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Sfruttamento del lavoro intellettuale e caporalato: la Cassazione traccia i confini della fattispecie

Commento alla sentenza della Corte di cassazione n. 43662 del 18 settembre 2024

Cass. pen., Sez. II, sentenza 18 settembre 2024 (dep. 28 novembre 2024), n. 43662

Sommario: 1. Il caso di specie – 2. L’evoluzione normativa della disciplina del cd. “caporalato” – 3. L’art. 603 bis c.p.: oggetto e limiti di tutela – 4. Breve excursus sulla giurisprudenza della Corte Edu in materia di “sfruttamento” del lavoro” – 5. Lo sfruttamento del lavoro intellettuale – 6. Considerazioni conclusive

ABSTRACT

Nel panorama giurisprudenziale relativo alla fattispecie di cui all’art. 603-bis c.p., la Corte di cassazione, con la sentenza n. 43662 del 28 novembre 2024, ha chiarito i confini di applicabilità della norma, escludendo esplicitamente i rapporti contrattuali relativi al lavoro di natura “intellettuale”.  

Dopo una breve analisi della disciplina normativa nazionale e sovranazionale sul fenomeno del caporalato, l’Autrice esamina le nuove forme di sfruttamento del lavoro intellettuale, evidenziando come queste dovrebbero essere tutelate al di fuori dell’ambito penale.

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The Italian Supreme Court, with judgment no. 43662 of November 28, 2024, provided an interpretation of the article 603-bis of the Criminal Code, clarifying its scope of application and explicitly excluding contractual relationships involving work of an “intellectual” nature. Following a brief analysis of the national and supranational regulatory framework addressing the phenomenon of labor exploitation, the Author delves into the new forms of exploitation in intellectual work, highlighting how these should be protected outside the scope of criminal law.

  1. Il caso di specie 

 Di recente la Seconda Sezione Penale della Corte di cassazione ha affrontato il tema dell’applicabilità del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, previsto e punito dall’art. 603 bis c.p., ai rapporti contrattuali inerenti le prestazioni di natura “intellettuale”.[1]

La vicenda riguarda la presidente del consiglio di amministrazione di una società cooperativa operante nel settore dell’istruzione accusata di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art. 603 bis c.p.), nonché di estorsione aggravata (art. 629 c.p.) per aver approfittato dello stato di bisogno  di alcuni dipendenti costringendoli a restituire la retribuzione ricevuta ovvero a lavorare sottopagati con la minaccia della loro mancata riassunzione nei successivi rinnovi contrattuali.

La Suprema Corte, ribaltando la decisione di merito, ha preliminarmente chiarito che l’art. 603 bis c.p. non si applica alle categorie di lavoro che, essendo di natura intellettuale, esulano strutturalmente dalla nozione di “manodopera”. Quest’ultima, secondo i Giudici, si riferisce specificamente a prestazioni lavorative di carattere manuale, tipiche dei settori agricolo, artigianale o industriale e prive di qualificazione.

La Corte ha infatti rilevato che l’art. 603 bis c.p. è stato concepito per reprimere forme di sfruttamento che colpiscono la dignità personale in settori in cui la coercizione e la subordinazione si manifestano in maniera più evidente. La norma utilizza il termine “manodopera”, che implica un lavoro privo di qualificazione e connotato da un carattere prettamente manuale, elementi estranei alla natura del lavoro intellettuale.

Quest’ultimo, viene chiarito, si distingue per un maggiore grado di autonomia decisionale e operativa ed un uso prevalente delle capacità intellettive, che costituiscono il tratto distintivo e identitario di tali prestazioni. Pertanto, in questo caso, l’applicazione dell’art. 603 bis c.p. sarebbe incompatibile con la ratio della norma.

Nonostante ciò, la Cassazione precisa che l’esclusione del lavoro intellettuale dall’ambito di applicazione dell’art. 603 bis c.p. non comporta l’impossibilità di contestare eventuali irregolarità. Queste, ove sussistenti, devono essere valutate alla luce di altre norme più adeguate a disciplinare le peculiarità del lavoro intellettuale.

Valorizzando, poi, il divieto di analogia e la collocazione della norma in un «[…] tessuto normativo costituito da reati come la riduzione in schiavitù, la tratta di persone, il traffico di organi prelevati da persone vive (oltre che prostituzione  e pornografia minorile), vale a dire reati che colpiscono, su una scala elevatissima, la “personalità” individuale, fino al punto di annullarla», la Corte ritiene che la disposizione incriminatrice non possa utilizzarsi per punire fattispecie originariamente non ipotizzate dal Legislatore[2].

Alla luce di tali considerazioni, e rilevato che la cooperativa operava in un settore tipicamente intellettuale quale quello dell’istruzione, la Corte ha accolto il ricorso dell’imputata, limitatamente al reato di sfruttamento del lavoro. Restano comunque aperti eventuali profili di responsabilità legati all’estorsione aggravata (art. 629 c.p.) o ad altre violazioni normative pertinenti al caso specifico.

2. L’evoluzione normativa della disciplina del cd. “caporalato”

Nel panorama giurisprudenziale relativo alla fattispecie di cui all’art. 603-bis c.p., la Cassazione, con la sentenza in commento, offre, per la prima volta, un’interpretazione della norma che ne definisce i confini di applicabilità, con particolare attenzione al tipo di attività lavorativa coinvolta nelle ipotesi di sfruttamento e intermediazione illecita.

Prima di procedere all’analisi della pronuncia in esame, è opportuno soffermarsi, sia pure en passant, sulla disciplina normativa del fenomeno del caporalato. L’art. 603 bis c.p. è stato introdotto dall’art. 12 del Decreto-Legge 13 agosto 2011, n. 138[3] nell’ambito di un intervento normativo mirato a contrastare il fenomeno sempre più preoccupante del caporalato agricolo, particolarmente diffuso nelle campagne del Sud Italia[4]. Questo fenomeno, caratterizzato da una grave lesione dei diritti fondamentali dei lavoratori, spesso stranieri, si manifesta attraverso condizioni di lavoro disumane, retribuzioni irrisorie e un controllo diretto ed esasperato sulle persone impiegate[5].

Il profilo dello sfruttamento del lavoro altrui e della ricerca del massimo profitto a scapito del lavoratore è diventato col tempo del tutto preponderante rispetto alla funzione di organizzazione e gestione della forza lavoro e ciò rende anche socialmente inaccettabile la mediazione del caporale[6]. Destinatari della sua attività sono, infatti, principalmente lavoratori stranieri entrati clandestinamente nel territorio italiano, privi di forza contrattuale e disposti ad accettare la più misera retribuzione e le più degradanti condizioni di vita e di lavoro per garantirsi la sopravvivenza e proteggere il loro stato di clandestinità. Tra il caporale e i braccianti si instaurano così dei rapporti che si avvicinano sovente ad una vera e propria riduzione in schiavitù[7].

