Cerca
Close this search box.

SEPARAZIONE DELLE CARRIERE: ALLARMI INGIUSTIFICATI O PERICOLI REALI?

  1. L’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri della cosiddetta separazione delle carriere riaccende lo scontro tra la politica e la magistratura. Si tratta invero di una tematica notissima, ripetutamente riproposta che ha origini connesse alla Riforma del C.p.p. del 1988, in una norma di attuazione della riforma per la parte ordinamentale ove si prevedeva che il passaggio di funzioni doveva essere giustificato da una specifica attitudine.
    Oltre alla Riforma del 1988 ci sono state un’iniziativa referendaria, iniziative parlamentari, recenti raccolte di firme, interventi vari e variamente articolati, tesi soprattutto a disinnescare gli aspetti maggiormente patologici della questione come quello del passaggio delle funzioni fra organi giudicanti requirenti che si etichettava sotto il profilo di separazione delle carriere o separazione delle funzioni peraltro con varie declinazioni e diverse soluzioni, indicando il numero di passaggi limitato o comunque condizionato dal tempo, dai distretti nei quali il p.m. che era stato giudice o il giudice era stato p.m.
    Considerati i tempi non brevi per l’approvazione della riforma anche al netto delle successive vicende referendarie potrebbe aprirsi un’opportunità di dibatti e di confronti di opinioni sulle riserve che l’Associazione Nazionale Magistrati ha prospettato e che naturalmente non tutte sembrano così facilmente condivisibili, ma che comunque costituiscono un’occasione per confrontarsi su questi temi.
    Sostanzialmente al di là delle riserve tecniche, sulla formulazione delle norme, sul sorteggio, sulla composizione dei due Consigli Superiori, sulle norme relative all’Alta Corte di Giustizia, il punto dolente per l’Associazione Nazionale Magistrati è costituito dal ruolo che secondo i magistrati potrà assumere il p.m., anzi asseritamente assumerà il p.m.
    Al riguardo si può dire che c’è già una prima contraddizione: da un lato, si afferma che il p.m. si rafforzerà o rafforzerà il suo ruolo inquisitorio appiattendosi sulla polizia giudiziaria; per altro verso si afferma che il suo ruolo si indebolirà diventando subordinato al potere esecutivo, anche senza tenere conto dei tempi della riforma e che il C.S.M. dei p.m. inizialmente sarà composto dagli attuali p.m. e che ci vorrà tempo prima che i nuovi si insedino e che questi resteranno condizionati dalle loro filosofie, le osservazioni critiche non colgono nel segno perché anche nel lungo periodo, medio-lungo periodo, le cose non sembrano prospettarsi nei termini in cui l’Associazione Magistrati le indica.
    Non trova ad esempio nessun fondamento l’idea che i ruoli del p.m. saranno riempiti da poliziotti o da agenti di polizia giudiziaria, da carabinieri o quant’altro, anche perché ci saranno dei concorsi e non si vedono le ragioni per le quali i partecipanti ai concorsi debbano appartenere a queste categorie. Si tratterà di un normale concorso per la magistratura al quale parteciperanno anche i ragazzi dell’Università adeguatamente selezionati sulla base dei temi che dovranno essere proposti. Quindi si tratterà di un concorso come tutti gli altri concorsi della Magistratura perché si tratterà comunque di nominare un magistrato.
  2. Entrando ora nel merito delle riserve alle quali si è fatto riferimento, la prima è quella per la quale si ritiene che il p.m. si appiattirebbe sull’attività della polizia giudiziaria e che quindi rafforzerebbe i suoi poteri inquisitori.
    Invero il potere del p.m. che definiamo inquisitorio, cioè quello legato alla dimensione investigativa è contenuto nella nostra Costituzione e si riconnette alla riforma del 1930, alla visione del processo penale elaborato da Manzini e da Rocco che trova attuazione attraverso quella configurazione del concetto di autorità giudiziaria che poi è confluito nell’impostazione dell’attuale C.S.M.. È lì che trova fondamento il potere probatorio del p.m., è lì che ha trovato fondamento il principio o il criterio della non dispersione dei mezzi di prova assunto dalla Corte Costituzionale a base delle sentenze del 1992.
