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Stampa e reclusione: quando il rischio di una riforma è il tradimento degli obiettivi

 

Corte cost., 9 giugno 2020 (dep. 26 giugno 2020), n. 132

 

ABSTRACT

La Consulta ha rinviato di un anno la decisione sulla legittimità costituzionale degli artt. 595, co. 3 c.p.. e 13 della Legge n. 47 del 1948, nella parte in cui prevedono, rispettivamente in via alternativa e cumulativa alla multa, la pena della reclusione. L’attuale bilanciamento degli interessi in gioco è stato definito “inadeguato” dalla stessa Corte, ma il principio di leale collaborazione istituzionale e, soprattutto, i limiti del devolutum – che non consentirebbero di introdurre correttivi adeguati alla tutela del diritto alla reputazione, anch’esso di rilevanza centrale nell’ordinamento costituzionale – hanno imposto di rimettere al Parlamento la questione. Il naufragio delle numerose proposte di riforma che si sono susseguite negli ultimi decenni rende tuttavia evidente come il raggiungimento dei nuovi equilibri non sia affatto agevole.

 

The Constitutional Court ordered a one-year postponement of its ruling on the constitutional legitimacy of art. 595, Penal Code, and art. 13, Law n. 47 of 1948, whereby they provide for incarceration terms, respectively, as an alternative or jointly to fine. The Court deemed the current balance of conflicting interests ‘inadequate’. Nevertheless, loyal cooperation between institutions and, above all, constraints due to the devolutum principle -that would not allow the introduction of appropriate safeguards for the right to reputation, which also is a cornerstone of the Constitution- dictated the matter be sent back to Parliament. However, the failure of previous attempts, in the last decades, to reform the subject makes it conspicuous how arduous finding a new arrangement may prove.

 

Sommario: 1. Premessa – 2. L’impasse denunciata dai giudici rimettenti – 3. La ricerca di nuovi equilibri e le armi spuntate della Consulta: le ragioni del rinvio – 4. Il cd. Chilling effect tra giurisprudenza della Corte Edu e prassi applicativa interna – 5. Il panorama attuale e i rischi de iure condendo – 6. Aspetti positivi di una riforma e conclusioni

 

  1. Premessa

Ancora una volta, le ardenti aspettative legate alla rimodulazione delle pene per il reato di diffamazione a mezzo stampa, sono state disattese. L’attuale disciplina ha infatti già strenuamente resistito all’avvicendarsi di numerosi progetti di riforma[1], alle pressioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e a quella di altri organismi comunitari. L’ultima disillusione è legata al provvedimento della Consulta, chiamata a decidere sulla legittimità costituzionale degli artt. 595, co. 3 c.p. e 13 della l. 8 febbraio 1948, n. 47, nella parte in cui prevedono la pena della reclusione (rispettivamente in via alternativa e cumulativa alla multa) [2].  La decisione è stata rinviata al 22 giugno 2021, per consentire al Parlamento di intervenire sulla materia[3], nello spirito di una <<leale collaborazione istituzionale>>. Anticipando le motivazioni mediante un comunicato[4], la Corte ha rilevato come la soluzione delle questioni sottopostele richieda <<una complessa operazione di bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione della persona, diritti entrambi di importanza centrale nell’ordinamento costituzionale>>. Considerato, inoltre, <<che vari progetti di legge in materia di revisione della disciplina della diffamazione a mezzo della stampa risultano allo stato in corso di esame avanti alle Camere>>, la Consulta ha concluso auspicando un intervento urgente del Parlamento per una rivisitazione dell’attuale bilanciamento, che si ritiene <<inadeguato, anche alla luce della copiosa giurisprudenza della Corte EDU>>, in parte richiamata nell’ordinanza.

Tale giurisprudenza, al di fuori di <<ipotesi eccezionali>>, considera sproporzionata l’applicazione di pene detentive, anche quando esse siano sospese o in concreto non eseguite. Ciò per l’esigenza di non dissuadere la generalità dei giornalisti dall’esercitare la propria fondamentale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri.

Il naufragio dei tentativi di riforma che si sono susseguiti negli ultimi decenni[5] rende tuttavia evidente come il compito demandato al Parlamento sia tutt’altro che agevole, perché gli interventi di “riequilibrio” sono forieri di enormi criticità legate al rischio di un’amplificazione dell’effetto deterrente per la stampa. Peraltro, si segnala come nessuno dei disegni di legge pendenti affronti il tema delle condotte eccezionali che renderebbero proporzionata la pena della reclusione.

  1. L’impasse denunciata dai giudici rimettenti

Entrambi i giudici rimettenti ritengono che la previsione della pena della reclusione per il delitto di diffamazione commessa a mezzo della stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto si ponga in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 CEDU, così come interpretato dalla costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

In particolare, il Tribunale ordinario di Salerno ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 21, 25, 27 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 595, terzo comma[6], del codice penale e dell’art. 13 della l. 8 febbraio 1948, n. 47[7] nell’ambito di un processo concernente un giornalista ed un direttore responsabile (al quale è stato contestato il reato di omesso controllo[8]), per aver attribuito alle persone offese l’appartenenza ad un sodalizio mafioso, ipotesi non corrispondente agli atti processuali.

L’ordinanza del Tribunale di Bari è, invece, circoscritta al solo art. 13 della l. 8 febbraio 1948, n. 47 e sorge da un processo che vede imputato del delitto di diffamazione il solo direttore di un quotidiano, in relazione ad un articolo non firmato, in cui si attribuisce alla persona offesa la cessione di sostanze stupefacenti, nonostante l’avvenuto proscioglimento per tale fatto. Il rimettente, in tal caso, precisa che <<la questione di legittimità costituzionale sollevata mira a una pronuncia che renda la pena detentiva applicabile in via alternativa e non più cumulativa rispetto alla pena pecuniaria>>, analogamente a quanto previsto per le altre forme di diffamazione contemplate dai primi due commi[9].

A nulla rileva anche l’orientamento granitico della giurisprudenza di legittimità, condiviso dalla dottrina[10], secondo cui l’art. 13 non costituisce reato autonomo, ma circostanza aggravante complessa[11] . L’exit strategy del bilanciamento di circostanze non esclude, comunque, l’effetto dissuasivo della previsione della reclusione rispetto all’attività giornalistica [12] .

  1. La ricerca di nuovi equilibri e le armi spuntate della Consulta: le ragioni del rinvio

Nel provvedimento in commento, la Consulta ritiene <<necessaria e urgente>> la rimeditazione del bilanciamento tra: la libertà di manifestazione del pensiero, riconducibile all’art. 21 Cost., secondo cui tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, e gli <<altri interessi e diritti, parimenti di rango costituzionale, che ne segnano i possibili limiti, tanto nell’ottica costituzionale quanto in quella convenzionale>>. Tra questi viene in rilievo proprio il diritto alla reputazione[13].

