Sommario: 1. L’estensione dell’ambito di operatività delle operazioni sotto copertura ad opera della legge “spazza corrotti”. – 2. Efficienza investigativa vs rispetto delle garanzie. – 3. Le operazioni sotto copertura nei procedimenti P.A.: le criticità.
- L’estensione dell’ambito di operatività delle operazioni sotto copertura ad opera della legge “spazza corrotti”.
La recente legge 9 gennaio 2019, n. 3, rubricata “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”, e battezzata da giuristi e giornalisti come legge “spazza corrotti”[1] ha senza alcun dubbio fornito “nuova linfa” allo strumento investigativo delle attività sotto copertura poste in essere dagli agenti infiltrati, ampliando significativamente l’ambito di operatività di queste ultime.
Ideate e sperimentate con riferimento a settori criminali diversi, caratterizzati abitualmente da una forte connotazione organizzativa, le operazioni cd. undercover costituiscono già da tempo un validissimo ed efficace strumento investigativo volto a contrastare alcune forme di criminalità particolarmente gravi, come quella del traffico di stupefacenti.[2] Ora, per effetto del recente intervento normativo, tali operazioni sono consentite anche in procedimenti aventi ad oggetto alcuni dei più gravi reati contro la pubblica amministrazione.
L’ampliamento dell’elenco tassativo delle attività per le quali è ammesso il ricorso alle operazioni undercover[3] è avvenuto apportando alcune modifiche alla lettera a) del comma 1 dell’art. 9 della legge 16 marzo 2006, n. 146, secondo due modalità: 1) innanzitutto, inserendo all’interno del catalogo dei delitti per cui è consentito il ricorso alle speciali tecniche investigative anche i reati previsti dagli articoli “317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater, primo comma, 320, 321, 322, 322 bis, 346 bis, 353, 353 bis” del codice penale; 2) in secondo luogo, ampliando il novero delle condotte scriminate, in modo da includervi quelle che, pur integrando le fattispecie tipiche di alcuni reati contro la pubblica amministrazione richiamati, possono essere tenute da agenti sotto copertura. Così, non è punibile la condotta dell’agente sotto copertura che consista nell’acquisto, ricezione, sostituzione o occultamento anche di “altra utilità” oltre che (come già previsto dalla norma previgente) di denaro, armi, documenti, sostanze stupefacenti o psicotrope. Le medesime attività sono consentite in relazione a beni o cose che possono consistere anche nel “prezzo” (e non più solo nell’oggetto, prodotto, profitto, o mezzo per commettere il reato), nonché in relazione all’accettazione dell’offerta o la promessa dello stesso. Rientrano nel novero delle condotte scriminate anche la corresponsione di denaro o altra utilità in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri; analogamente la promessa o la dazione di denaro o altra utilità che siano richiesti da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio o siano sollecitati come prezzo della mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio o per remunerare lo stesso.
In definitiva, si tratta di una causa di giustificazione riconosciuta in favore dell’agente che svolge attività sotto copertura quando vengano rispettati i requisiti posti dalla norma: l’operazione deve essere disposta dagli agenti di vertice delle forze dell’ordine; gli agenti sotto copertura devono avere la qualifica di ufficiali e devono appartenere alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia[4]; le operazioni devono essere disposte al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai reati elencati; sono scriminate le sole condotte tassativamente previste dalla norma; l’organo che dispone l’esecuzione delle operazioni deve dare preventiva comunicazione al pubblico ministero competente per le indagini.[5]
- Efficienza investigativa vs rispetto delle garanzie.
Ciò che appare di immediata percezione è che attraverso le indagini sotto copertura viene concessa agli organi inquirenti la possibilità di proseguire l’investigazione nel corso dell’infiltrazione pianificata, così da attendere che il reato venga perpetrato, raccogliere elementi probatori ed eventualmente scoprire i diversi soggetti coinvolti. Lo scopo dell’agente infiltrato, quindi, è quello di raccogliere una serie di prove al fine di disvelare un sistema di corruttele radicate e persistenti in contesti amministrativi o imprenditoriali inquinati da mercanteggiamenti sistematici dei pubblici poteri, da collusioni endemiche tra operatori economici apparentemente concorrenti, o comunque da prassi illegali diffuse ed inveterate.[6]
Due i vincoli internazionali imposti al legislatore nel codificare la figura dell’agente sotto copertura nell’ambito delle indagini aventi ad oggetto i reati contro la pubblica amministrazione: il primo di segno “positivo” consistente nell’esigenza di introdurre tecniche investigative speciali allo scopo di contrastare il fenomeno della corruzione;[7] il secondo di segno “negativo”, insito nella necessità di rispettare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che – nell’interpretazione della Corte Edu – è stata reiteratamente giudicata incompatibile con forme di vera e propria istigazione – nella ristretta accezione di determinazione alla commissione di un reato – per acquisire o far acquisire la prova del comportamento del colpevole.[8]
In particolare, la Corte di Strasburgo ha censurato l’indiscriminato ricorso a forme di istigazione ed induzione alla commissione di fatti penalmente illeciti da parte degli organi investigativi, individuando le differenze che intercorrono tra l’agente infiltrato e l’agente provocatore. Proprio perché spesso in passato le due figure sono state impropriamente sovrapposte, la Corte Edu ha tenuto a chiarire che per agente infiltrato deve intendersi il soggetto che, appartenendo alle forze di polizia o collaborando formalmente con esse, agisce nell’ambito di un’indagine preliminare ufficiale di cui le autorità sono al corrente, in presenza di plausibili sospetti a carico di un soggetto circa l’imminente commissione di un reato. Tale soggetto, dunque, nell’espletamento delle sue attività investigative, non si spinge a determinare attivamente condotte criminose altrui che, senza la sua azione, non avrebbero avuto luogo ma si limita ad un’opera passiva di osservazione e contenimento.
Diversa è la figura dell’agente provocatore che, all’interno o all’esterno di una missione ufficialmente autorizzata e documentata, pone in essere una condotta attiva di istigazione, induzione o ideazione o esecuzione di uno o più fatti penalmente illeciti, che senza il suo intervento non si sarebbero mai verificati nella realtà ontologica.[9]
Da queste prime battute, già si comprende che per acquisire e utilizzare ai fini della decisione tali prove, è essenziale che l’operato dell’agente undercover si ponga in perfetta sintonia con quanto previsto dalla legge e sia conforme ai principi (peraltro, ora piuttosto granitici) affermati in questi anni dalla corte di cassazione e da quella di Strasburgo in tema di operazioni sotto copertura. Una precisazione sul punto, appare comunque doverosa: anche se tali pronunce fanno riferimento ad attività investigative poste in essere per lo più nei procedimenti di traffico di stupefacenti, non vi è ragione di ritenere che i medesimi principi non debbano trovare piena attuazione anche nel settore della pubblica amministrazione.
Occorre cioè operare un bilanciamento di interessi: da un lato, provare a potenziare la capacità investigativa degli inquirenti sui quali grava il peso di costruire un solido compendio probatorio per ottenere la condanna dell’imputato, e dall’altro, assicurare che le condotte degli agenti sotto copertura si pongano in linea con i principi fondamentali del nostro ordinamento. Ciò è, peraltro, inevitabile in un sistema come il nostro in cui la finalità cognitiva e l’accertamento della responsabilità devono essere contemperate alla garanzia dei diritti fondamentali del soggetto che subisce direttamente e personalmente la pretesa punitiva dello Stato.[10] A conferma di tale impostazione anche il fatto che la stessa Corte di Strasburgo sembra aver mutato la visione del diritto penale: da strumento finalizzato alla difesa della società, ma potenzialmente in grado di pregiudicare i diritti fondamentali dell’individuo destinatario della norma incriminatrice, a strumento attraverso il quale tutelare i diritti fondamentali dell’individuo.
- Le operazioni sotto copertura nei procedimenti P.A.: le criticità.
Senza indugiare sull’opportunità politica dell’inserimento dei reati contro la pubblica amministrazione nel novero delle fattispecie per le quali il ricorso alle operazioni sotto copertura è legittimo[11], una prima criticità sorge in ordine alla compatibilità ontologica e strutturale di tale strumento investigativo rispetto ai reati dei pubblici ufficiali.
Mentre le operazioni undercover sono certamente congeniali alle indagini aventi ad oggetto reati associativi, ove la funzione dell’agente infiltrato è quella di penetrare nei ranghi di un’organizzazione criminale preesistente, con l’obiettivo di individuare i concorrenti nel reato e raccogliere materiale probatorio utile alla loro imputazione, il tutto dall’interno del sodalizio, il discorso si prospetta in termini diversi per i fenomeni di corruttela inerenti ai pubblici uffici in quanto le suddette condizioni sembrano difficilmente verificabili, considerata la natura di reati nella quasi totalità dei casi connotati da una struttura bilaterale e dalla stretta comunanza di interessi illeciti dei soggetti che vi concorrono.
