1. Il precipitare della crisi politica, con le dimissioni del Governo Draghi e la ravvicinata chiamata alle urne, impone di riflettere sul tipo di giustizia penale che si immagina per il nostro Paese.
Infatti, la giustizia, soprattutto quella penale, rappresenta uno dei temi fondamentali sui quali costruire una identità culturale, programmatica e politica – in senso alto, cioè non partitica o comunque di parte – di qualsiasi schieramento. Al Paese, ai cittadini, agli elettori, bisogna offrire un quadro omogeneo e chiaro, sul quale coagulare i consensi, senza estremismi, ma anche senza timori. Penso all’ancoraggio a taluni valori forti e fondanti e, allo stesso tempo, alla individuazione di alcune ineludibili riforme.
2. Per riflettere consapevolmente, occorre però partire da dati di fatto chiari, almeno nella mia lettura.
Dunque, sia pure per contrastare fenomeni particolarmente gravi e diffusi – come la corruzione, a partire dalla stagione di “mani pulite”, e la criminalità mafiosa, che ha avuto il suo culmine con le terribili stragi del 1992 – da un trentennio ad oggi si è percorso un lungo cammino, purtroppo via via tendente ad un populismo legislativo e giudiziario dalle coloriture giustizialiste, se non addirittura forcaiole.
Penso – per il populismo legislativo – a taluni aspetti della I. 6 novembre 2012, n. 190 (c.d. legge Severino), per arrivare alla I. 9 gennaio 2019, n. 3, generalmente conosciuta (purtroppo, e non a caso) come “legge spazza-corrotti”. Penso a certe coloriture assunte da leggi in materia di “pedofilia”, con toni da diritto penale del nemico. Penso alla lunga stagione delle riforme in materia di prescrizione, prima “allungata” dalla l. 23 giugno 2017, n. 103 (c.d. riforma Orlando), poi sostanzialmente eliminata ad opera della l. 9 gennaio 2019, n. 3 (c.d. riforma Bonafede), e nel frattempo “raddoppiata”, per molti reati, ad opera di altrettante leggi.
Tutte leggi generalmente connotate da un forte intento repressivo, e per certi versi moraleggiante. A ciò si aggiunga la recente tendenza del diritto penale a cadere nella atipicità e nella indeterminatezza, come emblematicamente rappresentata da disposizioni-simbolo, quali l’abuso di ufficio o il traffico di influenze.
E, talvolta a cascata, altre volte con effetti anticipatori, anche la giurisprudenza ha coltivato il pericoloso seme del populismo giudiziario. Si pensi – e l’esemplificazione è ovviamente parziale e incompleta – a certe interpretazioni assai late del concorso esterno, alle contestazioni generiche, agli avvisi di garanzia “a strascico” (ad esempio, nel settore sanitario), all’uso ancora troppo esteso della custodia cautelare (un terzo circa dei detenuti sono “in attesa di giudizio”, come nell’omonimo film del 1971, diretto da Nanni Loy e interpretato da Alberto Sordi: sono passati oltre cinquant’anni, ma per certi versi sembra oggi…), al fastidio che talora serpeggia per l’attività difensiva, ai filtri spesso eccessivi in Cassazione.
3. Del resto, per molti, troppi, anni la gara è stata a chi gridava più forte e urlava cose spesso assurde, che però – ripetute con apparente convinzione – apparivano vere o, almeno, verosimili.
Al riguardo, mi viene alla mente la Rivoluzione francese: certo, nata con nobili ideali, e che pure ci ha lasciato tracce indelebili, come la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e la separazione dei poteri. Ma che – in chiave di superamento dell’ancien régime e della affermazione del nuovo – ha visto una corsa del “puro” superato dal più “puro”, con molte teste cadute sulla ghigliottina, Comitati di salute pubblica, Terrore, legge dei sospetti (con la quale ogni nemico, o presunto tale, della rivoluzione venne incarcerato o giustiziato sommariamente, e che definì “sospetti” tutti i nobili e i loro parenti, tutti i preti refrattari e i loro parenti, tutte le persone che per condotta, atteggiamenti, relazioni, opinioni verbali o scritte, si erano dimostrate nemiche della libertà). Sino a giungere, nel 1794, all’arresto di Robespierre e dei suoi collaboratori, il giorno successivo ghigliottinati senza processo. Di qui il Termidoro, la ricerca di nemici esterni e le guerre napoleoniche: ma la storia è nota.