Al contempo, l’attività di caporalato ha assunto negli anni caratteristiche imprenditoriali di vera e propria organizzazione illecita della manodopera, sulla quale si posa l’attenzione della criminalità organizzata di tipo mafioso, particolarmente interessata a trarre vantaggi dallo sfruttamento della manodopera mediante il controllo sui lavoratori e la massima riduzione dei costi, proprio nei settori agricolo ed edile, ove l’intermediazione illecita è principalmente diffusa.[8]

Prima dell’introduzione dell’art. 603bis c.p., in assenza di una fattispecie delittuosa ad hoc, le forme più gravi di sfruttamento e violenza nei confronti dei lavoratori potevano essere ricondotte ad alcune disposizioni del Codice penale, come i reati di riduzione in schiavitù, violenza privata, estorsione o lesioni personali. Tuttavia, le situazioni meno estreme rimanevano prive di una adeguata tutela normativa. Il caporalato, infatti, era considerato esclusivamente nell’art. 18 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (c.d. Legge Biagi); tale norma, tuttora vigente, prevede alcune ipotesi contravvenzionali per la violazione delle condizioni soggettive e oggettive richieste per l’intermediazione privata di lavoro e la somministrazione di manodopera. Tuttavia, la sanzione prevista, essendo di natura esclusivamente pecuniaria, risulta modesta e consente il ricorso all’oblazione ex art. 162 c.p..[9]La riforma del mercato del lavoro aveva d’altronde abolito il monopolio pubblico nell’attività di intermediazione e somministrazione, determinando la conseguente abrogazione delle più severe fattispecie di reato previste dagli artt. 1 e 2 della L. 23 ottobre 1960, n. 1369 e, in precedenza, dall’art. 27 della L. 29 aprile 1949, n. 264[10].

Un’ulteriore fattispecie applicabile al fenomeno in discussione era contenuta nell’art. 12, comma 3ter, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, che prevede ancora oggi pene detentive e pecuniarie per chi favorisce l’ingresso nel territorio dello Stato di stranieri clandestini con lo scopo, tra l’altro, di reclutare persone da destinare allo sfruttamento lavorativo o per trarne un profitto, anche indiretto[11].

3. L’art. 603 bis c.p.: oggetto e limiti di tutela

L’introduzione dell’art. 603 bis c.p. ha dunque colmato una significativa lacuna normativa nella repressione dei fenomeni di interposizione illecita nel mercato del lavoro[12]. Fenomeni che, come visto, si collocano in una zona intermedia di gravità tra le mere violazioni delle regole previste dal D. Lgs. 276/2003, per l’intermediazione e la somministrazione di manodopera, e i casi più estremi di riduzione in schiavitù, regolati dagli artt. 600 e seguenti del codice penale. [13]

La collocazione della fattispecie tra i delitti contro la personalità individuale (Capo III, Sezione I del Titolo XII) evidenzia il bene giuridico che si intende proteggere: lo status libertatis dei lavoratori. Lo sfruttamento lavorativo viene configurato dal legislatore come una forma di annullamento della personalità del singolo[14]. Questa impostazione esclude dall’applicazione della norma le semplici violazioni amministrative o contravvenzionali legate alla gestione dell’intermediazione lavorativa, che rimangono disciplinate dall’art. 18 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276.

In sostanza, l’art. 603 bis c.p. mira a tutelare la dignità del lavoratore[15], riaffermando che nessuna condizione economica del datore di lavoro può giustificare il trattamento degradante o disumano riservato ai dipendenti[16].

La norma, sia nella versione originaria che in quella attuale, contiene una clausola di sussidiarietà esplicita, che lascia spazio all’applicazione di reati più gravi, come la riduzione in schiavitù (art. 600), la tratta di persone (art. 601) o l’acquisto e alienazione di schiavi (art. 602). Questi reati, puniti con pene da 8 a 20 anni di reclusione, possono anche riguardare situazioni di sfruttamento lavorativo.

La formulazione originaria dell’art. 603 bis c.p. era piuttosto complessa. La condotta incriminata prevedeva che l’attività di intermediazione fosse organizzata, escludendo quindi la responsabilità dell’utilizzatore finale del lavoro e richiedendo una gestione non occasionale, con mezzi idonei a garantirne l’effettività. Inoltre, lo sfruttamento del lavoratore doveva avvenire tramite violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o necessità del lavoratore stesso[17].

Con la riforma introdotta dalla L. 26 ottobre 2016, n. 199[18], la norma è stata semplificata e ampliata[19]. Ora il reato non riguarda solo chi svolge attività di intermediazione illecita (il cosiddetto caporale), ma anche il datore di lavoro che impiega manodopera sfruttata approfittando dello stato di bisogno.

L’attuale formulazione del primo comma dell’art. 603bis individua due fattispecie distinte:

  1. Il reclutamento di manodopera con l’obiettivo di destinarla a lavori per terzi in condizioni di sfruttamento.
  2. L’utilizzo, l’assunzione o l’impiego di manodopera sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento.

In entrambe le ipotesi, è necessario che il reato si realizzi approfittando dello stato di bisogno del lavoratore. A differenza del requisito dello sfruttamento, la cui interpretazione è supportata dagli indici di orientamento probatorio previsti al terzo comma della disposizione in esame, l’art. 603 bis c.p. non fornisce una definizione di tale condizione. Parte della dottrina, tuttavia, ha elaborato una nozione incentrata sul concetto di “vulnerabilità”, richiamandosi al suo referente normativo originariamente individuato nell’art. 600 c.p. (Riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù) e tenendo conto dell’interpretazione giurisprudenziale della condizione di disagio economico rilevante ai fini del reato di usura (art. 644 c.p.)[20]. In tale prospettiva, lo stato di bisogno è stato definito come una condizione di grave pressione economica che, sebbene meno intensa rispetto allo stato di necessità precedentemente contemplato dalla norma nella sua versione anteriore, è comunque sufficiente a rendere la vittima particolarmente fragile e priva di qualsiasi autonomia negoziale, tanto che il suo sfruttamento non richiede necessariamente l’impiego di violenza o minaccia [21].

Non è più richiesta, invece, un’attività organizzata, permettendo di perseguire penalmente anche le condotte poste in essere da singoli o da soggetti privi di una struttura stabile. Inoltre, è stato eliminato il requisito della violenza, della minaccia o dell’intimidazione come modalità necessarie per configurare lo sfruttamento; queste condotte sono ora considerate come circostanze aggravanti previste dal secondo comma della norma.

Il 3° comma dell’art. 603 bis c.p., come anticipato poc’anzi, contiene poi un’elencazione di quattro condizioni, la sussistenza di una o più delle quali costituisce indice ai fini della corretta individuazione del concetto di lavoro in condizioni di sfruttamento. Il legislatore del 2016 ha ritenuto di confermare l’originaria scelta di non ricorrere alla tecnica della definizione normativa del concetto di sfruttamento, preferendole quella della elencazione degli indici rivelatori.[22]

Infine, è stato previsto (nuovo art. 603 bis comma 1, c.p.) un reato con la sanzione più bassa della reclusione da 1 a 6 anni (e multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore) in caso di semplice sfruttamento, senza violenza o minaccia. In sostanza quindi si è aggiunto un nuovo caso rispetto al precedente, colmando una lacuna che, come visto, lasciava impuniti i casi anche se gravissimi di sfruttamento ma senza violenza o minaccia.

Resta comunque il principio di sussidiarietà, per cui i reati specifici sono applicabili, «salvo che il fatto costituisca più grave reato» (incipit dell’art. 603 bis, comma 1, c.p.), con riferimento implicito ma ovvio al reato di schiavitù ex art. 600 c.p.

Come rilevato da più parti in dottrina, la Riforma del 2016, pur ampliando l’ambito soggettivo dell’illecito includendo anche il datore di lavoro, sembra aver introdotto una sorta di “attenuazione” della fattispecie[23]. Tale attenuazione emerge dalla semplificazione dei tratti descrittivi che delineavano il peculiare disvalore del reato, accompagnata da una corrispondente modifica del regime sanzionatorio. In altre parole, la riforma sembra avere ridotto la complessità delle caratteristiche che definivano il reato originario, mirando probabilmente a garantire una maggiore applicabilità pratica.