    Ora quest’impianto viene già progressivamente, per ovvie ragioni, eroso per effetto del necessario riconoscimento da parte della legislazione ordinaria (vedi Cartabia), da parte della Corte di Giustizia, da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo, da parte della Corte Costituzionale per la necessità che l’attività del p.m. relativa ai diritti dell’imputato, ai diritti civili e politici dell’imputato debba essere assistita dalla riserva di giurisdizione. In altri termini i rapporti fra giudici e pubblici ministeri, tra p.m. e polizia giudiziaria resteranno quelli governati dalla legge e quindi dalle norme di garanzia. Certamente bisognerà riflettere sul ruolo di quelle attività di contrasto alla criminalità organizzata e antiterroristica nonché su alcuni poteri in punto di prevenzione, ma anche questi saranno governati dal principio della riserva di legge, dal principio della riserva di giurisdizione come è attualmente. Forse in qualche modo la separazione delle carriere, la separazione cioè dei due Consigli Superiori, quello giudicante e quello requirente farà sì che il primo possa più facilmente sottolineare il debordaggio che il p.m. fa nei confronti delle garanzie che riguardano gli organi giudicanti.
  3. Ancor meno significativa l’affermazione relativa al rischio di una possibile subordinazione dei pubblici ministeri al potere esecutivo di cui si sottolinea che pur non presente allo stato questo rischio, sarebbe tuttavia prospettabile in un prossimo futuro, anche se va detto che la riforma, e questo è un fatto molto positivo, conserva l’attuale formulazione dell’art. 112 Cost., cioè il principio di obbligatorietà dell’azione penale. Ora di fronte a questa prospettiva di subordinazione io credo che i primi a sottrarsi a questa impostazione sarebbero proprio gli stessi pubblici ministeri, i quali non accetterebbero la propria subordinazione perché ciò implicherebbe la lesione al principio della loro autonomia e indipendenza e proprio il C.S.M. dei pubblici ministeri dovrebbe essere il baluardo rispetto a questa iniziativa. Non solo questo. Credo che di fronte ad una ipotesi di subordinazione dei pubblici ministeri all’esecutivo, anche il C.S.M. dei giudici avrebbe la capacità o la forza di obiettare, come dire, il pregiudizio per l’intera funzione di accertamento delle fattispecie di reato e quindi ledere anche quella che è, come dire, a cascata, a valle, l’autonomia e l’indipendenza dei giudici, Ma c’è di più. Se una cosa di questo genere, ammesso e non concesso che fosse possibile, noi ci troveremmo in una situazione, parlo dell’Italia, di assoluta contrarietà e contrasto con quelli che sono i principi fondamentali della Carta europea dei diritti dell’uomo, del diritto dell’Unione e cioè di quelle garanzie di ordinamento che tutto sommato nell’Unione europea sono già consolidate. In questo caso alcuni organi sovranazionali segnalerebbero l’involuzione del sistema italiano, come peraltro sempre a livello sovranazionale è stato fatto con altri paesi quando hanno cercato di sottoporre al potere esecutivo l’autorità giudiziaria. Quindi questo pericolo sotto questo profilo a me sembra di difficile attuazione.
    Giova anche ricordare che la subordinazione del p.m. all’esecutivo fu tolta già nel 1941, dal regime, e che nel 1944 in piena guerra ci fu un decreto luogotenenziale il quale sottrasse al p.m. il potere di archiviazione e lo ricondusse al controllo del giudice. Non sarà inutile ricordare che la riforma dell’ordinamento giudiziario dove non c’è nessuna subordinazione del p.m. all’esecutivo fu introdotta nel 1942 dal “regime fascista” e che questo ordinamento ha governato l’Italia pur con parziali modifiche per tutto lo scorso secolo. Mi sembra che nella società italiana ci siano gli antidoti sufficienti, sia nella magistratura, sia nel tessuto democratico del Paese per escludere una prospettiva di questo genere, certamente non attuale, ma forse neanche da sbandierare quale fantasma che sarebbe sottostante alla logica della separazione delle carriere.
