Il Tribunale di Spoleto solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 comma 2 c.p.p. – in relazione ai precetti di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost. – nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare e/o procedere al successivo giudizio ordinario del Giudice del dibattimento che ha rigettato la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato.
SOMMARIO: 1. La questione di costituzionalità sollevata e il quadro normativo di riferimento – 2. I poteri valutativi del giudice nella fase di ammissione alla prova: un breve excursus delle recenti sentenza – 3. Il precedente analogo: l’ordinanza n. 19 del 2017 e il rigetto da parte della Consulta – 4. Prime riflessioni.
1. La questione di costituzionalità sollevata e il quadro normativo di riferimento.
Il Tribunale di Spoleto solleva l’annosa questione di incostituzionalità dell’art. 34 comma 2 c.p.p. – in relazione ai precetti di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost. – nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare, e/o procedere al successivo giudizio, del Giudice che ha rigettato la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato.
Nel caso di specie, infatti, l’imputato veniva rinviato a giudizio per il reato p. e p. dall’art. 635 comma 2 c.p. e, alla prima udienza, il difensore di fiducia richiedeva la sospensione del processo con messa alla prova. Il Tribunale, tuttavia, in considerazione degli atti a sua disposizione, delle dichiarazioni della persona offesa e dei precedenti dell’imputato, rigettava tale richiesta.
Preso atto del rigetto, il difensore chiedeva un rinvio per valutare la praticabilità di altri riti alternativi ed il Tribunale lo concedeva anche al fine di meglio approfondire il tema della eventuale sopravvenuta propria incompatibilità all’ulteriore corso del giudizio. Alla successiva udienza, la difesa, in accordo con il pubblico ministero, eccepiva l’incompatibilità del Giudice ab origine adito, sottolineando la possibile incostituzionalità dell’art. 34 comma 2 c.p.p. e il Tribunale sollevava la suddetta questione di legittimità costituzionale.
La questione veniva valutata dal giudice a quo rilevante e fondata, in quanto apparivano meritevoli di approfondimento i dubbi interpretativi prospettati dal difensore nell’applicazione dall’art. 34 c.p.p., in rapporto alla complessiva disciplina codicistica della messa alla prova.
Invero, nel partire da una disamina della normativa, appare opportuno soffermarsi sui poteri cognitivi e valutativi in astratto riconosciuti al giudice nella fase della decisione sull’ammissione dell’imputato alla prova.
L’art. 464 quater comma 1 c.p.p. esordisce, infatti, statuendo che «il Giudice si pronuncia con ordinanza sulla richiesta di messa alla prova dell’imputato sempre che non debba pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129 c.p.p.»
Mutatis mutandi, ciò equivale a dire che al giudice, investito di un’istanza di sospensione del processo con messa alla prova, è imposta – esattamente come nell’ipotesi di richiesta di applicazione pena su accordo delle parti – una preliminare delibazione sulla non ricorrenza delle condizioni ex lege previste per un immediato proscioglimento dell’imputato, o, se si preferisce, un succinto positivo giudizio (almeno) sulle seguenti circostanze: che il fatto sussista, che sia stato commesso dall’imputato, che costituisca reato, che sia previsto dalla legge come reato, che abbia dato vita ad un reato ancora procedibile e non già estinto.
L’art. 464 quater comma 1 c.p.p. impone pertanto al giudice di valutare, seppure sommariamente e allo stato degli atti, i presupposti della colpevolezza dell’imputato, la sussistenza di un reato in tutti i suoi elementi costitutivi, nonché l’astratta riferibilità dell’illecito all’imputato stesso.
Nel proseguire nell’analisi dei poteri discrezionali riconosciuti dalla legge al giudice ed esercitabili nella fase di ammissione della messa alla prova, preme richiamare l’art. 464 quater comma 3 c.p.p., nella parte in cui richiede al Giudice di accertare, in base ai parametri dettati dall’art. 133 c.p., l’idoneità del programma di trattamento proposto ed il pericolo di recidiva.
