase edittale che, attraverso la sperimentazione di nuovi percorsi extramurari, la rendesse flessibile, dinamica oltre il giudicato, consentendo, così, il trattamento individualizzato del colpevole. È noto quanto tale lodevole obiettivo riformatore, abbia subito una serie di arresti ed incongruenze dovuti a momenti emergenziali permanenti (ci sia consentito l’ossimoro!). Si è permesso così al legislatore di trasformare l’esecuzione della pena, da un lato in strumento di lotta contro il terrorismo, la criminalità organizzata e, da ultimo, contro il fenomeno corruttivo, attraverso l’irrigidimento dei percorsi penitenziari e preclusioni automatiche collegate al tipo di reato; irrigidimenti, che vengono meno, dando luogo a generosi sconti di pena, per chi collabora con la giustizia, indipendentemente da qualsiasi autentico ravvedimento, ne’ collegamento con la gravità del fatto commesso([25]), purché il tutto risulti utile alle indagini. Dall’altro, si assiste ad un indulgenzialismo diffuso per la delinquenza comune, teso a trasformare la pena detentiva nel corso dell’esecuzione, se non addirittura prima che questa inizi[26], in altra pena alternativa, svilendo così ulteriormente la funzione risocializzante limpidamente imposta dalla Costituzione.
Insomma, le misure alternative alla detenzione, formalmente subalterne alla pena detentiva, diventano altro, svuotate di contenuti atti a costruire percorsi rieducativi individualizzati ed efficaci, si riducono a strumenti automatici esclusivamente deflattivi. Mantenerle poi, all’interno di un regolamento di esecuzione, ha significato alimentare ancora dubbi sulla loro autentica natura, che è da ricomprendere, aderendo a quella impostazione sostanzialistica sviluppata dalla giurisprudenza della Corte EDU e ribadita di recente dalla Corte costituzionale([27]), all’interno della legalità della pena, da collegare direttamente all’art. 25, co. 2, Cost., trattandosi di misure che determinano una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale([28]). Insomma, la situazione attuale evidenzia un’incoerente duplicazione processuale che comporta come risultato quel tanto lamentato senso di ineffettività della pena. La pena detentiva, irrogata e prevista nella fase della comminatoria edittale, altro non fa che ribadire l’idea carcerocentrica, così cara al codice Rocco, rimanendo l’unica privilegiata risposta al reato, salvo poi essere vanificata nella fase dell’esecuzione attraverso l’automatica sostituzione con le misure alternative.
In breve, la Costituzione richiede che la pena sia dinamica in ogni sua fase, sempre coerente col senso di umanità, assumendo la finalità rieducativa il punto di equilibrio del sistema sanzionatorio. Si sono costruiti invece, due binari paralleli, mai convergenti e, spesso, contraddittori sul senso concreto da attribuire al punire. In assenza di un reale coordinamento, si sono create profonde distonie ed interferenze tra pene detentive contenute all’interno del codice penale, e misure alternative previste nella legge penitenziaria, soggette queste ai continui mutamenti dettati, soprattutto, da scelte di politica emergenziale, piuttosto che da una visione comune orientata alla rieducazione del condannato secondo umanità.
4.3. La timida riforma Orlando e gli interventi della Consulta nell’ottica costituzionale.
Bisogna dare atto che la Legge delega n. 103 del 2017 (c.d. “Riforma Orlando”), mostrando una reale sensibilità verso una effettiva revisione del sistema, all’art.1, commi 82, 83, 85, in materia penitenziaria aveva previsto un forte ampliamento dell’accesso alle misure alternative alla detenzione oltre alla eliminazione di automatismi preclusivi (lett. b) c) e d) del comma 85 della legge delega), ed alla valorizzazione della discrezionalità del giudice di sorveglianza nel modulare pene flessibili, e soprattutto orientate al potenziamento di misure extramurarie.
È noto poi, come, la nuova maggioranza governativa, non abbia dato alcuna attuazione alle autorevoli proposte elaborate, pervenendosi ad un testo diverso nelle opzioni di fondo, rispetto al precedente, con conseguente superamento dell’assetto complessivo voluto dalla riforma([29]). Bisogna anche ricordare che l’attuazione dei criteri contenuti nella delega, per quanto apprezzabili, venivano circoscritti alle norme sull’ordinamento penitenziario, lasciando fuori la possibilità di modificare, e quindi coordinare, quanto contenuto nel codice penale, che pur custodisce ipotesi presuntive, alcune introdotte dalla legislazione recente([30]). Si pensi alla disciplina differenziata relativa al bilanciamento delle circostanze per i recidivi reiterati (art. 69, co. 4, c.p.), dove si assiste a continui interventi della Corte Costituzionale diretti a vanificare «l’abnorme enfatizzazione» della recidiva, indice di rimproverabilità e pericolosità, rilevante sul piano strettamente soggettivo, che non può esimersi dall’essere valutata, in relazione anche alle circostanze attenuanti, ( nel caso specifico) del «fatto di lieve entità», volte queste a mitigare, in rapporto ai profili oggettivi, la risposta punitiva. La Corte in più pronunce ha ribadito il principio della necessaria proporzione della pena rispetto alla offensività del fatto(, costituendo, la proporzione, linea guida per il giudizio di offensività, assurgendo a carattere intrinseco della pena in modo da limitare il law enforcement, in relazione ad ogni intervento sui diritti fondamentali, trovando la sua base normativa, seppur indiretta,nell’art. 27, co. 3, Cost. Infatti, il primo requisito del finalismo rieducativo non può non richiamare una pena giusta, e cioè, assiologicamente adeguata e congrua , come essenziale condizione imprescindibile perché si possa tendere al risultato rieducativo([32]).[31])
Non solo, il Giudice delle Leggi, con numerose pronunce, ha chiarito e, dando finalmente forma all’autentico significato dell’art. 27, co. 3, Cost., ha affermato l’irragionevolezza delle presunzioni assolute, limitative dei diritti fondamentali della persona, che negano i caratteri costitutivi della pena, e cioè, la progressività trattamentale da intendersi come flessibilità della stessa. Proseguendo su tale linea, il Giudice delle Leggi, ha bandito dal nostro ordinamento (penitenziario e processuale), qualsiasi generalizzazione posta a base di presunzioni o automatismi di pericolosità, circoscrivendo così il raggio di intervento punitivo, orientandolo sul soggetto, per finalità compatibili con la rieducazione nel rispetto delle libertà([33]).
Questo sta a significare che l’attuazione nel concreto della finalità rieducativa, pretende un tempo necessario durante il quale il soggetto possa cambiare, evolvere, alimentare la speranza di un futuro reinserimento. Intesa così la rieducazione non può non permeare la pena oltre la fase esecutiva, vincolando il legislatore già nella fase ideativa e, conseguenzialmente, il giudice della cognizione nel momento dell’applicazione. Il coinvolgimento della funzione rieducativa su un piano globale, raggiunge così il suo apice con la storica sentenza n. 364 del 1988, dove il collegamento teleologico tra commi 1 e 3 dell’art. 27 Cost., ha portato la Corte ad una rilettura del principio di personalità, da intendersi come «necessaria rimproverabilità della personale violazione normativa», richiedendo la punizione, l’accertamento di un reale contenuto di colpevolezza([34]). L’irrogazione della pena, incidendo sulla massima libertà, deve scaturire solo dalla commissione «di un fatto offensivo realmente dominabile e per ciò stesso voluto e rappresentato […] o almeno rappresentabile […] negli effettivi contenuti di disvalore sociale»([35]). Insomma, l’art. 27 Cost. così egregiamente interpretato, disvela un significato veramente innovativo, che domina l’intera materia penale, pretendendo dal destinatario una consapevole adesione alla legalità che, nel caso di trasgressione, si trasforma in assunzione consapevole di responsabilità verso l’illecito.
L’apprezzabile sforzo operato dalla Corte nel dare una lettura diversa delle disposizioni ordinarie vigenti, seppur encomiabile, si è risolto in una arbitraria forzatura della lettera della legge che, attraverso una interpretazione evolutiva, risulta in antitesi assoluta col codice del 1930, dove tra i criteri di imputazione soggettiva, ancora troneggia l’art. 42, co. 4, c.p. con il suo significato inequivoco: responsabilità oggettiva per chi opera in una condizione di illiceità. Certamente non sono mancati, in sede applicativa, tentativi lodevoli di ricondurre le tante ipotesi di responsabilità oggettiva ai principi di garanzia ben definiti ed imposti dal nostro sistema costituzionale([36]), ma l’immutata formulazione legislativa non ha garantito applicazioni conformi al rispetto di esigenze di certezza. Tuttavia, a quasi ottant’anni dalla nascita della nostra Costituzione repubblicana, è inammissibile che non si sia seguita la strada della legge scritta, al fine di consentire un’applicazione conforme al rispetto di esigenze di certezza, strada peraltro già ben definita dalle numerose pronunce della Consulta, nonché dai vari Progetti di riforma di Codice, dove la responsabilità oggettiva scompare dai criteri di imputazione soggettiva, riducendosi questa agli unici titoli del dolo e della colpa. E non solo, in rapporto alle numerose ipotesi problematiche disseminate all’interno del codice, le soluzioni proposte nei vari progetti di riforma, seppur differenti, formalmente riconducono gli istituti ai principi generali dell’imputazione soggettiva([37]). Probabilmente, seguendo il Progetto “Pisapia”, una integrale eliminazione delle residue ipotesi di responsabilità oggettiva, sarebbe stata meglio riuscita, facendo venir meno qualsiasi dubbio interpretativo sul punto.
Come ribadito dalla succitata pronuncia della Corte cost. n. 364 del 1988, questo comporta che, insieme alla necessaria rimproverabilità soggettiva della violazione normativa, debba emergere «l’illegittimità costituzionale della punizione di fatti che non risultino essere espressione di consapevole, rimproverabile contrasto con i valori della convivenza, espressi dalla norma penale». La pena per essere umana, come vuole l’art. 27, co. 3, Cost., deve consistere in un’azione risocializzante, che non può significare logoramento della funzione punitiva, bensì adozione di modalità di esecuzione mai desocializzanti. Il passaggio ulteriore indica la necessità che il fatto imputato al soggetto sia “integrale espressione della persona”, al di là di ogni logica di mera deterrenza. Il binomio imputazione colposa-punizione, valorizza l’elemento della prevedibilità/prevenibilità, e quindi razionalizza, orientandola, la risposta sanzionatoria.
La via ermeneutica finora perseguita e le poche riforme di settore, non possono essere sufficienti a cambiare l’ossatura interna del codice Rocco e i suoi principi informatori che, seppur non sempre apprezzabili, costituiscono parti di un sistema assolutamente coerente e lineare, privo di contraddizioni, scritto con raffinatissima sapienza tecnica, che vuole esprimere rigore, assegnando alla pena una funzione repressivo-deterrente, legittimando anche casi di responsabilità oggettiva. Nel codice Rocco nulla è lasciato al caso, le regole non si sovrappongono/affastellano a quanto già è stato previsto nella realtà normativa, ma con quella si fondono/armonizzano, conservando sostanziale affinità. Insomma, bisogna riconoscerlo, quel Codice incorporava un sistema, e si traduceva in un complesso di concetti normativi organizzati non per forza lodevoli, ma comunque chiari. Un esempio di quanto suesposto è rappresentato dall’art. 584 c.p., omicidio preterintenzionale, dove per l’imputazione dell’evento ‘preterintenzionale’ morte, sono (ancora sigh!) sufficienti atti diretti (preparatori? quindi leciti?) a realizzare i delitti di percosse o di lesioni personali, senza richiedere la prevedibilità dell’evento morte, contemplando una sanzione (reclusione da 10 a 18 anni), di molto superiore a quella dell’omicidio per colpa, che invece racchiude al suo interno la prevedibilità dell’evento (reclusione da sei a cinque anni).
Nell’ottica del codice Rocco il delitto preterintenzionale si fondava sulla regola dell’antica massima: qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu, e fuori da tale logica repressiva, che apparteneva all’intero ordinamento, l’omicidio preterintenzionale non avrebbe avuto alcun motivo di essere. Qualsiasi interpretazione che volesse scomporre tale figura in un delitto doloso di percosse o di lesioni ed in un delitto colposo di omicidio, risulterebbe irragionevole proprio sotto il profilo del trattamento sanzionatorio([38]). Nessuna forma di forzatura o aggiustamento ermeneutico sarebbe in grado di mutare il criterio di imputazione di tale fattispecie che ravvisa, nella determinazione dolosa di un rischio illecito, un criterio di imputazione di gravità superiore alla colpa, in assoluto contrasto con i reali contenuti del principio di colpevolezza.
Il chiaro messaggio costituzionale, così ben delineato dalla Consulta, non sembra essere stato recepito dal nostro legislatore penale, che ha continuato ad agitare indisturbato l’arma della pena detentiva, unico effettivo deterrente contro il crimine, in sfregio al principio di extrema ratio proprio di una reale politica criminale, producendo, così, un forte indebolimento del principio di colpevolezza in termini di legalità/riconoscibilità.