Quella tra i due interessi in gioco può essere descritta come una relazione funzionale tra due variabili, tale che l’accrescere della tutela dell’una risulta incompatibile con la crescita dell’altra, comportandone, anzi, una contrazione.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nonostante l’art. 10 della Convenzione richiami espressamente la reputazione come limite alla libertà di opinione[14],  attribuisce un peso maggiore alla libertà di stampa[15], cui è correlato il diritto dei cittadini ad essere informati.

Un nuovo equilibrio <<interno>> tra i due piatti – attualmente fondato sulla previsione delle pene suindicate, nel caso in cui non siano rilevabili le scriminanti del diritto di cronaca e di critica, entrambe pacificamente riconducibili alla causa di giustificazione contemplata nell’art. 51 c.p.[16], secondo i criteri enucleati dalla giurisprudenza di legittimità in funzione nomofilattica – deve essere recuperato[17].

A ben vedere, l’esame delle motivazioni dell’ordinanza in commento rende chiaro come l’esigenza di rinvio alligni non tanto nel rispetto del  fair play istituzionale, quanto in un clima di preoccupazione legato alla necessità di una riforma organica della materia.

Se l’eliminazione della reclusione fosse rimessa alla Corte costituzionale, come richiesto, un simile intervento sconterebbe pericolosamente <<la limitatezza degli orizzonti del devolutum e dei rimedi a sua disposizione>>[18], lasciando indebitamente scoperta la tutela della reputazione individuale <<contro illegittime – e talvolta maliziose – aggressioni>>[19]. Dovrebbero, invece, essere coniugate <<le esigenze di garanzia della libertà giornalistica (…) con le altrettanto pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella libertà da parte dei giornalisti; vittime che sono oggi esposte a rischi ancora maggiori che nel passato>>. La Corte menziona, all’uopo, il problema dell’amplificazione degli effetti delle diffamazioni veicolate dai social networks e dai motori di ricerca in rete.

Non può che essere rimesso al legislatore il delicato compito di ricercare un nuovo equilibrio, ma la Corte si spinge a segnalare il percorso che il Parlamento dovrà intraprendere, contemplando << non solo il ricorso – nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito – a sanzioni penali non detentive >> ma anche <<rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come, in primis, l’obbligo di rettifica)>>,  <<efficaci misure di carattere disciplinare, rispondendo allo stesso interesse degli ordini giornalistici pretendere, da parte dei propri membri, il rigoroso rispetto degli standard etici che ne garantiscono l’autorevolezza e il prestigio, quali essenziali attori del sistema democratico>>. La Consulta ricorda al legislatore che in tale operazione quest’ultimo, <<potrà eventualmente sanzionare con la pena detentiva le condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, fra le quali si iscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio>>[20].

  1. Il cd. Chilling effect tra giurisprudenza della Corte Edu e prassi applicativa interna

Dopo aver dato atto dei diversi interventi delle parti[21], la Corte costituzionale ha ripercorso i passaggi salienti di alcune delle pronunce della Corte di Strasburgo in materia di libertà di espressione, accennando anche ai diversi documenti degli organi politici del Consiglio d’Europa, destinati a raccomandare agli Stati membri di rinunciare alle sanzioni detentive per il delitto di diffamazione, <<allo scopo di tutelare più efficacemente la libertà di espressione dei giornalisti e, correlativamente, il diritto dei cittadini a essere informati>>.

Tra i casi della giurisprudenza della Corte EDU menzionati dalla Consulta, merita particolare attenzione la sentenza della Grande Camera del 17 dicembre 2004, Cumpănă e Mazăre c. Romania, i cui principi vengono costantemente ribaditi nelle successive pronunce[22]. La Corte era stata chiamata ad esaminare il ricorso di due giornalisti, condannati per diffamazione. L’affermazione di responsabilità nei loro confronti è stata ritenuta legittima, ma la condanna alla pena non sospesa a sette mesi di reclusione (ancorché in concreto non eseguita per effetto di un provvedimento di grazia presidenziale), è stata qualificata come <<interferenza sproporzionata>>,  – e pertanto <<non necessaria in una società democratica>> ai sensi dell’art. 10, paragrafo 2, della Convenzione. Ciò a fronte dell’essenziale ruolo rivestito dalla stampa, di <<cane da guardia>> della democrazia[23]. Se è infatti riconosciuta agli Stati membri la facoltà (se non addirittura il dovere) di disciplinare l’esercizio della libertà di espressione in modo da assicurare per legge un’adeguata tutela della reputazione, anche ai sensi dall’art. 8 della Convenzione, essi devono evitare <<di adottare misure idonee a dissuadere i media dallo svolgere il loro compito di avvisare il pubblico in caso di apparenti o presunti abusi dei pubblici poteri. I giornalisti di inchiesta potrebbero mostrarsi reticenti a esprimersi su questioni di interesse generale (…) se corrono il rischio di essere condannati, quando la legislazione prevede sanzioni di questo tipo per gli attacchi ingiustificati contro la reputazione altrui, a pene detentive o che comportano il divieto di esercitare una professione. L’effetto dissuasivo che il timore di sanzioni di questo tipo comporta per l’esercizio da parte di tali giornalisti della loro libertà di espressione è evidente (…). Nocivo per la società nel suo complesso, fa anch’esso parte degli elementi da prendere in considerazione in sede di valutazione della proporzionalità – e dunque della giustificazione – delle sanzioni inflitte (…). Se la fissazione delle pene è, in linea di principio, appannaggio dei giudici nazionali, la Corte considera che una pena detentiva inflitta per un reato commesso nell’ambito della stampa sia compatibile con la libertà di espressione giornalistica sancita dall’articolo 10 solo in circostanze eccezionali, in particolare quando altri diritti fondamentali siano stati gravemente lesi, come nel caso, ad esempio, della diffusione di un discorso di odio o di incitazione alla violenza (…)». Analogamente, nei casi “italiani” che hanno visto come parti ricorrenti i giornalisti  Belpietro[24] e Sallusti[25], la Corte di Strasburgo ha sì ritenuto legittima l’affermazione da parte dei giudici della responsabilità penale – stante la non veridicità e la gravità degli addebiti rivolti alle persone offese, in assenza dei doverosi controlli da parte degli imputati –  ma ha, altresì, ritenuto sproporzionata l’inflizione nei loro confronti di una pena detentiva, ancorché condizionalmente sospesa o commutata da un provvedimento del Presidente della Repubblica.