Il riferimento ai criteri stabiliti dall’art. 133 c.p. sottolinea la sussistenza di poteri valutativi del giudice in ordine, quantomeno, ad una preliminare prognosi di non innocenza e di sussistenza del fatto. Invero, è chiamato a tener conto: 1) della gravità del reato, con specifico riferimento alle diverse voci indicate dall’art. 133 comma 1 c.p., 2) della capacità a delinquere e quindi dei motivi a delinquere e del carattere dell’imputato, dei precedenti penali, della condotta contemporanea e susseguente al reato e delle condizioni di vita individuale e familiare. Tutti parametri che presuppongono una valutazione sul caso di specie e che, non consentirebbero, in caso di rigetto della richiesta di messa alla prova, di garantire la doverosa terzeità ed “illibatezza” del giudice del dibattimento.
Inoltre, ai sensi dell’art. 464 bis comma 5 c.p.p., è riconosciuto al Giudice un prezioso (per quanto eccezionale) potere istruttorio (in funzione della decisione sulla messa alla prova). Gli è infatti consentito acquisire (ulteriori) informazioni sulle condizioni di vita dell’imputato, salvo poi il dovere di portare gli elementi probatori extraprocessuali in tale modo raccolti – siano essi documenti o dichiarazioni – a conoscenza delle parti del giudizio in corso.
L’analisi del dettato normativo consente, prima facie, di ritenere fondata la questione di illegittimità costituzionale prospettata dal Tribunale di Spoleto, in considerazione dell’ampia discrezionalità valutativa che il legislatore ha voluto attribuire all’organo giudicante.
2. I poteri valutativi del giudice nella fase di ammissione alla prova: un breve excursus delle recenti sentenza.
La giurisprudenza più volte si è interrogata sui limiti cognitivi del giudice in sede di ammissione dell’imputato al rito speciale della sospensione del procedimento con messa alla prova, delineando, in tal modo, il perimetro valutativo in relazione ai diversi criteri normativi indicati sia dagli artt. 168 bis e quater c.p., sia dagli artt. 464 bis e quater c.p.p.
In merito alla valutazione del fatto e alla verifica della ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 168 bis c.p., si è ripetutamente affermato che il giudice deve verificare la correttezza della qualificazione giuridica attribuita al fatto dall’accusa ed eventualmente provvedere a modificarla, ove non la si ritenga corretta, traendone le conseguenze sul piano della ricorrenza del beneficio in parola[1]. Il giudice, pertanto, può procedere a tale valutazione mediante una delibazione che si nutra dei materiali disponibili, i quali, a seconda del momento in cui viene avanzata la richiesta, saranno più o meno ampi. Può, altresì, essere sentita la persona offesa e anche tale corredo informativo può essere posto a fondamento della decisione sull’ammissibilità al rito speciale.
In altri termini, la richiesta può trovare accoglimento solo nel caso in cui il giudice al quale viene rivolta, all’esito di un percorso valutativo, reputi idoneo il programma di trattamento presentato e ritenga che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati, avendo sempre come punto di riferimento la gravità del reato, la capacità a delinquere del prevenuto, l’idoneità del programma di trattamento, la possibilità di formulare una prognosi favorevole nei confronti dell’imputato sulla circostanza che egli per il futuro si asterrà dal commettere ulteriori reati[2].
Tra i vari aspetti sottoposti alla valutazione del giudice vi è anche quello attinente all’obbligo – in capo all’imputato – di risarcire «ove possibile» il danno, obbligo previsto dall’art. 168 bis, comma 2, c.p.; valutazione che comporta inevitabilmente una commisurazione tra grado di colpa, gravità del fatto e gravità del danno e la locuzione «ove possibile» presuppone un bilanciamento tra il pregiudizio patrimoniale arrecato alla vittima e lo sforzo “massimo” richiedibile all’imputato; invero il giudice è chiamato anche a valutare le condizioni economiche dell’imputato utilizzando i propri poteri ufficiosi[3].