Secondo alcune osservazioni, la nuova formulazione del reato potrebbe abbracciare una gamma più ampia di situazioni, incluse ipotesi che non riguardano direttamente il fenomeno del caporalato che si intende contrastare[24]. Tuttavia, questo ampliamento potrebbe essere interpretato come un tentativo di superare le difficoltà applicative riscontrate nella versione precedente della norma. Quest’ultima, infatti, sebbene fosse particolarmente rigorosa nel rispettare il principio di tassatività, si rivelava complessa da dimostrare in giudizio, tanto da essere definita, con un’efficace metafora, un vero e proprio “delitto gigante”[25], di difficile applicazione.

Alla luce di questo, l’impoverimento della descrizione delle caratteristiche offensive del fatto, introdotto con la riforma del 2016, potrebbe essere stato concepito per garantire maggiore effettività nella repressione del fenomeno, migliorando l’operatività concreta della norma.

I risultati, almeno fino ad oggi, non sono stati quelli sperati. La norma, come modificata, continua ad avere uno scarso livello di effettività che piuttosto unanimemente era stato imputato alla fattispecie nella sua versione previgente[26]. Per converso, il fenomeno del caporalato non può certamente considerarsi circoscritto o di limitata rilevanza. Come si giustifica tale incongruenza?

Innanzitutto, vale la pena segnalare sin d’ora che si tratta di uno dei casi di norma penale inserita nel codice con decretazione d’urgenza e insediata in un contesto, quello dei delitti contro la personalità individuale, destinato a reprimere le più gravi forme di criminalità che il diritto penale possa concepire nell’attuale momento storico[27]. Lo strumento prescelto è sintomo di una tendenza di natura politica, basata sulla convinzione che lo sviluppo economico ed il sostegno all’occupazione, soprattutto in una stagione di sconvolgimenti demografici e cambiamenti non sempre agevolmente monitorabili nelle dinamiche del mercato del lavoro, passino e debbano necessariamente passare anche attraverso il diritto penale[28].

In secondo luogo, il delitto di cui all’art. 603 bis c.p. ricopre, come si è anticipato, una posizione intermedia tra i più gravi delitti a tutela della libertà individuale e le meno severe contravvenzioni (o in taluni casi illeciti amministrativi), sussidiarie alla disciplina giuslavoristica e amministrativa[29]. Tale rilievo trova conferma nelle pronunce operate dalla giurisprudenza che si è soffermata sulla fattispecie previgente, le quali rappresentano al contempo una conferma alla possibilità di configurare la disciplina come articolata secondo uno schema stadiale[30]. Si è affermato, infatti, che il delitto di cui all’art. 603 bis c.p. «punisce tutte quelle condotte distorsive del mercato del lavoro, che, in quanto caratterizzate dallo sfruttamento mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, non si risolvono nella mera violazione delle regole relative all’avviamento al lavoro sanzionate dall’art. 18 del D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276»[31] . Al contempo e  per altro verso, i fatti sussumibili sotto l’art. 603 bis c.p. non sono tali da «raggiungere le odiose vette dello sfruttamento estremo presupposto della fattispecie di cui all’art. 600 del codice penale»[32]. È tenendo conto di simili considerazioni che sembrerebbe confermata l’opinione di chi ha sottolineato come la fattispecie in questione sia intesa a intercettare le forme – ontologicamente nascoste e subdole – di cosiddetto “caporalato grigio”[33] , ossia come «quelle prassi di sfruttamento intermedie rispetto alle condotte punibili a norma delle contravvenzioni in materia di somministrazione ed intermediazione di lavoro, ovvero del delitto di riduzione in schiavitù o servitù, di cui all’art. 600 c.p.»[34].

La divergenza tra la formulazione della norma, orientata a punire comportamenti che, seppur gravi, appaiono meno offensivi rispetto a quelli generalmente contemplati tra i delitti più odiosi dell’ordinamento, e la sua collocazione all’interno del sistema penale, è stata progressivamente attenuata da un intervento giurisprudenziale costante, sia a livello nazionale che europeo. Tale evoluzione interpretativa ha contribuito a chiarire l’ambito di applicazione della fattispecie incriminatrice, precisando i confini tra le condotte punibili e le semplici violazioni amministrative o giuslavoristiche, con un’attenzione particolare alla tutela effettiva dei lavoratori sfruttati. La sentenza in esame, a parere di chi scrive, si colloca proprio in questo solco interpretativo, confermando la tendenza ad armonizzare la ratio della norma con la sua posizione sistematica, rafforzando così la coerenza interna dell’ordinamento e garantendo una maggiore effettività nella repressione dei fenomeni di sfruttamento lavorativo.

4. Breve excursus sulla giurisprudenza della Corte Edu in materia di “sfruttamento” del lavoro”

A livello sovranazionale, il divieto di lavoro forzato od obbligatorio è equiparato ai divieti di schiavitù e servitù. Tale principio è sancito dell’art. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nell’art. 5 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e nell’art. 8 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966.

Le principali pronunce della Corte Edu in materia riguardano prevalentemente casi di sfruttamento nell’ambito del lavoro domestico[35] e casi di sfruttamento della prostituzione[36]. Le basi di questa giurisprudenza vanno rintracciate nel caso Van der Mussele c. Belgio[37]in cui la Corte si è pronunciata sull’obbligo per i praticanti avvocato di prestare in taluni casi assistenza pro bono, escludendo che tale obbligo configurasse lavoro forzato. La Corte, in mancanza di definizioni esplicite nell’art. 4 CEDU, ha assunto come riferimento l’art. 2 della Convenzione sul Lavoro Forzato dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) del 1930, evidenziando un’«analogia impressionante» («strikingsimilarity») e «non casuale» («notaccidental») tra i due documenti [38].

Secondo questa impostazione, il «lavoro forzato o obbligatorio» è definito come «qualsiasi lavoro o servizio richiesto a un individuo sotto la minaccia di una pena qualsiasi e per il quale detto individuo non si è offerto di sua spontanea volontà». Tuttavia, la Corte ha precisato che la sola minaccia di pena non è sufficiente per configurare il lavoro forzato: è necessario dimostrare che l’onere richiesto risulta sproporzionato («disproportionate burden») [39].

I criteri per valutare tale sproporzione, però, non sono stati definiti in maniera univoca, lasciando spazio a interpretazioni caso per caso.

A tal proposito, nel recente caso Chowdury c. Grecia [40], l’Università di Lund, intervenuta come amicus curiae, ha suggerito alla Corte di basare la valutazione sulla discrepanza tra le condizioni lavorative dei ricorrenti e quelle previste dalla normativa nazionale, piuttosto che sulla limitazione della libertà di movimento, più pertinente alla nozione di servitù [41].

Tuttavia, la Corte ha spostato l’attenzione dal lavoro forzato alla tratta di esseri umani, sottolineando che questa viola la dignità umana e le libertà fondamentali. Pur condivisibile, tale impostazione ha finito per confondere concettualmente le due fattispecie, sostenendo che «lo sfruttamento del lavoro costituisce un aspetto della tratta»[42], derivando questa affermazione dall’art. 4 della Convenzione anti-tratta del Consiglio d’Europa. In realtà, il documento menziona lo sfruttamento del lavoro come una possibile finalità della tratta, senza identificarlo necessariamente con essa. Lo sfruttamento lavorativo, infatti, può verificarsi anche in assenza di una precedente tratta, come evidenziato da studi che distinguono una fase di «pre-sfruttamento» (pre-exploitation phase)  da quella dello sfruttamento vero e proprio[43].