Al contempo, un impiego di tale strumento può certamente ipotizzarsi nelle attività di contrasto ai reati che presuppongono lo svolgimento delle condotte tipicamente strumentali a fenomeni corruttivi: dare, promettere, corrispondere, ricevere, accettare denaro o altre utilità. In alcuni casi si profila, invece, uno “scollamento” fra le condotte descritte nelle fattispecie incriminatrici su cui l’agente undercover può indagare e le azioni che gli sono permesse. Così, a titolo esemplificativo, nei casi in cui il reato di turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.), per cui il ricorso alle operazioni sotto copertura è ammesso, si consumi con “violenza” o “minaccia”, “collusioni o altri mezzi fraudolenti”, attività non rientranti nel catalogo delle condotte scriminante. Tali limiti comportano una verosimile riduzione dell’ambito di operatività delle indagini undercover nella ricerca delle prove inerenti a reati contro la pubblica amministrazione, sì da far dubitare della effettiva utilità dell’ampliata possibilità di ricorso allo strumento investigativo.
Una seconda criticità concerne la veste che l’agente infiltrato assume nel procedimento penale relativo ai fatti rispetto ai quali è chiamato a rendere dichiarazioni.
Come facilmente intuibile, questi potrà assumere tanto la veste di testimone quanto quella di imputato (o coimputato), a seconda che egli abbia rispettato o meno i limiti imposti dalla legge. La questione è particolarmente delicata perché si riverbera, evidentemente, anche sul regime di ammissibilità delle suddette dichiarazioni e di utilizzabilità degli elementi probatori acquisiti. Ove le operazioni siano state svolte legittimamente e l’operato dell’agente sia ineccepibile, sarà senz’altro inapplicabile il disposto degli artt. 210 e 192, commi 3 e 4, c.p.p. In tal caso, l’agente assume, la veste di teste “semplice”, con una significativa peculiarità: l’agente undercover in forza del rinvio all’art. 9 l. 16 marzo 2006, n. 146 contenuto nell’art. 497, co. 2 bis, c.p.p. rende deposizione in forma anonima. Sebbene il dato normativo sia inequivoco, parte della dottrina ha manifestato delle perplessità sulla disciplina della testimonianza anonima dell’infiltrato a causa della sua genericità e vaghezza, criticando, in particolare, la mancata esplicitazione della sua natura eccezionale. Si ritiene, infatti, che essa dovrebbe essere disposta solo in casi strettamente necessari, valutati in concreto dal giudice procedente, rifuggendo da ogni tipo di presunzione.[12]
Laddove, invece, l’agente travalichi i limiti della infiltrazione, trasmodando nell’illegittima provocazione, ne consegue la inutilizzabilità, ai sensi dell’art. 191 c.p.p., di tutti gli atti di indagine raccolti, nonché l’illiceità di quelle condotte tenute dall’agente che travalichino i limiti di quelle permesse dalla legge.
Muovendo da una ricostruzione della disciplina che si è delineata nell’ambito della giurisprudenza interna e di quella sovranazionale, è ormai pacifico che debba considerarsi in contrasto con i principi dell’equo processo (cd. fair trial) il procedimento penale relativo ad un reato che sia conseguenza della “provocazione” operata dalle forze di polizia, quando manchino elementi per ritenere che senza interventi esterni il delitto sarebbe stato ugualmente commesso.[13]
Più specificamente, per i giudici di legittimità, l’induzione e l’incitamento al reato determinano non solo la responsabilità penale dell’agente, ma l’inutilizzabilità della prova acquisita – anche in assenza di uno specifico divieto probatorio posto da norme processuali – per contrarietà ai principi del giusto processo e rende l’intero procedimento suscettibile di un giudizio di non equità ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.[14] In tale prospettiva, al giudice è chiesto, da un lato, di valutare le modalità della condotta dell’agente infiltrato (se idonee a istigare l’imputato a commettere un reato che altrimenti non sarebbe stato realizzato) e, dall’altro, di saggiare l’autonomia ed incontrovertibilità degli ulteriori elementi di convincimento rilevanti per l’accertamento della penale responsabilità.
Del medesimo avviso, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[15] la quale ha ritenuto compatibile con i principi della Convenzione solo l’operato dell’agente infiltrato e non anche l’operato dell’agente provocatore.[16] Secondo i giudici sovranazionali, infatti, l’agente provocatore che entri in contatto con soggetti la cui predisposizione al crimine non risulti da elementi oggettivi, proponendo la commissione di reati al solo scopo di procedere all’arresto, genera elementi di iniquità processuale. Il principio affermato è piuttosto chiaro: l’interesse pubblico alla repressione e alla prevenzione del crimine non può giustificare l’utilizzazione di materiale probatorio ottenuto in conseguenza di una provocazione al reato esercitata dalle forze di polizia, le quali possono unirsi ad una attività delittuosa già avviata ma non iniziarla o provocarla.[17] Diversamente ragionando, si esporrebbe l’imputato al rischio di essere definitivamente privato, sin dall’inizio, del suo sacrosanto diritto ad un “giusto processo”.
In chiave di sintesi, quindi, la Corte europea riconosce ed averte in pieno la necessità investigativa di operazioni speciali al fine di contrastare fenomeni criminali come la criminalità organizzata o la corruzione ma ritiene, allo stesso tempo, che il diritto ad una amministrazione “fair” della giustizia non possa mai essere pretermesso per ragioni utilitaristiche. Innanzitutto, il materiale probatorio ottenuto in conseguenza di una provocazione al reato esercitata dalle forze di polizia non è utilizzabile ed, in secondo luogo, gli agenti infiltrati possono unirsi ad una attività delittuosa già avviata ma non iniziarla o provocarla (investigazione essenzialmente passiva dell’attività criminale sospetta).[18]
Una conclusione di questo tipo, oltre a porsi in perfetta sintonia con le pronunce delle nostre corti, trova pieno conforto anche nel principio secondo cui le prove acquisite con modalità lesive dei diritti fondamentali del cittadino sono inutilizzabili;[19] tra queste si collocano senz’altro quelle formatesi nell’ambito di operazioni sotto copertura che abbiano determinato la perpetrazione di un reato ad opera di un soggetto che altrimenti non se ne sarebbe reso autore. Sono invece fatti salvi i diritti fondamentali nella ipotesi in cui la responsabilità penale dell’imputato sia stata accertata sulla base di elementi di prova autonomi e diversi rispetto a quelli riconducibili all’attività di provocazione al reato.
Ulteriori aspetti importanti concernono le modalità di assunzione della deposizione dell’agente infiltrato. La giurisprudenza ha, innanzitutto, precisato che nel caso in cui l’agente non abbia assunto la qualità di persona indagata, è tenuto a rendere deposizione in ordine ai fatti appresi durante le operazioni sotto copertura, non essendo applicabile il limite previsto dall’art. 62 c.p.p., relativo al divieto di testimonianza circa le dichiarazioni rese dall’indagato o dall’imputato nel corso del procedimento, posto che tale divieto opera con riferimento alle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria in quanto conosciuta dal dichiarante come tale e non anche ad indicazioni fornite prima ed al di fuori del procedimento penale; queste ultime possono formare oggetto di deposizione, inerente il fatto storico delle confidenze provenienti dal (futuro) indagato o imputato e possono essere liberamente valutate ed utilizzate dal giudice.[20]
Per quanto attiene alle possibili confidenze autoindizianti, è stato chiarito che alle dichiarazioni dell’agente provocatore non può trovare applicazione neanche il limite di utilizzabilità previsto dal capoverso dell’art. 63 c.p.p., poiché non si tratta di dichiarazioni rese nel corso di un esame o di assunzione di informazioni in senso proprio e tali dichiarazioni non costituiscono la rappresentazione di eventi già accaduti o la descrizione di una precedente condotta delittuosa, ma, inserendosi invece in un contesto commissivo, realizzano con esse la stessa condotta materiale del reato (nel caso dell’agente provocatore non punibile per legge).[21]
Inapplicabile anche il divieto di testimonianza indiretta di cui all’art. 195, comma 4, c.p.p., che risulta espressamente circoscritto alle dichiarazioni raccolte dalla polizia giudiziaria ai sensi degli artt. 351 e 357, comma 2, lett. a), b) c.p.p.[22] L’agente infiltrato, quindi, si trova nelle condizioni di poter riferire al giudice circa il contenuto delle confidenze informali raccolte nel corso delle operazioni, perché rispetto ad esse è intervenuto non in veste di ufficiale di polizia giudiziaria, con i poteri propri della sua funzione pubblica, compresi quelli sulla redazione degli atti, bensì come partecipante all’azione e, dunque, come soggetto che ha acquisito una conoscenza sui fatti storici caduti sotto la sua diretta percezione.[23]
Particolarmente critica è anche la ipotesi di sequestro del corpo di reato o delle cose pertinenti al reato operato sulla base delle risultanze di un’attività sotto copertura di cui venga riconosciuto il superamento dei limiti imposti dalla legge. Un primo orientamento, emerso in materia di contrasto al traffico di sostanze stupefacenti, ritiene tale sequestro come legittimo e utilizzabile come prova, in virtù del principio “male captum bene retentum”, sicché l’antigiuridicità della ricerca non inciderebbe sulla liceità del sequestro. In senso opposto depone un filone giurisprudenziale emerso nell’ambito del contrasto alla pedopornografia, a tenore del quale l’eventuale sequestro probatorio del materiale pedopornografico è illegittimo in quanto non può fondarsi la sussistenza del fumus delicti su di un risultato investigativo inutilizzabile.