Appare innegabile che la giurisprudenza, sulla scorta dell’analisi del dettato normativo, abbia conferito al giudice un evidente potere valutativo che gli impone una conoscenza, seppure preliminare ma non certo superficiale, del fatto e della sua corretta qualificazione giuridica, della gravità del reato, del grado di colpa, della proporzione tra offerta risarcitoria e gravità del danno, oltre alla valutazione dei parametri di cui all’art. 129 c.p.p.
Affermare, come viene sancito in alcune pronunce, che nel caso di rigetto della richiesta di messa alla prova manchi una situazione pregiudicante della decisione interlocutoria o anche definitoria, poiché l’ordinanza di rigetto del giudice non implica una valutazione di merito dell’ipotesi di accusa[4], significa comprimere i poteri valutativi del giudici che la stessa giurisprudenza delinea in modo chiaro.
3. Il precedente analogo: l’ordinanza n. 19 del 2017 e il rigetto da parte della Consulta.
E’ noto che analoga questione era già stata sollevata dinnanzi alla Corte Costituzionale, ipotizzandosi un presunto contrasto dell’art. 34 comma 2 c.p.p. (contenente l’elenco dei tassativi casi di incompatibilità del Giudice determinata da atti compiuti nel procedimento) con i precetti di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui non viene ivi prevista (anche) l’incompatibilità a partecipare e/o procedere al (successivo) giudizio (ordinario) del Giudice del dibattimento che ha rigettato la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato;
La suddetta questione è stata dichiarata inammissibile con ordinanza n. 19 del 2017 e la dichiarazione di inammissibilità si è fondata su un argomento di mera natura procedurale, ovvero, sul fatto che il giudice a quo non aveva, nell’ordinanza di rimessione degli atti, (autonomamente) motivato le ragioni per cui riteneva fondata la questione medesima.
Premesso ciò e non essendosi di fatto mai pronunciata la Consulta sulla specifica questione, nulla impedisce una rivisitazione del tema estesa al merito.
4. Prime riflessioni
La questione di incostituzionalità sollevata dalla difesa dell’imputato appare rilevante e fondata, essendo certo meritevoli di una più approfondita verifica i dubbi interpretativi prospettati dal difensore nell’applicazione della norma dettata dall’art. 34 c.p.p., in rapporto alla disciplina codicistica della messa alla prova.
Del resto, che la commissione di un reato ad opera dell’imputato sia alla base della sospensione del processo per messa alla prova trova, come abbiamo visto, indiretta conferma sistematica nel disposto dell’art. 168 quater c.p.; dell’art. 464 quater comma 3 c.p.p. e dell’art. 464 septies c.p.p.
Di particolare interesse è poi l’individuazione della piattaforma conoscitiva da cui l’organo giudiziario è abilitato a trarre gli elementi per una compiuta decisione sulla richiesta di sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato. Infatti, il giudice può fare largo uso di quanto contenuto nel fascicolo del dibattimento ed in specie di ogni elemento in esso rappresentato come riferibile al prevenuto: dal certificato del casellario giudiziale, alla documentazione prodotta dalla difesa a sostegno della richiesta del rito in verifica, alla relazione di indagine socio-familiare eseguita dall’UEPE, comprese le dichiarazioni rilasciate dall’imputato in ordine al reato commesso ed ivi riportate. Inoltre, secondo quanto stabilito dalla Corte Costituzionale (Sentenza n. 91 del 2018), il Giudice può acquisire e visionare – così integrando la propria sfera di cognizione – gli atti di indagine preliminare contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, fermo restando l’obbligo di restituirli all’organo di accusa nell’ipotesi di successivo rigetto della richiesta. E ciò in forza di una (non vietata) applicazione analogica dell’art. 135 disp. att. c.p.p.