In altre parole, l’effetto dissuasivo (<<chilling effect>>) va impedito[26], a garanzia della libertà dei giornalisti nell’attività di inchiesta e di pubblicazione dei risultati delle loro indagini. La pena detentiva può permanere, non è chiaro in quali casi, perché i discorsi di odio (<<hate speech>>)  e di incitazione alla violenza[27] sembrano meri esempi, seppur ricorrenti, delle eccezioni possibili. L’estensione dell’inciso <<quando altri diritti fondamentali siano stati seriamente offesi>> è incerta, ma, per quanto di interesse, il riferimento ad <<altri diritti>> esclude il diritto alla reputazione tra quelli che possono consentire il ricorso alla pena detentiva.

Si segnala, infine, come in altre pronunce della Corte EDU, venga addirittura stigmatizzato il ricorso ad una sanzione penale, anche pecuniaria [28] sostenendo che se <<l’importo delle multe può di per sé non sembrare eccessivo (…) una sanzione penale resta comunque una pena e, in quanto tale, rischia di avere un effetto particolarmente dissuasivo sull’esercizio della libertà di espressione[29]>>.

  1. Il panorama attuale e i rischi de iure condendo

Va rilevato fin d’ora che se il numero dei processi per diffamazione in Italia è indubbiamente considerevole, quello di condanne alla reclusione è attualmente contenuto. Tali condanne, peraltro, di prassi, non vengono eseguite.

La Suprema Corte, inoltre, si è dimostrata progressivamente sempre più sensibile alla tematica in esame. Recentemente, in un processo per diffamazione, anche in tal caso ai danni di un magistrato, gli ermellini richiamando la sentenza della Corte EDU sulla vicenda Sallusti c. Italia, del 7 marzo 2019, ritenendo non sussistente alcuna delle circostanze eccezionali, ha accolto la doglianza espressa dalla difesa in relazione all’entità della pena inflitta (tre mesi di reclusione) seppur condizionalmente sospesa[30] .

Non è tuttavia la prassi applicativa che conta, ma l’astratta previsione della reclusione, che va comunque eliminata.

Come reso evidente dai numerosi tentativi di riforma non andati a buon fine, a volte, come già accennato in premessa per la ferma opposizione dei giornalisti, l’eliminazione della pena detentiva non risolve affatto il delicatissimo tema della tutela della libertà di stampa, quale strumento essenziale in una democrazia, anzi[31].

Se il nuovo bilanciamento necessita, come accennato, di correttivi, l’attenzione deve essere concentrata sui rischi ad essi connessi.

Diverse sono le iniziative, che nel corso dell’attuale legislatura[32], prevedono l’eliminazione della pena detentiva per il delitto di diffamazione. Tra questi, il d.d.l. Caliendo, ha avuto un iter più articolato rispetto agli altri e fornisce senz’altro una quadro plausibile di quella che potrebbe essere una riforma.

Fattore comune alle proposte di riforma è, in primo luogo, la modifica dell’art. 1 della legge sulla stampa, con l’estensione della normativa anche alle testate giornalistiche on line, registrate ai sensi dell’art. 5, limitatamente ai contenuti prodotti, trasmessi o messi in rete dalle stesse redazioni, nonché alle testate giornalistiche radiotelevisive[33]. Ne consegue un recepimento della più recente giurisprudenza di legittimità che rende punibile, tra l’altro, anche il direttore della testata telematica, con competenza territoriale radicata nel luogo di residenza della persona offesa.

Oltre a tale imponente estensione del perimetro applicativo delle norme, vanno segnalati, alcuni aspetti che si assumono particolarmente rischiosi ai fini del chilling effect. Primo tra tutti è l’incremento del minimo edittale delle sanzioni pecuniarie. Le proposte di riforma prevedono, per la diffamazione a mezzo stampa, in caso di attribuzione di un fatto determinato, <<la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità>>, la pena della multa da 10.000 euro a 50.000 euro[34]. La modifica avrebbe un impatto notevole, considerato che l’art. 13 della legge sulla stampa prevede attualmente una sanzione minima di importo risibile (258 euro). Un minimo edittale di tale fissato a 10.000 euro appare significativo dal punto di vista deterrente[35], ancor più se parametrato al reddito medio dei giornalisti (soprattutto liberi professionisti)[36].

La diffamazione commessa col mezzo della stampa, di testate giornalistiche on line registrate ai sensi dell’art. 5 o della radiotelevisione, verrebbe punita con la pena della multa da 5.000 a 10.000 euro, a fronte dell’attuale pena,  prevista dall’art. 595 co. 3, della multa (alternativa alla reclusione) non inferiore ad euro 516. Il limite minimo edittale è anche in tal caso notevolmente aumentato, mentre il massimo edittale, parametrato ora alle previsioni di cui all’art. 24 c.p., dovrebbe essere fissato a 10.000 euro[37].

Gli importi stabiliti sembrano trascurare i free lance, le piccole e medie testate giornalistiche, la cui libertà di pubblicare articoli “rischiosi”, che offendano l’altrui reputazione, verrebbe senz’altro minata.

Tra gli altri aspetti, che rischiano di potenziare un effetto di “autocensura” figura  poi quello della interdizione dalla professione, come pena accessoria[38]. La modifica, in tal caso, sarebbe notevolmente peggiorativa rispetto allo stato attuale. De lege lata, in caso di condanna penale, è previsto che l’Ordine di appartenenza[39]  possa (e non debba) iniziare un procedimento disciplinare[40] quando si tratti di fatti non conformi al decoro e alla dignità professionale, o che compromettano la propria reputazione o la dignità dell’Ordine. Il Consiglio Territoriale di Disciplina, inoltre, all’esito del procedimento, può applicare sanzioni ben più miti, parametrate allo specifico caso. Le proposte di riforma prevedono invece l’interdizione come pena accessoria, insieme a quella della pubblicazione della sentenza.  Tale sanzione,  per un periodo compreso tra un mese e sei mesi, sarebbe tuttavia applicabile soltanto in caso di recidiva, ai sensi dell’art 99, comma 2, n.1, c.p.[41]

Tra le modifiche da segnalare c’è anche quella concernente l’art. 8 della legge n. 47 del 1948, volta ad introdurre una causa di non punibilità in favore di chi pubblichi la rettifica[42]. In tal caso se la previsione è da accogliere con favore, a destare forti perplessità sono le modalità con cui il correttivo è stato introdotto. La rettifica dovrebbe essere pubblicata <<gratuitamente, senza commento, senza risposta, senza titolo e con il chiaro riferimento all’articolo reputato diffamatorio>>[43] (fatto salvo il caso in cui le stesse abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale o siano documentalmente false). Risulta di palmare evidenza l’obiettivo di favorire l’immediata riparazione del torto subito dalla persona offesa, senza dover attendere i tempi di un intero processo, ma tale meccanismo è foriero di conseguenze estremamente dannose per la libertà di stampa: per scongiurare i costi elevati di un processo, si potrebbe preferire, a prescindere dal contenuto veritiero della notizia, una immediata rettifica della stessa, con buona pace del diritto di informare e di quello dei cittadini ad essere informati. L’impossibilità di provvedere ad un commento non agevola poi la comprensione dei fatti dal punto di vista dei fruitori dell’informazione.