Tuttavia, a ripercorrere quella storia, mi vengono ancor oggi i brividi, perché non mi sembra così lontana: il primato del popolo è diventato sottoposizione all’opinione pubblica; l’affermazione (art. 101 Cost.) che “La giustizia è amministrata in nome del popolo” è stata tradotta volgarmente nei processi di piazza (e si potrebbe richiamare “In Nome del Popolo Italiano”, un film del 1971, diretto da Dino Risi che ha come attori protagonisti Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman: il magistrato finisce per fare condannare un innocente proprio “per fare giustizia”: l’imputato è innocente per l’omicidio, ma merita di essere condannato in quanto corruttore…). Inoltre, da tempo si è sentito dire che il rispetto delle garanzie è “peloso”, mentre il giustizialismo è virtuoso, è dei giusti. Persino la moderata assicurazione (art. 27, comma 2, Cost.) che “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, e la più decisa affermazione che “Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa”, contenuta nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948 (e analoga affermazione è presente nell’art. 6, comma 2, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950) sono sembrate da superare. Pertanto, dovrebbe, se ci riesce, dimostrare la sua estraneità l’imputato; e ancora di più l’arrestato; e in misura addirittura esasperata il prevenuto (cioè, il soggetto sottoposto a misure di prevenzione). Del resto, “non ci sono innocenti, ma solo imputati dei quali non si è riusciti a dimostrare la colpevolezza”, dichiarava solennemente un noto magistrato, ora a sua volta (ecco la Rivoluzione francese…) sottoposto a processo.
4. Dunque, per raggiungere un livello sufficiente di civiltà giuridica, che pure taluno censura quale garantismo peloso, mi ancorerei sempre alla Costituzione, che – in materia penale – rappresenta ancora un sicuro e condivisibile punto di riferimento. Forse non è “la più bella del mondo” (affermazione di chi la vorrebbe immutabile e cristallizzata), ma è certamente una ottima Legge fondamentale, che in molte parti non sembra avvertire l’inarrestabile scorrere del tempo e che scolpisce in modo veramente alto i diritti fondamentali. Una Costituzione, però, non ancora del tutto attuata e rispettata sino in fondo.
Basterebbe ricordare che l’art. 25 della Costituzione cristallizza il principio di legalità: la legge penale la deve scolpire il Parlamento con la dovuta precisione, senza punire retroattivamente e senza consentire la “creazione” dei reati da parte della magistratura (in violazione del divieto di analogia in malam partem). Dunque, da un lato il legislatore deve scrivere regole chiare e precise; dall’altro la magistratura non deve eccedere in estri interpretativi. Sembrano regole ovvie e scontate; ma purtroppo spesso non sono attuate. Un diritto penale di uno Stato moderno e liberale dovrebbe però garantirne sempre il rispetto.
Poi, l’art. 27 della Costituzione fissa il principio di non colpevolezza: l’imputato non si considera colpevole sino alla sentenza definitiva di condanna. Concetto che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo esplicita in maniera più netta: l’imputato si considera innocente, sino alla eventuale sentenza di condanna. Anche qui: sembra ovvio. Ed invece, come ricordato, spesso si ragiona e si agisce in senso opposto, triturando le persone nel gorgo giudiziario e massmediatico e poi neppure segnalandone l’assoluzione. A mio modo di vedere, chi si proclama “liberale” non può che sposare un approccio garantistico, che respinga tali tendenze.
Ancora, occorrerebbe riappropriarsi del finalismo rieducativo della pena, sempre scolpito nell’art. 27 della Costituzione. E ciò, sia chiaro, non per mero “buonismo”, ma perché accanto al bastone della pena, che va mantenuto, occorre utilizzare la carota della speranza, che rafforza l’ordine penitenziario e tende ad attenuare il fenomeno del recidivismo, che certifica la sconfitta dello Stato e alimenta l’insicurezza sociale (perché il detenuto, una volta libero, commette un nuovo reato). Al riguardo, anche l’ergastolo ostativo meriterebbe riflessioni mature e soluzioni ponderate, e pienamente in linea con la Costituzione.
