Anche in questa legislatura, il Parlamento è tornato ad affrontare quello che viene ricondotto in sintesi sotto la denominazione della “separazione delle Carriere” tra pubblici ministeri e giudici.
Alla Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati sono state incardinate le varie proposte di legge presentate dai diversi parlamentari nonché a seguito dell’iniziativa delle Camere penali.
Naturalmente, considerate le implicazioni che la soluzione del nodo Gordiano – la separazione – implica, sono molti e altri gli aspetti collaterali che vengono contestualmente affrontati. In rapida sintesi, oltre alla implicazioni del Consiglio Superiore della Magistratura, quello della sua composizione, nonché quello del regime elettorale dei suoi componenti (laici e togati), le questioni connesse al procedimento disciplinare; le modalità di esercizio dell’azione penale.
Come detto, tuttavia, sicuramente con ricadute sugli altri profili, la questione di fondo resta quella della separazione istituzionale tra pubblici ministeri e giudici.
Ancorché il tema della giurisdizione, converga sia in quello civile, sia in quello penale, l’aspetto più controverso riguarda quest’ultimo.
Ora processo (penale) e ordinamento giudiziario sono elementi inscindibili come, del resto, emerge dall’art. 1 del codice di procedura penale ove si afferma che ‘La giurisdizione penale è esercitata dai giudici previsti dalle leggi di ordinamento giudiziario secondo le norme di questo codice.’
Del resto, spetta all’ordinamento giuridico definire gli organi attraverso i quali la giurisdizione si attua: si pensi, così, al superamento del pretore, alla sostituzione del giudice istruttore, all’istituzione del giudice di pace, alla procura nazionale antimafia e antiterrorismo, le procure distrettuali.
Si considerino poi i rapporti con il Ministero e con le organizzazioni europee e sovranazionali.
Ora, è evidente che il legislatore costituzionale e quello ordinario abbiano una visione omogenea di questo rapporto.
Guardando pertanto alla Costituzione del 1948, non si può non notare che le impostazioni dei Costituenti abbia guardato soprattutto il modello processuale del codice del 1930. In quel caso, secondo l’impostazione di Rocco e Manzini il codice era impostato secondo la filosofia che se non era autoritaria, certamente potremmo definire inquisitoria.
Il riferimento è alla configurazione dell’”autorità giudiziaria” che assumeva sia il ruolo del giudice sia quello del pubblico ministero. Era il modello dell’istruzione formale e dell’istruzione sommaria, entrambi i magistrati con carriera e passaggi di funzioni.
Questa impostazione non poteva non trovare il proprio inquadramento in un Consiglio Superiore della Magistratura nel qual entrambe le posizioni ed entrambi i ruoli trovavano collocazione.
Ora, se una impostazione di questo tipo poteva essere se non condivisa, almeno tollerata (con difficoltà: v. l’istituzione della procura della repubblica presso la pretura) all’epoca del garantismo inquisitorio, era difficile condividerla all’atto dell’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988.
La nuova impostazione accusatoria, ispirata al modello anglosassone, rendeva inadeguata quella impostazione.
Invero, per anni si è messo in luce come il modello del nuovo codice, non pienamente condivisa dalla magistratura, sia stata anche nella prassi prima e nel “diritto” dopo, affossato proprio dalla Corte costituzionale, che già prima era intervenuta sugli istituti più innovativi del nuovo rito.
A ben vedere l’affermato principio della non dispersione dei mezzi di prova, più che una premessa “ideologica” e aprioristica, è stata la lettura costituzionale delle norme relative alla presenza dell’autorità giudiziaria. In sintesi. Le attività investigative del p.m. e quella del giudice (istruzione formale e istruzione sommaria) sono fungibili non c’è ragione perché anche il materiale investigativo del p.m. non possa operare per le contestazioni e la sua valutazione nella fase del giudizio.
Anche se non è possibile affermare che il tema qui affrontato avrebbe trovato soluzione nella prevista riforma dell’ordinamento giudiziario di cui alla settima disposizione transitoria, è certo che i ritardi nella elaborazione nella predisposizione della riforma hanno determinato sempre maggiori difficoltà a rinnovare le situazioni che potrebbero richiedere alcune modifiche, o almeno degli aggiustamenti.
E’ anche vero che l’apertura dei “cantieri” riformatori dischiude sempre scenari non sempre prevedibili e comunque suscettibili di riflessioni innovative.