A ciò si aggiunga un’osservazione. Attualmente le ipotesi di diffamazione a mezzo stampa aggravate dal fatto determinato sono di competenza del Tribunale in composizione monocratica, con il passaggio “obbligato” dell’udienza preliminare.

Preme rilevare come raramente, come in tema di diffamazione a mezzo stampa, l’udienza preliminare svolga una effettiva ed efficace funzione di “filtro”, né potrebbe essere altrimenti, essendo i processi per diffamazione spesso connotati dalla mancanza di necessità di un vaglio dibattimentale, tanto più che attraverso l’utilissimo strumento delle investigazioni difensive, il giornalista sottoposto ad indagini è sovente in grado di allegare già in tale sede gli elementi probatori a sostegno della verità della notizia, quanto meno in termini putativi. Non solo. Trattandosi di reati il cui margine di opinabilità è particolarmente elevato, connotato com’è da concetti fluidi e dinamici, l’udienza preliminare è una reale possibilità in più di proscioglimento, dando luogo ad un’autonoma valutazione. Imputazioni azzardate, passate al vaglio del P.M., trovano in questa fase conclusioni esiziali.

Le Riforme che tendono ad escludere la reclusione eliminano inevitabilmente tale passaggio, a fronte della formulazione, da parte del pubblico ministero, del decreto di citazione a giudizio direttamente innanzi al giudice del dibattimento.

Se questa osservazione, di carattere squisitamente processuale può essere superata tenuto conto dell’ideale della maggior tutela della libertà di stampa realizzato con l’eliminazione della pena detentiva, tale aspetto è solo uno degli effetti negativi prevedibili.

  1. Aspetti positivi di una riforma e conclusioni

Il crinale nel quale opera la Corte EDU è quello del comportamento illecito del giornalista, al di fuori, quindi, del perimetro della scriminante e l’attuale equilibrio interno appare, anche a detta della Corte Costituzionale, <<ormai inadeguato>>. Né ha veruna rilevanza la circostanza che il rischio della reclusione per la lesione della reputazione non sia effettivo; al di là della inflizione in concreto della pena, esso va scongiurato in astratto, per il potenziale effetto dissuasivo, nei limiti delineati dalla Corte di Strasburgo.

Al di là di una incondizionata adesione “ideologica” a tale approdo (che si assume ormai prossimo), legata all’esperienza storica dei regimi totalitari e all’immagine retrograda di un Paese che prevede la reclusione come potenziale <<controllo sull’operato dei pubblici poteri>> [44], è necessario riflettere su come gli strumenti destinati a controbilanciare gli interessi in gioco rischino di tradire gli ambiziosi obiettivi perseguiti. L’ormai risibile rischio della pena detentiva[45] lascia spazio al pericolo di sanzioni pecuniarie di importi elevati anche nel minimo, a sanzioni disciplinari introdotte come pene accessorie, a pericolosi meccanismi di rettifica, oltre che ad impatti processuali inevitabili e notevolmente deteriori per i giornalisti imputati.

Il Parlamento dovrebbe affrontare la materia, mediante un intervento più volte rimandato proprio per la sua complessità, foriero di implicazioni tali da rendere reale il rischio di un peggioramento della situazione attuale. Al di là dei giornali più strutturati, chi ha meno disponibilità economiche per “resistere” potrebbe decidere di rinunciare a pubblicare articoli potenzialmente lesivi dell’altrui reputazione. Vi è poi un altro dato da considerare. La Corte costituzionale, in linea con la Corte EDU conclude, comunque, che la sanzione detentiva possa essere giustificata da casi eccezionali. La questione si sposta (e la soluzione è tutt’altro che chiara) sull’individuazione di cosa rientri nel regime eccezionalità. Quel che si può osservare, per ora, è che la nostra Corte di Cassazione ha ritenuto <<eccezionali>> situazioni non ritenute tali dalla Corte di Strasburgo[46].

Sicuramente il tema della rettifica come causa di non punibilità è da affrontare, perché consentirebbe di emendare quegli errori connessi ad esigenze di celerità tipiche dei nostri tempi, così come sarebbe senz’altro auspicabile un intervento incisivo che consenta di punire le cd. liti temerarie, mediante l’introduzione di una norma ad hoc, anche nel codice di procedura penale[47], che, utilizzando il parametro della richiesta, fissi la condanna del querelante a soglie percentuali significative[48]. Con favore dovrebbero essere accolte le norme che prevedono una rimodulazione dei criteri di risarcimento del danno e la riduzione del termine di prescrizione, ancorato attualmente alle previsioni di cui all’art. 2947 c.c.[49]; l’abrogazione dell’art. 12 della legge sulla stampa, in tema di riparazione pecuniaria, attualmente prevista nei confronti del solo giornalista[50] come sanzione civilistica accessoria; l’estensione del segreto professionale ai pubblicisti, attualmente esclusi dall’art. 200 c.p.p. insieme ai praticanti[51].

Da ultimo, appare doverosa una modifica che consenta di inserire tra i crediti privilegiati, quelli vantati nei confronti del proprietario della pubblicazione o dell’editore dal direttore responsabile o dall’autore della pubblicazione che abbia, in adempimento di una sentenza di condanna al risarcimento del danno derivante da offesa all’altrui reputazione, provveduto al pagamento in favore del danneggiato, quanto meno per le condotte colpose[52]. La vicenda dell’Unità è emblematica in tal senso [53].

Si rimane, così, ancora una volta, in attesa di un intervento prossimo del Parlamento, con l’aspettativa che i correttivi <<riequilibratori>> siano tesi, quantomeno, a scongiurare il rischio di amplificazione del cd. chilling effect.