Inoltre, occorrerebbe attuare pienamente l’art. 111 Cost., inverando il processo accusatorio ed il “giusto processo”, facendo sì che ogni processo si svolga nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale. Ovviamente, con una separazione di carriere tra giudici e p.m. E poi assicurando realmente la ragionevole durata del processo e assicurando che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata “riservatamente” della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; prima cioè che la notizia sia diffusa via stampa. E occorrerebbe garantire che la persona accusata disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; che possa interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, nonché ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore. Requisiti non sempre garantiti, se l’art. 371-ter c.p. prevede che il difensore – al cospetto di un soggetto che non accoglie il suo invito – si debba rivolgere al p.m., con applicazione dell’art. 371-bis c.p.
Infine, occorre evitare che, rincorrendo il populismo giudiziario, il giustizialismo, la lotta dei duri e puri contro il reato e contro il peccato, si persegua ad ogni costo la verità, più che il vero processuale. In tal senso, la spasmodica tensione verso la ricostruzione della verità può addirittura comportare pericoli per la correttezza dei mezzi utilizzati per perseguirla: nel passato, si ricorreva alla tortura, oggi alla custodia cautelare (ma l’art. 13 Cost. parla, più brutalmente ma più correttamente, di carcerazione preventiva…), specie in carcere: una sorta di tortura, appunto, moderna.
Su un altro piano, andando cioè oltre la Costituzione (che, non per caso, non ne tratta), va affermato che non tranquillizza del tutto l’accresciuto ruolo e la funzione delle misure di prevenzione – che, appunto, molti costituzionalisti e molti penalisti (per tutti, Nuvolone e Bricola) consideravano di difficile “digeribilità”, anche perché eredi del “confino” riservato ad avversari politici – nelle quali ci si accontenta dell’indizio e, talvolta, del sospetto. Se ci sono verità storiche, lasciamole agli storici e al giudizio del cittadino-elettore. Non al processo; neppure a quello di prevenzione, ammesso che sia un vero processo.
5. Ma tutto ciò non è sufficiente. Occorre, ancora, poter avere fiducia nella magistratura, nelle regole che la riguardano (l’ordinamento giudiziario) e negli organi di controllo e di garanzia, come dovrebbe essere il Consiglio Superiore della Magistratura. Se fosse liberato dall’abbraccio soffocante delle correnti e se operasse sempre in piena trasparenza.
Qui, però, sarebbero state necessarie riforme coraggiose e non rinviabili. Ed invece, le varie riforme Cartabia, pur certamente meritevoli nelle intenzioni, sono state però troppo tiepide e parziali.
Questo vale sia per la riforma del processo penale, intervenuta con l. 27 settembre 2021, n. 134, in parte legata a discutibili modifiche fissate in legge ordinaria (sulle quali “spicca” l’inedita improcedibilità) ed in parte confinata in ipotizzati decreti legislativi, che la caduta del Governo e la fine anticipata della legislatura lasciano appesi ad un sottile filo.
Ma vale anche per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché per le disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore, che la legge 17 giugno 2022, n. 71, in gran parte legge-delega, riserva ancora una volta allo strumento, futuro ed incerto, dei decreti legislativi.
Questa è la ragione per la quale è ancora necessario riflettere de iure condendo su riforme in materia di giustizia penale; riforme che il nuovo Parlamento dovrà affrontare seriamente e consapevolmente.
Mi sono permesso di indicare in tale sede solo alcune pietre angolari, pur conscio che tantissimi altri sono gli aspetti che occorrerebbe trattare e approfondire. Credo però che – in tempi di costruzione di aree culturali e, dunque, politiche – occorra iniziare a edificare, basandosi su valori condivisi. E che occorra offrire agli elettori un quadro chiaro, in modo da contrastare quell’astensionismo, che abbiamo dovuto recentemente avvertire, che non fa certamente bene alla nostra democrazia, che deve invece fondarsi sulla più ampia partecipazione popolare possibile.