Ultima criticità, su cui si è pronunciata anche la giurisprudenza di legittimità, attiene alla mera inosservanza da parte degli ufficiali incaricati della procedura prevista dalle singole normative speciali. Sul punto si è affermato che tale violazione può dar luogo ad una eventuale fonte di responsabilità disciplinare che non va ad incidere sulla loro capacità a rendere testimonianza.[24] È il caso, tanto per fare un esempio, della inosservanza dell’obbligo di immediata comunicazione all’autorità giudiziaria, la quale appunto non influisce direttamente sull’operatività della causa di giustificazione speciale. Si tratta di un orientamento che desta qualche perplessità perché la prova che scaturisce dalle attività sotto copertura dovrebbe essere rispettosa di un iter procedurale che passa inderogabilmente per l’autorizzazione e la documentazione delle operazioni, incluso il rispetto di precisi obblighi informativi. Si intende, cioè, evitare che mediante questa metodica speciale di indagine possano perpetrarsi veri e propri abusi.
Ciò posto, non può non rilevarsi la inadeguatezza della disciplina che regola il rapporto tra polizia giudiziaria e pubblico ministero nelle diverse fasi di attivazione, esecuzione e controllo dell’operazione. Da un lato, esiste un coordinamento e un controllo centralizzato di tutte le investigazioni sotto copertura ma, dall’altro, è anche vero che il comma 3 dell’art. 9 della legge n. 146 del 2006 si limita a richiedere che la loro esecuzione sia disposta dagli organismi di vertice delle singole forze di polizia, ovvero, su loro delega, dai rispettivi responsabili di livello almeno provinciale ed il percorso da seguire resta ampiamente indefinito. La legge del 2006 impone agli organi di vertice della polizia almeno una comunicazione preventiva (e non successiva) al pubblico ministero circa la operazione disposta (comma 4) ed altresì un obbligo di informarlo senza ritardo circa le modalità e i soggetti che partecipano all’operazione e dei risultati della stessa. Diversamente da quanto richiesto in materia di pedopornografia dall’art. 14, comma 1, della l. n. 269 del 1998, l’inizio dell’investigazione speciale non è assoggettata alla “previa autorizzazione all’autorità giudiziaria”. E, in una settore così delicato come quello della lotta alla corruzione, sarebbe stato forse opportuno riconoscere espressamente al magistrato inquirente la disponibilità e il pieno comando dell’operazione investigativa speciale sin dalla fase embrionale, così da evitare il rischio che siano gli organi di polizia, sotto il controllo del governo, a selezionare discrezionalmente i possibili bersagli. [25]
Non sembra difficile, peraltro, individuare le origini e le radici del problema; è sufficiente un passo indietro nel tempo e tornare al momento del varo del nostro codice di procedura penale, basta cioè andare a rivedere le scelte di fondo intraprese dal legislatore dell’88. Come noto, infatti, ad accompagnare la gestazione ed il parto del nuovo codice alcuni significativi slogan come “la prova si forma in dibattimento” o, ancora, “le indagini sono una fase che non conta e non pesa”. Facendo forse eccessivo affidamento su tale principio e nella ferma (ma purtroppo errata) convinzione che il dibattimento sarebbe stato il luogo dove far valere il sistema di garanzie sovraordinate, si è finito per lasciare sguarnita da regole e garanzie la fase delle indagini preliminari.
[1] Per una panoramica sulla riforma dei reati contro la pubblica amministrazione si vedano A.a., La legge anticorruzione 2019 (l. 9 gennaio 2019, n. 3), a cura di Della Ragione, in Il Penalista, 2019; Camon, Disegno di legge spazzacorrotti e processo penale. Osservazioni a prima lettura, in Arch. Pen., 3, 2018; Cantone-Milone, Prime riflessioni sulla nuova causa di non punibilità di cui all’art. 323 ter c.p., in Dir. Pen. Cont., n. 6, 2019, 5 ss.; Mongillo, La legge “spazzacorrotti”: ultimo approdo del diritto penale emergenziale nel cantiere permanente dell’anticorruzione, in Dir. Pen. Cont., 5, 2019, 231 ss.; Padovani, La spazzacorrotti. Riforma delle illusioni e illusioni della riforma, in Arch. Pen., 3, 2018; Pulitanò, Le cause di non punibilità dell’autore di corruzione e dell’infiltrato e la riforma dell’art. 4 bis, in Dir. Pen. e Proc., n. 5, 2019, 600 ss.
[2] L’art. 9, comma 1, lett. a), l. n. 146/2006 ha riunito e integrato, in un unico contesto normativo, le varie ipotesi di agenti sotto copertura sparse nei diversi settori normativi: delitti di liberticidio, favoreggiamento delle migrazioni illegali, riciclaggio, traffico di stupefacenti, terrorismo, criminalità organizzata ecc..
[3] Per l’approfondimento dell’evoluzione storica e della disciplina dell’istituto, si rinvia a g. amarelli, Le operazioni sotto copertura, in Aa.Vv. La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misure di prevenzione ed armi, a cura di V. Maiello, Torino, 2015. In merito alle novità introdotte dalla legge n. 3/2019 si veda g. ballo, Le operazioni sotto copertura, in La legge anticorruzione 2019, Il Penalista, a cura di l. della ragione, Giuffrè Francis Lefebvre, Varese 2019, pp. 54 e ss.
[4] Secondo l’art. 9 della legge n. 146/2006, legittimati attivamente a svolgere operazioni sotto copertura sono gli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia, nei limiti delle competenze di ciascuna struttura. Con riguardo al settore del terrorismo e dell’eversione, legittimati attivamente sono gli ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti agli organismi investigativi della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri specializzati nell’attività di contrasto al terrorismo e all’eversione e del Corpo della guardia di finanza competenti nelle attività di contrasto al finanziamento del terrorismo. La platea dei soggetti legittimati a partecipare ad operazioni sotto copertura, dunque potenzialmente idonea a fruire dello statuto di cui all’art. 9, si amplia, ai sensi del comma 5, ad agenti di polizia giudiziaria, ausiliari e interposte persone di cui i primi si avvalgano nello svolgimento delle operazioni. Vi sono limitazioni soggettive ed oggettive. Le prime legate alla qualità di ufficiale di polizia giudiziaria, appartenente a una struttura specializzata dei corpi di polizia giudiziaria. Le seconde legate al fatto che tali strutture devono agire nei limiti di loro competenza. Se non sorgono particolari problemi in ordine alla individuazione della qualità di ufficiale di p.g., non è agevole cogliere, massimamente con riferimento al settore della corruzione, quali siano le strutture specializzate che, operando nei limiti delle loro competenze, possano partecipare ad operazioni sotto copertura, soprattutto perché a livello nazionale non esistono strutture specializzate aventi una competenza autonoma nel settore in questione.
[5] Nel caso di attività antidroga, la preventiva comunicazione va fatta alla Direzione centrale per i servizi antidroga.
[6] Cfr. Mongillo, La legge “spazzacorrotti”: ultimo approdo del diritto penale emergenziale nel cantiere permanente dell’anticorruzione, in Dir. Pen. Cont., 5, 2019, 231 ss.
[7] Al riguardo, l’art. 50 della Convenzione ONU contro la corruzione del 2003 rubricato “Tecniche investigative speciali”, al primo comma recita: «1. Per combattere efficacemente la corruzione, ciascuno Stato, nei limiti consentiti dai principi fondamentali del proprio ordinamento giuridico interno, e conformemente alle condizioni stabilite dal proprio diritto interno, adotta le misure necessarie, con i propri mezzi, a consentire l’appropriato impiego da parte delle autorità competenti […] di altre tecniche speciali di investigazione, quali la sorveglianza elettronica o di altro tipo e le operazioni sotto copertura, entro il suo territorio, e a consentire l’ammissibilità in tribunale della prova così ottenuta». La norma segue, sul punto, le orme della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale (art. 20), e relativi Protocolli, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 e il 31 maggio 2001.
[8] Si veda Mongillo, La legge “spazzacorrotti”: ultimo approdo del diritto penale emergenziale nel cantiere permanente dell’anticorruzione, in Dir. Pen. Cont., 5, 2019, 231 ss.