[1] A volte per la ferma opposizione da parte dell’Ordine dei Giornalisti. Si pensi, ad esempio, alla sollevazione nell’ambito della campagna contro il disegno 925B[1], d’iniziativa parlamentare di Enrico Costa (poi divenuto S.1119B), il cui testo è reperibile in:  http://documenti.camera.it/leg17/dossier/Pdf/gi0055b.pdf.  Per avere un’idea si riporta una notizia apparsa su Repubblica: <<Nodiffamazione.it è l’indirizzo del sito web attraverso il quale un pugno di associazioni, giuristi e giornalisti ha lanciato una campagna di sensibilizzazione e di mobilitazione per fermare il disegno di legge 925­b che secondo i firmatari dell’appello #Meglioilcarcere rischia di zittire le denunce di giornali, siti e blog contro il malaffare e la corruzione (….)All’iniziativa, lanciata dall’associazione Articolo21, hanno via via aderito Libera Informazione, l’Associazione Nazionale Stampa Online (Anso), la Federazione Nazionale della Stampa (Fnsi) e il sindacato dei giornalisti Rai (Usigrai). Tra i firmatari più noti ci sono Stefano Rodotà, Milena Gabanelli, Marco Travaglio, Vauro, Lucia Annunziata e Liana Milella, oltre che alcuni giornalisti d’inchiesta più volte minacciati dalla mafia e per questo sotto scorta come Federica Angeli, Lirio Abbate e Giovanni Tizian. Anche Paolo Butturini dell’associazione Stampa romana, l’ex parlamentare Beppe Giulietti, il presidente di Casagit Daniele Cerrato ed Enzo Iacopino dell’Ordine dei giornalisti Rai hanno firmato l’appello>>. https://www.repubblica.it/tecnologia/2015/01/07/news/diffamazione_partita_la_campagna_di_mobilitazione_contro_la_legge-104480060/

[2] Le questioni sono state sollevate con due ordinanze: una del 9 aprile 2019, iscritta al n. 140 del r.o. 2019, emessa dal Tribunale ordinario di Salerno, sezione seconda penale; l’altra del 16 aprile 2019, iscritta al n. 149 del r.o. 2019, emessa dal Tribunale ordinario di Bari, sezione prima penale

[3] Analogamente a quanto avvenuto con l’ordinanza della Corte costituzionale 24.10.2018 n. 207, in tema di aiuto al suicidio.

[4] Comunicato dell’Ufficio Stampa della Corte Costituzionale, del 9 giugno 2020.

[5] Si segnalano, tra i tanti,  il disegno di legge n. 3176 del 2004, commentato da longo, La riforma del delitto di diffamazione tra esigenze punitive e cause di non punibilità, in Diritto penale e processo n. 12/2005, 1559 ss. Il testo approvato dalla Camera nell’ottobre del 2004 prevedeva come pena principale la multa e come pena accessoria, in caso in cui sussistesse l’aggravante del fatto determinato con il mezzo della stampa, l’interdizione temporanea dalla professione di giornalista; la cancellazione della riparazione pecuniaria, la riduzione ad un anno del termine di prescrizione dell’azione civile; la possibile condanna per lite temeraria; l’introduzione di un tetto massimo del danno non patrimoniale risarcibile. Per un’analisi più dettagliata, pezzella, La diffamazione, Utet, 2020, 426 ss. In data 13 maggio 2013 è stato presentato anche il disegno di legge Costa che riproduceva il testo del d.d.l. 3176, approvato dalla Camera dei Deputati, modificato dal Senato e nuovamente dalla Camera. Il disegno si è arenato nel 2017, all’esame della Commissione Giustizia del Senato. Per un commento gullo, La tela di Penelope. La riforma della diffamazione nel Testo unificato approvato dalla Camera il 24 giugno 2015, in Diritto Penale Contemporaneo 1/2016.

[6] L’articolo sanziona l’offesa recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516.

[7] L’articolo prevede, per la diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa non inferiore a lire 500.000 (pari a 258 euro).

[8] L’art. 57 c.p. in tema di omesso controllo da parte del direttore responsabile, prevede testualmente: <<salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo>>.

[9] In tal modo, si legge nell’atto, il giudice potrebbe verificare <<in concreto la sussistenza delle circostanze eccezionali in cui la gravità della condotta e dell’offesa che ne deriva giustifica l’irrogazione di una pena detentiva, lasciando così un adeguato spazio discrezionale utile per conformare la decisione giurisdizionale nazionale ai principi dell’ordinamento CEDU in materia>>.

[10] <<Unica voce contraria è quella di Nuvolone, ad avviso del quale il mezzo della stampa integrerebbe l’elemento costitutivo di un reato autonomo>>, così savani, Sub art. 595 in <<Op.cit.>>, 458.

[11] Cass. pen., Sez. V, 19.10.1989

[12]  Inoltre, come osservato dal Tribunale di Salerno, da un lato, quando <<la circostanza aggravante di cui all’art. 13 della legge n. 47 del 1948 operi da sola ovvero in concorso con altre circostanze aggravanti, il giudice dovrebbe comunque applicare la pena detentiva congiuntamente alla pena pecuniaria; dall’altro lato, in caso di concorso tra circostanze eterogenee, sarebbe rimesso alla discrezionalità del giudice l’eventuale giudizio di prevalenza o equivalenza delle circostanze attenuanti rispetto all’aggravante in parola>>.

[13] La Corte costituzionale riconosce tale diritto come <<inviolabile ai sensi dell’art. 2 Cost. (sentenze n. 37 del 2019, n. 379 del 1996, n. 86 del 1974 e n. 38 del 1973)>> e <<componente essenziale del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 della Convenzione (…) Un diritto, altresì, connesso a doppio filo con la stessa dignità della persona (sentenza n. 265 del 2014 e, nella giurisprudenza di legittimità, ex plurimis Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 28 ottobre 2010, n. 4938), e suscettibile di essere leso dalla diffusione di addebiti non veritieri o di rilievo esclusivamente privato>>. Si può osservare come la tutela costituzionale dell’onore sia implicita e trovi i propri addentellati nell’art. 3, che menziona <<la pari dignità sociale>> e nell’art. 2 della Costituzione, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Sul tema savani, Sub art. 595 in Lattanzi, Lupo, (a cura di ), Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, Volume VII, Giuffrè, 2015, 419. Per un approfondimento sul bene giuridico tutelato dal reato di diffamazione, siracusano, Ingiuria e diffamazione, (voce) in DDP pen, Volume VII, Utet, 2008, 32 e ss

[14] Infatti nel richiamare i doveri e le responsabilità sottese all’esercizio della libertà di opinione, si specifica che esso può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge, che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l’integrità territoriale o per la pubblica sicurezza, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario. Mentre l’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, vincolante dal 2009, recita: <<ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera>>.

[15] La tutela della libertà di stampa trova riscontro, oltre che in ambito interno e comunitario, anche a livello internazionale con gli artt. 1812 e 1913 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e gli artt. 18 e 19 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, siglato a New York il 19.12.1966.