Spunti prospettici per una giustizia penale moderna e liberale
1. Il precipitare della crisi politica, con le dimissioni del Governo Draghi e la ravvicinata chiamata alle urne, impone di riflettere sul tipo di giustizia penale che si immagina per il nostro Paese.
Infatti, la giustizia, soprattutto quella penale, rappresenta uno dei temi fondamentali sui quali costruire una identità culturale, programmatica e politica – in senso alto, cioè non partitica o comunque di parte – di qualsiasi schieramento. Al Paese, ai cittadini, agli elettori, bisogna offrire un quadro omogeneo e chiaro, sul quale coagulare i consensi, senza estremismi, ma anche senza timori. Penso all’ancoraggio a taluni valori forti e fondanti e, allo stesso tempo, alla individuazione di alcune ineludibili riforme.
2. Per riflettere consapevolmente, occorre però partire da dati di fatto chiari, almeno nella mia lettura.
Dunque, sia pure per contrastare fenomeni particolarmente gravi e diffusi – come la corruzione, a partire dalla stagione di “mani pulite”, e la criminalità mafiosa, che ha avuto il suo culmine con le terribili stragi del 1992 – da un trentennio ad oggi si è percorso un lungo cammino, purtroppo via via tendente ad un populismo legislativo e giudiziario dalle coloriture giustizialiste, se non addirittura forcaiole.
Penso – per il populismo legislativo – a taluni aspetti della I. 6 novembre 2012, n. 190 (c.d. legge Severino), per arrivare alla I. 9 gennaio 2019, n. 3, generalmente conosciuta (purtroppo, e non a caso) come “legge spazza-corrotti”. Penso a certe coloriture assunte da leggi in materia di “pedofilia”, con toni da diritto penale del nemico. Penso alla lunga stagione delle riforme in materia di prescrizione, prima “allungata” dalla l. 23 giugno 2017, n. 103 (c.d. riforma Orlando), poi sostanzialmente eliminata ad opera della l. 9 gennaio 2019, n. 3 (c.d. riforma Bonafede), e nel frattempo “raddoppiata”, per molti reati, ad opera di altrettante leggi.
Tutte leggi generalmente connotate da un forte intento repressivo, e per certi versi moraleggiante. A ciò si aggiunga la recente tendenza del diritto penale a cadere nella atipicità e nella indeterminatezza, come emblematicamente rappresentata da disposizioni-simbolo, quali l’abuso di ufficio o il traffico di influenze.
E, talvolta a cascata, altre volte con effetti anticipatori, anche la giurisprudenza ha coltivato il pericoloso seme del populismo giudiziario. Si pensi – e l’esemplificazione è ovviamente parziale e incompleta – a certe interpretazioni assai late del concorso esterno, alle contestazioni generiche, agli avvisi di garanzia “a strascico” (ad esempio, nel settore sanitario), all’uso ancora troppo esteso della custodia cautelare (un terzo circa dei detenuti sono “in attesa di giudizio”, come nell’omonimo film del 1971, diretto da Nanni Loy e interpretato da Alberto Sordi: sono passati oltre cinquant’anni, ma per certi versi sembra oggi…), al fastidio che talora serpeggia per l’attività difensiva, ai filtri spesso eccessivi in Cassazione.
3. Del resto, per molti, troppi, anni la gara è stata a chi gridava più forte e urlava cose spesso assurde, che però – ripetute con apparente convinzione – apparivano vere o, almeno, verosimili.
Al riguardo, mi viene alla mente la Rivoluzione francese: certo, nata con nobili ideali, e che pure ci ha lasciato tracce indelebili, come la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e la separazione dei poteri. Ma che – in chiave di superamento dell’ancien régime e della affermazione del nuovo – ha visto una corsa del “puro” superato dal più “puro”, con molte teste cadute sulla ghigliottina, Comitati di salute pubblica, Terrore, legge dei sospetti (con la quale ogni nemico, o presunto tale, della rivoluzione venne incarcerato o giustiziato sommariamente, e che definì “sospetti” tutti i nobili e i loro parenti, tutti i preti refrattari e i loro parenti, tutte le persone che per condotta, atteggiamenti, relazioni, opinioni verbali o scritte, si erano dimostrate nemiche della libertà). Sino a giungere, nel 1794, all’arresto di Robespierre e dei suoi collaboratori, il giorno successivo ghigliottinati senza processo. Di qui il Termidoro, la ricerca di nemici esterni e le guerre napoleoniche: ma la storia è nota.