[9] L’istituto dell’agente provocatore non era certo sconosciuto nei secoli precedenti, tanto che vi è chi sostiene come questa figura fosse già ben presente nell’antichità (Esopo, III, favola V, “Aesopus et petulans”) e possa persino essere fatta risalire sino alla “notte dei tempi” riportandola al momento della creazione del mondo stesso (cfr. Genesi, III, 1-7). In tal senso, Califano, L’agente provocatore, Milano, 1964, 9. Altri sono giunti ad affermare che da quando esiste l’ordinamento giuridico penale nel mondo, si trova sempre la figura dell’agente provocatore, precisando però come, sino al tempo del diritto romano – in cui i giuristi iniziarono ad interrogarsi circa la punibilità del provocatore –, l’istituto ebbe una scarsa rilevanza; cfr. Salama, L’agente provocatore, Milano, 1965, 2.
[10] Viganò, Obblighi convenzionali di tutela penale?, in La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, a cura di Manes e Zagrebelsky, Milano, 2011, 244.
[11] In senso critico, si vedano G. Gatta (Audizione delle commissioni riunite affari costituzionali e giustizia della Camera dei deputati, 19 ottobre 2018); V. Manes (Audizione del 19 ottobre 2018); M. Masucci (Audizione del 19 ottobre 2018); a.n.c.i., Osservazioni sul ddl recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione e in materia di trasparenza dei partiti e dei movimenti politici” (documento depositato nell’audizione del 15 ottobre 2018), p. 5.
[12] Molteplici sono le pronunce della Corte europea in tema di garanzie del contraddittorio in rapporto alla concessione dell’anonimato. Cfr., Corte eur. dir. uomo 20 novembre 1989, Kostovski c. Paesi; Corte eur. dir. uomo 26 marzo 1996, Doorson c. Paesi Bassi; Corte eur. dir. uomo 23 aprile 1997, Van Mechelen ed altri c. Paesi Bassi; Corte eur. dir. uomo, Sez. III, 14 febbraio 2002, Visser c. Paesi Bassi, in Cass. pen., 2003, 1969 ss., con nota di S. Maffei, Le testimonianze anonime nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo; Corte eur. dir. uomo, Sez. II, 28 marzo 2002, Biritus c. Lituania; Corte eur. dir. uomo, Sez. IV, 22 novembre 2005, Taal c. Estonia; Corte eur. dir. uomo, Sez. III, 28 febbraio 2006, Krasniki c. Repubblica Ceca, in Cass. pen., 2006, 3007 ss., con nota di A. Balsamo, Testimonianze anonime ed effettività delle garanzie sul terreno del “diritto vivente” nel processo di integrazione giuridica europea.
[13] Per opportuni spunti di riflessione sulla condotta dell’agente provocatore si vedano Cass. Pen., Sez. III, n. 21922 del 2013; Cass. Pen., Sez. III, n. 26763 del 2008; C. Edu, 21 febbraio 2008, Pyrgyotakis c. Grecia.
[14] Cass., Sez. III, 10 gennaio 2013, Leka, in Mass. Uff., n. 254174.
[15] C. Edu., 9 giugno 1998, Teixeira de Castro v. Portogallo, su cui si v. Vallini, Il caso “Teixeira de Castro” davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo ed il ruolo sistematico delle ipotesi legali di infiltrazione poliziesca, in Leg. Pen., 1999, 197 ss. In tale pronuncia, benché avente ad oggetto attività volte all’accertamento del traffico di stupefacenti, la Corte europea ha ritenuto contrastante con la clausola del “processo equo” (art. 6, par. 1, CEDU) la condanna di soggetti il cui intento criminoso, prima inesistente, sia sorto solo per il surrettizio atteggiamento induttivo di agenti delle forze dell’ordine; mentre, di contro, reputa legittima la prova raccolta nell’ambito di una attività di indagine ufficiale nei confronti di soggetti propensi a compiere il reato accertato.
[16] C. Edu., 21 marzo 2002, Calabrò c. Italia e Germania. Del resto, è risaputo che la giurisprudenza della Corte Edu, propende spesso per un modello universale di procedura penale sensibile ed attenta ai diritti dell’imputato da importare in tutte le giurisdizioni nazionali degli Stati membri del Consiglio d’Europa (in questa prospettiva, O. Mazza, Cedu e diritto interno, in I principi europei del processo penale, a cura di Gaito, Dike, 2016, 3 ss.).
[17] Hanno aderito a tale principio, ex multis, C. Edu, 4 novembre 2010, Bannikova c. Russia; C. Edu, 24 giugno 2008, Miliniene c. Lituania.
[18] Non vi è dubbio sul fatto che è obbligo della polizia perseguire i reati già commessi e non quello di suscitare azioni criminose al fine di arrestarne gli autori.
[19] Che le indagini debbano essere poste in essere nel pieno rispetto delle regole e dei diritti individuali della persona, emerge da tante pronunce della Corte di Strasburgo. Per esempio, al di là dello specifico ambito delle attività sotto copertura, in occasione del caso Jalloh c. Germania, caratterizzato dalla circostanza che l’acquisizione di prove a carico dell’indagato era stata raggiunta dagli organi inquirenti tramite la somministrazione di un emetico atto a provocare il rigurgito di sostanze stupefacenti che si sospettava il soggetto avesse ingerito, i giudici europei hanno ritenuto la condotta tenuta dalle autorità “non giustificata” dallo scopo di ottenere prove di colpevolezza dell’indagato. Più precisamente, la Corte di Strasburgo ha tenuto a chiarire, da una parte, che le attività poste in essere non apparivano in linea con i principi di necessità e proporzionalità e, dall’altra, che esistevano altri strumenti investigativi per il raggiungimento di quello scopo (in tal senso, Corte Edu, 11 luglio 2006, Jolloh c. Germania, § 75 ss.).
[20] Cass. Pen., sez. IV, 30 novembre 2004, Meta, 2005/6702; Cass. Pen., Sez. IV, 4 ottobre 2004, Biancoli, 2004/46556; Cass. Pen., Sez. IV, 29 maggio 2001, Tomassini, 2001/33561.
[21] Cass. Pen., Sez. VI, 16 marzo 2004, Benevento, 2004/37983.
[22] È il caso di ricordare che tale divieto posto a carico degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria ha per oggetto le dichiarazioni acquisite dai testimoni – da intendersi in senso non rigorosamente tecnico bensì alla stregua di persone informate sui fatti – con le modalità documentate in un verbale ex art. 351 (in tema di persone informate sui fatti, imputati in procedimento connesso o di reato collegato) e 357, comma 2, lett. a) e b), c.p.p. (verbali di denuncia, querela, istanza presentate oralmente, nonché sommarie informazioni rese e dichiarazioni spontanee ricevute dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini). La ratio del divieto è quella di evitare la vanificazione dell’esame del teste che, in fase di indagine, sia stato ascoltato dalla polizia giudiziaria, poiché l’eventuale deposizione di quest’ultima – sul contenuto di quanto percepito dal testimone – potrebbe prevalere sulla fonte di conoscenza diretta (in virtù della “presunzione di credibilità” del pubblico ufficiale che, si noti, svolge funzioni inquirenti nel medesimo procedimento). La deposizione è, inoltre, finalizzata ad evitare che il divieto di utilizzare atti (ripetibili) formati nel corso delle indagini preliminari venga aggirato tramite la deposizione della polizia giudiziaria sui fatti appresi dai testimoni.
[23] Sui fatti appresi dall’agente è ammissibile la testimonianza. Così, Cass. Pen., Sez. VI, 5 dicembre 2006, Ani, 2006/41730. Stesso principio è stato affermato da Cass. Pen., Sez. III, 2 febbraio-10 marzo 2017, n. 11572, rv. 269175. Anche nel caso sottoposto alla Terza Sezione l’agente infiltrato non aveva neppure testimoniato su dichiarazioni direttamente resegli dall’imputato ma si era limitato a riferire su un mero fatto storico avvenuto sotto la sua diretta percezione, quale la circostanza di avere assistito ad alcune affermazioni dell’imputato relative a possibili futuri acquisti di droga.
[24] Si vedano Cass. Pen., 30 agosto 1993, in Giur. it., 1994, II, 836; Cass. Pen., 10 aprile 1995, in Cass. pen., 1996, 2388, con nota di Amato, La definizione della posizione processuale dell’“agente provocatore”: riflessi sulla capacità a rendere testimonianza, ivi., 1996, 2392.
[25] Pur in assenza di una disposizione che espressamente richieda una previa autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria, si segnala tuttavia come la prassi oggi diffusa nel settore del terrorismo e del traffico di stupefacenti presenta soluzioni virtuose «coerenti con il sistema, nel senso che gli organi di polizia che svolgono le indagini propongono al pubblico ministero la speciale tecnica d’investigazione e, con il suo consenso, richiedono agli organi di vertice di disporre l’operazione», così regolamentando i rapporti tra polizia giudiziaria operante e pubblico ministero inquirente e inquadrando come atto meramente aggiuntivo l’autorizzazione degli organi di vertice della polizia giudiziaria.