Nel tentativo, poi, di fare chiarezza sulla distinzione tra condotte di servitù e tratta, la Corte ha criticato l’interpretazione della nozione di tratta di esseri umani operata dalle corti interne, avendola queste ultime sostanzialmente identificata con la nozione di servitù. Un elemento chiave individuato per distinguere il lavoro forzato dalla servitù è la percezione, da parte della vittima, dell’immutabilità della propria condizione. Tuttavia, neppure questa osservazione, seppur utile, ha portato a una definizione autonoma di lavoro forzato. Questa confusione concettuale è giunta al paradosso nella sentenza J. c. Austria [44]. Il caso riguardava due donne filippine sfruttate nel lavoro domestico negli Emirati Arabi e fuggite durante un soggiorno in Austria. Ebbene, la Corte ha ricondotto il disvalore dello sfruttamento lavorativo non al divieto di schiavitù o lavoro forzato (art. 4 CEDU), bensì al divieto di trattamenti degradanti (art. 3 CEDU). Tale scelta risulta incoerente e alimenta la necessità di una maggiore chiarezza concettuale[45].

Le differenti interpretazioni, che si è cercato di riportare in questa sede seppur brevemente, dimostrano come, anche a livello europeo, persista la sfida di distinguere chiaramente tra intermediazione e sfruttamento lavorativo.

Tuttavia, è auspicabile che la Corte Edu restituisca autonomia ai concetti di cui all’art. 4 CEDU, definendo in modo più analitico i criteri di «minaccia di pena» e «vulnerabilità»[46] per stabilire quando il lavoro possa dirsi forzato e quali circostanze rendano un lavoratore vulnerabile[47].

5. Lo sfruttamento del lavoro intellettuale

Come abbiamo visto, la sentenza in esame analizza il fenomeno del caporalato con riferimento all’ambito del lavoro intellettuale, affermando con chiarezza che tale tipologia di attività non integra gli estremi della fattispecie di cui all’art. 603 bis c.p. Questa conclusione si fonda su un’interpretazione sistematica della norma, la quale, nel delineare la condotta tipica del reato, richiede la sussistenza di specifici elementi oggettivi e soggettivi, in primis l’intermediazione illecita finalizzata allo sfruttamento del lavoro altrui, caratterizzata da condizioni di grave vulnerabilità o da una significativa sproporzione tra le prestazioni rese dal lavoratore e le condizioni economiche o contrattuali a lui riservate. La Corte precisa, tuttavia, che l’esclusione del lavoro intellettuale dall’ambito di applicazione dell’art. 603bis c.p. non comporta l’impossibilità di contestare eventuali irregolarità o abusivismi. Tali condotte, ove sussistenti, devono essere valutate alla luce di altre norme più adeguate a disciplinare le peculiarità del lavoro intellettuale.

Non si può che concordare con tali affermazioni. Estendere ulteriormente la portata di una norma come l’art. 603 bis c.p. sarebbe infatti un’operazione rischiosa, soprattutto considerando che si tratta di una disposizione già criticata per la sua natura atecnica e per la sua appartenenza alla cosiddetta “legislazione simbolica”[48].Un’interpretazione troppo estesa di una norma con una formulazione già ampia e generica potrebbe comportare gravi problemi di certezza del diritto, lasciando spazio a interpretazioni arbitrarie o discrezionali. Di conseguenza, è fondamentale preservare un equilibrio tra l’esigenza di contrastare fenomeni di sfruttamento e il rispetto dei principi fondamentali di tipicità e tassatività del diritto penale.

Tuttavia, sebbene la fattispecie del caporalato si riferisca prevalentemente a contesti di lavoro manuale o a bassa qualificazione, caratterizzati da una maggiore esposizione ad abusi, anche il lavoro intellettuale può essere oggetto di forme di sfruttamento. Esempi di ciò possono riscontrarsi nei settori dell’editoria, del giornalismo freelance[49]e anche delle professioni classiche[50], dove i lavoratori qualificati sono spesso costretti ad accettare condizioni di lavoro precarie e sottopagate. Negli ultimi decenni, come dimostrato da recenti studi[51], si è osservata una perdita di valore economico e sociale del lavoro qualificato. L’aumento dei laureati e dei lavoratori “sovraqualificati” ha determinato un fenomeno di “congestione” nel mercato del lavoro[52], noto come “sovraistruzione”[53] che ha ridotto significativamente il potere contrattuale di tali lavoratori.

Questa dinamica ha favorito la diffusione di pratiche come il lavoro sottopagato o non retribuito, spesso giustificate dalla necessità di accrescere il curriculum. In alcuni casi, si è persino teorizzata la legittimità del “lavoro gratuito”[54] come strumento per migliorare la propria competitività nel mercato del lavoro. Pubbliche amministrazioni, organizzatori di eventi culturali o fieristici e altre realtà ricorrono frequentemente a lavoratori che accettano di prestare servizi gratuitamente per acquisire esperienza, riducendo in tal modo i costi.

Sebbene il concetto di “lavoro gratuito” sia considerato da alcuni giuristi come un ossimoro giuridico[55], è emersa una narrazione secondo cui tali esperienze rappresenterebbero un’opportunità per investire ed accrescere il proprio capitale umano. Questo approccio, definito “Jackpot Economy”, riflette una logica aleatoria in cui il lavoratore è chiamato a scommettere sul valore futuro della propria prestazione, che può rivelarsi tanto un investimento fruttuoso quanto una perdita secca[56].

Un’analisi giuridica rigorosa dovrebbe quindi garantire che, pur nella peculiarità del lavoro intellettuale, siano sempre assicurate condizioni di dignità e tutela per il lavoratore, evitando che tali pratiche sfuggano al controllo normativo e perpetuino situazioni di sfruttamento.

6. Considerazioni conclusive

Da quanto sinora esaminato, emerge con chiarezza che il fenomeno dello sfruttamento del lavoro, raramente riconducibile a mere condotte individuali, rappresenta una manifestazione più complessa e sistemica, spesso legata a strutture organizzative di carattere imprenditoriale. In questo contesto, il delitto previsto dall’art. 603 bis c.p. appare come una tipica espressione del corporate crime, finalizzato alla riduzione dei costi e all’aumento dei profitti mediante pratiche illecite[57].

Sebbene la formulazione della fattispecie de quo, innovativa nella tipizzazione per “indici”, rappresenti un passo in avanti, essa appare ancora radicata nelle categorie tradizionali del diritto del lavoro. Ciò ne rende l’applicazione complessa rispetto ai nuovi schemi contrattuali di un’economia sempre più competitiva e deregolamentata. Come rilevato in dottrina, il delitto ex art. 603 bis c.p. sembrerebbe caratterizzato da una sorta di “anacronismo”, dovuto al fatto che la sua introduzione, per quanto recente, non è stata accompagnata da un’attenta indagine empirica, che sarebbe stata utile al fine di individuare le manifestazioni più diffuse, nonché i contenuti più comuni della fenomenologia criminosa che si intendeva contrastare[58].

Pur non essendovi nel testo della norma, né nella sua rubrica, una limitazione espressa del relativo ambito applicativo a specifiche forme di lavoro, la fattispecie sembra tuttavia concepita in relazione a forme di sfruttamento “tradizionale”, attuate esclusivamente nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato “classico”. Di conseguenza, restano escluse dal raggio d’azione dell’art. 603 bis c.p. quelle prestazioni che, pur essendo etero-organizzate, non possono essere ricondotte alla fattispecie prevista dall’art. 2094, come, ad esempio, il lavoro di natura intellettuale[59].

In tale prospettiva, come giustamente affermato dalla Cassazione, appare evidente come il diritto penale, con la sua funzione tipicamente repressiva e securitaria, non possa ambire a governare in modo autonomo dinamiche sociali e lavorative tanto complesse. Per un’efficace strategia di contrasto, è indispensabile adottare un approccio orientato ai labour rights, privilegiando strumenti che assicurino primariamente la tutela e la garanzia dei diritti dei lavoratori[60].