Il dato è significativo anche nella materia qui affrontata, perché le attuali difficoltà sono anche il frutto di resistenze della magistratura via via consolidatisi.
Il panorama sin qui tracciato si è modificato a seguito della riforma dell’art. 111 Cost., finalizzato, anche sulla base delle stratificazioni normative e della giurisprudenza sovranazionale, a “recuperare” i parametri del sistema accusatorio e del giusto processo, ancorché, rispetto all’oralità l’asse processuale si sposta sul principio del contraddittorio.
Ora, già dall’approvazione del nuovo processo, c’era la consapevolezza che la questione della costruzione ordinamentale di giudici e p.m., non poteva essere elusa.
Al di là delle considerazioni svolte va sottolineato come anche dal punto di vista strutturale l’ufficio del pubblico ministero sia notevolmente sviluppato: oltre a quelli investigativi e procedimentali, va considerato il consolidamento strutturale (si pensi alle intercettazioni preventive, la cui competenza è attribuita al procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma; con funzioni progressivamente ampliate, la procura nazionale antimafia con permessi estesi anche al terrorismo, le procure distrettuali per i reati di cui all’art. 51, comma 3 bis, c.p.p. il procuratore europeo e alle varie presenze negli organismi sovranazionali di investigazione).
Di fronte a questa situazione la sollecitazione ad affrontare il problema del ruolo ordinamentale del pubblico ministero, che avrebbe richiesto un intervento strutturale legato alla sua collocazione ed ai rapporti con il giudice, sotto gli aspetti che omologandoli, ne pregiudicava i rispettivi ruoli, la risposta della magistratura è stata di una chiusura “aprioristica” circondata da obiezioni difensive, non convenienti.
Sono stati messi in campo vari argomenti, oltre a quello della necessità di modifiche istituzionali nella misura in cui coinvolgevano il C.S.M.
Considerazioni di opportunità e finalità, sia in caso di sezioni separati, sia in caso di duplicazioni del C.S.M., uno per i p.m. ed una per i giudici.
Venivano così, tra le varie argomentazioni, sottolineate le questioni sul ruolo del Presidente della repubblica, presidente dei due C.S.M., con l’affermato indebolimento del suo ruolo. Rispetto alla previsione di un’Alta Corte di disciplina si prospettavano riserve sulla procedura (competenza di primo grado e d’appello), sulla sua composizione, sulla sua natura (giudice speciale).
Quanto alla composizione dei due organismi, si criticava l’idea della possibilità di introdurre il sorteggio (sia secco, sia temperato) rispetto ad alcune proposte si censurava l’idea di una presenza paritaria tra laici e togati, si criticava la differenza del metodo elettorale tra i politici e i magistrati.
Sul punto del sistema elettorale, si può invero condividere che ferma la composizione quantitativa, per evitare che i due consigli perdano di autorevolezza e non siano più organo di autogoverno, non appare astrusa l’idea del meccanismo per selezionare i laici, attraverso una ampia rosa formata all’inizio della legislatura sullo schema di quanto previsto per il procedimento nei confronti del presidente della Repubblica.
Quanto ai togati, suscita perplessità, come detto, sia il sorteggio secco sia quello temperato.
Invero, la magistratura – un corpo elettorale di 8000 magistrati – è in grado di controllare agevolmente quasi tutti i meccanismi elettorali, e per alcuni versi non è neppure corretto che questi vengano scardinati da un sorteggio che eviterebbe di rendere confusa qualsiasi decisione collegiale, non necessariamente governata da scelte meritocratiche.
Anche quello temperato, lascia perplessi: si pensi alla votazione dei componenti la cassazione, che oggi nel numero di due, vengono ripartiti tra le due correnti equamente presenti nel Supremo collegio.
La votazione di un numero doppio o triplo conseguirebbe, con il successivo sorteggio, una rappresentazione non adeguata proprio della massima espressione della giurisdizione.
La più grande obiezione alla separazione è data dal fatto che in questo modo, per un verso, il p.m. sarà attratto in una logica che lo avvicinerà all’attività di polizia giudiziaria, per un altro verso che lo renderà debole e facile preda del potere esecutivo (leggi, ministro e Governo).
Le sue riserve sono palesemente infondate. La premessa è quella per la quale l’unità di giudici e magistrati, rafforzerebbe la materia della giurisdizione. Ora, è vero invece, il contrario, perché la loro vicinanza o unità, finisce per attrare il giudice nella logica inquisitoria fornendo adeguata copertura e legittimità all’attività del pubblico ministero.