Standard di garanzie ed indagini sotto copertura nei reati contro la P.A.
Sommario: 1. L’estensione dell’ambito di operatività delle operazioni sotto copertura ad opera della legge “spazza corrotti”. – 2. Efficienza investigativa vs rispetto delle garanzie. – 3. Le operazioni sotto copertura nei procedimenti P.A.: le criticità.
La recente legge 9 gennaio 2019, n. 3, rubricata “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”, e battezzata da giuristi e giornalisti come legge “spazza corrotti”[1] ha senza alcun dubbio fornito “nuova linfa” allo strumento investigativo delle attività sotto copertura poste in essere dagli agenti infiltrati, ampliando significativamente l’ambito di operatività di queste ultime.
Ideate e sperimentate con riferimento a settori criminali diversi, caratterizzati abitualmente da una forte connotazione organizzativa, le operazioni cd. undercover costituiscono già da tempo un validissimo ed efficace strumento investigativo volto a contrastare alcune forme di criminalità particolarmente gravi, come quella del traffico di stupefacenti.[2] Ora, per effetto del recente intervento normativo, tali operazioni sono consentite anche in procedimenti aventi ad oggetto alcuni dei più gravi reati contro la pubblica amministrazione.
L’ampliamento dell’elenco tassativo delle attività per le quali è ammesso il ricorso alle operazioni undercover[3] è avvenuto apportando alcune modifiche alla lettera a) del comma 1 dell’art. 9 della legge 16 marzo 2006, n. 146, secondo due modalità: 1) innanzitutto, inserendo all’interno del catalogo dei delitti per cui è consentito il ricorso alle speciali tecniche investigative anche i reati previsti dagli articoli “317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater, primo comma, 320, 321, 322, 322 bis, 346 bis, 353, 353 bis” del codice penale; 2) in secondo luogo, ampliando il novero delle condotte scriminate, in modo da includervi quelle che, pur integrando le fattispecie tipiche di alcuni reati contro la pubblica amministrazione richiamati, possono essere tenute da agenti sotto copertura. Così, non è punibile la condotta dell’agente sotto copertura che consista nell’acquisto, ricezione, sostituzione o occultamento anche di “altra utilità” oltre che (come già previsto dalla norma previgente) di denaro, armi, documenti, sostanze stupefacenti o psicotrope. Le medesime attività sono consentite in relazione a beni o cose che possono consistere anche nel “prezzo” (e non più solo nell’oggetto, prodotto, profitto, o mezzo per commettere il reato), nonché in relazione all’accettazione dell’offerta o la promessa dello stesso. Rientrano nel novero delle condotte scriminate anche la corresponsione di denaro o altra utilità in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri; analogamente la promessa o la dazione di denaro o altra utilità che siano richiesti da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio o siano sollecitati come prezzo della mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio o per remunerare lo stesso.
In definitiva, si tratta di una causa di giustificazione riconosciuta in favore dell’agente che svolge attività sotto copertura quando vengano rispettati i requisiti posti dalla norma: l’operazione deve essere disposta dagli agenti di vertice delle forze dell’ordine; gli agenti sotto copertura devono avere la qualifica di ufficiali e devono appartenere alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia[4]; le operazioni devono essere disposte al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai reati elencati; sono scriminate le sole condotte tassativamente previste dalla norma; l’organo che dispone l’esecuzione delle operazioni deve dare preventiva comunicazione al pubblico ministero competente per le indagini.[5]
Ciò che appare di immediata percezione è che attraverso le indagini sotto copertura viene concessa agli organi inquirenti la possibilità di proseguire l’investigazione nel corso dell’infiltrazione pianificata, così da attendere che il reato venga perpetrato, raccogliere elementi probatori ed eventualmente scoprire i diversi soggetti coinvolti. Lo scopo dell’agente infiltrato, quindi, è quello di raccogliere una serie di prove al fine di disvelare un sistema di corruttele radicate e persistenti in contesti amministrativi o imprenditoriali inquinati da mercanteggiamenti sistematici dei pubblici poteri, da collusioni endemiche tra operatori economici apparentemente concorrenti, o comunque da prassi illegali diffuse ed inveterate.[6]
Due i vincoli internazionali imposti al legislatore nel codificare la figura dell’agente sotto copertura nell’ambito delle indagini aventi ad oggetto i reati contro la pubblica amministrazione: il primo di segno “positivo” consistente nell’esigenza di introdurre tecniche investigative speciali allo scopo di contrastare il fenomeno della corruzione;[7] il secondo di segno “negativo”, insito nella necessità di rispettare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che – nell’interpretazione della Corte Edu – è stata reiteratamente giudicata incompatibile con forme di vera e propria istigazione – nella ristretta accezione di determinazione alla commissione di un reato – per acquisire o far acquisire la prova del comportamento del colpevole.[8]
In particolare, la Corte di Strasburgo ha censurato l’indiscriminato ricorso a forme di istigazione ed induzione alla commissione di fatti penalmente illeciti da parte degli organi investigativi, individuando le differenze che intercorrono tra l’agente infiltrato e l’agente provocatore. Proprio perché spesso in passato le due figure sono state impropriamente sovrapposte, la Corte Edu ha tenuto a chiarire che per agente infiltrato deve intendersi il soggetto che, appartenendo alle forze di polizia o collaborando formalmente con esse, agisce nell’ambito di un’indagine preliminare ufficiale di cui le autorità sono al corrente, in presenza di plausibili sospetti a carico di un soggetto circa l’imminente commissione di un reato. Tale soggetto, dunque, nell’espletamento delle sue attività investigative, non si spinge a determinare attivamente condotte criminose altrui che, senza la sua azione, non avrebbero avuto luogo ma si limita ad un’opera passiva di osservazione e contenimento.
Diversa è la figura dell’agente provocatore che, all’interno o all’esterno di una missione ufficialmente autorizzata e documentata, pone in essere una condotta attiva di istigazione, induzione o ideazione o esecuzione di uno o più fatti penalmente illeciti, che senza il suo intervento non si sarebbero mai verificati nella realtà ontologica.[9]
Da queste prime battute, già si comprende che per acquisire e utilizzare ai fini della decisione tali prove, è essenziale che l’operato dell’agente undercover si ponga in perfetta sintonia con quanto previsto dalla legge e sia conforme ai principi (peraltro, ora piuttosto granitici) affermati in questi anni dalla corte di cassazione e da quella di Strasburgo in tema di operazioni sotto copertura. Una precisazione sul punto, appare comunque doverosa: anche se tali pronunce fanno riferimento ad attività investigative poste in essere per lo più nei procedimenti di traffico di stupefacenti, non vi è ragione di ritenere che i medesimi principi non debbano trovare piena attuazione anche nel settore della pubblica amministrazione.
Occorre cioè operare un bilanciamento di interessi: da un lato, provare a potenziare la capacità investigativa degli inquirenti sui quali grava il peso di costruire un solido compendio probatorio per ottenere la condanna dell’imputato, e dall’altro, assicurare che le condotte degli agenti sotto copertura si pongano in linea con i principi fondamentali del nostro ordinamento. Ciò è, peraltro, inevitabile in un sistema come il nostro in cui la finalità cognitiva e l’accertamento della responsabilità devono essere contemperate alla garanzia dei diritti fondamentali del soggetto che subisce direttamente e personalmente la pretesa punitiva dello Stato.[10] A conferma di tale impostazione anche il fatto che la stessa Corte di Strasburgo sembra aver mutato la visione del diritto penale: da strumento finalizzato alla difesa della società, ma potenzialmente in grado di pregiudicare i diritti fondamentali dell’individuo destinatario della norma incriminatrice, a strumento attraverso il quale tutelare i diritti fondamentali dell’individuo.
Senza indugiare sull’opportunità politica dell’inserimento dei reati contro la pubblica amministrazione nel novero delle fattispecie per le quali il ricorso alle operazioni sotto copertura è legittimo[11], una prima criticità sorge in ordine alla compatibilità ontologica e strutturale di tale strumento investigativo rispetto ai reati dei pubblici ufficiali.
Mentre le operazioni undercover sono certamente congeniali alle indagini aventi ad oggetto reati associativi, ove la funzione dell’agente infiltrato è quella di penetrare nei ranghi di un’organizzazione criminale preesistente, con l’obiettivo di individuare i concorrenti nel reato e raccogliere materiale probatorio utile alla loro imputazione, il tutto dall’interno del sodalizio, il discorso si prospetta in termini diversi per i fenomeni di corruttela inerenti ai pubblici uffici in quanto le suddette condizioni sembrano difficilmente verificabili, considerata la natura di reati nella quasi totalità dei casi connotati da una struttura bilaterale e dalla stretta comunanza di interessi illeciti dei soggetti che vi concorrono.