È auspicabile, pertanto, in primo luogo, un intervento del legislatore europeo, volto a garantire una maggiore precisione nella descrizione delle condotte di sfruttamento punibili, al fine di facilitare l’individuazione dei caratteri offensivi della fattispecie e di fornire un quadro normativo più chiaro e uniforme tra gli Stati membri. In secondo luogo, il legislatore interno, recependo tali indicazioni nel rispetto della Costituzione, dovrebbe adottare misure capaci di superare l’approccio meramente sanzionatorio che il diritto penale tende ad assumere in questo settore, promuovendo invece un intervento più articolato e incisivo per la tutela della dignità e dei diritti dei lavoratori sfruttati.

Come è stato osservato, è necessario affiancare alla norma penale misure proattive volte a consolidare la protezione delle condizioni di lavoro, rafforzando il rispetto delle normative sul lavoro e promuovendo politiche di prevenzione dello sfruttamento. Questo approccio integrato, oltre a migliorare le condizioni dei lavoratori, contribuirebbe a smantellare le strutture sistemiche che favoriscono il proliferare di fenomeni di sfruttamento, rendendo più efficace e incisivo l’intervento normativo complessivo[61].

È apprezzabile, pertanto, la sentenza della Cassazione che accende i riflettori sul nuovo e ancora poco esplorato fenomeno dello sfruttamento del lavoro intellettuale. La pronuncia, oltre a chiarire che tale forma di attività non rientra nella fattispecie di cui all’art. 603 bis c.p., ha sottolineato con forza la necessità di contrastare e reprimere tali condotte, pur se al di fuori del tradizionale perimetro del diritto penale. Si tratta di un’importante apertura verso un approccio più ampio e integrato, che valorizza strumenti alternativi e complementari, capaci di garantire una tutela effettiva ai lavoratori intellettuali e di promuovere condizioni lavorative più eque e dignitose per tutti.


[1] Cass. Pen., Sez. II, 28 novembre 2024 (ud. 18 settembre 2024), n. 43662. Per un commento cfr. F. Vitarelli, Lo sfruttamento del lavoro intellettuale è fuori dal tipo descritto dall’art. 603-bis c.p.?, in Sist. Pen., 17 Dicembre 2024.

[2] Sentenza in commento, p. 7.

[3] Decreto-Legge 13 agosto 2011, n. 138 recante “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”, convertito con modificazioni dalla L. 14 settembre 2011, n. 148 (in G.U. 16/09/2011, n. 216).

[4] Dagli atti della Giunta per l’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, presieduta dal Sen. Stefano Jacini, pubblicati tra il 1880 e il 1885, emerge come in numerose province dell’Italia centro-meridionale l’attività dei gruppi di braccianti agricoli stipendiati a giornata fosse diretta e gestita da “caporali”. Con tale termine si indicava l’intermediario per il reclutamento di braccianti agricoli, a capo di una squadra di operai. Ogni riferimento al “caporale” contenuto nel presente scritto è da intendersi nel senso ora specificato. M. Lombardo, Sub Art. 603 bis, in M. Ronco – B. Romano, Codice penale commentato, Utet, 2012.

[5]Cfr. in argomento a mero titolo d’es.: A. Di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti su una correlazione (troppo) scontata, in Dir. Pen. cont., 2/2015, 106 ss.; S. Fiore, (Dignità degli) Uomini e (punizione dei) Caporali. Il nuovo delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in AA. VV., Scritti in onore di Alfonso Stile, Editoriale Scientifica, 2014, 879; E. Lo Monte, Osservazioni sull’art. 603-bis c.p. di contrasto al caporalato: ancora una fattispecie enigmatica, ibidem, 953 ss. e spec. 957-959; A. Giuliani, I reati in materia di “caporalato”, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, Padova University press, 2015; A. Merlo, Il contrasto allo sfruttamento del lavoro e al “caporalato” dai braccianti ai riders. Le fattispecie dell’art. 603 bis c.p. e il ruolo del diritto penale, Giappichelli, 2020, 62 ss.; V. Musacchio, Caporalato e tutela penale dei lavoratori stranieri: problemi e proposte di riforma, in Lavoro e previdenza oggi, 2/2010, 135; S. Riondato, Sul reato di intermediazione di movimenti illeciti di lavoratori extracomunitari migranti, in Riv. Trim. dir. Pen. Econ., 1991, 1027.

[6] L. Bin, Il contrasto penale allo sfruttamento del lavoro, tra “(un)decent work” e servitù. I risultati del progetto NoSlaveChain, in Arch. Pen., 2/2024, 40 ss. L’Autore analizza le criticità della fattispecie di cui all’art. 603 bis c.p. alla luce degli esiti di un recente progetto di ricerca finanziato dalla Regione Puglia (Programma Refin), incentrato sul contrasto penale allo sfruttamento del lavoro.

[7] P. Alò, Il caporalato nella tarda modernità. La trasformazione del lavoro da diritto sociale a merce, Bari, 2010; L. Limoccia- A. Leo- N. Piacente, Vite bruciate di terra. Donne e immigrati. Storie, testimonianze, proposte contro il caporalato e l’illegalità, Edizioni gruppo abele, 1997; A. Leogrande, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Feltrinelli, 2008.

[8] Sui rapporti tra mafia e caporalato v. per tutti P. Arlacchi, La mafia imprenditrice. Dalla Calabria al centro dell’Inferno, Il Saggiatore, 2010, 114; G. Morgante, Caporalato, schiavitù e crimine organizzato – caporalato, schiavitù e crimine organizzato verso corrispondenze (quasi) biunivoche, in Giur. It., 7/2018, 1703; M. Omizzolo, Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana, Feltrinelli, 2019; L. Palmisano, Mafia caporale, Fandango Libri, 2017; G. Turone – F. Basile, Il delitto di associazione mafiosa, Giuffrè, 2008, passim; F. Novarese, Mafia e organizzazione del lavoro in Calabria: contributo alla costruzione di una risposta giudiziaria, in Questione Giustizia, 4/1982, 863. Cfr. altresì il Primo Rapporto su agromafie e caporalato, a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto di Roma, che nell’anno 2012 calcolava il giro d’affari delle Agromafie in una misura compresa tra i 12 e i 17 miliardi di euro l’anno, pari a circa il 10% dei guadagni della criminalità mafiosa, così come quantificato dalla Commissione Nazionale Antimafia.

[9]Su tale fattispecie di reato: F. Mantovani, Commento all’art. 18, in E. Gragnoli- A. Perulli (a cura di), La riforma del mercato del lavoro e i nuovi modelli contrattuali. Commentario al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, Cedam, 2004, 249; M. Pedrazzoli, Commento agli artt. 18-19, in Aa. Vv., Il nuovo mercato del lavoro, a cura di M. Pedrazzoli, Zanichelli, 2004, p. 234, il quale parla di “mescola dell’art. 18”.

[10]F. Buonadonna – G. Tramontano, Il reato di somministrazione abusiva di manodopera, in Filodiritto.it, 2006, 3405; G. Morgante, Quel che resta del divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro dopo la “Riforma Biagi”, in Dir. Pen. Proc., 2006, 733 ss.; C. Perini, La successione di leggi penali in materia di somministrazione di lavoro: l’orientamento della S.C., in Lav. Giur., 2005, 898; F. Rocchi, Il reato di “esercizio non autorizzato dell’attività di intermediazione di manodopera” nella riforma Biagi: tra continuità normativa e nuove esigenze del mercato del lavoro, in Cass. Pen., 2005, 4010; R. Romei, L'”elisir” di lunga vita del divieto di interposizione, in RIDL, 2005, II, 726; M. Tiraboschi, Le riforme del mercato del lavoro dell’ultimo decennio in Italia: un processo di liberalizzazione?, in Working paper Adapt, n. 38/2006, p. 1.