In conclusione, bisogna prendere atto che non sono più sufficienti gli aggiustamenti, le interpretazioni costituzionalmente orientate, gli interventi settoriali, richiedendosi un decisivo cambiamento prima di tutto culturale che poi dovrà tradursi in giuridico. Punto di partenza e, allo stesso tempo, punto di arrivo, sarà il versante della sanzione che, al momento, non ha sortito alcuna evoluzione effettiva, mantenendo il codice ipotesi di responsabilità incolpevole e, rimanendo la risposta penale, sempre e solo incentrata sulla carcerazione. Qualsiasi sia il divieto che il precetto penale impone, la conseguenza necessaria verterà su un giudizio di responsabilità che si tradurrà in una minaccia standard, il più delle volte illusoria, di pena detentiva, scissa dalla gravità del fatto, e, soprattutto, mancante di qualsiasi tipo di raccordo preventivo collegato al tipo di reato commesso.
4.4. Involuzioni normative e tentativi di riforma nell’ottica delle Commissioni di studio.
I vari tentativi di produrre un nuovo sistema penale unitario che esprima, in coerenza con i principi fondamentali, lo stigma della durata, si sono risolti in una serie di insuccessi. Segno, tutto ciò, di una forte crisi della politica che, nei vari cambi di governo ha, da un lato, semplificato ciò che non è semplificabile, e dall’altro, impresso all’impianto normativo, il sigillo del giustizialismo più bieco, cancellando per esempio il diritto dell’imputato a vedersi giudicato in tempi ragionevoli, attraverso la “sospensione”, meglio interruzione, senza limiti della prescrizione dopo la sentenza primo grado (L. n. 3 del 2019 voluta dall’allora Ministro di giustizia Alfonso Bonafede).
In via incidentale, bisogna dare atto che, ad un tale obbrobrio giuridico, ha posto fine la L. delega n. 134 del 2021([39]) che, operando un compromesso politico, attraverso l’art. 2, co.1 (entrato in vigore il 19 ottobre 2021), nel confermare che il corso della prescrizione del reato (sostanziale) cessa definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado (art. 161-bis c.p.), abroga l’art. 159, co. 2, c.p. nella versione Bonafede, affermando che la prescrizione (processuale?), riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione.
Sul punto, non può non citarsi il progetto di legge (in parte ripreso dalla L. n. 103 del 2017), elaborato dalla Commissione ministeriale, costituita nel 2012 ad opera del Ministro Paola Severino, presieduta dal Prof. Antonio Fiorella, che, apportando una revisione sistematica agli effetti distorsivi della novella operata dalla L. n. 251 del 2005 (“ex Cirielli”), ha ricercato una soluzione rispettosa della tradizione, non abbandonando, almeno nelle sue linee fondamentali, la logica della prescrizione (sostanziale) del reato, senza perdere di vista i tempi processuali, in particolare modulando la disciplina delle cause di sospensione e di interruzione in modo da assicurare alla giurisdizione tempi sufficienti([40]).
L’importante opera svolta in sede di Commissioni di studio, non è stata utilizzata doverosamente dalle forze politiche succedutesi al governo, precludendosi così qualsiasi forma di dialogo costruttivo con chi quei lavori aveva faticosamente elaborato([41]). Si è preferito indulgere su un sistema di pene carcerocentrico, il cui effetto mediatico ha «trasforma[to] la giustizia penale in fenomeno sociale; una giustizia sociale quindi, di facile impatto, che aspira al consenso e prevale sul criterio normativo di legalità, lasciando così fuori problemi che torneranno a ripresentarsi con maggiore vigore»([42]).
Brevemente, i più significativi interventi legislativi che, seppur settoriali, si orientano nell’ottica delle Commissioni di studio, si sono soffermati soprattutto sulla via della depenalizzazione, privilegiando principalmente l’obiettivo deflattivo, attraverso un confronto con l’endemica lentezza della macchina giudiziaria. Gli interventi in questione, hanno condotto alla creazione di innovativi binari sanzionatori che si sono affiancati a quello penale/criminale: l’illecito amministrativo depenalizzato (L. n. 689 del 1981), e gli illeciti punitivi civili (Legge delega n. 67 del 2014, con i collegati d.lgs. n. 7 e n. 8 del 2016). Tali ultimi provvedimenti, orientati verso una depenalizzazione in astratto, pur riducendo le proposte elaborate dalla Commissione “Fiorella” (2013), hanno seguito due direzioni.
La prima indirizzata verso una collaudata depenalizzazione, attuata attraverso la trasformazione di reati in illeciti amministrativi; la seconda mediante l’introduzione di un elemento di assoluta novità, cioè, la categoria delle sanzioni civili, dall’indubbia matrice punitiva, che ripropone interrogativi sul ruolo degli strumenti di tutela civilistica nella prospettiva di una contrazione dell’area penale. Interrogativi che evidenziano la difficoltà a muoversi sulla linea di confine tra diritto civile e diritto penale attraverso il confronto sulla “pena privata”([43]).
Sempre nell’ottica della depenalizzazione in astratto il d.lgs. n. 28 del 2015, introducendo all’art. 131-bis c.p., l’istituto della “particolare tenuità del fatto”, ha recepito quanto già proposto nella Commissione “Fiorella” (2013), con l’obiettivo di affidare al giudice il compito di selezionare, all’interno del tipo astratto, quelle sottostanti fattispecie che, in concreto, non avrebbero meritato la celebrazione del processo e l’applicazione della sanzione penale. Il riferimento, pur nella frettolosità dell’intervento legislativo, è alla commisurazione, e cioè, alla risposta giudiziaria in relazione al fatto concreto.
L’istituto, formalmente rispondente al principio di offensività, riflette un sistema giustizia che mira ad una sicura decongestione processuale, orientata nella direzione della ragionevole durata del processo. Esso si collega, infatti, al concreto tipo di delitto posto in essere, che sarà oggetto, poi, della valutazione discrezionale del giudice. Non vi è dubbio che con l’art. 131-bis c.p., il legislatore abbia voluto introdurre un elemento di forte discrezionalità giudiziale che, seppur correlato al criterio di esiguità dell’offesa raggiunta nello specifico caso, offre al magistrato la facoltà di valutare la “quantità“ offensiva oltre la fattispecie astratta e, quindi, ritenerla non meritevole di pena([44]). Causa di non punibilità, quindi, la cui applicabilità è piuttosto estesa riguardando reati puniti, nel massimo, con la pena detentiva di cinque anni.
Nonostante i buoni motivi posti a fondamento dell’emanazione dell’istituto, fondamentalmente orientati ad evitare il cedimento del sistema, non sono mancate, anche in questo caso, in sede politica veemenze repressive, ancorate ad una distorta visione di certezza della pena, culminate nella presentazione di una proposta abrogativa ad iniziativa del deputato Cirielli, fondata su argomentazioni che fanno riferimento ad una «vera e propria concessione a delinquere ‘tenuamente’», la cui finalità è solo quella di «alleggerire il carico di lavoro degli uffici giudiziari» facendo così venir meno «perfino [la finalità] di rieducazione»([45]). Sul punto, nonostante la chiara pronuncia della Consulta, che ha voluto riaffermare e valorizzare ulteriormente la centralità del giudice, quale effettivo interprete del caso concreto([46]), hanno fatto seguito una serie di interventi normativi diretti a salvaguardare e, quindi, a ridurre lo spazio operativo dell’istituto([47]).
Ancora una volta si è registrato un andamento altalenante della nostra legislazione penale, in assenza di effettive scelte politico criminali, che seguita a produrre ulteriore confusione nella materia e nell’opinione pubblica, che su quella dovrebbe fondare la propria fiducia. La vera novità inserita nel codice penale e meritevole di attenzione è l’introduzione dell’istituto della messa alla prova dell’imputato, mediante sospensione del procedimento inserito dalla L. n. 67 del 2014 (art. 168-bis c.p. e seguenti, c.d. “probation giudiziale” per l’adulto);in questo casol’imputato svolge attività riparative, volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato nonché, attività di risarcimento del danno dallo stesso cagionato e, ove possibile, attività di mediazione con la vittima.
È evidente il significato innovativo contenuto all’interno di questo istituto che, oltre ad evitare il più possibile il sacrificio per la libertà personale, intende effettivamente promuovere un reinserimento nella vita sociale del soggetto. Tutto ciò si evince dal fatto che è proprio l’interessato a chiedere formalmente di eseguire un programma di trattamento, elemento questo indispensabile per accedere alla messa alla prova, predisposto in base alle specifiche caratteristiche della persona imputata, e che consiste nello svolgimento gratuito di un lavoro di pubblica utilità, il cui esito positivo dà luogo all’estinzione del reato. Ovviamente l’istituto potrà essere perfezionato attraverso, anche, l’ampliamento degli spazi per la giustizia riparativa, costituendo la mediazione tra autore e vittima, uno dei contenuti obbligatori della messa alla prova, prevista all’art. 1, co. 22, della “Legge Cartabia”.
Merita sicuro plauso l’introduzione dell’effetto estintivo delle condotte riparatorie (art. 162-ter c.p.), quali cause di estinzione per i reati perseguibili a querela remissibile, presupponendo la riparazione integrale del danno da reato e l’eliminazione delle sue conseguenze dannose o pericolose entro termini massimi. Inoltre è stata estesa la procedibilità a querela, per numerosi reati contro la persona e il patrimonio, producendosi certamente una più effettiva fuoriuscita dell’imputato dal circuito penale, prospettandogli un significativo regresso dal circuito punitivo (d.lgs. n. 36 del 2018). Riforme queste, certamente apprezzabili, ma non ancora indicative di un reale cambiamento tale da consentire una effettiva modernizzazione, cioè un affrancamento da quella idea di diritto penale arcaico, fondata sulla minaccia di sofferenze, come reazione al delitto e come strategia suggestiva per l’ordine della società.
Il mancato superamento di una tale impostazione è confermato da una serie di provvedimenti legislativi, il cui leitmotiv consiste nel potenziamento delle pene detentive: la L. n. 3 del 2019 (c.d. “spazzacorrotti”), oltre ad eliminare dal nostro ordinamento l’istituto della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, ha inasprito irrazionalmente il trattamento sanzionatorio per alcuni delitti contro la pubblica amministrazione, inserendoli, senza alcuna coerenza sistematica, tra i reati di prima fascia ostativi alla concessione dei benefici di cui all’art. 4-bis, co. 1, lett. e), ord. pen., parificando così irragionevolmente la posizione del condannato all’ergastolo con quella di chi non è punito con tale pena. Ancora, la L. n. 36 del 2019, ha aumentato le pene per una serie di reati contro il patrimonio; la L. n. 43 del 2019, modificando l’art. 416-ter c.p., ne ha aumentato le pene, parificandole, anche qui, irragionevolmente a quelle del partecipe al reato associativo di stampo mafioso e, conseguenzialmente, ha esteso le preclusioni dei permessi premio anche a questa ipotesi; la L. n. 77 del 2019, fra le tante novità, registra aumenti di pena per alcuni reati dei privati contro la pubblica amministrazione. Provvedimenti questi, che denotano una forte invasività del diritto penale nella vita collettiva e che, al di là della discutibile coerenza sistematica con quanto già previsto, evocano un sicuro autoritarismo che, a sua volta, non può non generare ribellione. Ancora una volta si conferma la volontà politica, a voler riconoscere, nel carattere monolitico dell’apparato punitivo detentivo, l’unica risposta al reato.
Si assiste ad interventi contraddittori e settoriali, tesi a contemperare, nell’immediatezza, esigenze deflattive, come effetto tampone (si pensi al c.d. provvedimento “svuotacarceri”, d.l. n. 146 del 2013, convertito in L. n. 10 del 2014), lasciando inalterata la realtà carceraria e la sua, ancora una volta, riconfermata centralità. Com’è noto la sentenza Torreggiani della Corte EDU, condannando l’Italia per l’inumana situazione carceraria, conferma che nessuna modifica, realmente significativa, è intervenuta a migliorare gli istituti carcerari, e che il carcere continua a rappresentare il protagonista indiscusso del sistema sanzionatorio. La stessa Riforma “Orlando”, pur mostrando forte sensibilità verso una revisione profonda del sistema, ha comunque previsto una serie di aumenti di pena per varie fattispecie incriminatrici. L’apparato sanzionatorio, così descritto, appare fragile e inconsistente e, soprattutto, non sembra esercitare alcuna efficacia, da un lato minacciando pene detentive draconiane, a cui poi seguirà, e qui con certezza, l’applicazione di pene diverse/miti, il più delle volte sospese; dall’altro si assiste ad una esecuzione che rivede automaticamente la condanna, e utilizza misure sospensive, pene alternative, prive di reale contenuto risocializzante.
Ancora, con riferimento alla legislazione emergenziale in materia di contrasto al fenomeno della criminalità mafiosa (dal 1991 in poi), non può non stigmatizzarsi l’estensione del regime penitenziario ostativo ad una serie variegata ed eterogenea di reati, assimilandosi così fatti ontologicamente diversi e non sempre compatibili con la salvifica collaborazione, oltre che col principio costituzionale del nemo tenetur se detegere.
Insomma, si è vanificato anche quanto di buono era stato prodotto dal nuovo legislatore, e cioè, i motivi ispiratori della riforma penitenziaria che, almeno nella fase iniziale, erano diretti al promovimento ed alla partecipazione attiva del condannato verso l’integrazione sociale.