Al contempo, un impiego di tale strumento può certamente ipotizzarsi nelle attività di contrasto ai reati che presuppongono lo svolgimento delle condotte tipicamente strumentali a fenomeni corruttivi: dare, promettere, corrispondere, ricevere, accettare denaro o altre utilità. In alcuni casi si profila, invece, uno “scollamento” fra le condotte descritte nelle fattispecie incriminatrici su cui l’agente undercover può indagare e le azioni che gli sono permesse. Così, a titolo esemplificativo, nei casi in cui il reato di turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.), per cui il ricorso alle operazioni sotto copertura è ammesso, si consumi con “violenza” o “minaccia”, “collusioni o altri mezzi fraudolenti”, attività non rientranti nel catalogo delle condotte scriminante. Tali limiti comportano una verosimile riduzione dell’ambito di operatività delle indagini undercover nella ricerca delle prove inerenti a reati contro la pubblica amministrazione, sì da far dubitare della effettiva utilità dell’ampliata possibilità di ricorso allo strumento investigativo.
Una seconda criticità concerne la veste che l’agente infiltrato assume nel procedimento penale relativo ai fatti rispetto ai quali è chiamato a rendere dichiarazioni.
Come facilmente intuibile, questi potrà assumere tanto la veste di testimone quanto quella di imputato (o coimputato), a seconda che egli abbia rispettato o meno i limiti imposti dalla legge. La questione è particolarmente delicata perché si riverbera, evidentemente, anche sul regime di ammissibilità delle suddette dichiarazioni e di utilizzabilità degli elementi probatori acquisiti. Ove le operazioni siano state svolte legittimamente e l’operato dell’agente sia ineccepibile, sarà senz’altro inapplicabile il disposto degli artt. 210 e 192, commi 3 e 4, c.p.p. In tal caso, l’agente assume, la veste di teste “semplice”, con una significativa peculiarità: l’agente undercover in forza del rinvio all’art. 9 l. 16 marzo 2006, n. 146 contenuto nell’art. 497, co. 2 bis, c.p.p. rende deposizione in forma anonima. Sebbene il dato normativo sia inequivoco, parte della dottrina ha manifestato delle perplessità sulla disciplina della testimonianza anonima dell’infiltrato a causa della sua genericità e vaghezza, criticando, in particolare, la mancata esplicitazione della sua natura eccezionale. Si ritiene, infatti, che essa dovrebbe essere disposta solo in casi strettamente necessari, valutati in concreto dal giudice procedente, rifuggendo da ogni tipo di presunzione.[12]
Laddove, invece, l’agente travalichi i limiti della infiltrazione, trasmodando nell’illegittima provocazione, ne consegue la inutilizzabilità, ai sensi dell’art. 191 c.p.p., di tutti gli atti di indagine raccolti, nonché l’illiceità di quelle condotte tenute dall’agente che travalichino i limiti di quelle permesse dalla legge.
Muovendo da una ricostruzione della disciplina che si è delineata nell’ambito della giurisprudenza interna e di quella sovranazionale, è ormai pacifico che debba considerarsi in contrasto con i principi dell’equo processo (cd. fair trial) il procedimento penale relativo ad un reato che sia conseguenza della “provocazione” operata dalle forze di polizia, quando manchino elementi per ritenere che senza interventi esterni il delitto sarebbe stato ugualmente commesso.[13]
Più specificamente, per i giudici di legittimità, l’induzione e l’incitamento al reato determinano non solo la responsabilità penale dell’agente, ma l’inutilizzabilità della prova acquisita – anche in assenza di uno specifico divieto probatorio posto da norme processuali – per contrarietà ai principi del giusto processo e rende l’intero procedimento suscettibile di un giudizio di non equità ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.[14] In tale prospettiva, al giudice è chiesto, da un lato, di valutare le modalità della condotta dell’agente infiltrato (se idonee a istigare l’imputato a commettere un reato che altrimenti non sarebbe stato realizzato) e, dall’altro, di saggiare l’autonomia ed incontrovertibilità degli ulteriori elementi di convincimento rilevanti per l’accertamento della penale responsabilità.
Del medesimo avviso, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[15] la quale ha ritenuto compatibile con i principi della Convenzione solo l’operato dell’agente infiltrato e non anche l’operato dell’agente provocatore.[16] Secondo i giudici sovranazionali, infatti, l’agente provocatore che entri in contatto con soggetti la cui predisposizione al crimine non risulti da elementi oggettivi, proponendo la commissione di reati al solo scopo di procedere all’arresto, genera elementi di iniquità processuale. Il principio affermato è piuttosto chiaro: l’interesse pubblico alla repressione e alla prevenzione del crimine non può giustificare l’utilizzazione di materiale probatorio ottenuto in conseguenza di una provocazione al reato esercitata dalle forze di polizia, le quali possono unirsi ad una attività delittuosa già avviata ma non iniziarla o provocarla.[17] Diversamente ragionando, si esporrebbe l’imputato al rischio di essere definitivamente privato, sin dall’inizio, del suo sacrosanto diritto ad un “giusto processo”.
In chiave di sintesi, quindi, la Corte europea riconosce ed averte in pieno la necessità investigativa di operazioni speciali al fine di contrastare fenomeni criminali come la criminalità organizzata o la corruzione ma ritiene, allo stesso tempo, che il diritto ad una amministrazione “fair” della giustizia non possa mai essere pretermesso per ragioni utilitaristiche. Innanzitutto, il materiale probatorio ottenuto in conseguenza di una provocazione al reato esercitata dalle forze di polizia non è utilizzabile ed, in secondo luogo, gli agenti infiltrati possono unirsi ad una attività delittuosa già avviata ma non iniziarla o provocarla (investigazione essenzialmente passiva dell’attività criminale sospetta).[18]
Una conclusione di questo tipo, oltre a porsi in perfetta sintonia con le pronunce delle nostre corti, trova pieno conforto anche nel principio secondo cui le prove acquisite con modalità lesive dei diritti fondamentali del cittadino sono inutilizzabili;[19] tra queste si collocano senz’altro quelle formatesi nell’ambito di operazioni sotto copertura che abbiano determinato la perpetrazione di un reato ad opera di un soggetto che altrimenti non se ne sarebbe reso autore. Sono invece fatti salvi i diritti fondamentali nella ipotesi in cui la responsabilità penale dell’imputato sia stata accertata sulla base di elementi di prova autonomi e diversi rispetto a quelli riconducibili all’attività di provocazione al reato.
Ulteriori aspetti importanti concernono le modalità di assunzione della deposizione dell’agente infiltrato. La giurisprudenza ha, innanzitutto, precisato che nel caso in cui l’agente non abbia assunto la qualità di persona indagata, è tenuto a rendere deposizione in ordine ai fatti appresi durante le operazioni sotto copertura, non essendo applicabile il limite previsto dall’art. 62 c.p.p., relativo al divieto di testimonianza circa le dichiarazioni rese dall’indagato o dall’imputato nel corso del procedimento, posto che tale divieto opera con riferimento alle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria in quanto conosciuta dal dichiarante come tale e non anche ad indicazioni fornite prima ed al di fuori del procedimento penale; queste ultime possono formare oggetto di deposizione, inerente il fatto storico delle confidenze provenienti dal (futuro) indagato o imputato e possono essere liberamente valutate ed utilizzate dal giudice.[20]
Per quanto attiene alle possibili confidenze autoindizianti, è stato chiarito che alle dichiarazioni dell’agente provocatore non può trovare applicazione neanche il limite di utilizzabilità previsto dal capoverso dell’art. 63 c.p.p., poiché non si tratta di dichiarazioni rese nel corso di un esame o di assunzione di informazioni in senso proprio e tali dichiarazioni non costituiscono la rappresentazione di eventi già accaduti o la descrizione di una precedente condotta delittuosa, ma, inserendosi invece in un contesto commissivo, realizzano con esse la stessa condotta materiale del reato (nel caso dell’agente provocatore non punibile per legge).[21]
Inapplicabile anche il divieto di testimonianza indiretta di cui all’art. 195, comma 4, c.p.p., che risulta espressamente circoscritto alle dichiarazioni raccolte dalla polizia giudiziaria ai sensi degli artt. 351 e 357, comma 2, lett. a), b) c.p.p.[22] L’agente infiltrato, quindi, si trova nelle condizioni di poter riferire al giudice circa il contenuto delle confidenze informali raccolte nel corso delle operazioni, perché rispetto ad esse è intervenuto non in veste di ufficiale di polizia giudiziaria, con i poteri propri della sua funzione pubblica, compresi quelli sulla redazione degli atti, bensì come partecipante all’azione e, dunque, come soggetto che ha acquisito una conoscenza sui fatti storici caduti sotto la sua diretta percezione.[23]
Particolarmente critica è anche la ipotesi di sequestro del corpo di reato o delle cose pertinenti al reato operato sulla base delle risultanze di un’attività sotto copertura di cui venga riconosciuto il superamento dei limiti imposti dalla legge. Un primo orientamento, emerso in materia di contrasto al traffico di sostanze stupefacenti, ritiene tale sequestro come legittimo e utilizzabile come prova, in virtù del principio “male captum bene retentum”, sicché l’antigiuridicità della ricerca non inciderebbe sulla liceità del sequestro. In senso opposto depone un filone giurisprudenziale emerso nell’ambito del contrasto alla pedopornografia, a tenore del quale l’eventuale sequestro probatorio del materiale pedopornografico è illegittimo in quanto non può fondarsi la sussistenza del fumus delicti su di un risultato investigativo inutilizzabile.