Il dato emerge con chiarezza dalla lettura della giurisprudenza, da cui emerge l’incapacità del giudice di garantire i diritti processuali degli imputati. Basti pensare alla vicenda dei tabulati (le cui garanzie sono state assicurate dalla Corte di Giustizia), garantiti dalla giurisprudenza Cedu, dalle chat tutelate dalla Corte costituzionale a seguito di conflitto (con tutela dei parlamentari e problematicità rispetto ai comuni cittadini). Le più significative riforme.
Ancora maggiormente infondata la seconda critica: quella della possibile subordinazione del pubblico ministero al potere esecutivo cioè, al Ministro di Giustizia, del Governo (anche la magistratura reputa la questione non attuale ma da considerare in prospettiva).
Ora si consideri che il governo e il Parlamento pur essendone obbligato per legge non ha ancora approvato i c.d. criteri di priorità, che addirittura dal 1941 il Governo dell’epoca, ha superato la subordinazione del p.m. all’esecutivo. È assolutamente certo che un’eventuale riforma di questo tipo troverebbe feroci resistenze non solo da parte dei p.m. ma anche da parte dei giudici, ma soprattutto da parte degli organismi internazionali (come emerge dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Edu). Invero, ove si considerino le censure e dell’isolamento politico nei confronti dell’Ungheria e della Polonia (nonché quella nei confronti di Israele) il dato suscita non solo perplessità, ma si rivela anche frutto di quest’ultima tendenza all’allarmismo “politico”.
Si è così ritenuto di spostare l’obiettivo critico rispetto alla subordinazione alla polizia giudiziaria, cioè, al Ministro degli Interni, sempre organo del Governo, cioè dell’Esecutivo.
Consapevole del problema del diverso ruolo che era necessario assicurare al p.m. e al giudice nel processo penale, la risposta del sistema è stata quella di assicurare l’autonomia dei due ruoli attraverso alcuni meccanismi che tendevano a ritenere necessaria una adeguata idoneità allo svolgimento delle funzioni. Sempre in linea con quest’impostazione non si manca di sottolineare che sia in termini processuali, sia direttamente la recente riforma Cartabia abbia accentuato l’incompetenza funzionale di p.m. e giudice. Si è così escluso che il pubblico ministero potesse svolgere funzioni di giudice. Si è così assistito ad una serie progressiva di previsioni che condizionavano il passaggio di funzioni (nella stessa sede giudiziaria, nello stesso distretto di Corte d’appello, nel numero dei passaggi di funzioni consentiti).
Con questo meccanismo si è cercato di superare la questione del diverso ruolo.
Questo dato, se pur conferma una piena consapevolezza del problema, ne ha profondamente spostato i termini, sicché oggi si cerca di superare la questione de qua, ritenendo che essendo decisi i passaggi di fatto, quindi esclusi, il problema sarebbe superato.
Invero, in questo modo si confondono i piani della questione.
Certamente i rapporti tra giudici e pubblici ministeri nel contesto degli uffici giudiziari, con possibilità di condizionamenti reciproci è un dato reale. Ma forse anche nelle singole vicende giudiziarie il profilo decisivo è quello del ruolo istituzionale e ordinamentale che comunque rappresenta il senso dell’autonomia, della specificità della funzione, alla quale non può essere connessa (ma solo aggravata) una precedente diversa funzione.
Comunque, questo intenso dibattito che si protrae da anni, ma anche gli stessi tentativi, seppur non funzionali allo scopo, che hanno caratterizzato questi anni nel tentativo di superare il problema, di esorcizzarlo, di metabolizzarlo nei comportamenti deontologici, confermano l’esistenza del problema di cui è evidente la progressione tesa ad eludere il problema di fondo.
Spetta ora alla politica fare l’ultimo miglio, completare il discorso ordinamentale attraverso la riforma costituzionale dell’assetto della magistratura requirente e giudicante, con le variabili possibili che tuttavia non incida sul punto nodale: la separazione dei due ordini, di una questione che ha raggiunto un tasso di condivisione nell’opinione pubblica e che vede sostanzialmente la magistratura arroccata.
Si possono discutere gli aspetti collaterali ai quali si è accennato all’inizio.
La magistratura, del resto, anche a seguito della riforma potrà continuare a conservare nella sua struttura associativa e nei suoi organi rappresentativi nella logica delle diverse sue componenti piena autonomia.