A fronte di un disordine normativo così evidente, si continua a ricorrere ad interventi legislativi di carattere contingente, dettati dall’emotività del momento, che vanno comunque ad innestarsi su un sistema penale vecchio, fondato sul monopolio assoluto della pena detentiva, riscoperta/vivificata anche nell’esecuzione, e manipolata al punto da non riuscire più ad esprimere alcuna efficacia di tipo preventivo in termini di ragionevolezza del sistema. Eppure, sul punto, sarebbe possibile beneficiare dell’impegno prodigato da studiosi ed operatori del diritto nei diversi Progetti di riforma di codice e nelle varie Commissioni di studio, nominate e, quindi, volute dal potere politico, i cui risultati si sono caratterizzati tutti per la previsione di pene meno afflittive, soprattutto caratterizzate da effettività.
Il fondamento costituzionale della funzione rieducativa della pena ha costituito il faro e la guida di tutte le Commissioni, promuovendo una tendenza alla parcellizzazione, caratterizzata da notevole flessibilità del modello sanzionatorio, dove la reclusione diventa veramente extrema ratio, nel senso che deve essere utilizzata soltanto quando appare assolutamente necessaria in relazione alla gravità, ma anche funzionale al tipo di reato ed alla pericolosità del delinquente. Quindi, una gamma diversificata di pene principali, consente di tenere conto sin dall’inizio di esigenze preventive differenti che, nel momento attuale, risultano quanto mai variegate in quanto collegate al tipo di illecito e alla peculiarità dell’autore, creando un formidabile raccordo con quella che sarà la fase esecutiva.
Sotto il profilo special-preventivo poi, l’introduzione di pene non detentive, è l’unica modalità attuativa, sostanziale, del dettato costituzionale([48]), che vuole, come ulteriore elemento della pena, un’afflittività orientata all’integrazione sociale del condannato e mai alla sua neutralizzazione. Non vi è dubbio, che l’anticipazione della flessibilità della risposta sanzionatoria già attraverso la previsione edittale, bilancia il rapporto tra prevenzione generale e istanze di prevenzione speciale, indicando una specificità delle conseguenze afflittive, nel rispetto del principio di proporzione, adeguando la pena alle caratteristiche del caso concreto, in conformità alla colpevolezza dell’agente([49]). Insomma, i lavori delle Commissioni, recependo l’articolato disegno costituzionale in punto di pena, parrebbero aver compreso la fragilità ed inconsistenza ma, soprattutto, l’insufficienza della sola pena carceraria, ancora dominante nella visione del codice del ’30, in evidente contrasto con l’idea personalistica-solidaristica che pervade l’intera Carta costituzionale.
Bisogna dare atto dell’avvio di un disegno di legge da parte dell’allora Ministro Prof.ssa Paola Severino, che aveva previsto come novità assoluta, la detenzione domiciliare quale pena edittale autonoma. Il Parlamento poi, approvò una articolata L. n. 67 del 2014, contenente anche la delega per l’introduzione appunto della detenzione domiciliare.
Nel frattempo, il Ministro di giustizia Annamaria Cancellieri, nominando la Commissione di studio presieduta dal Prof. Francesco Palazzo per un’ampia revisione del sistema sanzionatorio, ne ampliava il mandato anche ad attuare la delega sulla nuova specie sanzionatoria, comprensiva di prescrizioni che valorizzassero la funzione di prevenzione speciale in essa contenuta. È quanto poi la Commissione “Palazzo” ha previsto in ambito detentivo, attraverso nuove tipologie di pene, denominate detenzione e arresto domiciliari, la cui modernità consiste proprio nel riconoscere a tali sanzioni totale autonomia rispetto alle corrispondenti pene carcerarie; e non solo, la Commissione si è spinta fino a negare la conversione, a fronte della concreta impossibilità di disporre di luoghi di abitazione. Di qui, un sistema punitivo meno pesante ma “certo”, e maggiormente efficace sul piano della prevenzione generale, attento, quindi, ai profili di prevenzione speciale.
Commissioni queste che, prorogate nella durata, hanno prodotto risultati costruttivi, accolti però, ad intermittenza, da una politica distratta, che prestando attenzione solo ad alcuni di quei punti, ne ha trasformato/neutralizzato il senso e la ratio.
Si assiste, così, alla interruzione della proficua collaborazione tra politica criminale e comunità scientifica che, col tempo, ha preferito arroccarsi in un “iperuranio culturale”, valido contenutisticamente, ma perdente a fronte della comunicazione diretta ed efficace del populismo penale.
È evidente che le riforme nel penale pretendono la riconduzione della materia ad effettiva extrema ratio, e presuppongono la necessaria realizzazione di una corretta politica sociale in grado di ridurre l’oggetto della politica criminale. Questo però implica costi, tempo, competenza, cultura e informazione, facilmente eludibili attraverso l’enfasi illusoria della minaccia di pena detentiva. L’ultima riprova ci arriva dall’attuale Governo che, nonostante si sia posto agli antipodi con chi lo ha preceduto, continua a predicare quel “comune” eccesso punitivo tradotto poi in populismo penale. Il d.l. n. 162 del 2022 sui “rave party”, nella sua originaria formulazione([50]), esprime un chiaro esempio di “democrazia massmediatica”([51]) in materia penale. Non sono più i requisiti di “straordinaria necessità ed urgenza” a guidare l’azione governativa in materia penale, bensì il messaggiotelevisivo o notizia di cronaca, che, fondando un valore aggiuntivo-supplementare, danno l’occasione per assecondare i malumori dell’opinione pubblica con aspettative repressive.
Tralasciando i vari difetti tecnici della originaria formulazione, non può non stigmatizzarsi il forte valore simbolico che quella norma conteneva, alla luce anche del fatto che il codice del 1930, già aveva previsto, all’interno dei delitti contro il patrimonio immobiliare, l’art.633 c.p. (“Invasione di terreni o edifici”), punendolo con sanzioni più lievi di quelle previste dall’attuale formulazione; è opera infatti, del primo “decreto sicurezza Salvini” (d.l. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018), l’inasprimento delle pene nell’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 633 c.p. Dunque, l’invasione di terreni o edifici commessa da più di cinque persone, risultava già punita, anche con sanzioni considerevolmente più severe di quelle originariamente previste dallo stesso codice Rocco. L’art. 633 c.p., utilizzato negli anni ’70 anche per sedare le occupazioni nelle università, ben avrebbe potuto essere utilizzato per ricomprendere situazioni relative ai rave party, salvo poi intervenire con specifiche norme anch’esse esistenti, sui singoli fatti di reato che, probabilmente, in quel contesto si sarebbero verificati, per es. in materia di sostanze stupefacenti o abuso di alcolici([52]). Ci si è trovati, insomma, di fronte all’ennesimo, ultroneo intervento governativo, caratterizzato da grande effetto mediatico e, da arbitrari aumenti di pena, che hanno sfidato, superandolo, anche il codice Rocco. A fronte delle reiterate critiche e polemiche sul punto, la Legge di conversione n. 199 del 2022, ha di molto ridimensionato e reso certamente più ragionevole (ma davvero necessario?), il testo della norma.
Il momento attuale continua ad evidenziare una politica che legifera (ci sia consentito), in maniera scriteriata, a volte creando tipi d’autore, presunzioni di pericolosità, inasprimenti sanzionatori scissi da qualsiasi collegamento con la gravità del fatto. L’approccio populista/securitario, produttivo di stigma sociale e, quindi, di sicuro consenso almeno nel breve termine, sembrerebbe consentire una legittimazione alla politica a scrivere di penale, oltre qualsiasi competenza e senza minimamente coordinarsi o almeno confrontarsi con i c.d. “esperti” della materia; tutto ciò ovviamente, al di fuori di qualsiasi rispetto e in violazione dei diritti fondamentali così ben chiaramente enunciati dai nostri Padri costituenti.
L’opera della Corte Costituzionale (supplenza), sicuramente encomiabile, sollecitata da esigenze sistemiche sempre più pressanti e dovute alla ritardata attuazione dei precetti costituzionali da parte del legislatore, supplisce ad una omissione legislativa ma, ormai, si traduce in una reinterpretazione dei testi legislativi, per desumere da essi significati costituzionalmente compatibili ad orientare l’interprete. Una sorta cioè di “bonifica” della legislazione esistente indotta da horror vacui. Una manipolazione del testo legislativo che finisce per surrogare la Corte Costituzionale all’organo parlamentare nelle scelte che solo a quello dovrebbero competere([53]).
La preoccupazione che, le sentenze additive, incorporino spazi di discrezionalità riservati al legislatore in punto di scelte di politica criminale, è evidente a tutti e, soprattutto, alla stessa Corte che, ultimamente, tende a limitare l’adozione di tali pronunce proprio ribadendo il rispetto della discrezionalità legislativa. Lo ha fatto in tema di aiuto al suicidio([54]), nonché in materia di ergastolo ostativo([55]), sollecitando, con scarsi risultati, l’intervento del legislatore, unico al quale compete una complessiva e ponderata disciplina della materia.
Insomma, il codice attuale, al di là dell’etichetta, poco conserva del vecchio codice Rocco; ha perso quell’impronta rigoristica, nonostante il simbolico e monolitico arsenale sanzionatorio che continua a sfoggiare; conserva l’ascendenza illiberale originaria, degenerata/snaturata dai pessimi e continui interventi legislativi orientati solo sul momento punitivo (al di fuori di qualsiasi razionalità) e non sul crimine; mantiene una fittizia “passione del punire”, che si smaterializza nel satellite del processo esecutivo, nonché nei riti alternativi; è afflitto da una enorme quantità di norme incriminatrici, spesso contravvenzionali, il più delle volte contenute al di fuori di esso, approvate con formulazioni vaghe ed indeterminate, di difficile interpretazione ma di sicura investigazione. Le numerose pronunce della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite, coadiuvate dalla giurisprudenza di Strasburgo, seppur indicative della strada maestra da perseguire, non possono sostituire l’inerzia del legislatore.
La realtà è che questo codice, che continuiamo ad apostrofare in termini dispregiativi “fascista”, non ha più alcuna dignità, avendo perso i connotati tipici «di corpo normativo organico, costruito con un linguaggio coerente ed uniforme leggibile dal comune destinatario delle leggi, finalizzato a rendere riconoscibile trasparente la volontà dello Stato nell’indirizzare comportamenti collettivi e nel sanzionare le relative trasgressioni di legge»([56]).
Ciò che rimane del codice Rocco non garantisce più né consultazione, né comprensione: non permette più la riconoscibilità del sistema penale.
È stato egregiamente detto che una società punitiva, una società che dichiara il primato della sanzione, rischia di prescindere dalla coerenza del sistema, intendendo preliminarmente acquisire consenso davanti all’opinione pubblica, e producendo come conseguenza «l’alterazione della proporzione tra gravità oggettiva del reato ed entità della sanzione, secondo nuove gerarchie di valori, spesso prive di razionalità giuridica […] dettate dallo spirito del tempo, dalla convenienza politica, dalle pressioni dei giornali e talk show»([57]).
Mi sia consentita un’aggiunta, al di là dei consensi emozionali del momento, una politica penale che intende giocare al rialzo, non può non proiettare e, quindi, verificare l’efficienza del programma proposto in termini di efficacia deterrente. Dovrebbe prendere atto che, l’inosservanza della legge, dipende da un “non” funzionamento della tutela, quindi, da una debolezza delle politiche sociali che dovrebbero primariamente garantire, almeno secondo il disegno costituzionale, la comunità. Si sa, le difficoltà di queste politiche sono i costi, l’impegno, oltre che i benefici diluiti e percepibili solo nel lungo periodo; meglio dunque ricorrere ad una iper-penalizzazione e fingere di possedere nel codice penale (al momento virtuale!) un depositario dei parametri generali del giusto e dell’ingiusto.
5. Codice penale e Codice processuale penale: quale sintonia?
Per completezza, non può non darsi conto che, l’entrata in vigore della Costituzione, attraverso le norme dedicate al processo penale, ha evidenziato una chiara discontinuità con quelle che erano le regole incarnate nel codice di procedura penale, con particolare riferimento alla presunzione d’innocenza, alla restrizione della libertà personale come bene inviolabile, nonché all’effettivo esercizio del diritto di difesa.
Il nuovo codice di procedura penale promulgato nel 1988 (Codice Vassalli), ha rappresentato una svolta e, cioè, il passaggio da un sistema misto inquisitorio ad un sistema ispirato a criteri accusatori, insieme alla rinnovata visione del giudicato penale ed alla nuova disciplina della fase esecutiva. La natura giurisdizionale di questa, prevede che al giudice sia attribuito il procedimento di esecuzione, essendo competente a conoscere dell’esecuzione del provvedimento (art. 665 c.p.p.).
Con l’entrata in vigore del nuovo Codice di procedura penale la connessione funzionale tra diritto penale sostanziale e processo si incrina definitivamente; la coerenza di fondo che ha accompagnato diritto e processo nei Codici del ’30, si spezza.
In antitesi con la sua stessa ratio ispiratrice di forte rigorismo repressivo, il codice Rocco si è visto accostare un riformato processo penale, nonché l’instaurazione di riti alternativi al processo ordinario, con finalità esclusivamente deflattive, produttivi di arbitrari sconti di pena, che hanno svuotato di contenuto anche la fondamentale-rigorosa funzione di prevenzione generale in esso contenuta. Venendo meno la coerenza di fondo tra diritto e processo penale, si doveva auspicare una riprogettazione globale della materia penale, tale da consentire la tenuta del sistema giustizia, da intendersi, come richiede la nostra Carta fondamentale, in termini di certezza della legge (art. 25 Cost.) e dell’accertamento (art. 111 Cost.).