Ultima criticità, su cui si è pronunciata anche la giurisprudenza di legittimità, attiene alla mera inosservanza da parte degli ufficiali incaricati della procedura prevista dalle singole normative speciali. Sul punto si è affermato che tale violazione può dar luogo ad una eventuale fonte di responsabilità disciplinare che non va ad incidere sulla loro capacità a rendere testimonianza.[24] È il caso, tanto per fare un esempio, della inosservanza dell’obbligo di immediata comunicazione all’autorità giudiziaria, la quale appunto non influisce direttamente sull’operatività della causa di giustificazione speciale. Si tratta di un orientamento che desta qualche perplessità perché la prova che scaturisce dalle attività sotto copertura dovrebbe essere rispettosa di un iter procedurale che passa inderogabilmente per l’autorizzazione e la documentazione delle operazioni, incluso il rispetto di precisi obblighi informativi. Si intende, cioè, evitare che mediante questa metodica speciale di indagine possano perpetrarsi veri e propri abusi.
Ciò posto, non può non rilevarsi la inadeguatezza della disciplina che regola il rapporto tra polizia giudiziaria e pubblico ministero nelle diverse fasi di attivazione, esecuzione e controllo dell’operazione. Da un lato, esiste un coordinamento e un controllo centralizzato di tutte le investigazioni sotto copertura ma, dall’altro, è anche vero che il comma 3 dell’art. 9 della legge n. 146 del 2006 si limita a richiedere che la loro esecuzione sia disposta dagli organismi di vertice delle singole forze di polizia, ovvero, su loro delega, dai rispettivi responsabili di livello almeno provinciale ed il percorso da seguire resta ampiamente indefinito. La legge del 2006 impone agli organi di vertice della polizia almeno una comunicazione preventiva (e non successiva) al pubblico ministero circa la operazione disposta (comma 4) ed altresì un obbligo di informarlo senza ritardo circa le modalità e i soggetti che partecipano all’operazione e dei risultati della stessa. Diversamente da quanto richiesto in materia di pedopornografia dall’art. 14, comma 1, della l. n. 269 del 1998, l’inizio dell’investigazione speciale non è assoggettata alla “previa autorizzazione all’autorità giudiziaria”. E, in una settore così delicato come quello della lotta alla corruzione, sarebbe stato forse opportuno riconoscere espressamente al magistrato inquirente la disponibilità e il pieno comando dell’operazione investigativa speciale sin dalla fase embrionale, così da evitare il rischio che siano gli organi di polizia, sotto il controllo del governo, a selezionare discrezionalmente i possibili bersagli. [25]
Non sembra difficile, peraltro, individuare le origini e le radici del problema; è sufficiente un passo indietro nel tempo e tornare al momento del varo del nostro codice di procedura penale, basta cioè andare a rivedere le scelte di fondo intraprese dal legislatore dell’88. Come noto, infatti, ad accompagnare la gestazione ed il parto del nuovo codice alcuni significativi slogan come “la prova si forma in dibattimento” o, ancora, “le indagini sono una fase che non conta e non pesa”. Facendo forse eccessivo affidamento su tale principio e nella ferma (ma purtroppo errata) convinzione che il dibattimento sarebbe stato il luogo dove far valere il sistema di garanzie sovraordinate, si è finito per lasciare sguarnita da regole e garanzie la fase delle indagini preliminari.
[1] Per una panoramica sulla riforma dei reati contro la pubblica amministrazione si vedano A.a., La legge anticorruzione 2019 (l. 9 gennaio 2019, n. 3), a cura di Della Ragione, in Il Penalista, 2019; Camon, Disegno di legge spazzacorrotti e processo penale. Osservazioni a prima lettura, in Arch. Pen., 3, 2018; Cantone-Milone, Prime riflessioni sulla nuova causa di non punibilità di cui all’art. 323 ter c.p., in Dir. Pen. Cont., n. 6, 2019, 5 ss.; Mongillo, La legge “spazzacorrotti”: ultimo approdo del diritto penale emergenziale nel cantiere permanente dell’anticorruzione, in Dir. Pen. Cont., 5, 2019, 231 ss.; Padovani, La spazzacorrotti. Riforma delle illusioni e illusioni della riforma, in Arch. Pen., 3, 2018; Pulitanò, Le cause di non punibilità dell’autore di corruzione e dell’infiltrato e la riforma dell’art. 4 bis, in Dir. Pen. e Proc., n. 5, 2019, 600 ss.
[2] L’art. 9, comma 1, lett. a), l. n. 146/2006 ha riunito e integrato, in un unico contesto normativo, le varie ipotesi di agenti sotto copertura sparse nei diversi settori normativi: delitti di liberticidio, favoreggiamento delle migrazioni illegali, riciclaggio, traffico di stupefacenti, terrorismo, criminalità organizzata ecc..
[3] Per l’approfondimento dell’evoluzione storica e della disciplina dell’istituto, si rinvia a g. amarelli, Le operazioni sotto copertura, in Aa.Vv. La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misure di prevenzione ed armi, a cura di V. Maiello, Torino, 2015. In merito alle novità introdotte dalla legge n. 3/2019 si veda g. ballo, Le operazioni sotto copertura, in La legge anticorruzione 2019, Il Penalista, a cura di l. della ragione, Giuffrè Francis Lefebvre, Varese 2019, pp. 54 e ss.
[4] Secondo l’art. 9 della legge n. 146/2006, legittimati attivamente a svolgere operazioni sotto copertura sono gli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia, nei limiti delle competenze di ciascuna struttura. Con riguardo al settore del terrorismo e dell’eversione, legittimati attivamente sono gli ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti agli organismi investigativi della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri specializzati nell’attività di contrasto al terrorismo e all’eversione e del Corpo della guardia di finanza competenti nelle attività di contrasto al finanziamento del terrorismo. La platea dei soggetti legittimati a partecipare ad operazioni sotto copertura, dunque potenzialmente idonea a fruire dello statuto di cui all’art. 9, si amplia, ai sensi del comma 5, ad agenti di polizia giudiziaria, ausiliari e interposte persone di cui i primi si avvalgano nello svolgimento delle operazioni. Vi sono limitazioni soggettive ed oggettive. Le prime legate alla qualità di ufficiale di polizia giudiziaria, appartenente a una struttura specializzata dei corpi di polizia giudiziaria. Le seconde legate al fatto che tali strutture devono agire nei limiti di loro competenza. Se non sorgono particolari problemi in ordine alla individuazione della qualità di ufficiale di p.g., non è agevole cogliere, massimamente con riferimento al settore della corruzione, quali siano le strutture specializzate che, operando nei limiti delle loro competenze, possano partecipare ad operazioni sotto copertura, soprattutto perché a livello nazionale non esistono strutture specializzate aventi una competenza autonoma nel settore in questione.
[5] Nel caso di attività antidroga, la preventiva comunicazione va fatta alla Direzione centrale per i servizi antidroga.
[6] Cfr. Mongillo, La legge “spazzacorrotti”: ultimo approdo del diritto penale emergenziale nel cantiere permanente dell’anticorruzione, in Dir. Pen. Cont., 5, 2019, 231 ss.
[7] Al riguardo, l’art. 50 della Convenzione ONU contro la corruzione del 2003 rubricato “Tecniche investigative speciali”, al primo comma recita: «1. Per combattere efficacemente la corruzione, ciascuno Stato, nei limiti consentiti dai principi fondamentali del proprio ordinamento giuridico interno, e conformemente alle condizioni stabilite dal proprio diritto interno, adotta le misure necessarie, con i propri mezzi, a consentire l’appropriato impiego da parte delle autorità competenti […] di altre tecniche speciali di investigazione, quali la sorveglianza elettronica o di altro tipo e le operazioni sotto copertura, entro il suo territorio, e a consentire l’ammissibilità in tribunale della prova così ottenuta». La norma segue, sul punto, le orme della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale (art. 20), e relativi Protocolli, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 e il 31 maggio 2001.
[8] Si veda Mongillo, La legge “spazzacorrotti”: ultimo approdo del diritto penale emergenziale nel cantiere permanente dell’anticorruzione, in Dir. Pen. Cont., 5, 2019, 231 ss.