    La realtà è che con la separazione i due soggetti, cioè naturalmente il p.m. e il giudice, invece di fare riferimento a quell’ambigua formulazione della “unità della funzione giurisdizionale”, eserciterebbero autonomamente, ciascuno, i diritti e i poteri che sono propri, quello del p.m. di ricercare, di attivarsi per individuare la responsabilità e i fatti delittuosi, quello del giudice di controllare l’attività del p.m. nel nome della riserva di legge tutelando anche i diritti fondamentali dell’imputato il quale attraverso l’esercizio del diritto di difesa prospetterebbe una diversa formulazione, una diversa articolazione dei risultati probatori.
    In termini generali va altresì detto che almeno nel breve o comunque nel medio periodo bisognerebbe tenere conto che la magistratura resterebbe unitaria attraverso l’Associazione Nazionale Magistrati, che c’è una normativa che li tiene unificati all’interno della carta costituzionale, che ci sono delle possibilità da parte dei magistrati di svolgere e di svilupparsi attività comuni nella società e che in ogni caso giudici e pubblici ministeri continuano a frequentarsi svolgendo quotidianamente le loro attività, fermo restando le diverse funzioni nell’ambito dei Palazzi di Giustizia. Va altresì tenuto conto della presenza della scuola superiore della magistratura che naturalmente svolgerebbe una funzione unificante anche sul piano culturale senza considerare che forse anche all’interno della scuola di magistratura bisognerebbe rafforzare la presenza dell’avvocatura.
  4. Quest’ultimo elemento induce una breve chiosa finale. Era stata prospettata la possibilità dell’inserimento in Costituzione della figura dell’avvocato. Nella configurazione finale del testo approvato dal Consiglio dei Ministri, l’avvocato – questa ipotesi era già stata prospettata ai tempi di Bonafede – non risulta riproposta. Varie possono essere le ragioni. Primo, non esasperare ulteriormente i rapporti con la Magistratura, ma anche forse quella di separare l’approvazione di questa previsione, che può essere autonoma, dal resto della separazione delle carriere. Invero mentre la separazione delle carriere avrà sicuramente tempi molto lunghi e complessi, nonché passaggi parlamentari complicati, il problema dell’avvocatura in Costituzione potrebbe avere qualche corsia più rapida e quindi portare alla sua approvazione. Va tuttavia detto subito che l’inserimento in Costituzione dell’avvocato si colloca diversamente rispetto al diritto di difesa di cui agli artt. 24 e 111 Cost. dove si parla genericamente della possibilità di esercitare il diritto di difesa. Qui si fa riferimento al ruolo dell’avvocato, cioè, di un soggetto istituzionale. Quindi sarebbe il caso di inserire questa previsione che non confligge naturalmente con l’art. 24 Cost. dove c’è anche il diritto all’autodifesa, ancorché non esclusiva, e al contradditorio come strumento di esercizio del diritto di difendersi nell’art. 112 bis. Del resto, l’avvocato è già presente in Costituzione perché è uno dei soggetti che può far parte della Corte Costituzionale, del C.S.M. nonché della Cassazione quando si tratta di soggetto con meriti insigni, si tratterebbe di trovare una collocazione nell’ambito della Costituzione, per dare ruolo istituzionale ad una figura che è già istituzionalizzata all’interno della Carta costituzionale.

Condividi su:

Articoli Correlati
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit, sed do eiusmod tempor incididunt ut labore et dolore
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit, sed do eiusmod tempor incididunt ut labore et dolore