Separazione delle carriere
Anche in questa legislatura, il Parlamento è tornato ad affrontare quello che viene ricondotto in sintesi sotto la denominazione della “separazione delle Carriere” tra pubblici ministeri e giudici.
Alla Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati sono state incardinate le varie proposte di legge presentate dai diversi parlamentari nonché a seguito dell’iniziativa delle Camere penali.
Naturalmente, considerate le implicazioni che la soluzione del nodo Gordiano – la separazione – implica, sono molti e altri gli aspetti collaterali che vengono contestualmente affrontati. In rapida sintesi, oltre alla implicazioni del Consiglio Superiore della Magistratura, quello della sua composizione, nonché quello del regime elettorale dei suoi componenti (laici e togati), le questioni connesse al procedimento disciplinare; le modalità di esercizio dell’azione penale.
Come detto, tuttavia, sicuramente con ricadute sugli altri profili, la questione di fondo resta quella della separazione istituzionale tra pubblici ministeri e giudici.
Ancorché il tema della giurisdizione, converga sia in quello civile, sia in quello penale, l’aspetto più controverso riguarda quest’ultimo.
Ora processo (penale) e ordinamento giudiziario sono elementi inscindibili come, del resto, emerge dall’art. 1 del codice di procedura penale ove si afferma che ‘La giurisdizione penale è esercitata dai giudici previsti dalle leggi di ordinamento giudiziario secondo le norme di questo codice.’
Del resto, spetta all’ordinamento giuridico definire gli organi attraverso i quali la giurisdizione si attua: si pensi, così, al superamento del pretore, alla sostituzione del giudice istruttore, all’istituzione del giudice di pace, alla procura nazionale antimafia e antiterrorismo, le procure distrettuali.
Si considerino poi i rapporti con il Ministero e con le organizzazioni europee e sovranazionali.
Ora, è evidente che il legislatore costituzionale e quello ordinario abbiano una visione omogenea di questo rapporto.
Guardando pertanto alla Costituzione del 1948, non si può non notare che le impostazioni dei Costituenti abbia guardato soprattutto il modello processuale del codice del 1930. In quel caso, secondo l’impostazione di Rocco e Manzini il codice era impostato secondo la filosofia che se non era autoritaria, certamente potremmo definire inquisitoria.
Il riferimento è alla configurazione dell’”autorità giudiziaria” che assumeva sia il ruolo del giudice sia quello del pubblico ministero. Era il modello dell’istruzione formale e dell’istruzione sommaria, entrambi i magistrati con carriera e passaggi di funzioni.
Questa impostazione non poteva non trovare il proprio inquadramento in un Consiglio Superiore della Magistratura nel qual entrambe le posizioni ed entrambi i ruoli trovavano collocazione.
Ora, se una impostazione di questo tipo poteva essere se non condivisa, almeno tollerata (con difficoltà: v. l’istituzione della procura della repubblica presso la pretura) all’epoca del garantismo inquisitorio, era difficile condividerla all’atto dell’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988.
La nuova impostazione accusatoria, ispirata al modello anglosassone, rendeva inadeguata quella impostazione.
Invero, per anni si è messo in luce come il modello del nuovo codice, non pienamente condivisa dalla magistratura, sia stata anche nella prassi prima e nel “diritto” dopo, affossato proprio dalla Corte costituzionale, che già prima era intervenuta sugli istituti più innovativi del nuovo rito.
A ben vedere l’affermato principio della non dispersione dei mezzi di prova, più che una premessa “ideologica” e aprioristica, è stata la lettura costituzionale delle norme relative alla presenza dell’autorità giudiziaria. In sintesi. Le attività investigative del p.m. e quella del giudice (istruzione formale e istruzione sommaria) sono fungibili non c’è ragione perché anche il materiale investigativo del p.m. non possa operare per le contestazioni e la sua valutazione nella fase del giudizio.
Anche se non è possibile affermare che il tema qui affrontato avrebbe trovato soluzione nella prevista riforma dell’ordinamento giudiziario di cui alla settima disposizione transitoria, è certo che i ritardi nella elaborazione nella predisposizione della riforma hanno determinato sempre maggiori difficoltà a rinnovare le situazioni che potrebbero richiedere alcune modifiche, o almeno degli aggiustamenti.