[9] L’istituto dell’agente provocatore non era certo sconosciuto nei secoli precedenti, tanto che vi è chi sostiene come questa figura fosse già ben presente nell’antichità (Esopo, III, favola V, “Aesopus et petulans”) e possa persino essere fatta risalire sino alla “notte dei tempi” riportandola al momento della creazione del mondo stesso (cfr. Genesi, III, 1-7). In tal senso, Califano, L’agente provocatore, Milano, 1964, 9. Altri sono giunti ad affermare che da quando esiste l’ordinamento giuridico penale nel mondo, si trova sempre la figura dell’agente provocatore, precisando però come, sino al tempo del diritto romano – in cui i giuristi iniziarono ad interrogarsi circa la punibilità del provocatore –, l’istituto ebbe una scarsa rilevanza; cfr. Salama, L’agente provocatore, Milano, 1965, 2.
[10] Viganò, Obblighi convenzionali di tutela penale?, in La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, a cura di Manes e Zagrebelsky, Milano, 2011, 244.
[11] In senso critico, si vedano G. Gatta (Audizione delle commissioni riunite affari costituzionali e giustizia della Camera dei deputati, 19 ottobre 2018); V. Manes (Audizione del 19 ottobre 2018); M. Masucci (Audizione del 19 ottobre 2018); a.n.c.i., Osservazioni sul ddl recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione e in materia di trasparenza dei partiti e dei movimenti politici” (documento depositato nell’audizione del 15 ottobre 2018), p. 5.
[12] Molteplici sono le pronunce della Corte europea in tema di garanzie del contraddittorio in rapporto alla concessione dell’anonimato. Cfr., Corte eur. dir. uomo 20 novembre 1989, Kostovski c. Paesi; Corte eur. dir. uomo 26 marzo 1996, Doorson c. Paesi Bassi; Corte eur. dir. uomo 23 aprile 1997, Van Mechelen ed altri c. Paesi Bassi; Corte eur. dir. uomo, Sez. III, 14 febbraio 2002, Visser c. Paesi Bassi, in Cass. pen., 2003, 1969 ss., con nota di S. Maffei, Le testimonianze anonime nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo; Corte eur. dir. uomo, Sez. II, 28 marzo 2002, Biritus c. Lituania; Corte eur. dir. uomo, Sez. IV, 22 novembre 2005, Taal c. Estonia; Corte eur. dir. uomo, Sez. III, 28 febbraio 2006, Krasniki c. Repubblica Ceca, in Cass. pen., 2006, 3007 ss., con nota di A. Balsamo, Testimonianze anonime ed effettività delle garanzie sul terreno del “diritto vivente” nel processo di integrazione giuridica europea.
[13] Per opportuni spunti di riflessione sulla condotta dell’agente provocatore si vedano Cass. Pen., Sez. III, n. 21922 del 2013; Cass. Pen., Sez. III, n. 26763 del 2008; C. Edu, 21 febbraio 2008, Pyrgyotakis c. Grecia.
[14] Cass., Sez. III, 10 gennaio 2013, Leka, in Mass. Uff., n. 254174.
[15] C. Edu., 9 giugno 1998, Teixeira de Castro v. Portogallo, su cui si v. Vallini, Il caso “Teixeira de Castro” davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo ed il ruolo sistematico delle ipotesi legali di infiltrazione poliziesca, in Leg. Pen., 1999, 197 ss. In tale pronuncia, benché avente ad oggetto attività volte all’accertamento del traffico di stupefacenti, la Corte europea ha ritenuto contrastante con la clausola del “processo equo” (art. 6, par. 1, CEDU) la condanna di soggetti il cui intento criminoso, prima inesistente, sia sorto solo per il surrettizio atteggiamento induttivo di agenti delle forze dell’ordine; mentre, di contro, reputa legittima la prova raccolta nell’ambito di una attività di indagine ufficiale nei confronti di soggetti propensi a compiere il reato accertato.
[16] C. Edu., 21 marzo 2002, Calabrò c. Italia e Germania. Del resto, è risaputo che la giurisprudenza della Corte Edu, propende spesso per un modello universale di procedura penale sensibile ed attenta ai diritti dell’imputato da importare in tutte le giurisdizioni nazionali degli Stati membri del Consiglio d’Europa (in questa prospettiva, O. Mazza, Cedu e diritto interno, in I principi europei del processo penale, a cura di Gaito, Dike, 2016, 3 ss.).
[17] Hanno aderito a tale principio, ex multis, C. Edu, 4 novembre 2010, Bannikova c. Russia; C. Edu, 24 giugno 2008, Miliniene c. Lituania.
[18] Non vi è dubbio sul fatto che è obbligo della polizia perseguire i reati già commessi e non quello di suscitare azioni criminose al fine di arrestarne gli autori.
[19] Che le indagini debbano essere poste in essere nel pieno rispetto delle regole e dei diritti individuali della persona, emerge da tante pronunce della Corte di Strasburgo. Per esempio, al di là dello specifico ambito delle attività sotto copertura, in occasione del caso Jalloh c. Germania, caratterizzato dalla circostanza che l’acquisizione di prove a carico dell’indagato era stata raggiunta dagli organi inquirenti tramite la somministrazione di un emetico atto a provocare il rigurgito di sostanze stupefacenti che si sospettava il soggetto avesse ingerito, i giudici europei hanno ritenuto la condotta tenuta dalle autorità “non giustificata” dallo scopo di ottenere prove di colpevolezza dell’indagato. Più precisamente, la Corte di Strasburgo ha tenuto a chiarire, da una parte, che le attività poste in essere non apparivano in linea con i principi di necessità e proporzionalità e, dall’altra, che esistevano altri strumenti investigativi per il raggiungimento di quello scopo (in tal senso, Corte Edu, 11 luglio 2006, Jolloh c. Germania, § 75 ss.).
[20] Cass. Pen., sez. IV, 30 novembre 2004, Meta, 2005/6702; Cass. Pen., Sez. IV, 4 ottobre 2004, Biancoli, 2004/46556; Cass. Pen., Sez. IV, 29 maggio 2001, Tomassini, 2001/33561.
[21] Cass. Pen., Sez. VI, 16 marzo 2004, Benevento, 2004/37983.
[22] È il caso di ricordare che tale divieto posto a carico degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria ha per oggetto le dichiarazioni acquisite dai testimoni – da intendersi in senso non rigorosamente tecnico bensì alla stregua di persone informate sui fatti – con le modalità documentate in un verbale ex art. 351 (in tema di persone informate sui fatti, imputati in procedimento connesso o di reato collegato) e 357, comma 2, lett. a) e b), c.p.p. (verbali di denuncia, querela, istanza presentate oralmente, nonché sommarie informazioni rese e dichiarazioni spontanee ricevute dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini). La ratio del divieto è quella di evitare la vanificazione dell’esame del teste che, in fase di indagine, sia stato ascoltato dalla polizia giudiziaria, poiché l’eventuale deposizione di quest’ultima – sul contenuto di quanto percepito dal testimone – potrebbe prevalere sulla fonte di conoscenza diretta (in virtù della “presunzione di credibilità” del pubblico ufficiale che, si noti, svolge funzioni inquirenti nel medesimo procedimento). La deposizione è, inoltre, finalizzata ad evitare che il divieto di utilizzare atti (ripetibili) formati nel corso delle indagini preliminari venga aggirato tramite la deposizione della polizia giudiziaria sui fatti appresi dai testimoni.
[23] Sui fatti appresi dall’agente è ammissibile la testimonianza. Così, Cass. Pen., Sez. VI, 5 dicembre 2006, Ani, 2006/41730. Stesso principio è stato affermato da Cass. Pen., Sez. III, 2 febbraio-10 marzo 2017, n. 11572, rv. 269175. Anche nel caso sottoposto alla Terza Sezione l’agente infiltrato non aveva neppure testimoniato su dichiarazioni direttamente resegli dall’imputato ma si era limitato a riferire su un mero fatto storico avvenuto sotto la sua diretta percezione, quale la circostanza di avere assistito ad alcune affermazioni dell’imputato relative a possibili futuri acquisti di droga.
[24] Si vedano Cass. Pen., 30 agosto 1993, in Giur. it., 1994, II, 836; Cass. Pen., 10 aprile 1995, in Cass. pen., 1996, 2388, con nota di Amato, La definizione della posizione processuale dell’“agente provocatore”: riflessi sulla capacità a rendere testimonianza, ivi., 1996, 2392.
[25] Pur in assenza di una disposizione che espressamente richieda una previa autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria, si segnala tuttavia come la prassi oggi diffusa nel settore del terrorismo e del traffico di stupefacenti presenta soluzioni virtuose «coerenti con il sistema, nel senso che gli organi di polizia che svolgono le indagini propongono al pubblico ministero la speciale tecnica d’investigazione e, con il suo consenso, richiedono agli organi di vertice di disporre l’operazione», così regolamentando i rapporti tra polizia giudiziaria operante e pubblico ministero inquirente e inquadrando come atto meramente aggiuntivo l’autorizzazione degli organi di vertice della polizia giudiziaria.
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