Tuttavia, a ripercorrere quella storia, mi vengono ancor oggi i brividi, perché non mi sembra così lontana: il primato del popolo è diventato sottoposizione all’opinione pubblica; l’affermazione (art. 101 Cost.) che “La giustizia è amministrata in nome del popolo” è stata tradotta volgarmente nei processi di piazza (e si potrebbe richiamare “In Nome del Popolo Italiano”, un film del 1971, diretto da Dino Risi che ha come attori protagonisti Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman: il magistrato finisce per fare condannare un innocente proprio “per fare giustizia”: l’imputato è innocente per l’omicidio, ma merita di essere condannato in quanto corruttore…). Inoltre, da tempo si è sentito dire che il rispetto delle garanzie è “peloso”, mentre il giustizialismo è virtuoso, è dei giusti. Persino la moderata assicurazione (art. 27, comma 2, Cost.) che “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, e la più decisa affermazione che “Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa”, contenuta nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948 (e analoga affermazione è presente nell’art. 6, comma 2, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950) sono sembrate da superare. Pertanto, dovrebbe, se ci riesce, dimostrare la sua estraneità l’imputato; e ancora di più l’arrestato; e in misura addirittura esasperata il prevenuto (cioè, il soggetto sottoposto a misure di prevenzione). Del resto, “non ci sono innocenti, ma solo imputati dei quali non si è riusciti a dimostrare la colpevolezza”, dichiarava solennemente un noto magistrato, ora a sua volta (ecco la Rivoluzione francese…) sottoposto a processo.
4. Dunque, per raggiungere un livello sufficiente di civiltà giuridica, che pure taluno censura quale garantismo peloso, mi ancorerei sempre alla Costituzione, che – in materia penale – rappresenta ancora un sicuro e condivisibile punto di riferimento. Forse non è “la più bella del mondo” (affermazione di chi la vorrebbe immutabile e cristallizzata), ma è certamente una ottima Legge fondamentale, che in molte parti non sembra avvertire l’inarrestabile scorrere del tempo e che scolpisce in modo veramente alto i diritti fondamentali. Una Costituzione, però, non ancora del tutto attuata e rispettata sino in fondo.
Basterebbe ricordare che l’art. 25 della Costituzione cristallizza il principio di legalità: la legge penale la deve scolpire il Parlamento con la dovuta precisione, senza punire retroattivamente e senza consentire la “creazione” dei reati da parte della magistratura (in violazione del divieto di analogia in malam partem). Dunque, da un lato il legislatore deve scrivere regole chiare e precise; dall’altro la magistratura non deve eccedere in estri interpretativi. Sembrano regole ovvie e scontate; ma purtroppo spesso non sono attuate. Un diritto penale di uno Stato moderno e liberale dovrebbe però garantirne sempre il rispetto.
Poi, l’art. 27 della Costituzione fissa il principio di non colpevolezza: l’imputato non si considera colpevole sino alla sentenza definitiva di condanna. Concetto che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo esplicita in maniera più netta: l’imputato si considera innocente, sino alla eventuale sentenza di condanna. Anche qui: sembra ovvio. Ed invece, come ricordato, spesso si ragiona e si agisce in senso opposto, triturando le persone nel gorgo giudiziario e massmediatico e poi neppure segnalandone l’assoluzione. A mio modo di vedere, chi si proclama “liberale” non può che sposare un approccio garantistico, che respinga tali tendenze.
Ancora, occorrerebbe riappropriarsi del finalismo rieducativo della pena, sempre scolpito nell’art. 27 della Costituzione. E ciò, sia chiaro, non per mero “buonismo”, ma perché accanto al bastone della pena, che va mantenuto, occorre utilizzare la carota della speranza, che rafforza l’ordine penitenziario e tende ad attenuare il fenomeno del recidivismo, che certifica la sconfitta dello Stato e alimenta l’insicurezza sociale (perché il detenuto, una volta libero, commette un nuovo reato). Al riguardo, anche l’ergastolo ostativo meriterebbe riflessioni mature e soluzioni ponderate, e pienamente in linea con la Costituzione.