E’ anche vero che l’apertura dei “cantieri” riformatori dischiude sempre scenari non sempre prevedibili e comunque suscettibili di riflessioni innovative.
Il dato è significativo anche nella materia qui affrontata, perché le attuali difficoltà sono anche il frutto di resistenze della magistratura via via consolidatisi.
Il panorama sin qui tracciato si è modificato a seguito della riforma dell’art. 111 Cost., finalizzato, anche sulla base delle stratificazioni normative e della giurisprudenza sovranazionale, a “recuperare” i parametri del sistema accusatorio e del giusto processo, ancorché, rispetto all’oralità l’asse processuale si sposta sul principio del contraddittorio.
Ora, già dall’approvazione del nuovo processo, c’era la consapevolezza che la questione della costruzione ordinamentale di giudici e p.m., non poteva essere elusa.
Al di là delle considerazioni svolte va sottolineato come anche dal punto di vista strutturale l’ufficio del pubblico ministero sia notevolmente sviluppato: oltre a quelli investigativi e procedimentali, va considerato il consolidamento strutturale (si pensi alle intercettazioni preventive, la cui competenza è attribuita al procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma; con funzioni progressivamente ampliate, la procura nazionale antimafia con permessi estesi anche al terrorismo, le procure distrettuali per i reati di cui all’art. 51, comma 3 bis, c.p.p. il procuratore europeo e alle varie presenze negli organismi sovranazionali di investigazione).
Di fronte a questa situazione la sollecitazione ad affrontare il problema del ruolo ordinamentale del pubblico ministero, che avrebbe richiesto un intervento strutturale legato alla sua collocazione ed ai rapporti con il giudice, sotto gli aspetti che omologandoli, ne pregiudicava i rispettivi ruoli, la risposta della magistratura è stata di una chiusura “aprioristica” circondata da obiezioni difensive, non convenienti.
Sono stati messi in campo vari argomenti, oltre a quello della necessità di modifiche istituzionali nella misura in cui coinvolgevano il C.S.M.
Considerazioni di opportunità e finalità, sia in caso di sezioni separati, sia in caso di duplicazioni del C.S.M., uno per i p.m. ed una per i giudici.
Venivano così, tra le varie argomentazioni, sottolineate le questioni sul ruolo del Presidente della repubblica, presidente dei due C.S.M., con l’affermato indebolimento del suo ruolo. Rispetto alla previsione di un’Alta Corte di disciplina si prospettavano riserve sulla procedura (competenza di primo grado e d’appello), sulla sua composizione, sulla sua natura (giudice speciale).
Quanto alla composizione dei due organismi, si criticava l’idea della possibilità di introdurre il sorteggio (sia secco, sia temperato) rispetto ad alcune proposte si censurava l’idea di una presenza paritaria tra laici e togati, si criticava la differenza del metodo elettorale tra i politici e i magistrati.
Sul punto del sistema elettorale, si può invero condividere che ferma la composizione quantitativa, per evitare che i due consigli perdano di autorevolezza e non siano più organo di autogoverno, non appare astrusa l’idea del meccanismo per selezionare i laici, attraverso una ampia rosa formata all’inizio della legislatura sullo schema di quanto previsto per il procedimento nei confronti del presidente della Repubblica.
Quanto ai togati, suscita perplessità, come detto, sia il sorteggio secco sia quello temperato.
Invero, la magistratura – un corpo elettorale di 8000 magistrati – è in grado di controllare agevolmente quasi tutti i meccanismi elettorali, e per alcuni versi non è neppure corretto che questi vengano scardinati da un sorteggio che eviterebbe di rendere confusa qualsiasi decisione collegiale, non necessariamente governata da scelte meritocratiche.
Anche quello temperato, lascia perplessi: si pensi alla votazione dei componenti la cassazione, che oggi nel numero di due, vengono ripartiti tra le due correnti equamente presenti nel Supremo collegio.
La votazione di un numero doppio o triplo conseguirebbe, con il successivo sorteggio, una rappresentazione non adeguata proprio della massima espressione della giurisdizione.
La più grande obiezione alla separazione è data dal fatto che in questo modo, per un verso, il p.m. sarà attratto in una logica che lo avvicinerà all’attività di polizia giudiziaria, per un altro verso che lo renderà debole e facile preda del potere esecutivo (leggi, ministro e Governo).