[16] Quest’ultima, si ricorda,  assiste il giornalista quando siano rispettati i parametri della verità dei fatti narrati (anche nella forma putativa), della rilevanza pubblica della informazione e della continenza espressiva. Si tratta di criteri tra loro connessi, in quanto, ad esempio, non vi può essere interesse pubblico ad una notizia falsa, mentre gli strumenti espressivi utilizzati dai giornalisti possono incidere sulla verità della informazione, distorcendone il contenuto. Anche eventuali dubbi sulla esistenza della scriminante impongono, quando la prova sia insufficiente o contraddittoria, il proscioglimento, ai sensi dell’art. 530, comma 3, c.p.p. Per il dibattito circa la natura della scriminante si rinvia a pezzella, <<Op.cit.>>, Utet, 2020, 347 . Sulla configurabilità putativa della causa di giustificazione, ex multis, Cass. pen. Sez. V Sent., 18.04.2019, n. 21145, secondo cui la regola dettata dall’art. 59 c.p., comma 4, in riferimento all’esercizio del diritto di critica, può trovare applicazione anche nei casi di  ragionevole e giustificabile convinzione circa la veridicità dei fatti denunciati, lesivi dell’altrui reputazione (analogamente, Cass. pen. Sez. V, 20.03.2007, n. 27283 ; Cass. pen., Sez. II, 4.7.2007, n. 32859).

[17] Sul tema del bilanciamento degli interessi, gullo, Diffamazione e legittimazione dell’intervento penale. Contributo a una riforma dei delitti contro l’onore, Roma, 2013.

[18] La Corte, nell’ordinanza in commento, menziona espressamente il <<rischio che, per effetto della stessa pronuncia di illegittimità costituzionale, si creino lacune di tutela effettiva per i controinteressi in gioco, seppur essi stessi di centrale rilievo nell’ottica costituzionale>>.

[19] Anche in dottrina, si è sottolineato come si tratta di  <<bene costituzionale primario, pertinente – in tesi – a quei beni giuridici senza i quali l’uomo non può realizzarsi nelle forme minime esistenziali>>, così angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico,  Milano, Giuffrè, 1983, 14 ss., citato da siracusano, op.cit., 34. gullo, Delitti contro l’onore, in viganò, piergallini, (a cura di), Reati contro la persona e contro il patrimonio, Giappichelli, 2011, 129. Alla tutela dell’onore in ambito costituzionale  e internazionale, dedica ampio spazio pacileo, Reati contro la persona, in grosso, padovani, pagliaro (a cura di), Trattato di diritto penale, Parte Speciale, Tomo II, Giuffrè, 2016, 21 ss.  Sul concetto di onore, spasari, Diffamazione e ingiuria, in Enc. Dir., XII, Giuffrè, 1964, 482. Sul bene protetto dalla norma si segnala: fumo, La diffamazione mediatica, Utet, 2012, 7 ss.; pezzella, Op.cit, 6 ss; corrias lucente, Il diritto penale dei mezzi di comunicazione di massa, Cedam, 2000, 3 ss..

[20] Vi è poi un ulteriore profilo da prendere in considerazione. I primi due commi dell’art. 595 c.p. prevedono la reclusione, anche se alternativa alla multa; quindi l’eliminazione tout court della pena detentiva per l’art. 13 (come richiesto dal Tribunale di Bari) porrebbe una rilevante aporia a livello di sistema, per cui la fattispecie non aggravata verrebbe astrattamente sanzionata con la pena della reclusione (seppur alternativa e comunque non applicabile essendo di competenza del giudice di pace) mentre quella pluriaggravata no.

[21] Tra i soggetti intervenuti si segnala il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, ai sensi dell’art. 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, ammesso in quanto titolare di un interesse qualificato in relazione alla competenza disciplinare attribuitagli dall’art. 20, co. 1, lett. d) della l. 3 febbraio 1963, n. 69-La Federazione nazionale della stampa italiana, ha presentato un’opinione scritta in qualità di amicus curiae, così come il Sindacato cronisti romani presso l’Associazione Stampa Romana.

[22]C. eur. dir. Uomo, 6.12.2007, Katrami c. Grecia; C. eur. dir. Uomo, 24.9. 2013, Belpietro c. Italia; C. eur. dir. Uomo. 7.3. 2019, Sallusti c. Italia.

[23] C. eur. dir. uomo, 27.3. 1996, Goodwin c. Regno Unito, paragrafo 39.

[24]Così, C. eur. dir. Uomo, 24.9. 2013, Belpietro c. Italia. Il ricorrente, era chiamato a rispondere, quale direttore responsabile  del quotidiano <<Il Giornale>>, di un articolo a firma di altro giornalista, intitolato <<Mafia, tredici anni di scontri tra p.m. e carabinieri>>. Anche in tal caso, come in quello Sallusti, si tratta di una vicenda che vede coinvolta la magistratura. La Corte d’appello di Milano ritenne che intento dell’articolo fosse quello di denigrare la Procura di Palermo e che sarebbe stata necessaria una maggiore attenzione circa il controllo sulla veridicità di quanto sostenuto nell’articolo. Belpietro venne così condannato a quattro mesi di reclusione, pena sospesa, oltre al risarcimento del danno.

[25] C. eur. dir. Uomo, 7.3.2019, Sallusti c. Italia. La vicenda merita di essere brevemente riportata così come sintetizzata nel provvedimento mentovato: <<Il 17 febbraio 2007 uno dei principali giornali italiani, La Stampa, pubblicò un articolo riguardante la vicenda di una tredicenne che aveva abortito. L’articolo asseriva che la ragazza era stata costretta ad abortire dai genitori e da G.C., il giudice tutelare che aveva autorizzato la procedura. Il giorno stesso fu successivamente comunicato che non erano state esercitate pressioni sull’adolescente e che la stessa aveva deciso da sola di interrompere la gravidanza. Tale precisazione fu ampiamente diffusa da diverse fonti. Il 18 febbraio 2007 furono pubblicati due articoli su Libero concernenti gli avvenimenti relativi all’adolescente. Nonostante le precisazioni diffuse il giorno prima da altri mezzi di comunicazione, entrambi gli articoli riferivano che la ragazza era stata costretta ad abortire dai genitori e dal Giudice. Il primo articolo, scritto da una persona ignota utilizzando lo pseudonimo di <<Dreyfus>>, era intitolato <<Il giudice ordina l’aborto. La legge più forte della vita>>. Il secondo articolo, scritto dal giornalista A.M., era intitolato <<Costretta ad abortire dai genitori e dal giudice>>. Detta situazione si distingue dalle precedenti perché il giornalista ha effettivamente trascorso ventuno giorni di detenzione domiciliare prima dell’intervento del Presidente della Repubblica italiana, che ha convertito la pena in sanzione pecuniaria. La Corte, nel richiamare quanto già affermato nei precedenti arresti, ha nuovamente ribadito che le pene detentive possono essere compatibili con la libertà di espressione dei giornalisti <<soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza>>. La commutazione della pena, essendo misura soggetta al potere discrezionale del Presidente della Repubblica e che lascia intatti gli effetti penali della loro condanna non incide su tali principi. La conclusione è che la sanzione penale inflitta nel caso di specie è stata per natura e severità manifestamente sproporzionata al fine legittimo invocato. I tribunali interni hanno ecceduto quella che avrebbe costituito una <<necessaria>> restrizione della libertà di espressione del ricorrente. L’ingerenza non risultando <<necessaria in una società democratica>>, ha integrato una  violazione dell’articolo 10 della Convenzione. Il provvedimento è commentato da Conti, in Diritto penale e processo 1/2014, 122 ss. Si segnala, per un commento alla vicenda, pacileo, Contro la decriminalizzazione della diffamazione a mezzo stampa. Note a margine del <<caso Sallusti>>, in Diritto Penale Contemporaneo, 16 maggio 2013.