Il nuovo processo, almeno come descritto dall’art. 111 Cost., rappresenta un processo di parti dove, certamente, si è potenziata la funzione difensiva. Tale intelaiatura ruota su due esigenze di rilievo costituzionale, interesse alla regolare svolgimento dell’iter investigativo (art. 112 Cost.) e, la necessità di assicurare all’inquisito, che si presume innocente, l’intervento della difesa ( art.24 Cost.).
A ben vedere, queste esigenze non si sovrappongono mai, poiché la ritualità formale del processo sottintende proprio l’intervento, la partecipazione del difensore. Le regole del gioco non possono prescindere dall’accusa e della difesa. Il pubblico ministero agisce, l’imputato si difende; di qui la collaborazione più elementare nei confronti del giudice terzo.
Il IV comma dell’art. 111 Cost., poi, imponendo il “contraddittorio nella formazione della prova”, prima ancora che un diritto individuale, prescrive un “metodo” di conoscenza, inderogabile. Ne consegue che, la tutela della giustizia penale, potrà funzionare solo attraverso l’esistenza di una istituzione unitaria dove, volto garantista e volto repressivo, siano compresenti, entrambi collegati al principio di stretta legalità[58]. Ne deriva un fondamentale corollario, il diritto punitivo non può non dipendere dall’attuazione della legalità sostanziale penale, e quindi, dal principio di proporzione che si ancora alla gravità del reato e al grado di colpevolezza, da attuare seguendo le regole del giusto processo. Di qui una fondamentale connessione che collega il punire al processo, secondo logiche apparentemente diverse, comunque coerenti con i principi costituzionali.
Questo non significa affermare la primazia del diritto sostanziale su quello processuale o il suo contrario, bensì, evidenziarne i nuovi fondamentali equilibri per un corretto funzionamento dell’apparato giustizia. Equilibri non certo facili, a fronte di un nuovo, moderno processo, che garantisca, col principio del contraddittorio, un bilanciamento tra potere punitivo e posizione dell’imputato, e di un datato codice penale che, invece, non ha saputo rinnovarsi o, quanto meno, prevedere al suo interno nuove sanzioni principali, meno invasive, davvero alternative al carcere.
L’alluvionale richiesta di giustizia nel settore penale, a fronte della assenza di una semplificazione/riordino della materia, ha reso il contraddittorio privilegio di un numero esiguo di persone, ed ha prodotto, a scapito della difesa, l’irruzione nel dibattimento con forza probatoria, degli atti di indagine del pubblico ministero.
Il sistema accusatorio, anch’esso espressione del principio di legalità (valenza sostanziale e processuale dell’art. 25 Cost.), sta a significare limitazione, mediante legge, alla repressione penale. Ciò sottintende che tra diritto e processo ci sia un’endiadi inscindibile, che converga verso un unico obiettivo di giustizia: l’accertamento della verità processuale secondo le regole custodite all’art. 111 Cost. Si assiste invece al paradossale capovolgimento di questo classico principio garantista; si strumentalizza il punire in funzione processuale, consentendo riduzioni di pena, soprattutto finalizzate a promuovere semplificazioni e acceleramenti processuali. Sembra sia necessario ribadire l’ovvio: la funzione della pena, sia come prevenzione generale che speciale, non potrà mai subordinarsi ad una logica di controllo processuale, in termini di efficienza.
La privazione della libertà personale, anche nella veste processuale di misura cautelare, non potrà mai fondarsi su presunzioni assolute di pericolosità, dovendo la cautela riguardare unicamente il tipo di reato contestato([59]), e la sussistenza del fumus commissi delicti, consentendo si, la carcerazione ma fino a prova contraria.
Né, tantomeno, in materia penale potrà applicarsi una pena, seppur ridotta, senza aver celebrato un giusto processo. È ciò che avviene con i riti alternativi dove, deflazione giudiziaria e riduzione dei tempi processuali, si riverberano sulla pena, producendo profili seri di ragionevolezza in contrasto con i principi costituzionali a ciò dedicati.
Si pensi alla giustizia negoziata, in particolare al patteggiamento in cui l’imputato, per evitare anche le lungaggini processuali, “sceglie” di essere punito senza processo, quasi che il suo consenso alla velocizzazione dei tempi, meriti un premio che si traduca in sconto di pena, quale contributo alla ragionevole durata del processo.
La natura processuale dei riti alternativi, nessuna incidenza dovrebbe spiegare in tema di sanzione, dovendo questa guardare esclusivamente alla proporzione tra delitto e pena.
Non può negarsi che l’impianto accusatorio per funzionare rapidamente e bene, necessita di un efficace compendio di riti alternativi, per riservare il dibattimento e le garanzie proprie di questo, ad un numero circoscritto di casi realmente complessi. L’obiettivo però, di un accertamento contenuto in tempi ragionevoli, non può prescindere dal rispetto degli equilibri dei ruoli processuali, ergo da un accertamento ‘giusto’ in tempi ragionevoli. Insomma, la necessaria liason, tra istanze processuali e pena, anche nel suo significato premiale, non può venire meno. A nostro modesto parere, si potrebbe immaginare di ottenerla, ove il legislatore, finalmente superando l’idea monolitica del carcere, disciplinasse una gamma diversificata di pene orientate, sin dall’inizio, su esigenze preventive differenti, coniugate col tipo di illecito. La specificità delle conseguenze afflittive tornerebbe sicuramente utile anche per una maggiore efficienza processuale, potendosi collocare all’interno di una adeguata e coerente differenziazione dei riti, assicurandosi così, da un lato una punizione effettiva-certa, orientata al recupero del reo e, dall’altro una ragionevole durata processuale. Dovrebbe essere assodato che, certezza e rapidità della pena, non si coniughino esclusivamente con il carcere, dal momento che la reclusione, essenziale per alcuni gravissimi reati, non è necessaria per reati minori, per i quali più indicato risulterebbe l’utilizzo di pene alternative al carcere.
Si è precedentemente anticipato, come la collaborazione processuale nel processo e tramite il processo, comporti forti sconti di pena, non sempre giustificati dai canoni tradizionali che guidano il sistema sanzionatorio, soprattutto per gli autori dei delitti ostativi, sempre più numerosi e variegati, di cui all’art. 4-bis, co. 1-bis, ord. pen. Tutto ciò, come chiarito dalla Corte cost. (sent. n. 253 del 2019), è in evidente contrasto, invertendosi l’onere della prova, con la presunzione di non colpevolezza, ma anche col nemo tenetur se detegere([60]).
Il diritto al silenzio, corollario essenziale per un processo accusatorio, trova giusta collocazione nell’art. 24, co. 2, Cost., nella salvaguardia del diritto di difesa della persona imputata. Non è richiesto all’incolpato, nel processo, di attivarsi per l’accertamento del fatto proprio; questo significa, che il giudice, non può valutare, aprioristicamente, come negativa la non collaborazione.
Ci sia consentita una breve parentesi sul punto; il Codice penale del ’30 prevede, in generale, tra i delitti contro l’attività giudiziaria, cioè commessi all’epoca nell’espletamento di un processo di tipo inquisitorio, la “causa di non punibilità” di cui all’art. 384, co.1, c.p., che, seppur definita dal Guardasigilli nella Relazione di accompagnamento al codice, come una ipotesi speciale di situazione necessitata, a ben vedere, meglio incarna una causa di esclusione della colpevolezza, come espressione del diritto di difesa. E cioè, pur ritenendosi la condotta conforme al diritto, la si considera fortemente condizionante per la libertà di autodeterminazione del soggetto, seppur incolpato. Il silenzio e addirittura il mendacio, dovuto alla necessità di salvare il congiunto o se stesso da un grave ed inevitabile nocumento a libertà ed onore, viene riconosciuto, nonostante la probabilità di arrecare un danno all’amministrazione della giustizia, come espressione autentica del nemo tenetur se detegere, esteso addirittura alle condotte dei P.U.([61]).
L’attenzione di quel legislatore, si è spinta ben oltre la tutela dell’unità familiare o dello stato di necessità, mancando nella norma un riferimento, anche minimo, alla non volontarietà del pericolo ed alla proporzione tra danno e pericolo, presenti invece nell’art. 54, co. 1, c.p.
Con l’ art. 384 c.p., si intende tener conto di una situazione psichica individuale in grado, da un lato di condizionare il requisito della colpevolezza, dall’altro di offrire tutela all’istinto di autoconservazione, garanzia questo del diritto di difesa. Quel legislatore plasma la norma in conformità con il sistema processuale inquisitorio, ma, nondimeno, sembra aderire perfettamente alle logiche accusatorie, così come sintetizzate dal giusto processo: ricerca della verità, sicuramente con modalità differenti, principio del contraddittorio attuato mediante la tecnica dell’oralità, possibilità di mentire che l’accusa ha l’onere di vincere.
Tale norma però, non si risolve nel mero esercizio del diritto di difesa, va oltre, potendo arrecare alla macchina della giustizia un danno ingiusto e non giustificabile, senza che il soggetto possa per questo essere punito. Insomma, al di là delle variegate interpretazioni che la disposizione offre, è riduttivo immaginare che il legislatore del ’30 la considerasse solo come espressione del brocardo necessitas non habet legem, spingendosi ben oltre, rilevando nella stessa, l’assenza di meritevolezza di pena che, però, viene meno quando si trasforma in accusa dell’innocente. La sensibilità giuridica di quel legislatore autoritario, ha ritenuto il diritto di difesa prevalente sull’intralcio alla macchina della giustizia, soccombente rispetto alla tutela dell’innocente([62]), esprimendo così un importante principio di civiltà giuridica.
Come sopra anticipato, elementi di maggiore novità e di reale sintonia tra pena e processo, sono sicuramente presenti nell’istituto della messa alla prova il cui esito positivo, dà luogo all’estinzione del reato; qui la sanzione, su base consensuale, si sostituisce al processo, garantendo efficienza, senza intaccare la funzione regolata dalla pena, bensì operando una rivalutazione del sistema sanzionatorio, nell’ottica di una effettiva reintegrazione già nel corso del processo (artt. 464-bis, 464-ter c.p.p.), evitando il più possibile il sacrificio per la libertà personale. La disciplina dell’istituto prevede un ampliamento nell’ambito della “Legge Cartabia” (n. 134 del 2021), attuata con d.lgs. n. 150 del 2022, ed entrata in vigore il 30 dicembre 2022 ad opera del d.l. n. 150 del 2022, convertito in L. n. 199 del 2022. La nuova messa alla prova, si estende a nuovi reati, alcuni puniti con pena edittale fino a 6 anni, purchè rientrino tra quelli che meglio si prestino a percorsi riparativi e risocializzanti. L’istituto merita attenzione, valorizzando strumenti e logiche riconducibili alla giustizia riparativa e, garantendo, al contempo, deflazione sia processuale che penitenziaria, in termini di reale alternativa al processo e alla pena detentiva.
6. Conclusione.
L’ultimo secolo, a quanto pare, sembra evidenziare una profonda crisi culturale, connotando una società caratterizzata da disimpegno politico e sociale, in un clima di disillusione e di perdita dei valori, che non può non riflettersi anche nella materia penale. Si assiste qui, ad un fenomeno di incontrollata espansione, una sorta di ipertrofia penale attraverso leggi novellistiche perlopiù simboliche, in un clima di indifferenza per i fondamentali contenuti del sistema sostanziale e processuale penale. La politica sembra aver rinunciato a quella funzione sua propria, che le impone di tracciare le regole e definire, in maniera chiara, i confini dell’operare del diritto.
È opinione diffusa che, il frequente ricorso alle pene criminali, sia destinato a fornire credibilità ad iniziative politiche prive di ogni raccordo e del tutto inaccettabili. A ben guardare, la logica, che è alla base della normazione degli ultimi anni, sottintende l’inconfessabile proposito di scalzare le regole dello Stato di diritto, tornando l’intimidazione ad essere regina nell’ambito sanzionatorio, salvo poi far seguire un trattamento criminale la cui unica funzione è la difesa sociale. Nonostante gli interventi normativi, alcuni certamente apprezzabili, che pur vi sono stati in materia penale, è mancata quella necessaria riforma strutturale, da inserire in un disegno unitario, che avrebbe segnato il tanto agognato salto di qualità. La frammentarietà ha impedito ogni visione sistematica di istanze degne della più attenta considerazione. In tale situazione, la strategia delle grandi riforme sembra essere solo un felice ricordo.
Eppure, nonostante l’evidenziato velleitarismo normativo, la speranza di avere una politica criminale razionale ancora è di molti. La dottrina, da tempo, torna a considerare l’idea di un’offerta rieducativa, volta a mettere a disposizione strumenti di reinserimento, nella direzione dell’umanizzazione della pena, contribuendo così a dare un senso al sistema, a vantaggio non solo del condannato ma anche della società.
Senza farci grandi illusioni, possiamo dire che alcune sollecitazioni per una maggiore sensibilizzazione sul punto, le ritroviamo, anche in politica, per es. nel discorso programmatico alle Commissioni Giustizia, da parte del Ministro Dott. Carlo Nordio([63]), che, finalmente, abbandonando il linguaggio del populismo penale, affronta un programma di riforme, in sintonia con la comunità europea, ispirandosi a principi liberali del diritto penale e del giusto processo.