[11]In argomento cfr. ex multis A.Manna, Le fattispecie criminose in materia di immigrazione clandestina fra Corte costituzionale e Sezioni Unite penali, in Dir. pen. proc.,12/2021, 1634 ss.;A. Spena, L’incriminazione dello smuggling of migrants in Europa: una ricognizione comparatistica, in V. Militello, A. Spena, A. Mangiarcina, L. Siracusa (a cura di), I traffici illeciti nel Mediterraneo. Persone, stupefacenti, tabacco, Giappichelli, 2019; ID, Favoreggiamento dell’immigrazione irregolare vs. traffico di migranti: una dicotomia rilevante nell’interpretazione dell’articolo 12 TUI? (Ragionando su Corte cost. n. 63/2022), in DIC, n. 3/2022; S. Zirulia, Il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Tra over criminalisation e tutela dei diritti fondamentali, Giappichelli, 2024. Per una disamina sulle misure extra penali di contrasto allo sfruttamento del lavoro cfr. C.S. Thun Hohenstein Welsperg, Il diritto penale dello sfruttamento del lavoro: alla ricerca di un equilibrio fra extrema ratio e bisogni di penalizzazione, in Dir. Pen. XXI secolo, n.2/2024, 283 ss.

[12]A. di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti su una correlazione (troppo) scontata, in Dir. pen. cont., 2015, 106 ss.; A. Giuliani, I reati in materia di “caporalato”, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, cit.; S. Fiore, (Dignità degli) Uomini e (punizione dei) caporali. Il nuovo delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Scritti in onore di Alfonso M. Stile, Edizioni scientifiche, 2013, 871 e segg.; E. Lo Monte, Osservazioni sull’art. 603 bis c.p. di contrasto al caporalato: ancora una fattispecie enigmatica, ivi, 951.

[13]In questo senso M. Lombardo, Sub Art. 603 bis, cit., passim.

[14] S. Seminara, Nuove schiavitù e società“civile”: il reato di sfruttamento del lavoro, in Dir. Pen. proc., 2/2021, 140 ss. Secondo l’Autore «il disconoscimento della qualità di essere umano in un nostro simile, il rifiuto di portargli un benché minimo rispetto proprio in quanto essere umano, offende il diritto più inviolabile fra tutti, perché nega l’essenza dell’altrui umanità e il significato della presenza dell’altro nel mondo».

[15] Cass. Pen., Sez. IV, 07 marzo 2023 (ud. 30 novembre 2022), n. 9473, in CED Cass. n. 284190-02; Cass. pen. Sez. IV,), 04 marzo 2022 (ud. 11 novembre 2021), n. 7857, in CED Cass. n. 282609-01.

[16] Cass. Pen., Sez. IV , 08 giugno 2023, n. 33889.

[17] Dure le critiche della dottrina con riguardo alla novella, strutturata così male da essere definita “esempio di insipienza”, così A. Di Martino, “Caporalato” e repressione penale, cit., 113. Concordemente C. Silva, Sanzioni penali, in Brollo M., Cester C., Menghini L. (a cura di), Legalità e rapporti di lavoro. Incentivi e sanzioni, EUT, 2016, 488, la descrive «frettolosa e lacunosa, con conseguenti incoerenze, imperfezioni e criticità». Dure anche le reprimende, soprattutto in punto di determinatezza, di A. Gaboardi, La riforma della normativa in materia di “caporalato” e sfruttamento dei lavoratori: corretto lo strabismo, persiste la miopia, in www.legislazionepenale.eu, 3 aprile 2017, 27 s.,  E. Lo Monte, Osservazioni sull’art. 603-bis, cit., 953; A. Scarcella, Il reato di “caporalato” entra nel codice penale, in Diritto penale e processo 2011, 1193;E. Scorza, Le novità rilevanti per il diritto penale nelle recenti norme “anti-crisi”, in Legisl. Pen., 7/2012.

[18]L. 29.10.2016, n. 199, recante «Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo» (pubblicata sulla G.U. n. 257 del 03.11.2016 ed entrata in vigore il 4.11.2016). Per un commento alla Riforma del 2016 cfr. per tutti T. Padovani, In gazzetta la legge sul caporalato che modifica il codice penale, in Quot. Giur., 2016.

[19]Sul “nuovo” art. 603 bis c.p. v. T. Padovani, Necessario un nuovo intervento per superare i difetti, in Quot. Dir., 21 novembre 2016; Id., Le contraddizioni di un abnorme meccanismo repressivo, ivi, 21 novembre 2016; D. Ferranti, La legge n. 199/2016: disposizioni penali in materia di caporalato e sfruttamento del lavoro nero nell’ottica del legislatore, in www.penalecontempoaneo.it; F. Gianfrotta, Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: lucie e ombre di una riforma necessaria. Come cambiala tutela penale dopo l’approvazione della legge n. 199/2016, in Quest. Giustizia, 1 marzo 2017; A. Cisterna, Caporalato, prova più semplice e applicazione in tutti i settori, in Quot. Dir., 21 novembre 2016; Id., Punita anche l’attività di intermediazione, ivi, 21 novembre 2016; Id., EÌ sfruttamento anche la violazione di prescrizioni minime, ivi, 21 novembre 2016; Id., Aggravanti, sanzioni pesanti contro le condotte antinfortunistiche, ivi, 21 novembre 2016; C. Cassani, Riflessioni sulle nuove norme in tema di “caporalato” e sfruttamento del lavoro, in Parola alla difesa, n. 2/2016, 263; Id., “Caporalato” e sfruttamento del lavoro: le novità introdotte dalla legge 199/2016, in Quot. Giur., 5 gennaio 2017; L. Marino, Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in www.ilpenalista.it, 5 dicembre 2016; S. Seminara, op. cit., pp. 137 ss.

[20] G. Morgante, Quel che resta del divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro dopo la “Riforma Biagi”, cit., p. 6; A. Scarcella, Il reato di “caporalato” entra nel codice penale, in Diritto penale e processo 11, 1193 e E. Scorza, op. cit., 7.

[21] S. Seminara, op. cit., p. 140. Sulla distinzione tra lo stato di bisogno, elemento costitutivo dell’art. 603 bis c.p. e stato di necessità, richiamato nell’art. 600 c.p. cfr. in dottrina G. Cocco – E. Ambrosetti (a cura di), I reati contro le persone. Vita, incolumità personale e pubblica, libertà, onore, moralità pubblica e buon costume, famiglia, sentimento religioso, per i defunti e per gli animali, Cedam, 2014, 338 ss.; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, Parte speciale, II, Tomo primo, I delitti contro la persona, IV ed., Zanichelli, 2013, 137 ss.; F. Mantovani, Diritto penale, Parte speciale, I, Delitti contro la persona, cit., 274 ss.; F. Resta, Art. 600 – Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, in Manna (a cura di), Reati contro la persona, Giappichelli, 2007, 420 ss.; K. Summerer, I delitti di schiavitù e tratta di persone, in A.  – S. Canestrari – A. Manna – M. Papa (a cura di), Trattato di diritto penale, Parte speciale, VIII, I delitti contro l’onore e la libertà individuale, Giappichelli, 2010, 213 ss.; A. Vallini, Modifica all’art. 600 del codice penale, in Leg. pen., 2004, 622 ss.; F. Viganò, sub Art. 600 cod. pen., in Codice penale commentato, III, Giuffrè, 2011, 5703 ss. In giurisprudenza, ex multis, Cass. Pen., Sez. III, 2 febbraio 2005, G., n. 3368, in Dir. Pen. e Processo, 2006, 1, 61, nota di A. Peccioli, I profili di sospetta illegittimità costituzionale del c.d. caporalato: la ragionevolezza del trattamento sanzionatorio e la determinatezza degli indici di sfruttamento, 8/2023, 1043; Cass. Pen., Sez. III, 26 ottobre 2006, in Cass. pen., 2007, 4587 ss.