Inoltre, occorrerebbe attuare pienamente l’art. 111 Cost., inverando il processo accusatorio ed il “giusto processo”, facendo sì che ogni processo si svolga nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale. Ovviamente, con una separazione di carriere tra giudici e p.m. E poi assicurando realmente la ragionevole durata del processo e assicurando che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata “riservatamente” della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; prima cioè che la notizia sia diffusa via stampa. E occorrerebbe garantire che la persona accusata disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; che possa interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, nonché ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore. Requisiti non sempre garantiti, se l’art. 371-ter c.p. prevede che il difensore – al cospetto di un soggetto che non accoglie il suo invito – si debba rivolgere al p.m., con applicazione dell’art. 371-bis c.p.
Infine, occorre evitare che, rincorrendo il populismo giudiziario, il giustizialismo, la lotta dei duri e puri contro il reato e contro il peccato, si persegua ad ogni costo la verità, più che il vero processuale. In tal senso, la spasmodica tensione verso la ricostruzione della verità può addirittura comportare pericoli per la correttezza dei mezzi utilizzati per perseguirla: nel passato, si ricorreva alla tortura, oggi alla custodia cautelare (ma l’art. 13 Cost. parla, più brutalmente ma più correttamente, di carcerazione preventiva…), specie in carcere: una sorta di tortura, appunto, moderna.
Su un altro piano, andando cioè oltre la Costituzione (che, non per caso, non ne tratta), va affermato che non tranquillizza del tutto l’accresciuto ruolo e la funzione delle misure di prevenzione – che, appunto, molti costituzionalisti e molti penalisti (per tutti, Nuvolone e Bricola) consideravano di difficile “digeribilità”, anche perché eredi del “confino” riservato ad avversari politici – nelle quali ci si accontenta dell’indizio e, talvolta, del sospetto. Se ci sono verità storiche, lasciamole agli storici e al giudizio del cittadino-elettore. Non al processo; neppure a quello di prevenzione, ammesso che sia un vero processo.
5. Ma tutto ciò non è sufficiente. Occorre, ancora, poter avere fiducia nella magistratura, nelle regole che la riguardano (l’ordinamento giudiziario) e negli organi di controllo e di garanzia, come dovrebbe essere il Consiglio Superiore della Magistratura. Se fosse liberato dall’abbraccio soffocante delle correnti e se operasse sempre in piena trasparenza.
Qui, però, sarebbero state necessarie riforme coraggiose e non rinviabili. Ed invece, le varie riforme Cartabia, pur certamente meritevoli nelle intenzioni, sono state però troppo tiepide e parziali.
Questo vale sia per la riforma del processo penale, intervenuta con l. 27 settembre 2021, n. 134, in parte legata a discutibili modifiche fissate in legge ordinaria (sulle quali “spicca” l’inedita improcedibilità) ed in parte confinata in ipotizzati decreti legislativi, che la caduta del Governo e la fine anticipata della legislatura lasciano appesi ad un sottile filo.
Ma vale anche per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché per le disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore, che la legge 17 giugno 2022, n. 71, in gran parte legge-delega, riserva ancora una volta allo strumento, futuro ed incerto, dei decreti legislativi.
Questa è la ragione per la quale è ancora necessario riflettere de iure condendo su riforme in materia di giustizia penale; riforme che il nuovo Parlamento dovrà affrontare seriamente e consapevolmente.
Mi sono permesso di indicare in tale sede solo alcune pietre angolari, pur conscio che tantissimi altri sono gli aspetti che occorrerebbe trattare e approfondire. Credo però che – in tempi di costruzione di aree culturali e, dunque, politiche – occorra iniziare a edificare, basandosi su valori condivisi. E che occorra offrire agli elettori un quadro chiaro, in modo da contrastare quell’astensionismo, che abbiamo dovuto recentemente avvertire, che non fa certamente bene alla nostra democrazia, che deve invece fondarsi sulla più ampia partecipazione popolare possibile.
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