I punti più salienti individuano un percorso di riforme orientato al rafforzamento della presunzione d’innocenza, tenendo a mente direttamente l’efficienza della macchina giudiziaria. Punto di partenza, in questa prospettiva è, da un lato, la restrizione dell’area del penalmente sanzionato e, dall’altro, l’attuazione dell’idea di una pena effettiva, efficace, immediata, quindi ‘eseguita’ ma, non per forza ‘eseguita’ come quella ‘irrogata’.
Sembrerebbe finalmente esserci stato, da parte della politica, uno sforzo orientato nella direzione dell’umanizzazione della pena, come ad indicare un cammino essenziale verso un irrinunciabile progresso civile e solidale; progresso, che non può non iniziare dall’abbandono dell’idea carcerocentrica che promuove il carcere ad unica pena.
Proprio nell’ottica di un effettivo ripensamento del sistema sanzionatorio e di un superamento del primato del carcere, si muove la nuova disciplina delle pene sostitutive delle pene detentive brevi, introdotta dalla Riforma “Cartabia” (d.lgs. n. 150/2022)([64]), attraverso una revisione organica della disciplina della L. n. 689/1981, e l’introduzione, finalmente all’interno del codice penale, del nuovo art. 20-bis.
La riforma, rinominando le sanzioni sostitutive (“Pene sostitutive delle pene detentive brevi”) ne sottolinea la portata di vera e propria pena oltre il carcere. Si introduce, così, nell’ordinamento una nozione di pena detentiva breve, molto più ampia rispetto alla precedente (da 2 a 4 anni), superandosi anche la sovrapposizione tra l’area delle sanzioni sostitutive e l’area della sospensione condizionale della pena, che ha comportato nel passato il fallimento della L. n. 689/1981, con riferimento alle sanzioni sostitutive. Per cui, pena breve, non è più quella che consente l’applicazione della sospensione condizionale ex art. 163 c.p., bensì quella la cui esecuzione può essere sospesa ex art, 656, co. 5, c.p.p.([65]).
Le nuove pene sostitutive, semilibertà, detenzione domiciliare e lavoro di pubblica utilità, oltre la già prevista pena pecuniaria completamente revisionata, sono applicabili direttamente dal giudice della cognizione, in sede di pronuncia della sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta di parte, con ciò anticipandosi nel giudizio di cognizione la possibilità di applicare pene corrispondenti alle attuali due misure alternative che continueranno ad essere previste ed applicate dal tribunale di sorveglianza dopo la definitività della sentenza (previo coordinamento del margine residuo di sovrapposizione tra le nuove pene e le preesistenti misure alternative).
L’ampliamento dell’area operativa delle pene sostitutive ha prodotto effetti rilevanti anche in ordine ai riti speciali e, in particolare, sul procedimento per decreto. Tralasciando i vari punti oggetto di modifica, si evidenzia che è prevista la sostituzione della pena detentiva fino a un anno con pena pecuniaria (ex art. 20-bis c.p.), e di quella detentiva fino a tre anni con il lavoro di pubblica utilità, se vi è stata richiesta dell’imputato prima dell’emissione del decreto penale (ex art. 459, comma 1-bis, c.p.p.), ovvero successiva all’adozione del provvedimento (ex art. 459, comma 1-ter, c.p.p.). Innovazioni queste significative, in quanto superano la precedente disciplina che contemplava esclusivamente la possibilità di condannare l’imputato al pagamento di una pena pecuniaria. Attualmente, questo viene coinvolto nel procedimento, richiedendosene la disponibilità e la partecipazione attiva in ordine alla effettiva richiesta di emissione del decreto penale di condanna.
Non eguale plauso è possibile esprimere per alcune modifiche apportate dalla Riforma “Cartabia” al giudizio abbreviato; l’art. 442, comma 2-bis, c.p.p. prevede che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto in caso di mancata impugnazione della sentenza. È evidente che al riforma abbia inteso attribuire centralità ai riti alternativi, ampliandone le possibilità di accesso e incentivandone la scelta con maggiori vantaggi premiali; il tutto, evidentemente, al fine di realizzare una migliore economia processuale in termini di reale efficienza. Quest’ultima però, come già detto, si raggiunge solo attraverso il coinvolgimento sintonico tra principi sostanziali e processuali. L’impoverimento di tali principi non giova né al piano processuale né al reato e genera sicuri scompensi sulla presunzione di innocenza, quindi, sulle garanzie e, conseguentemente, sulla rieducazione. L’ulteriore sconto di pena, operato dal rito abbreviato, si giustifica esclusivamente in termini di deflazione processuale, sebbene la pena irrogata continui a conservare natura squisitamente sostanziale.
La necessità di assicurare efficienza-funzionalità al processo non può negare la indissolubile relazione tra processo e pena; ciò svilisce il principio di legalità e quindi il rispetto della persona destinataria della norma, soprattutto nel momento che diviene soggetto processuale.
In conclusione, nonostante alcune criticità, non può negarsi che l’ottica perseguita sia nella direzione di ampliare i trattamenti penali non carcerari, incentivando il ricorso alla sostituzione delle pene detentive brevi, strumento speciale preventivo per un effettivo reinserimento sociale.
La vera novità consiste nel fatto che il finalismo rieducativo, dovrà plasmare, sin dall’inizio, la natura stessa della pena, imponendo al giudice della cognizione una discrezionalità nuova, da declinare con la storia personale del soggetto, guardando anche al futuro della persona condannata.
L’istituto della sostituzione delle pene detentive brevi, così rivitalizzato, è un incentivo anche per i riti speciali, consentendo all’imputato di non passare per il carcere, oltre ad assicurare un impatto positivo sulla deflazione penitenziaria.
Il lavoro di pubblica utilità, fiore all’occhiello, già dell’istituto della messa alla prova, amplia la sua prospettiva, ed è applicabile come pena sostitutiva anche in sede di decreto penale di condanna prevedendo, a conclusione del positivo svolgimento, accompagnato da condotte risarcitorie o riparatorie, la revoca della confisca.
La riforma, tutta orientata a sviluppare il rapporto tra efficienza e ragionevole durata del processo, contiene un ambizioso programma che, partendo da una riorganizzazione-modernizzazione dell’apparato giustizia, dovrà poi articolarsi attraverso strutture organizzative stabili, tali da elevarne il tasso di efficienza con conseguente riduzione dei tempi.
La Riforma “Cartabia”, oltre a limitare la perseguibilità di alcuni reati e ad introdurre importanti percorsi di giustizia riparativa, ha aperto ai giudici di merito la possibilità di applicare direttamente al condannato pene sostitutive al carcere, riconducendo quest’ultimo ad una delle forme – non l’unica! – di esecuzione della pena, da riservare questa ai reati più gravi. Sia chiaro, anche in quest’ ultimo caso, la funzione rieducativa e risocializzante deve trovare spazio il più possibile attraverso un percorso detentivo capace di restituire al condannato dignità, permeando questa l’intero Patto Costituzionale, fungendo da parametro fondamentale, irrinunciabile, per la limitazione di qualsiasi diritto.
Non solo, creare pene al di fuori del carcere significa impegnarsi in un arduo progetto di politica sociale che preveda strutture amministrative, che si occupino della esecuzione esterna delle pene sostitutive-alternative-riparative, ma anche strutture sanitarie o socio-assistenziali che seguano percorsi terapeutici e di sostegno da affiancare alla pena. Strutture queste, al momento insufficienti e prive di risorse, senza le quali però, è impossibile assicurare la realizzazione del finalismo rieducativo della pena, laicamente inteso, come offerta di opportunità per il reinserimento sociale, anche, del colpevole. Finalità che, per essere perseguita, necessita del concorso attivo di molte istituzioni pubbliche come quella dell’istruzione, per arrivare agli enti territoriali, costituzionalmente responsabili dell’assistenza sanitaria, ma anche della programmazione e dell’attuazione delle politiche sociali e del lavoro.
Non è dubbio che, l’effettività della funzione rieducativa, passa attraverso spazi e tempi della pena idonei e, quindi, anche attraverso un’apertura alla società esterna.
Insomma, una effettiva riforma della giustizia, che intenda andare oltre il codice penale Rocco, al di là dell’efficienza giudiziaria, dovrà sopperire al deficit di personalizzazione sanzionatoria propria di quel codice, valorizzando, come impone il dettato Costituzionale, e individualizzando la pena, allargando le opzioni sanzionatorie e la discrezionalità del giudice sin dal giudizio di cognizione.
È possibile affermare che il promovimento di tale principio e, quindi, il superamento della concezione di una pena ineluttabilmente retributiva, più precisamente, general-preventiva negativa, come quella che ha ispirato il codice della ’30, è già riconoscibile nella categoria, sopra citata, della “non punibilità“ di cui all’art. 131-bis c.p. Categoria valorizzata ed ampliata dalla Riforma “Cartabia” che, adeguandosi ai suggerimenti della dottrina ed ai moniti della Corte costituzionale, ha incentrato la non punibilità sulla tenuità del fatto, facendo riferimento al limite minimo della pena, in quanto è questo che segnala, in concreto, se un certo reato possa essere commesso in forma lieve([66]).
Occorrerà quindi, altro aspetto fondamentale, incidere sul piano dell’individualizzazione della pena, promuovendo ed allargando lo spazio, ancor piuttosto modesto, della giustizia riparativa, la quale esprime «la forma più intensa e relazionale di personalizzazione delle conseguenze sanzionatorie del reato»([67]), rendendo la pena realmente dinamica: «agìta» e non «subita»([68]). Non vi è dubbio che la rifondazione in chiave personalistica della pena, impone un pluralismo sanzionatorio che può esprimersi solo attraverso il superamento della centralità della pena detentiva, depersonalizzante per eccellenza e, attraverso, la predisposizione di percorsi trattamentali individualizzati.
A dire il vero, la Riforma “Cartabia” lascia scorgere i primi, sia pur timidi, segnali di rinnovamento ideologico-culturale, coinvolgendo anche il sistema processuale sin dalla fase della cognizione, richiedendo al giudice una giustificazione alla pena che oltrepassi la mera retribuzione di matrice squisitamente codicistica, per ancorarsi-indagare, sin da subito, la vicenda umana dell’accusato.
Ebbene, il modello or ora affermato, rappresenta solo l’inizio di attuazione di un progetto appena cominciato, che pretende tempi, non rapidi né a medio termine, che vuole sensibilità nuove ed investimenti strutturali. Si assiste ad un rilancio, si punta in alto, le probabilità concrete di successo ci sono, purchè la politica si assuma le responsabilità che la Costituzione impone: rimuovere le disuguaglianze e lo svantaggio sociale attraverso lo sviluppo di politiche economiche e sociali e non solo criminali.
Ove così non fosse saremmo di fronte all’ennesima riforma inattuata, espressione di pura ipocrisia.
ABSTRACT
La necessità di una riforma globale del nostro codice penale è evidente a tutti, e non perché si tratti di cattiva legislazione – a parte lo stigma autoritario in esso contenuto e in parte eliminato da un succedersi di leggi e leggine –, ma per una esigenza di ordine e chiarezza, che adegui ai tempi una materia risalente, che esprima davvero i principi costituzionali e non attraverso sporadici interventi legislativi o pronunce necessitate della Corte costituzionale, che si sintonizzi col nuovo processo penale e che, finalmente, riconosca alla pena la funzione complessa che la Costituzione le affida: afflittività orientata alla integrazione sociale del condannato.
* Ricercatrice di Diritto penale presso la “Sapienza Università di Roma”.
** Il presente contributo è destinato al volume “Per i novant’anni del Codice Rocco” di prossima pubblicazione, frutto del progetto di ricerca finanziato dalla “Sapienza Università di Roma” e coordinato dalla Prof.ssa Paola Coco.
[1] Cfr. Art. Rocco, Il problema e il metodo della scienza del diritto penale, in Riv. dir. proc. pen.,1910, 497.
[2] Cfr. Art. Rocco, Il problema e il metodo della scienza del diritto penale,cit. 518.
[3] Sul punto si rimanda all’ampia ed esaustiva bibliografia riportata nel pregevole lavoro di Donini, Tecnicismo giuridico e scienza penale cent’anni dopo. La prolusione di Arturo Rocco (1910) nell’età dell’europeismo giudiziario,in Criminalia, 2010, 127; di recente cfr. Coco, Arturo Rocco: uno studioso, un metodo, un codice, in Arch. pen. (web), 1, 2018, 1 ss.
[4] Cfr. i Lavori preparatori del Codice penale e del Codice di procedura penale, Vol. V, Progetto definitivo di un nuovo Codice penale con la Relazione del Guardasigilli On. Alfredo Rocco, Parte IIa, Relazione sui Libri II e III del Progetto, Roma, 1929, 7.
[5] Lavori preparatori del Codice penale e del Codice di procedura penale, Vol. V, cit., 275.
[6] Feuerbach, Kritik des Kleinschrodischen Entwurfs zu einem peinlichen Gesetzbuche für die Chur-Pfalz-Bayrischen Staaten, Theil III, München, 1804, 33.
