Cass., Sez. III, 18 febbraio 2020 (dep. 29 maggio 2020), n. 16458.
Presidente Ramacci – Relatore Galterio
Cass., Sez. III, 18 febbraio 2020 (dep. 29 maggio 2020), n. 16458
La sentenza della terza sezione penale della Corte di cassazione che si commenta brevemente qui di seguito non aveva, probabilmente, l’ambizione di suscitare l’interesse che ha, invece, guadagnato tra gli operatori del diritto[1] per la naturalezza con la quale sancisce un principio apparentemente innovativo, oltre che ardito, ma in effetti da tempo annidato tra le maglie di certe motivazioni della Suprema Corte.
Il risvolto processuale che ci interessa si inserisce in un ordinario processo per abuso edilizio.
L’occasione per esprimere il principio che occorre fermamente stigmatizzare è rappresentato dall’impugnazione del ricorrente fondata sulla maggiore attendibilità che i giudici di merito avevano attribuito alla consulenza resa dal tecnico incaricato dal pubblico ministero rispetto all’elaborato predisposto dal consulente della difesa: sin qui nulla di inconsueto o di particolarmente rilevante.
Tanto vale anche per i passaggi della sentenza di legittimità nella quale, in riferimento alla fattispecie concreta, si rileva che la consulenza della difesa non aveva avuto la capacità di contrastare i rilievi avanzati nell’elaborato realizzato dal consulente dell’accusa.
Da qui parte il passaggio della sentenza che si potrebbe definire eccentrico se non fosse disvelatore di una considerazione che i “mal pensanti” da tempo sospettano: le conclusioni della consulenza del pubblico ministero, afferma la Corte, “pur costituendo anch’esse il prodotto di un’indagine di parte devono ritenersi assistite da una sostanziale priorità rispetto a quelle tratte dal consulente tecnico della difesa”.
Ciò perché, è il passaggio successivo della tesi (corroborato, secondo la Corte, da un precedente, in verità abbastanza risalente, isolato e neanche mai massimato[2]), essendo il pubblico ministero una parte che avrebbe “per proprio obiettivo quello della ricerca della verità” ed il consulente da lui nominato una sua derivazione che, come tale, non potrebbe non ereditarne la stessa competenza ed imparzialità, elaborato da questi redatto, “pur non potendo essere equiparato alla perizia disposta dal pubblico ministero” (e qui si sfiora l’affermazione della superfluità del dibattimento!: n.d.r.), “è pur sempre il frutto di un’attività di natura giurisdizionale”.
In buona sostanza, secondo la Corte, l’attività del consulente del pubblico ministero avrebbe ontologicamente un valore maggiore di quella della difesa perché, già a partire dalle indagini preliminari la stessa avrebbe una “natura giurisdizionale” che, si deve dedurre, deriverebbe esclusivamente dal fatto che il pubblico ministero è come Giano bifronte: è una parte processuale quando conviene che assuma tale veste, ma, ben più frequentemente, è invece un magistrato, in barba al modello di principio accusatorio che le difese si ostinano a ritenere operante nel nostro ordinamento.
In effetti non si comprende come potrebbe avere carattere giurisdizionale un elaborato di parte realizzato in una fase procedimentale nella quale non si svolge un contraddittorio tra le parti dinanzi ad un giudice terzo ma si assiste esclusivamente ad un confronto tra le prospettive delle parti che si sviluppa eventualmente, e con un regime molto differente, in dibattimento.
Ma il principio della presunzione di superiorità della consulenza del pubblico ministero (che riporta alla memoria equazioni simili ed altrettanto discutibili, introdotte in altri ambiti: il pensiero va, ad esempio, alla diversa valenza attribuita alle investigazioni difensive rispetto alle indagini del pubblico ministero[3]) viene arricchito di altri corollari che suscitano perplessità ancora maggiori: il pubblico ministero stesso che non è portatore di interessi di parte; il pubblico ministero che ha per obiettivo la ricerca della verità; e chi più ne ha più ne metta.
Le “sgrammaticature”[4] della sentenza in esame sono davvero troppe per non essere segnalate.
Tralasciando il lapsus freudiano che compare nel considerato in fatto (“la perizia del pubblico ministero”) che, se la sentenza non si dipanasse come sin qui visto potrebbe essere catalogato nella categoria dell’errore materiale, è evidente che non sia accettabile la negazione della natura di parte del pubblico ministero, non mitigabile con l’obbligo in capo allo stesso di cercare anche gli elementi di prova in favore dell’indagato.
Così come l’attribuzione alla pubblica accusa di un obiettivo che, al limite, è del giudice (la ricerca della verità) ed, in fondo, perché no, della difesa.
Né, tanto meno, è sostenibile la presunzione di oggettività delle considerazioni del consulente incaricato dal pubblico ministero.
L’ultima è, forse, tra le considerazioni più ardite: basti pensare che il consulente, quando viene esaminato in dibattimento, non è tenuto al giuramento, a meno di non cadere nella forzatura dell’assimilazione con il testimone[5]; e le sue argomentazioni, per definizione, sono volte a sostenere un’ipotesi accusatoria, così come l’elaborato del consulente della difesa è finalizzato ad ottenere vantaggi processuali per l’imputato.
Affermare il contrario rappresenterebbe non solo un’ipocrisia, ma un evidente errore giuridico.
La speranza è, allora, che la pronuncia in esame rimanga isolata nel tempo come lo è stata quella del 2014 che viene richiamata a supporto della presente e che si tratti, quindi, di una mera svista della Corte e non di una conferma del sospetto avanzato in premessa.
Che si proceda a confutare le osservazioni di una consulenza di parte quando queste sono erronee, atecniche, magari spudoratamente partigiane.
Ma lo si faccia anche nei confronti delle considerazioni contenute nella consulenza del pubblico ministero la cui attività, quale parte, sia pure sui generis, non può che essere valutata pariteticamente a quella dell’imputato, mediante un effettivo svolgimento del contraddittorio.
A meno di non voler fornire un altro comodo assist a chi invoca la separazione delle carriere….
[1] La sentenza è stata commentata, ex plurimis, da B. ROMANO, Il coming out della Cassazione. Il processo accusatorio a parti disuguali, in www.dirittodidifesa.eu, 16 ottobre 2020; G.D.CAIAZZA, Per la Cassazione valgono più i consulenti dell’accusa che della difesa?, in Il dubbio, 11 ottobre 2020; F. GIUNTA, I consulenti delle parti sono uguali davanti al giudice (ma quello del PM è più credibile), in Discrimen, 6 ottobre 2020; G. BERGAMASCHI, La parità delle parti e quel minus habens del consulente dell’imputato, in www.ilpenalista.it, 1 ottobre 2020.
[2] Cass., Sez. II, 24 settembre 2014, n. 42937.
[3] Sul punto F. GALLUZZO, Il consenso dell’imputato nei procedimenti speciali, Cedam, 2020, 72 ss.
[4] L’espressione è di R. KOSTORIS, Una grave mistificazione inquisitoria: la pretesa fede privilegiata del responso del consulente tecnico dell’accusa, in www.sistemapenale.it, 28 settembre 2020.
[5] Sempre R. KOSTORIS, La pretesa vocazione testimoniale del consulente tecnico investigativo dell’accusa tra codice, Costituzione e diritto europeo, in Giur. cost., 2014, 2617, ss., censura tale erronea impostazione.