[26] La questione è sollevata con chiarezza dai giudici rimettenti. Il Tribunale di Salerno sul punto ritiene impossibile <<adottare un’interpretazione convenzionalmente orientata delle norme censurate, ritenendo soggette a pena detentiva <<esclusivamente le condotte diffamatorie a mezzo stampa che rivestano i caratteri dell’eccezionalità>>. Tale interpretazione si porrebbe infatti in contrasto con i principi di tassatività e determinatezza della fattispecie penale, corollari del principio di legalità di cui all’art. 25 Cost., che impedirebbero al giudice di integrare la norma incriminatrice con il requisito dell’eccezionalità>>, ricordando come  <<contorni e confini>>, debbano <<essere determinati puntualmente dal legislatore, cui spetta in via esclusiva il potere di legiferare in materia penale>>.  Il Tribunale di Bari rileva come non <<sarebbe praticabile un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata, che considerasse irrogabile la pena detentiva in relazione alle sole condotte diffamatorie concretantisi in incitazione all’odio, alla discriminazione o alla violenza: una simile opzione ermeneutica, >>creativa e arbitraria, slegata dal dato letterale, ed esorbitante rispetto alla funzione giurisdizionale>> risulterebbe infatti contraria al principio di legalità e lesiva degli artt. 25 e 101 Cost>>.

[27] Si segnala C. eur. dir. uomo, sez. V, 3 ottobre 2019, Pastörs c. Germania, in cui la Corte ha ritenuto che non vi fosse violazione dell’art. 10 della Convenzione, nell’applicazione della pena detentiva in una ipotesi di negazionismo.

[28] C. eur. dir. Uomo, 16.1.2020, M. Eb c. Italia. Il caso riguardava la condanna di due giornalisti a versare alle parti civili la somma provvisionale di 120.000 EUR a titolo di risarcimento danni, oltre alle spese per un importo di 33.500 EUR per tre gradi di giudizio, con rinvio dinanzi al giudice civile ai fini della determinazione esatta del pregiudizio morale subito dalle parti civili.

[29] C. eur. dir. Uomo,  31.05.2016, N. c. Russia.

[30] Cass. Pen., Sez. V, 10.7.2019, n. 38721.

[31] Seppur auspicata dal rappresentante dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) neanche una vera e propria depenalizzazione, neanche presa in considerazione dalla Consulta, garantirebbe meglio la libertà di stampa.  In sede civile le richieste di risarcimento sono spesso di elevatissimo (a volte irragionevole) importo. La riforma del 2009, in tema di lite temeraria, non si è dimostrata adeguata ad arginare il fenomeno. La questione  dell’accantonamento in bilancio dei costi prevedibili derivanti dai processi costituisce, per i giornali, un problema reale. Il tema è affrontato da DI PIETRO, Diffamazione. Chiedi danni milionari e sbilanci l’editore, in Ossigeno per l’informazione , reperibile su https://www.flamminiiminuto-chiocci.it/public/pubblicazioni/Diffamazione._Chiedi_danni_milionari_e_sbilanci_l’editore.pdf. Sotto quest’ottica ben vengano provvedimenti volti ad incidere sulle querele aventi scopi intimidatori. Diversa è poi anche l’estensione del danno risarcibile, potendosi configurare un danno ingiusto anche in caso di responsabilità colposa, ai sensi dell’art. 2043 c.c., cosa ovviamente non prefigurabile in sede penale. Sul tema della depenalizzazione, Corrias lucente, in <<op.cit.>> 12-13, critica l’orientamento che riteneva preferibile  una tutela di carattere esclusivamente civilistico, a fronte della <<inafferrabilità del bene giuridico>>.

[32] S.812 – Sen. Giacomo Caliendo (FI-BP), Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale, al codice di procedura penale, al codice di procedura civile e al codice civile, in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante nonché di segreto professionale, e disposizioni a tutela del soggetto diffamato, presentato al Senato il 20 settembre 2018, in stato di relazione il 7 luglio 2020; C.416 On. Walter Verini (PD) e altri, Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale, al codice di procedura penale e alla legge 3 febbraio 1963, n. 69, in materia di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di contrasto delle liti temerarie, di segreto professionale e di istituzione del Giurì per la correttezza dell’informazione, presentato alla Camera il 27 marzo 2018, assegnato il 28 settembre 2018; C.1700, On. Mirella Liuzzi (M5S) e altri, Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale e al codice di procedura civile in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione e di condanna del querelante, 26 marzo 2019: Presentato alla Camera il 26 marzo 2019, assegnato il 5 luglio 2019;

[33] Sulle implicazioni si rinvia a Zencovich, La pretesa estensione alla telematica del regime della stampa, Dir. inform. e informatica, 1998, 1; Bacchini, Il sequestro di un forum on line: l’applicazione della legge sulla stampa tutelerebbe la libertà di manifestazione di pensiero in internet?, in  Dir. inform. e informatica, 2009, 3, 526 ss.

Si segnala il recente orientamento giurisprudenziale, secondo cui: <<un quotidiano o un periodico telematico è strutturato come un vero e proprio giornale tradizionale, con una sua organizzazione redazionale e un direttore responsabile (spesso coincidenti con quelli della pubblicazione cartacea), non potendo, per converso, paragonarsi ai siti web innanzi citati, in cui chiunque può inserire dei contenuti, ed assumendo, invece, una sua peculiare connotazione, funzionalmente coincidente con quella del giornale tradizionale. Ne consegue che appare incongruente, sul piano della ragionevolezza, ritenere che non soggiaccia alla stessa disciplina prevista per quest’ultimo>> (Cass. pen. Sez. V Sent., 23.10.2018, n. 1275. a Corte ha così ritenuto applicabile l’art 57 c.p. al direttore responsabile di un periodico on line); alla stessa conclusione, per le testate telematiche, Cass. pen. Sez. V Sent., 19.2.2018, n. 16751. Sul tema, anche Cass. pen., S.U. 29.1.2015, n. 31022, per cui <<il giornale telematico, sia se riproduzione di quello cartaceo, sia se unica e autonoma fonte di informazione professionale, soggiace alla normativa sulla stampa, perchè ontologicamente e funzionalmente è assimilabile alla pubblicazione cartacea>>. In precedenza, si segnala l’orientamento contrario Cass. pen. Sez. V Sent., 05.11. 2013, n. 10594 che definiva arbitraria l’assimilazione tra stampa e telematica; Cass. pen. Sez. V, Sent., 28.10.2011, n. 44126; Cass. pen. Sez. V Sent., 16.7.2010, n. 35511.