[7] Nell’ottica del codice del ’30, l’individuo è un elemento infinitesimale e transeunte dell’organismo sociale, ai cui fini deve subordinare la propria azione ed esistenza; di qui l’assoluta legittimità della pena di morte, inflitta all’individuo ove sia necessario ai fini supremi di difesa della società e dello Stato; la pena di morte cioè, rappresenta un solenne esempio ammonitore per placare la giusta indignazione della coscienza popolare, evitando così sanguinose rappresaglie. Si riporta nella Relazione una suggestiva e persuasiva(!) motivazione: «La ripugnanza che taluni sentono per tale sacrificio è veramente poco giustificabile, in quanto non vi è alcuno che dubiti della legittimità di un altro sacrificio, ben più vasto e ben più grave, che lo Stato impone ai cittadini: quello di morire combattendo per la patria. Se tale sacrificio si impone a centinaia di migliaia di onesti cittadini, perché potrà mai dubitarsi della legale e morale possibilità di infliggere un sacrificio analogo ai più tristi delinquenti?» (Relazione a S.M. il Re del Ministro Guardasigilli (Rocco) presentata nell’udienza del 19 ottobre 1930-VIII per l’approvazione del testo definitivo del Codice penale, in Gazz. Uff. del Regno d’Italia, Parte Prima, n. 251, 26 ottobre 1930, 4451). Mai come in questo momento storico tale frase obbliga a pensare sull’assurdità delle guerre, ancora tanto popolari, per affermare poteri e interessi nazionali. Nonostante che il dettato costituzionale all’art. 11 rifiuti la guerra come strumento di offesa e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, essa ancora costituisce il modo più semplice per risolvere/prevaricare/reprimere ogni forma di divergenza/diversità tra i popoli; deve convenirsi, oltre ogni ragionevole dubbio, che essa rappresenti lo strumento di cui molti Stati si servono per legittimare uno dei più terribili crimini contro l’umanità.
[8] Relazione al Re per l’applicazione del testo definitivo del regolamento per gli istituti di prevenzione e pena, in Riv. dir. penit., 1931, 3,586.
[9] Sul punto Betti, L’interpretazione della legge e degli atti giuridici. Teoria generale e dogmatica, Milano, 1949, 203.
[10] Limiterei l’indagine ai Progetti di riforma ministeriale che partono dall’inizio degli anni ’80: 1) Progetto ministeriale del Prof. Antonio Pagliaro (1988 -1992), completo di parte generale e parte speciale (consultabile sul sito del Ministero della giustizia www.giustizia.it);2) Disegno di legge di iniziativa del Senatore Rolando Riz e altri (1995) (consultabile in Riv. it. dir. proc. pen.,1995, 4, 926 ss.); 3) Progetto ministeriale del Prof. Carlo Federico Grosso (2001) (sempre consultabile sul sito giustizia www.giustizia.it); 4) Progetto del Dott. Carlo Nordio (2001-2005) (sempre consultabile sul sito www.ristretti.it); 5) Progetto ministeriale dell’Avv. Giuliano Pisapia (2006-2007) (sempre consultabile sul sito www.giustizia.it). Al punto 1 della relazione del Progetto “Pagliaro”, tra i “Principi di codificazione”, alla lett. d), si propongono tecniche normative (tra cui l’uso di norme definitorie, la messa al bando dei rinvii e del sistema casistico), atte ad assicurare una maggiore certezza del diritto. L’articolato del Progetto “Nordio” prevede nell’ambito delle disposizioni di attuazione all’art. 1, “Definizioni agli effetti della legge penale”, una serie di termini da impiegare nella pluralità di norme penali previste nel progetto di nuovo codice.
[11] È noto che l’anticipazione della tutela fu ispirato al caso concreto verificatosi ad opera del deputato Tito Zaniboni, che aveva piazzato dalla finestra dell’albergo un fucile di precisione in direzione del balcone di palazzo Chigi dove Mussolini era solito affacciarsi. L’essersi limitato a collocare il fucile in attesa dell’occasione propizia, secondo l’allora vigente codice Zanardelli, non consentiva l’imputazione di tentato omicidio mancando il cominciamento dell’azione punibile. Inutile dire che in spregio alla legge vigente, l’onorevole fu condannato per delitto tentato a 25 anni di reclusione.
[12] Cfr. Donini, La riserva di codice (art. 3-bis c.p.) tra democrazia normante e principi costituzionali. Apertura di un dibattito, in Leg. pen., 2018.
[13] Ex plurimis: Fiorella, Rieducatività della pena, orientamento del destinatario del precetto e componenti sostanziali del reato,in Arch. pen.,2018, Supp. al n. 1, 99; Donini, La riserva di codice (art. 3-bis c.p.) tra democrazia normante e principi costituzionali. Apertura di un dibattito, cit.; Paliero, La “riserva di codice” messa alla prova: deontica “idealistica” versus deontica realistica, in Criminalia, 2019, 31. Tutti i Progetti di riforma contengono un riferimento chiaro alla riserva di codice accogliendo l’idea di centralità del codice penale; il Progetto “Pagliaro” la inserisce tra i principi di codificazione così da imprimerle un valore precettivo che non può essere disatteso (art. 2, co. 3); il Progetto “Pisapia” ne valorizza il contenuto, in particolare stabilendo all’art. 5 che «nuove disposizioni penali siano inserite nel codice penale ovvero nelle leggi disciplinanti organicamente l’intera materia cui si riferiscono, coordinandole con le disposizioni del codice e nel rispetto dei principi in esso contenuti», precisazione quest’ultima quanto mai necessaria per riaffermare il vincolo di subordinazione della legislazione penale speciale a quei principi fondamentali che devono essere contenuti nel corpo normativo penalistico.
[14] Lavori preparatori del Codice penale e del Codice di procedura penale, Vol. V, Progetto definitivo di un nuovo Codice penale con la relazione del guardasigilli On. Alfredo Rocco,Parte Ia, Relazione sul Libro I del Progetto, Roma, 1929, 247.
[15] Vassalli, voce Codice penale,in Enc. dir.,VII, Milano, 1960, 274, afferma che «gli autori del codice, di fronte al dibattito tra le scuole penalistiche, intesero ispirarsi decisamente all’eclettismo».
[16] Marconi, Codice penale e regime autoritario, in Il Codice Rocco cinquant’ anni dopo,in La Questione criminale, 1981, 1, 134 ss.; Fiandaca, Il codice Rocco e la continuità in materia penale, ivi,67 ss.
[17] Insieme al nuovo codice di procedura penale entrarono in vigore tre importanti decreti contenenti le disposizioni di coordinamento, transitorie e di attuazione dei due codici (per il codice penale il r.d. 28 maggio 1931, n. 601), le disposizioni regolamentari per il servizio del casellario giudiziale (r.d. 18 giugno 1931, n. 778), il regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena (r.d. 18 giugno 1931, n. 787), e il t.u. delle leggi di pubblica sicurezza (r.d. 18 giugno 1931, n. 773).
[18] Cfr. Vassalli, voce Codice penale, cit., 272. Non merita analisi giuridica il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, istituito con L. 25 novembre 1926, n. 2008, espressione più bieca ed organo speciale del regime fascista, competente a giudicare, diffidare, ammonire chiunque fosse imputato di un reato politico, privandolo delle basilari garanzie che un processo deve assicurare.
[19] Sull’indirizzo eclettico seguito dal codice Rocco, cfr.: Art. Rocco, Il problema e il metodo della scienza del diritto penale, cit.;Vassalli, voce Codice penale, cit. 274;Neppi Modona, Legislazione penale, in Il mondo contemporaneo, Vol. I, Tomo 2, Firenze, 1978, 598.
[20] L’espressione rivolta ad alcuni aspetti del codice penale del ’30 è di Vassalli, voce Codice penale, cit., 261.
[21] Il Progetto “Pagliaro” raggruppa i reati d’aborto sotto la nuova categoria dei «Reati contro la gestazione», includendoli nel Libro I della parte speciale al Titolo III, tra i reati contro la persona, trattandosi di beni attinenti alla personalità umana.
[22] Anche qui, il Progetto “Pagliaro” si è preoccupato di inserire i reati in materia di prostituzione nel Titolo IV, del Libro I della parte speciale, tra i reati contro la dignità dell’essere umano, riducendo quanto contenuto nella legge Merlin a tre fattispecie di lenocinio: dello sfruttamento e della costrizione e induzione.
[23] La riforma, comprensiva anche delle L. n. 191 e n. 1634 del 1962, ha inciso su alcuni istituti fondamentali tendenti ad un maggiore indulgenza, tra cui l’estensione della sospensione condizionale della pena, della liberazione condizionale, del reato continuato, della facoltatività della recidiva, della generalizzazione del giudizio di equivalenza o prevalenza tra circostanze, del cumulo giuridico per il concorso formale di reati, della mitigazione del trattamento carcerario dei condannati all’ergastolo.
[24] Tutti i progetti di Riforma di codice hanno proceduto a distinguere categoricamente le circostanze dal fatto, in forza di un’espressa e tassativa qualificazione delle stesse; si è preferito valorizzare la previsione di figure autonome di reato, che evidentemente assorbono elementi corrispondenti alle vigenti circostanze speciali e ad effetto speciale. Occorre aggiungere che i Progetti “Pagliaro”, “Nordio” e “Pisapia”, a differenza del Progetto “Grosso”, nel caso di concorso eterogeneo di circostanze, hanno eliminato il giudizio di prevalenza ed equivalenza, sostituendolo con la regola dell’applicazione integrale di tutte le circostanze aggravanti o attenuanti pertinenti al reato.
[25] Sul punto Fiorella, La parte speciale tra codificazione e legislazione complementare,in Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Atti del Convegno (Saint Vincent, 6-8 maggio 1994),Milano, 1996, 270.
[26] Il riferimento è all’art. 656, co. 5, c.p.p. che, prevede la sospensione senza assaggio di pena con conseguente applicazione dell’affidamento in prova, allorché la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggior pena, non sia superiore a tre anni, quattro nei casi previsti dall’art. 47-ter ord. pen.; pena quest’ultima non certamente breve e non in linea con la funzione originaria delle misure alternative che consisteva nell’evitare il carcere al destinatario di una pena detentiva medio-bassa, per realizzarne un utile reinserimento sociale.
[27] La Corte cost., con una sentenza di accoglimento interpretativo (n. 32/2020), collegandosi direttamente all’art. 25, co. 2, Cost., ha dichiarato la incostituzionalità di una interpretazione retroattiva delle modifiche peggiorative in tema di concedibilità delle misure alternative alla detenzione.
[28] Cfr. il leading case Corte EDU, Grande Camera, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna, che,evidenziando il volto convenzionale della pena, estende la garanzia dell’art. 7 C.E.D.U. a tutte quelle misure modificative della pena inflitta che ridefiniscono modificano la portata applicativa della pena imposta dal giudice.
[29] Cfr. sul punto i d.lgs. n. 123 e n. 124 del 2018, contenenti disposizioni in materia di assistenza sanitaria, vita detentiva e lavoro penitenziario; si evidenzia nella relazione illustrativa, in considerazione dei pareri negativi allo schema del decreto inviato dal governo alle camere, che si è avviato un nuovo procedimento di esercizio della delega per pervenire così ad un «testo diverso nelle opzioni di fondo, rispetto al precedente con conseguente superamento dell’assetto complessivo della riforma».
[30] Emblematico sul punto, l’art. 99, co. 5, c.p. introdotto dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251; qui il legislatore ignaro di quello che la Costituzione impone, aveva previsto una presunzione assoluta di pericolosità, disciplinando l’obbligatorietà dell’inflizione della recidiva per alcuni gravi reati, obbligando così la Corte cost. a dichiararne la incostituzionalità seppur limitatamente alle parole «è obbligatorio» (sent. n. 185 del 2015). Suscita qualche perplessità anche l’art. 630 c.p. ove si prevede la pena della reclusione, in deroga all’art. 23 c.p., da 25 a 30 anni, introdotta dalla legislazione emergenziale a seguito dell’allarme sociale provocato da numerosi episodi di sequestro di persona posti in essere da pericolose organizzazioni criminali, con efferate modalità esecutive (art. unico L. 30 dicembre 1980, n. 894).
[31] Le pronunce della Corte cost. si soffermano, dichiarandone l’incostituzionalità per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., su alcune norme che vietano di considerare prevalente, rispetto all’aggravante della recidiva reiterata, l’attenuante del «fatto di lieve entità», impedendo cioè di applicare una pena adeguata e proporzionata alla differente gravità del fatto-reato; cfr. sent. n. 143 del 2021, n. 73 del 2020, n. 55 del 2021, n. 68 del 2012, n. 251 del 2012, n. 105 del 2014, n. 106 del 2014, n. 205 del 2017.
[32] Con chiarezza cfr. Palazzo, Il principio di proporzione e i vincoli sostanziali del diritto penale, in Principi, regole, interpretazione. Contratti e obbligazioni, famiglie e successioni. Scritti in onore di Giovanni Furgiuele, a cura di Conte e Landini, Tomo I, Mantova, 2017,311 ss.Sul punto cfr. Corte cost. sent. n. 63 del 2022, che ha dichiarato illegittima l’aggravante che parifica il trattamento sanzionatorio dei trafficanti a quello di coloro che prestano un aiuto per finalità solidaristiche di cui all’art. 12, co. 3, lett. d), t.u. immigrazione (d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286), nella parte in cui prevede, quali circostanze aggravanti speciali del favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, l’utilizzo dei servizi internazionali di trasporto ovvero di documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti. Il Giudice delle leggi ha infatti ritenuto che il significativo inasprimento della cornice edittale ricollegato a tale ipotesi (pari al quintuplo della pena detentiva minima ed al triplo di quella massima prevista per la fattispecie base di cui all’art. 12, co. 1, t.u. immigrazione), sia contrario al principio di proporzionalità della pena ricavabile dal combinato disposto degli artt. 3 e 27, co. 3, Cost.