Le sue riserve sono palesemente infondate. La premessa è quella per la quale l’unità di giudici e magistrati, rafforzerebbe la materia della giurisdizione. Ora, è vero invece, il contrario, perché la loro vicinanza o unità, finisce per attrare il giudice nella logica inquisitoria fornendo adeguata copertura e legittimità all’attività del pubblico ministero.
Il dato emerge con chiarezza dalla lettura della giurisprudenza, da cui emerge l’incapacità del giudice di garantire i diritti processuali degli imputati. Basti pensare alla vicenda dei tabulati (le cui garanzie sono state assicurate dalla Corte di Giustizia), garantiti dalla giurisprudenza Cedu, dalle chat tutelate dalla Corte costituzionale a seguito di conflitto (con tutela dei parlamentari e problematicità rispetto ai comuni cittadini). Le più significative riforme.
Ancora maggiormente infondata la seconda critica: quella della possibile subordinazione del pubblico ministero al potere esecutivo cioè, al Ministro di Giustizia, del Governo (anche la magistratura reputa la questione non attuale ma da considerare in prospettiva).
Ora si consideri che il governo e il Parlamento pur essendone obbligato per legge non ha ancora approvato i c.d. criteri di priorità, che addirittura dal 1941 il Governo dell’epoca, ha superato la subordinazione del p.m. all’esecutivo. È assolutamente certo che un’eventuale riforma di questo tipo troverebbe feroci resistenze non solo da parte dei p.m. ma anche da parte dei giudici, ma soprattutto da parte degli organismi internazionali (come emerge dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Edu). Invero, ove si considerino le censure e dell’isolamento politico nei confronti dell’Ungheria e della Polonia (nonché quella nei confronti di Israele) il dato suscita non solo perplessità, ma si rivela anche frutto di quest’ultima tendenza all’allarmismo “politico”.
Si è così ritenuto di spostare l’obiettivo critico rispetto alla subordinazione alla polizia giudiziaria, cioè, al Ministro degli Interni, sempre organo del Governo, cioè dell’Esecutivo.
Consapevole del problema del diverso ruolo che era necessario assicurare al p.m. e al giudice nel processo penale, la risposta del sistema è stata quella di assicurare l’autonomia dei due ruoli attraverso alcuni meccanismi che tendevano a ritenere necessaria una adeguata idoneità allo svolgimento delle funzioni. Sempre in linea con quest’impostazione non si manca di sottolineare che sia in termini processuali, sia direttamente la recente riforma Cartabia abbia accentuato l’incompetenza funzionale di p.m. e giudice. Si è così escluso che il pubblico ministero potesse svolgere funzioni di giudice. Si è così assistito ad una serie progressiva di previsioni che condizionavano il passaggio di funzioni (nella stessa sede giudiziaria, nello stesso distretto di Corte d’appello, nel numero dei passaggi di funzioni consentiti).
Con questo meccanismo si è cercato di superare la questione del diverso ruolo.
Questo dato, se pur conferma una piena consapevolezza del problema, ne ha profondamente spostato i termini, sicché oggi si cerca di superare la questione de qua, ritenendo che essendo decisi i passaggi di fatto, quindi esclusi, il problema sarebbe superato.
Invero, in questo modo si confondono i piani della questione.
Certamente i rapporti tra giudici e pubblici ministeri nel contesto degli uffici giudiziari, con possibilità di condizionamenti reciproci è un dato reale. Ma forse anche nelle singole vicende giudiziarie il profilo decisivo è quello del ruolo istituzionale e ordinamentale che comunque rappresenta il senso dell’autonomia, della specificità della funzione, alla quale non può essere connessa (ma solo aggravata) una precedente diversa funzione.
Comunque, questo intenso dibattito che si protrae da anni, ma anche gli stessi tentativi, seppur non funzionali allo scopo, che hanno caratterizzato questi anni nel tentativo di superare il problema, di esorcizzarlo, di metabolizzarlo nei comportamenti deontologici, confermano l’esistenza del problema di cui è evidente la progressione tesa ad eludere il problema di fondo.
Spetta ora alla politica fare l’ultimo miglio, completare il discorso ordinamentale attraverso la riforma costituzionale dell’assetto della magistratura requirente e giudicante, con le variabili possibili che tuttavia non incida sul punto nodale: la separazione dei due ordini, di una questione che ha raggiunto un tasso di condivisione nell’opinione pubblica e che vede sostanzialmente la magistratura arroccata.
Si possono discutere gli aspetti collaterali ai quali si è accennato all’inizio.
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