[34] Così il disegno legge proposto il 28 settembre 2018 dal senatore Giacomo Caliendo, approvato a giugno dalla Commissione. Analoghe previsioni, in termini di pena pecuniaria, sono recepite nella proposta di legge d’iniziativa del deputato Verini (A.C. 416) e delle deputate Liuzzi e Businarolo, presentata alla Camera col n. 1700, il 26 marzo 2019.

[35]In passato, il d.d.l. Costa[35] (D.d.l. C 925),  approvato in prima lettura dalla Camera il 17 ottobre 2013, , aveva addirittura previsto, in caso di diffamazione a mezzo stampa, in caso di offesa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato falso, la cui diffusione fosse avvenuta con la consapevolezza della sua falsità, l’applicazione della pena della multa da 20.000 euro a 60.000 euro.

[36] Tale “parametro” è stato in più occasioni richiamato proprio dalla Corte Edu, si segnalano C. eur. dir. Uomo, 17.7.2008, Riolo c. Italia; C. eur. dir. Uomo, 19.4.2011, Kasabova c. Bulgaria; C. eur. dir. Uomo, 22.11.2011, Koprivica c. Montenegro. Quanto al reddito medio dei giornalisti sulla base delle dichiarazioni pervenute all’Inpgi nel 2016, i redditi medi dei giornalisti liberi professionisti sono stati pari a 13.918 euro, la fonte del dato è stata reperita

[37] Nella proposta A.C. 416 sarebbe invece prevista la pena della multa fino a 10.000 euro, per la diffamazione a mezzo stampa o della radiotelevisione (non figurano le testate giornalistiche telematiche).

[38] Anche tale previsione è contemplata nel d.d.l. Caliendo.

[39] Ordinamento della professione di giornalista, l. 3.04.1963, n. 69.

[40] La competenza è attualmente del Consiglio Territoriale di Disciplina, in quanto il decreto legge n.138 del 13 agosto 2011, convertito con la legge n. 148 del 14 settembre 2011, ha previsto la suddivisione tra funzioni amministrative e funzioni disciplinari per le istituzioni ordinistiche.

[41] Va, all’uopo, ricordato che la sentenza Cumpănă e Mazăre contro Romania include tra le pene da espungere dagli ordinamenti non solo quelle <<detentive>> ma anche quelle <<che comportano il divieto di esercitare una professione>>.

[42] Sul punto si richiama l’art. 1 co. 1, lett. B) del d.d.l. Caliendo.

[43] Tale è il testo del d.d.l. Caliendo.

[44] Nonché a qualche significativa vicenda giudiziaria come, ad esempio quella di Guareschi, nel 1954 o a quella che ha visto come protagonisti Scalfari e Jannuzzi, condannati in primo grado dal Tribunale di Roma, a diciassette e sedici mesi di reclusione.

[45] Si ricordi che la stessa Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il ricorso alla reclusione nelle sentenze, Sez. V, Sent.,11.12.2013, n. 12203 e  Sez. V, 10.7.2019, n. 38721, cit. Sotto tale profilo si segnala come il Tribunale di Salerno abbia ritenuto: che <<le norme censurate vanificherebbero, infine, la funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., attesa la <<inidoneità della minacciata sanzione detentiva a garantire il pieno rispetto della funzione generalpreventiva e specialpreventiva della pena stessa>>. Ciò in quanto detta sanzione, essendo sproporzionata al metro della giurisprudenza della Corte EDU, risulterebbe in concreto inapplicabile e, quindi, inidonea a orientare la condotta sia della generalità dei consociati, sia del singolo giornalista>>.

[46] Il caso Sallusti è emblematico di tale divergenza di opinioni.

[47] La proposta Verini , così come il d.d.l. Caliendo prevedono l’introduzione, dopo il comma 3 dell’articolo 427 c.p.p., di un comma 3 bis. Il giudice, nel pronunciare sentenza perché il fatto non sussiste o l’imputato non l’ha commesso, se risulti la temerarietà della querela, su richiesta dell’imputato, può condannare il querelante, oltre a quanto già previsto dall’articolo, al pagamento di una somma da determinare in via equitativa. Mentre l’art. 4 della proposta Verini prevede  l’introduzione di un comma 3 bis che prevede la possibilità di condannare il querelante al pagamento di una somma da 1.000 a 10.000 euro in favore della cassa ammende. Tuttavia, l’art. 7 prevede che nei giudizi promossi per il risarcimento del danno alla persona, anche mediante costituzione di parte civile nel processo penale, il giudice, con il provvedimento che rigetta la domanda, condanni la parte che risulti avere agito con dolo o colpa grave al pagamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma di importo non inferiore al 5 per cento e non superiore al 10 per cento del valore della domanda; con il limite massimo di 30.000 euro. Mentre la modifica all’art. 96 c.p.c., nel d.d.l. Caliendo formula previsioni analoghe, ma con facoltà del giudice civile di condannare in tali casi il richiedente ad una somma determinata in via equitativa.

[48] Si segnala il d.d.l. n. 835, Disposizioni in materia di lite temeraria, nuovamente assegnato alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente il 2 luglio 2019

[49] Il d.d. Caliendo prevede: “dopo l’articolo 11 è inserito il seguente:<<Art. 11-bis.–(Risarcimento del danno).–1. Nella determinazione del danno derivante da diffamazione commessa con il mezzo della stampa o della radiotelevisione, il giudice tiene conto della diffusione quantitativa e della rilevanza nazionale o locale del mezzo di comunicazione usato per compiere il reato, della gravità dell’offesa, nonché dell’effetto riparatorio della pubblicazione e della diffusione della rettifica>>.

[50] Anche se si registra un orientamento contrario in seno alla Quinta Sezione della Corte, secondo cui la persona offesa può richiedere la riparazione anche al direttore responsabile del delitto di omesso controllo (Cass. Pen. Sez. V, 15 marzo 2002, n. 15154).

[51] Sul tema, rafaraci, Segreto del giornalista e processo penale, in CP, 1991, 924. Anche tale modifica è contemplata nel d.d.l. Caliendo.

[52] L’art. 7 del d.d.l. Caliendo prevede in tal senso l’introduzione del n. 5 quater all’articolo 2751 bis.

[53] In:  https://www.articolo21.org/2018/10/il-caso-concita-de-gregorio-2-a-processo-da-10-anni/.

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