[33] Da ultimo sull’irragionevolezza di certi automatismi penitenziari nei confronti degli ergastolani cfr. Corte Cost. sent. n. 149 del 2018 e n. 229 del 2019; tale percorso argomentativo si sviluppa e completa con la sent. n. 253 del 2019, dove la Corte ha affermato nei confronti di condannati per associazione di stampo mafioso, l’incostituzionalità di preclusioni assolute dirette a vietare la possibilità di usufruire di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia; il percorso della Corte è culminato con l’ord. n. 97 del 2021, sulla disciplina dell’ergastolo ostativo, preclusivo della liberazione condizionale, per chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia; sul punto si veda nota 55.
[34] La Corte cost., con sent. n. 313 del 1990, superando ogni ambiguità precedente, afferma che specie e durata della pena devono essere calibrate sia in sede normativa che applicativa, alle necessità rieducative del soggetto. In dottrina egregiamente: Bricola,voce Teoria generale del reato,in N. Dig. It.,XIX, Torino, 1973, 53 ss.; Pulitanò,voce Ignoranza della legge (diritto penale),in Enc. dir., XX,Milano, 1970, 36 ss.
[35] Fiorella, Rieducatività della pena, orientamento del destinatario del precetto e componenti sostanziali del reato,in Arch. pen., 2018, 1, 97.
[36] Cfr. Cass., Sez. un., 22 gennaio 2009 n. 22676, sul reato di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto di cui all’art. 586 c.p., norma di chiusura, la cui articolata e, allo stesso tempo, essenziale costruzione normativa, ha impegnato e coinvolto nello studio, gran parte della dottrina penalistica; norma dettata per il rafforzamento del sistema di tutela dei beni della vita umana e dell’incolumità fisica, la cui ratio risiede, proprio, nell’opportunità di una più rigorosa tutela in tema di delitti di sangue; le Sez. un., utilizzando le numerose pronunce della Corte costituzionale sulla responsabilità colpevole, hanno, qui, ribadito che la colpa dell’agente per l’evento ulteriore, debba intendersi come concreta prevedibilità dell’evento letale, richiedendo l’esistenza in concreto della colpa dell’imputato rispetto all’evento morte non voluto.
[37] È evidente che l’eliminazione delle ipotesi di delitto preterintenzionale, comune a tutti i Progetti di riforma, debba significare ricondurlo al concorso di reati tra il fatto-base doloso, sia esso consumato tentato, e l’ulteriore fatto più grave che sia imputabile a colpa dell’ agente; esemplificando poi, per quanto riguarda le singole ipotesi di responsabilità oggettiva, con particolare riferimento all’aberratio delicti, il Progetto “Nordio” è l’unico a trattarlo esplicitamente all’art. 27, co. 1, affermando che «quando per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato o per un’altra causa, l’ agente realizza un fatto diverso da quello voluto, ne risponde, per colpa, se il fatto è previsto dalla legge come reato colposo»; sempre il Progetto “Nordio”, sulla falsariga di quanto esposto all’art. 31 del Progetto “Grosso”, all’art. 22 prevede «Reati dolosi aggravati da una conseguenza non voluta», e riporta l’ulteriore conseguenza non voluta dall’agente ad una ipotesi colposa, applicando le regole del concorso di reati, sempre che la conseguenza ulteriore non voluta sia prevista dalla legge come reato colposo; sia il progetto “Pagliaro” all’art. 29, che il progetto “Grosso” all’art. 44, disciplinando l’agevolazione colposa del reato diverso da quello voluto, attribuiscono soggettività autentica alla condotta del concorrente.
[38] Nonostante i tentativi intrapresi dalla dottrina e da parte della giurisprudenza, tesi ad interpretare l’art. 584 c.p. come dolo misto a colpa (cfr. Cass., Sez. I, 22 settembre 2006, n. 37385), recentemente la giurisprudenza è ritornata sui suoi passi affermando che, nell’omicidio preterintenzionale, l’elemento soggettivo è costituito, non già da dolo e responsabilità oggettiva né da dolo misto a colpa per quanto riguarda la conseguenza non voluta ma, unicamente, dal dolo di percosse lesioni, in quanto la disposizione di cui all’art. 43 c.p. assorbe la prevedibilità dell’evento più grave nell’intenzione di risultato (Cass., Sez. V, 14 settembre 2016, n. 1691); la Cassazione cioè riconduce l’iter criminoso ad una sequenza unica, trovando conforto proprio nella struttura dell’art. 584 c.p. a dimostrazione che «il rischio di evento omogeneo più grave è insito nel danno o pericolo che si arreca alla persona fisica».
[39] Il riferimento è alla legge di delega al governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei processi giudiziari, approvata dal Parlamento su iniziativa dell’allora Ministro di giustizia Marta Cartabia; si assiste qui, ad una «processualizzazione dell’istituto, dal momento che, salvo i casi in cui il reato si sia risolto in primo grado, l’esito finale è che si è introdotta la subordinazione della prescrizione sostanziale alla improcedibilità finale», producendosi problematiche anche sotto il profilo intertemporale: così, Donini, Efficienza e principi della legge Cartabia. Il legislatore a scuola di realismo cultura della discrezionalità,in Politica del diritto, 2021, 4, 597.
[40] Cfr. la Relazione elaborata dalla Commissione “Fiorella” del 23 aprile 2013 (Gruppo di studio per elaborare una proposta di revisione complessiva delle norme in tema di prescrizione, consultabile sul sito www.giustizia.it); si sostiene, un’ottica riformatrice, monistica, che la prescrizione sia funzionale anche alla tutela della ragionevole durata del processo e che continuando ad avere senso anche durante l’iter processuale «l’idea che man mano che ci si allontana dalla commissione del reato, sempre meno si giustifica la pena». Tale progetto rivisto poi in alcune sue parti dalla “Legge Orlando”, è naufragato con la L. n. 3 del 2019. Per una impostazione sostanziale della prescrizione, Pulitanò, Riforma della prescrizione. Giochi linguistici e sostanza normativa, in www.sistemapenale.it, 19 luglio 2021;ci sia consentito il rinvio a Dinacci, Prescrizione del reato e principi costituzionali nel sistema del diritto penale, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2019, n. 1-2, 145 ss.
[41] Il riferimento, oltre ai già citati Progetti di riforma del codice, è al succitato Progetto elaborato dalla Commissione diretta dal Prof. A. Fiorella, per la revisione del sistema penale, che ha dato luogo ad una organica e significativa depenalizzazione sia in astratto che in concreto, escludendo dalla materia penale figure desuete e non più conformi ai principi di laicità e pluralismo del nostro ordinamento costituzionale, così mostrando la volontà di dare inizio ad una effettiva politica di decarcerizzazione, introducendo nuove disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova. Per quanto riguarda poi, la depenalizzazione in concreto il Progetto prevedeva una estensione della punibilità a querela, l’esclusione della procedibilità per particolare tenuità del fatto, l’estensione dell’oblazione anche per i delitti, l’estinzione del reato a seguito del compimento di condotte riparatorie e all’adempimento di prescrizioni. Nella stessa ottica della depenalizzazione, la Riforma “Orlando” (L. n. 103 del 2017), conteneva una delega al governo per una estensione della procedibilità a querela per alcuni reati contro la persona e il patrimonio. Sempre nell’ottica di ridimensionare l’area della coercizione e ripristinare condizioni di maggiore efficienza processuale, in un’ottica di semplificazione e deflazione delle procedure, tenendo peraltro conto dei lavori svolti dalle altre Commissioni ministeriali, occorre citare la Commissione, presieduta dal Dott. Canzio, costituita con d.m. 10 giugno 2013, al fine di «elaborare una proposta di interventi in tema di processo penale», per meglio attuare la ragionevole durata del processo, in sintonia con i principi sanciti dal giusto processo nell’art. 111 Cost. Sempre nell’ottica di un alleggerimento della materia penale, si vedano i lavori elaborati dalla Commissione di studio, istituita dalla Ministra Cartabia con d.m. 16 marzo 2021, presieduta dal Presidente emerito della Corte Costituzionale Giorgio Lattanzi, per elaborare proposte di riforma in materia di prescrizione del reato, attraverso la formulazione di emendamenti al d.d.l. A.C. 2435, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello (consultabile sul sito www.giustizia.it.).
[42] Così Pulitanò, Il penale tra teoria e politica, in www.sistemapenale.it, 9 novembre 2020.
[43] Cfr. Gullo, La depenalizzazione in astratto tra vecchi e nuovi paradigmi. Un’analisi dei decreti legislativi 7 e 8 del 15 gennaio 2016, in www.lalegislazionepenale.eu, 29 luglio 2016.
[44] L’istituto, presente nel Progetto elaborato dalla Commissione “Grosso” all’art. 74, legava il giudizio alla minima entità del danno o del pericolo alla minima colpevolezza dell’agente, oltre che all’occasionalità del comportamento e all’assenza di pretese risarcitorie, nonché di esigenze di «prevenzione generale e speciale tali da richiedere una qualsiasi misura nei confronti dell’autore del reato»; l’articolato della Commissione Pisapia, nella definizione dei principi di delega, mostrando una particolare attenzione al sistema sanzionatorio, si riferisce ai requisiti della tenuità dell’offesa e dell’occasionalità del comportamento; la Relazione richiede una più precisa definizione dei caratteri dell’istituto, nel senso che «il fatto non è punibile qualora si è ritenuto irrilevante; la valutazione della sua irrilevanza deve essere motivata in base alla sua novità, o alla minima entità del danno, o alla natura, alla specie, all’oggetto, al tempo, al luogo o ad altre modalità dell’azione» (§ VI Relazione). I lavori della Commissione “Palazzo”, per elaborare proposte in tema di revisione del sistema sanzionatorio e per dare attuazione alla Legge delega 28 aprile 2014, n. 67, in materia di pene detentive non carcerarie di depenalizzazione (istituita con d.m. 27 maggio 2014, i cui lavori sono consultabili sul sito www.giustizia.it), aderiscono all’approccio oggettivistico richiesto dalla delega, meglio precisando i criteri di calcolo del limite della pena e gli indici di tenuità dell’offesa con riferimento alle modalità della condotta ed all’esiguità del danno o del pericolo da valutare ai sensi del co. 1 dell’art 133 c.p., lasciando invece alla discrezionalità del giudice la definizione di comportamento non abituale.
[45] Proposta di legge A.C. 2024, di iniziativa del Deputato E. Cirielli; si afferma nella relazione alla proposta, che l’istituto, «rappresenta all’interno di un assetto normativo già colmo di istituti lassisti favorevoli ai rei […] pericolosi meccanismi di disattivazione dell’effettività della pena».
[46] Cfr. Corte cost. sent. n. 156 del 2020, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 131-bis c.p. nella parte in cui esso non trova applicazione avuto riguardo all’ipotesi attenuata di ricettazione di particolare tenuità (art. 648, co. 2, c.p.).
[47] Cfr. d.l. 14 giugno 2019, n. 53, ridimensionato nella portata dal d.l. 21 ottobre 2020, n. 130, a seguito della lettera del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dell’8 agosto 2019, ai Presidenti della Camera e del Senato e al Presidente del Consiglio dei Ministri, dove si segnalava il rischio di un eccessivo ampliamento delle ipotesi sottratte alla operatività dell’istituto in esame; con la modifica il legislatore ha attuato restrizioni già sul piano astratto alla particolare tenuità del fatto con riferimento ai reati puniti con la pena nel massimo superiore a due anni e sei mesi di reclusione, che siano commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, nonché qualora siano integrate le ipotesi di violenza, resistenza od oltraggio a pubblico ufficiale, se commessi nei confronti di un ufficiale o agente di pubblica sicurezza di un ufficiale agente di polizia giudiziaria nell’esercizio delle proprie funzioni ovvero ancora di un magistrato in udienza.
[48] Cfr. Pelissero, Politica, consenso sociale dottrina: un dialogo difficile sulle riforme attuate e mancate del sistema sanzionatorio, in Arch. pen.,2019, 1, 23 ss.