[22]Art. 603 bis, comma 3, c.p.: «Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni: 1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle  organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

[23]In chiave critica sul punto, v. da ultimo A. De Rubeis, Qualche breve considerazione critica sul nuovo reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Dir. Pen. cont., 4/2017, 221 ss.

[24]T. Padovani, Un nuovo intervento per superare i difetti di una riforma zoppa, Guida dir., 2016, n.48, 48 ss.

[25]F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale I – Delitti contro la persona, Cedam, 2021, 324.

[26] Segnalano la pressoché totale ineffettività della norma in esame A. Di Martino, “Caporalato” e repressione penale, cit., 113; D. Garofalo, Il contrasto al fenomeno dello sfruttamento del lavoro (non solo in agricoltura), in RDSicSoc,2/2018, 258 ss.; E. Lo Monte, Lo sfruttamento dell’immigrato clandestino: tra l’incudine (dello stato) e il martello (del caporalato), in CrD 2011, I-II, 66; G. Rotolo, Dignità del lavoratore e controllo penale del “caporalato”, in Dir. Pen. Proc.,6/2018, 813. Per uno sguardo ai numeri dei procedimenti avviati, cfr. D. Ferranti, La legge n.199/2016: disposizioni penali in materia di caporalato e sfruttamento del lavoro nell’ottica del legislatore, in www.penalecontemporaneo.it, 15.11.2016, 1; D. Piva, I limiti dell’intervento penale sul caporalato come “sistema” (e non “condotta”) di produzione: brevi note a margine della legge n. 199/2016, in Arch. Pen., 2017, I, 184 s.. Per un’analisi delle pochissime sentenze che hanno lambito la disposizione prima della riforma cfr. G. De Marzo, Le modifiche alla disciplina penalistica in tema di caporalato, in Foro it., 2016, V, 377 s.

[27]A. Di Martino, “Caporalato” e repressione penale, cit., 107 ss.

[28]Ibidem.

[29]G. Rotolo, Dignità del lavoratore e controllo penale del “caporalato”,cit.,811 ss.

[30]Così Cass. Pen., Sez. V, 04 gennaio 2014, n. 14591in CED Cass., 262541. In termini analoghi si esprimono anche Cass. Pen., Sez. V, 18 dicembre 2015, n. 16737 in Dir. e Pratica Lav., 2016, 20, 1241, e Cass. Pen., Sez. V, 17 ottobre 2017, n. 51634, in Dir. e Pratica Lav., 2017, 46, 2829.

[31]Cass. Pen., Sez. V, 17 ottobre 2017, n. 51634, cit.

[32]R. Bricchetti – L. Pistorelli, Caporalato: per il nuovo reato pene fino ad 8 anni, in Guida dir., 2011, 35, 49;

[33]A. Di Martino, “Caporalato” e repressione penale, cit., 108.

[34]A. Giuliani, I reati in materia di “caporalato”, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, cit.,28.

[35]CEDU, sent. del 26 luglio 2005, Siliadin c. Francia (ric. n. 73316/01); CEDU, sent. 11 ottobre 2012, C.N. e V. c. Francia, (ric. n. 67724/09).

[36]CEDU, sent. 7 gennaio 2010, Rantsev c. Cipro e Russia, (ric. n. 25965/04); CEDU, sent. 21 gennaio 2016, L.E. c. Grecia, (ric. n. 71545/12).

[37]CEDU, sent. del 23 novembre 1983, Van derMussele c. Belgio, ricorso n.8919/80.

[38]CEDU, sent. del 23 novembre 1983, Van derMussele c. Belgio, cit., § 32; passaggio testualmente riprodotto nella sentenza Siliadin c. Francia, cit., §116,che rappresenta la prima volta in cui viene affermata di responsabilità di uno stato ex art. 4 Cedu.

[39]E. Corcione, Nuove forme di schiavitù al vaglio della Corte europea dei diritti umani: lo sfruttamento dei braccianti nel caso Chowdury, in Diritti umani e diritto internazionale, vol. 11, 2017, n. 2, pp. 516-522.

[40]CEDU, sent. del 30 marzo 2017, Chowdury e altri c. Grecia, (ric. n. 21884/15) (www.echr.coe.int).

[41]CEDU, sent. del 30 marzo 2017, Chowdury e altri c. Grecia cit., § 78.

[42]CEDU, sent. del 30 marzo 2017, Chowdury e altri c. Grecia cit., §§ 92-102.

[43]A. Merlo, Il contrasto allo sfruttamento del lavoro e al caporalato” dai braccianti ai riders. Le fattispecie dell’art. 603 bis c.p. e il ruolo del diritto penale, cit., 62 ss.Si vedano anche le osservazioni di C. Rijken, Traffiking in human being for labour exploitation: cooperation in anintegrated Approach, in European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal Justice, 1/2013, 12; K. Skrivankova, Between Decent Work and Forced Labour. Examining the Continuum of Exploitation, paper for the Joseph Rowntree Foundation, November 2010, available online at http://www.jrf .org.uk..

[44] CEDU, sent. del 17 gennaio 2017, J. e altri c. Austria, (ric. n. 58216/12).

[45]CEDU, sent. del 17 gennaio 2017,  J. e altri c. Austria, cit., §§ 119-123.

[46] Alcuni autori evidenziano infatti che, fra le varie declinazioni della nozione di “vulnerabilità”, la giurisprudenza della Corte Edu sembra assegnare minore importanza alla vulnerabilità ‘economica’ derivante da indigenza o povertà (sempre considerata conseguenza di altri elementi di fragilità dell’individuo), che è quell ache più rileva quando si parla di sfruttamento lavorativo. Cfr. S. BESSON, La Vulnérabilité et la structuredes droits de l’homme. L’exemple del la jurisprudence de la Cour europeenne des droits de l’homme, in AA.VV., La vulnérabilitésaisie par lesjuges en Europe, a cura di L. Burgorgue-Larsen, Paris, 2014, 59 ss.; D. XENOS, The Human Rights of the Vulnerable, in International Journal of Human Rights, 4/2009,591 ss.

Così, e. Corcione, Nuove forme di schiavitù al vaglio della Corte europea dei diritti umani: lo sfruttamento dei braccianti nel caso Chowdury, in Dir. um. dir.int., 2017, 516 ss. Nell’ottica definire meglio tali contenuti, d. Russo, Lo sfruttamento del lavoro negli stati membri del consiglio d’Europa: una riflessione a margine del caso Cowdury, in Riv. dir. int., 2017, 835 ss., auspica una lettura evolutiva dell’art. «4, par. 2, della Convenzione europea magari attraverso una operazione che valorizzi, attraverso l’interpretazione sistemica, le disposizioni di altri trattati poste a tutela della dignità della persona nell’ambito del lavoro. Sarebbe auspicabile,in particolare, una rivalutazione del ruolo della Carta sociale europea (riveduta)che, insieme alle Convenzioni dell’OIL, dovrebbe concorrere a definire un insieme di garanzie minime a tutela della dignità dei lavoratori nello spazio giuridico europeo. Questo approccio permetterebbe alla Corte europea di svolgere un ruolo di controllo sull’adeguatezza degli ordinamenti degli Stati contraenti a prevenire e reprimere le forme più gravi di sfruttamento lavorativo e a tutelare le vittime, eventualmente anche oltre il perimetro della fattispecie di tratta».

