Pubblicato nel 1961 dallo scrittore giapponese Matsumoto Seichō, “La ragazza del Kyūshū” (1° ed. italiana, Adelphi, 2019) è un bellissimo romanzo che, specialmente nel processual-penalista, suscita interesse e induce alla riflessione.
La storia ruota attorno a due personaggi principali, Ōtzuka Kinzo, un avvocato penalista di Tokyo ma famoso e stimato in tutto il Giappone per la sua abilità nel far assolvere i propri assisititi anche in situazioni apparentemente disperate, e la giovane Kiriko Yanagida, giunta nella capitale dalla lontana regione del Kyūshū solo per convincere Ōtzuka ad assumere la difesa del suo sventurato fratello, maestro elementare che, da innocente, rischia la pena di morte perché accusato dell’omicidio di un’anziana donna.
Sebbene si tratti di un processo indiziario, gli elementi raccolti non sembrano lasciare spazio ad ipotesi alternative: Masao Yanagida si trovava nell’appartamento della donna in un orario compatibile con quello dell’omicidio, sui suoi abiti gli inquirenti avevano rinvenuto macchie di sangue appartenente alla vittima, un’avida usuraia – e qui è chiaro il riferimento a “Delitto e castigo” di Dostoevkij – che il sospettato conosceva molto bene, avendo da lei ricevuto un prestito in denaro che però non era stato in grado di restituire, anche a causa degli altissimi interessi praticati. Come se non bastasse, era stato accertato che, dopo l’omicidio, Masao aveva sottratto la cambiale che dimostrava l’esistenza del suo debito, sperando così di allontanare da sé ogni sospetto; e poi c’era stata la confessione dell’omicidio, che lo stesso Masao aveva reso in uno degli interrogatori condotti dalle forze di polizia, salvo poi fare marcia indietro e tornare a professare la propria innocenza davanti al procuratore incaricato dell’indagine e nel successivo corso del processo.
Fino a qui la storia sembra quindi prendere una piega quantomai lineare, al punto che si è tentati di scorgere già i segni inequivocabili del suo prevedibile sviluppo fino alla catartica conclusione: dopo molte difficoltà, colpi di scena e passi falsi, il brillante e integerrimo avvocato arriverà a dimostrare l’innocenza del suo assistito, il vero colpevole verrà messo alla sbarra e la giustizia riuscirà a trionfare.
Ma, in realtà, non è questa la storia che Matsumoto ci vuole raccontare e il lettore che desiderava solo abbandonarsi alla vertigine investigativa e sperimentare il cardiopalma di serrate e illuminanti interlocuzioni testimoniali sarà costretto ben presto a ricredersi. Succede, infatti, che Ōtzuka, impaziente di raggiungere la donna amata che lo attendeva sul campo da golf e che lui immaginava circondata da tanti potenziali pretendenti, risponde all’incredula Kiriko che non assumerà la difesa del fratello perché già oberato dal troppo lavoro e, soprattutto, per l’impossibilità dei due fratelli di pagare la costosa parcella che la sua partecipazione ad un simile processo avrebbe certamente comportato. Come previsto da Kiriko, questa decisione si rivelerà fatale per Masao, che, assistito da un difensore d’ufficio non all’altezza della situazione, non riuscirà ad evitare la condanna alla pena capitale e finirà per morire misteriosamente in carcere, nelle more del giudizio di appello. Da questo momento in poi si innesca quindi una catena di eventi e di situazioni che via via porteranno ad una svolta inattesa della storia, con conseguenze drammatiche per gran parte dei personaggi coinvolti, Ōtzuka incluso.
Con questo romanzo appassionante e spietato, Matsumoto intreccia sapientemente gli elementi della suspense poliziesca, dell’introspezione psicologica e della critica sociale. Specialmente quest’ultimo aspetto è di particolare interesse per il giurista perché i temi che lo scrittore mette sul tavolo sono a dir poco cruciali. A metterli a fuoco è il messaggio che la stessa protagonista femminile, congedandosi da Okumura, assistente dell’avvocato, chiede di riferire allo stesso Ōtzuka: “Non credo che qualcuno possa salvare mio fratello. Se avessimo avuto ottocentomila yen forse le cose sarebbero andate diversamente, ma ha avuto sfortuna, perché non disponiamo di una somma simile. Evidentemente per chi è povero non può esserci giustizia”.
In queste poche parole è già condensato tutto. In primis, viene fatta luce sul ruolo che il difensore gioca nel processo, che è quello di estremo e fondamentale baluardo di garanzia e di giustizia. Ma questa centralità del difensore implica anche una grande responsabilità, perché dal suo operato dipende, in ultima analisi, la vita del suo assistito. Quell’amore di giustizia – per usare sempre le parole di Kiriko – che in Otsuka è mancato, non dovrebbe invece mai abbandonare l’avvocato, anche quando il compenso non è minimamente paragonabile alla professionalità e alla fatica profuse. Naturalmente, il difensore è un essere umano come gli altri e pretendere che agisca sempre nel migliore dei modi possibili o in maniera totalmente disinteressata è una pura utopia. Ma qui si apre un altro fronte della questione sollevata da Matsumoto che riguarda, invece, la difesa d’ufficio. In quanto difesa tendenzialmente destinata ai deboli, agli emarginati, agli ultimi, essa si connota per un’elevata funzione etica e, come tale, richiede necessariamente un elevato livello di qualificazione professionale. Sappiamo come, a tutt’oggi, questo rappresenti un punto di attenzione ancora particolarmente delicato nell’ambito del nostro sistema giustizia però, a volerla dire tutta, il potenziamento della difesa d’ufficio è difficilmente realizzabile se, oltre a quello della formazione, non ci si fa carico anche di un altro problema ovvero quello dell’entità spesso non congrua dei compensi liquidati ai difensori d’ufficio per le attività svolte in regime di patrocinio a spese dello Stato. Infatti, aumentare il livello dei compensi liquidabili, non solo offrirebbe un più giusto riconoscimento a chi svolge una funzione così meritoria, ma potrebbe produrre l’ulteriore vantaggio di rafforzare le fila degli iscritti alle liste non solo e non tanto da un punto di vista quantitativo ma soprattutto qualitativo. Nella speranza che, in un non troppo lontano futuro, storie come quella di Masao Yanagida arrivino a trovare spazio soltanto tra le pagine dei libri e non più nelle nostre aule di giustizia.