[49] Tutte le varie Commissioni di riforma, seppur con intensità diverse, hanno sviluppato i lavori seguendo la direzione di una revisione organica del sistema sanzionatorio introducendo pene interdittive che, oltre al contenimento dell’ingestibile sovraffollamento carcerario, consentono un intervento mirato su presupposti relativi ad un certo tipo di reato senza produrre quell’effetto desocializzante tipico della pena detentiva, prescrittive, pecuniarie/ablative. L’idea di fondo è consistita nell’abbandono del sistema penale carcerocentrico, culminata nei Progetti “Nordio” e “Pisapia” che, pur con soluzioni significativamente diverse, hanno previsto l’utilizzazione, già sul terreno della previsione delle pene principali, di pene alternative al carcere; il Progetto “Nordio” adotta un modello sanzionatorio caratterizzato da elevata flessibilità, anticipata al momento del giudizio, attraverso l’introduzione di un cospicuo numero di sanzioni prescrittive, interdittive, ablative, mirate sul reo, «in modo che la connessione tra reato e pena potesse essere resa trasparente già attraverso la previsione edittale della conversione della reclusione in altra pena, indicativa della specificità della conseguenza afflittiva che sia spiegabile con istanze precise di prevenzione speciale». Il Progetto “Pisapia”, proseguendo il leitmotiv precedente, propone un sistema sanzionatorio che consenta effettivamente nel concreto il ricorso alla pena detentiva in termini di extrema ratio, prevedendo l’introduzione di pene non detentive dirette a favorire l’integrazione sociale del condannato. È necessario ricordare che i Progetti “Riz”, “Grosso” e “Pisapia” eliminano la pena dell’ergastolo mentre i Progetti “Pagliaro” e “Nordio”, la mantengono riducendola a pochissimi casi di reati eccezionalmente gravi; nella stessa direttiva si pone lo Schema per la redazione dei principi e criteri direttivi di delega legislativa in materia di riforma del sistema sanzionatorio penale (dicembre 2013), ad opera della commissione istituita con decreto del Ministro della giustizia del 10 giugno 2013 presieduta dal Prof. Palazzo (consultabile sul sito www.giustizia.it).In tal senso si veda la Relazione finale della Commissione “Lattanzi”, con particolare riferimento al punto 4) (Proposte in materia di sistema sanzionatorio penale e di giustizia riparativa).
[50] L’art. 5 del d.l. del 31 ottobre 2022 n. 162, rubricato “Norme in materia di occupazioni abusive e organizzazione dei raduni illegali”, introduceva, tra i delitti contro l’incolumità pubblica, l’art. 434-bis c.p. «L’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica», prevedendo l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a 50, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica; la pena per chi organizza o promuove l’invasione è della reclusione da tre a sei anni e della multa da Euro 1000 a Euro 10.000; per il solo fatto di partecipare all’invasione la pena è diminuita. L’esecutivo, a seguito delle polemiche divampate, ha scritto un emendamento alla tanto discussa norma, lasciando invariata la pena e cambiando la sede dell’articolo che dal 434-bis c.p. è stato spostato all’ art. 633-bis c.p, nell’ ambito dei delitti contro il patrimonio; il testo approvato dal Senato, convertito in L. n. 199 del 2022, ha eliminato dal reato il riferimento al numero delle persone e si rivolge a “chiunque organizza o promuove l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici e privati, al fine di realizzare un raduno musicale o avente altro scopo di intrattenimento [punendolo] con la reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro 1000 a euro 10000, quando dall’ invasione deriva un concreto pericolo per la salute pubblica o per l’ incolumità pubblica a causa dell’ inosservanza delle norme in materia di sostanze stupefacenti ovvero in materia di sicurezza o di igiene degli spettacoli e delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento, anche in ragione del numero dei partecipanti ovvero dello stato dei luoghi”; si tenta, in tal modo, di proiettare il nuovo testo su situazioni più precise, maggiormente definite, collegandolo alla effettiva violazione di norme in materia di sicurezza e igiene e a quelle sull’abuso sostanze stupefacenti.
[51] E’ stata definita, a ragione, democrazia penale reale, quella dei mass media e del populismo legislativo e giudiziario, che utilizzano «un metodo di fare legislazione e pubblicità delle norme contrario ad ogni tecnica legislativa seria, condannando così il paese a non avere mai una riforma organica di fondo in materia penale»; e ancora «Le leggi penali sono vicine alle leggi costituzionali, perché mettono a rischio la libertà e dovrebbero per questo tutelare davvero, e non semplicemente compromettere, i diritti fondamentali», così Donini, Nuovi reati dettati dai media: è questo il primato della politica, in il Riformista, 6 novembre 2022.
[52] Nella formulazione originaria l’art. 434-bis c.p. conteneva una pena più severa rispetto all’art. 633 c.p., mancando però una differenziazione in termini di disvalore, assumendo quindi l’aumento sanzionatorio un riferimento squisitamente psichico, che si sarebbe tradotto in una generica appartenenza al gruppo; si ricorda come la Corte Cost. con le sent. n. 249 e n. 250 del 2010, ha dichiarato l’illegittimità dell’aggravante di clandestinità (art. 61, n. 11-bis, c.p.), introdotta con il primo pacchetto sicurezza del 2008 dal governo, in quanto in contrasto con gli articoli 3, co. 1, e 25, co. 2, Cost., ribadendo così, la illegittimità di trattamenti penali più severi fondati su qualità personali ed introduttivi, quindi, di una responsabilità penale d’autore in aperta violazione del principio costituzionale di offensività.
[53] Sostiene la Corte cost., con ord. n. 380 del 2006, che «Le pronunce additive […] sono consentite solamente quando la questione si presenti a rime obbligate, cioè quando la soluzione sia logicamente necessitata ed implicita nello stesso contesto normativo».
[54] Cfr. Corte cost. ord. n. 207 del 2018, dove pur riconoscendo, ma non dichiarando, la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., ha inteso rivisitare il proprio ruolo nei rapporti con il legislatore impostando un dialogo, rivelatosi poi infruttuoso, con il Parlamento, invitato, nel rispetto della sua discrezionalità (al cospetto di materie eticamente sensibili), a intervenire in ossequio alle modalità suggerite dalla stessa Corte, per colmare il ravvisato vulnus costituzionale; con sent. n. 242 del 2019, la Corte costituzionale, preso atto dell’inerzia legislativa, dichiara l’illegittimità dell’ art. 580 c.p., per violazione degli articoli 2, 13 e 32, co. 2, Cost. Sempre nell’ottica di una pronuncia-monito, cfr. Corte cost. sent. n. 132 del 2020, anche qui, si rinvia di un anno la trattazione delle questioni relative al profilo sanzionatorio in tema di diffamazione a mezzo stampa, per dar modo al Parlamento «in uno spirito di leale collaborazione istituzionale e nel rispetto dei limiti delle proprie attribuzioni», di porre mano a una rimodulazione dell’apparato punitivo, così da renderlo compatibile con i principi costituzionali e sovranazionali; la Corte, a fronte dell’inerzia legislativa, con sent. n. 150 del 2021, ha affermato l’illegittimità della pena cumulativa (detentiva e pecuniaria) per reprimere i fatti di diffamazione, chiarendo entro quali limiti è invece legittima la previsione della pena alternativa.
[55] Con ord. n. 97 del 2021, la Corte costituzionale, non entrando nel merito della questione, dispose un rinvio della trattazione in tema di ergastolo ostativo, all’udienza pubblica del maggio 2022, «dando al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia»; rinviava, quindi, la trattazione in ordine alla questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, co. 1, e 58-ter, L. n. 354 del 1975, e dell’art. 2 d.l. n. 152 del 1991, convertito con modificazioni in L. n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale. Ampia parte dell’ordinanza, è dedicata a dimostrare come il carattere assoluto di tale presunzione, impedendo alla magistratura di sorveglianza di valutare il percorso carcerario del condannato, dopo il lungo tempo di espiazione della pena richiesto ai fini della liberazione condizionale, si ponga in contrasto con la funzione rieducativa della pena ai sensi dell’art. 27, co. 3, Cost.; sempre ad avviso della Corte sarebbe anche incongruo equiparare, quanto alle condizioni di accesso alla liberazione condizionale, il condannato all’ergastolo per delitti connessi alla criminalità organizzata che non abbia collaborato con la giustizia e il condannato collaborante; di qui la conclusione a cui approda l’ordinanza: «appartiene alla discrezionalità legislativa e non già a questa Corte decidere quali ulteriori scelte risultino opportune per distinguere tra la condizione dell’uno e dell’altro ergastolano», richiamando qui anche la Sentenza della Corte EDU Viola c. Italia dove si afferma che la disciplina dell’ergastolo ostativo pone «un problema strutturale tale da richiedere che lo Stato italiano la modifichi di preferenza per iniziativa legislativa». In seguito al d.l. n. 162 del 2022 con cui il governo ha introdotto un nuovo regime di ostatività, la Corte costituzionale, con ord. n. 227 del 2022, ha preso atto della modifica normativa ed ha rinviato gli atti per un nuovo esame della questione di costituzionalità alla Corte di cassazione, giudice rimettente. Occorre ricordare che da tempo la Consulta, in sintonia con la Cedu, ha sostanzialmente bocciato gli automatismi che escludono a priori alcuni condannati dai benefici carcerari, espressione questi del principio costituzionale della finalità rieducativa della pena; cfr. Corte cost. sent. n.264 del 1974, n. 274 del 1983, n. 168, del 1994, n. 161 del 1997, n. 253 del 2019, n. 135 del 200; qui la Corte, in modo non del tutto chiaro, facendo salve le ipotesi di collaborazione impossibile o comunque oggettivamente inesigibile, afferma che la disciplina dell’ergastolo ostativo sarebbe «significativamente volta ad escludere qualsiasi automatismo degli effetti nel caso in cui la mancata collaborazione non possa essere imputata ad una libera scelta del condannato».
[56] Cfr. Donini, Codificazione, in Studi in onore di Carlo Enrico Paliero, a cura di Piergallini, Mannozzi, Sotis, Perini, Scoletta, Consulich, Milano, 1273 ss.
[57] Cfr. Violante, Populismo e plebeismo nelle politiche criminali, in Criminalia, 2014, 199.
[58] In tal senso per tutti, Pulitanò, introduzione alla parte speciale del diritto penale, Torino, 2010, 55.
[59] Cfr. l’esemplare opera di demolizione della Corte costituzionale sulle presunzioni assolute di adeguatezza cautelare previste all’art. 275 c.p.p. (sent. n. 265 del 2010, n. 164 del 2011, n. 231 del 2011, n. 110 del 2012, n. 57 del 2013, n. 232 del 2013, n. 213 del 2013, n. 48 del 2015, n. 191 del 2020); sull’incompatibilità con la Costituzione della presunzione assoluta di pericolosità dei condannati per reati ostativi (art. 4-bis, co. 1, ord. pen.) che non collaborano con la giustizia, cfr. sent. n. 253 del 2019. Occorre dare atto che il d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito in L. 30 dicembre 2022, n. 199, seguendo tale direttiva, tra notevoli contrasti a livello politico, ha cancellato dall’elenco dei reati ostativi alla concessione dei benefici penitenziari, i reati contro la P.A., invece inseriti dalla L. 9 gennaio 2019, n. 3.
[60] Cfr. Corte cost. sent. n. 84 del 2021, dove consacra l’operatività del diritto al silenzio nel campo del diritto sanzionatorio generale, con riferimento alle sanzioni CONSOB; in linea con la consolidata giurisprudenza europea sulla nozione sostanziale di sanzione penale basata sui parametri enucleati dalla “sentenza Engel”, cfr. Corte EDU, Grande Camera, sent. 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, par. 82., e da ultimo, Corte giust. UE, sent. 2 febbraio 2021, causa C-481/19.
[61] Da ultimo Cass., Sez. un., 26 novembre 2020 (dep. 17 marzo 2021), n. 10381, hanno esteso analogicamente l’esimente in oggetto anche con riferimento al convivente more uxorio, considerandola come un principio immanente al sistema penale, quello della inesigibilità, passibile di analogia in bonam partem, espressione del principio contenuto nell’art. 27 Cost.
[62] Per i rilievi sostanziali del principio, cfr. Pulitanò, Nemo tenetur se detegere, quali profili di diritto sostanziale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 1272 ss.
[63] Il riferimento è all’intervento del Ministro di Giustizia Carlo Nordio alle Commissioni giustizia dove ha esposto un ampio programma orientato alla ormai improcrastinabile risoluzione dei problemi che affliggono il sistema penale. Il Ministro, per quanto riguarda il diritto penale, ha sostanzialmente ribadito quanto già avallato nei lavori della Commissione di riforma da Lui presieduta per l’elaborazione di un nuovo codice penale; lavori, è bene ribadirlo, nei contenuti in assoluta sintonia con tutti i vari Progetti di riforma di codice penale, nonché con le numerose commissioni di studio a ciò dedicate.
[64] La Riforma “Cartabia” del processo e del sistema sanzionatorio penale, entrando in vigore con norme transitorie modificate dalla L. n. 199/2022, in sede di conversione del d.l. n. 162/2022, raggiunge, nei termini stabiliti, uno degli obiettivi del “PNRR” concordati dal governo con la Commissione europea. L’obiettivo si è raggiunto anche grazie ai lavori della Commissione “Lattanzi” e dei sei gruppi di lavoro costituiti presso l’ufficio legislativo del Ministero della giustizia per l’attuazione della legge delega.
[65] Sul punto cfr. Corte cost. sent. n. 41 del 2018.
[66] Sul punto si rimanda alla già citata pronuncia della Corte cost. n. 156 del 2020; in dottrina si segnala Brunelli, La tenuità del fatto nella riforma “Cartabia”: scenari per l’abolizione dei minimi edittali?, in www.sistemapenale.it, 13 gennaio 2022.
[67] Così, Venturoli, Modelli di individualizzazione della pena. L’esperienza italiana e francese nella cornice europea,Torino, 2020, 119.
[68] La originale terminologia è di Donini, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, in Dir. Pen. Cont. – Riv. Trim,2015, 2, 236.