[47] Analoghe difficoltà si riscontrano nella giurisprudenza della Corte Interamericana dei Diritti dell’Uomo, che tende a considerare lo sfruttamento lavorativo come una derivazione diretta della tratta di esseri umani Cfr. Case of the Hacienda Brasil Verde Workers v. Brazil, Judgment of 20 October 2016, Series C No. 318 (Hacienda Brasil Verde), relativamente al quale si rinvia alle osservazioni di V. Milano, Human trafficking by regional human rightscourts: An analysis in light of Hacienda Brasil Verde, the first Inter-American Court’s, in Revista Electrónica de Estudios Internacionales, vol. 36, pp. 1-29, 2018.

[48]Cfr., per tutti, L. Bin, Problemi “interni” e problemi “esterni” del reato di intermediazione illecita e sfruttamento di lavoro (art. 603-bis c.p.), in www.lalegislazionepenale.eu, 10.03.2020; E. Lo Monte, Osservazioni sull’art. 603-bis, cit., 957; S. Tordini Cagli, La controversa relazione della sanzione penale con il diritto del lavoro, tra ineffettività, depenalizzazione e istanze populiste, in Lav. Dir.  2017, III-IV,624.

[49]V. sul punto A. Merlo, Il contrasto allo sfruttamento del lavoro e al “caporalato” dai braccianti ai riders. Le fattispecie dell’art. 603 bis c.p. e il ruolo del diritto penale, cit., 33 ss.

[50]Con riferimento alle professioni, in particolare a quella forense, nel 2017 il guardasigilli Andrea Orlando ha in parecchie occasioni precisato che l’approvazione della legge sull’equo compenso sarebbe stata un passo decisivo per combattere quello che egli stesso definiva come «caporalato intellettuale». Cfr. A. Barone, Equo compenso allargato a tutti i professionisti, in Il sole 24ore del 15 novembre 2017.

[51]R. Semenza – A. Mori, Lavoro apolide. Freelance in cerca di riconoscimento, Feltrinelli, 2020, 53 ss.

[52] Cfr. M. Ferrera, La società del quinto stato, Laterza, 54, che rileva appunto come la formazione abbia finito col perdere la natura di “bene posizionale”.

[53] Fenomeno per il quale la qualità della nuova domanda di lavoro non riesce a far fronte a un’offerta sempre più istruita, determinando uno sfasamento fra giovani con alti livelli di istruzione e posti di lavoro adeguati alle loro aspirazioni socioprofessionali: cfr. E. Reyneri, Introduzione alla sociologia del mercato del lavoro, Il Mulino, 2017, 157, che ricava dall’osservazione del fenomeno argomenti per ritenere poco affidabile la “teoria del capitale umano” (secondo la quale l’espansione dell’istruzione superiore dipenderebbe dalle crescenti esigenze della domanda di lavoro)e preferire la “teoria della riproduzione sociale” (secondo la quale l’istruzione superiore si espanderebbe anche oltre le esigenze della domanda di lavoro per rispondere alle pressioni della competizione tra coloro che aspirano ad una ascesa sociale e quelli che difendono le posizioni acquisite).

[54]A. Rota, Lavoro gratuito per la pa: «un’opportunità per arricchire il curriculum», in Riv. it. dir. lav., 2020, 145. A sdoganare questa soluzione è stata l’Expo organizzata nel 2015 a Milano sul tema Nutrire il pianeta. Energie per la vita, che in questo modo si è avvalsa del contributo di 18.500 “lavoratori volontari”. Ma gli esempi che le cronache hanno successivamente prodotto sono tantissimi. Dai creativi ingaggiati gratuitamente dal Ministero della salute per curare alcune campagne promozionali, ai giovani architetti e ingegneri ai quali è stato chiesto da alcuni sindaci di suggerire gratis soluzioni e progetti per la riqualificazione di alcune aree urbane. Per una tematizzazione del fenomeno del lavoro gratuito nelle sue varie sfaccettature, cfr. inoltre M. Bascetta, Al mercato delle illusioni. Lo sfruttamento del lavoro gratuito, Manifestolibri, 2016.

[55] Così V. Bavaro, Questioni in diritto su lavoro digitale, tempo e libertà, in Riv. giur. lav., 2018, 37; negli stessi termini G. De simone, Lavoro digitale e subordinazione. Prime riflessioni, ivi, 2019, 7. Su posizioni meno nette v. M. Tiraboschi, Persona e lavoro tra tutele e mercato. Per una nuova ontologia del lavoro nel discorso giuslavoristico, ADAPT University press, 2020, 152 ss.

[56] Cfr. S. Bologna- D. Banfi, Vita da freelance, cit., 193, che si richiamano all’espressione di Andrew Ross. Inoltre, argomentano questi Autori, in «un clima di degrado progressivo del lavoro», i fruitori del lavoro gratuito «hanno facile gioco nel rivendere il fatto di essere un collaboratore come un’opportunità tout court, more than zero. Questo è davvero il punto più basso nella costruzione di un prezzo e di una relazione professionale, perché viene completamente annullata la trattativa e si richiede lavoro gratuito in cambio di fiducia».

[57] Così anche V. Mongillo, Forced labour e sfruttamento lavorativo nella catena di fornitura delle imprese: strategie globali di prevenzione e repressione, in Rivista trimestrale di diritto penale dell’economia, 3-4/2019, pp. 630-675.

[58] A. Lucifora, Lo sfruttamento del lavoro. La costruzione del “tipo” tra istanze di determinatezza e obblighi sovranazionali di tutela, Giappichelli, 2024, 369.

[59] Ma non solo: si pensi anche al fenomeno del ‘caporalato digitale’, di cui le note vicende riguardanti i cosiddetti “riders” rappresentano un’espressione emblematica. Sul punto, cfr. A. Lucifora, op. cit., 370 ss.

[60]A. Di martino, “Caporalato” e repressione penale, cit., 106 ss.; in termini analoghi V. Torre, Il diritto penale e la filiera dello sfruttamento, in Gior. dir. lav. rel. ind., 2018, 310; nonché G. De Santis, Caporalato e sfruttamento del lavoro. Storia e analisi della fattispecie delittuosa vigente, in AA.VV., Studi sul caporalato, a cura di G. De Santis-S.M. Corso-F. Del Vecchio, Giappichelli, 2020, 9 ss., il quale teme che ripiegare sulla sola sanzione penale rischi di relegarla alla funzione di «valore simbolico di impegno solo declamato dello stato nel contrasto alla criminalità» (p. 13). Preoccupazione non destituita di fondamento, stando ai risultati di alcuni recenti studi: cfr. L. Calafà, Lavoro irregolare degli stranieri e sanzioni, cit., 81.

[61] In questi termini G. La neve, Dal caporalato «tradizionale» al nuovo caporalato(globalizzato) «degli immigrati»: la Regione Puglia davanti a una «grande mutazione antropologica» e a una più atroce vulnerabilità dell’esistenza umana, in Le Regioni, 2019, 1315-1316. Del resto, rileva l’A., se si accetta «la complessità del fenomeno non può non scegliersi un approccio ugualmente complesso, all’interno del quale confezionare un ventaglio ampio di percorsi anche congiunti di prevenzione che insistano, dunque, su uno stadio anteriore rispetto al rapporto finale intermediatore-lavoratore». La pretesa invece di «affidare al diritto penale una(pretesa) compiutezza nel contrasto al fenomeno» risulterebbe di contro «riduttiva e parziale». Sull’insufficienza dello strumento repressivo penale, cfr. pure L. Bin, Il contrasto penale allo sfruttamento del lavoro, tra “(un)decent work” e servitù. I risultati del progetto NoSlaveChain, cit., p.3.

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