Sulla base di queste premesse e riconducendosi ad unità le molteplici argomentazioni sinora svolte, non si vede come si possa allora insistere in un ormai anacronistico restringimento dell’area di valutazione imposta all’organo giudiziario che finisca per optare nel senso di un rigetto dell’istanza di messa alla prova. La decisione del Giudice in materia non sembra qualificarsi come puramente procedurale e/o interlocutoria.
Anzi, nell’evenienza di mancato accoglimento della richiesta di messa alla prova, la pronuncia sembra assumere il carattere proprio della definizione di una fase – quale è quella degli atti introduttivi al dibattimento – con valutazioni necessariamente di merito sulla fondatezza dell’ipotesi accusatoria.
Simile ricostruzione dogmatica peraltro ben si concilia con la natura ibrida dell’istituto sotto osservazione che si caratterizza invero per una fisionomia sostanziale unita ad un’intrinseca dimensione processuale valevole ad elevarlo a rango di rito speciale alternativo al dibattimento. Si tratta infatti di un procedimento in tutto equiparabile all’applicazione concordata della pena su richiesta delle parti per la predominante base consensuale, atteso che, in entrambi i casi, l’imputato, in cambio dell’ottenimento di benefici sanzionatori, non contesta l’accusa, ovvero, rinuncia al pieno esercizio del diritto di difesa coessenziale al rito ordinario.
Pertanto, se in caso di rigetto della richiesta di messa alla prova (ovvero in caso di esito negativo della stessa) il giudice non versa in alcuna condizione di incompatibilità, si rischia di violare il principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge ex art. 3 Cost., per l’evidente disparità di trattamento che si realizzerebbe fra situazioni analoghe; inoltre sarebbe violato anche il diritto di difesa riconosciuto a tutti i cittadini in ogni stato e grado del procedimento ai sensi dell’art. 24 comma 2 Cost., atteso che le conseguenze negative dipendenti dalla scelta del rito speciale si tradurrebbero in ripercussioni pregiudizievoli inerenti ad una modalità di esercizio dello stesso diritto di difesa. Da ultimo, sarebbe violato l’art. 111 comma 2 Cost., infatti, il processo che dovesse proseguire con l’apertura del dibattimento davanti allo stesso magistrato che ha rigettato la richiesta di messa alla prova sarebbe inevitabilmente condizionato dalle valutazioni – negative per la posizione dell’imputato – da questi in precedenza espresse per la formazione del proprio convincimento, con grave compromissione di imparzialità e terzietà del giudice.
Ci si riserva di pubblicare e commentare la decisione della Consulta.
* Il presente contributo è stato sottoposto alla valutazione di un revisore, con esito favorevole.
[1] Corte Cost., Sent. 3 aprile 2019, dep. 29 maggio 2019, n. 131, in Cass. Pen. , 2019, fasc. 10, pag. 3617, con nota di Aprile; Corte Cass. Sez. IV, ud. 8 maggio 2018, dep. 31 luglio 2018, n. 36752 in CED Cass.; Cass. Sez. IV, ud. 20 ottobre 2015 , n. 4527, in Riv. Pen. 2016, 4, 340
[2] cfr., Cass. Pen., Sez. V, ud. 26 ottobre 2015 n. 7.983, in Riv. Pen. 2016, 4, 341.
[3] Cass. Pen. Sez. II, ud. 13 giugno 2019, n.34878, in Guida al diritto 2019, 41, 77.
[4] Cass. Pen. sez. IV, 09 luglio 2019, dep. 24 luglio 2019, n.33260.
Sull’incompatibilità a procedere, al successivo giudizio, del giudice che rigetta la richiesta di messa alla prova
Il Tribunale di Spoleto solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 comma 2 c.p.p. – in relazione ai precetti di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost. – nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare e/o procedere al successivo giudizio ordinario del Giudice del dibattimento che ha rigettato la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato.
SOMMARIO: 1. La questione di costituzionalità sollevata e il quadro normativo di riferimento – 2. I poteri valutativi del giudice nella fase di ammissione alla prova: un breve excursus delle recenti sentenza – 3. Il precedente analogo: l’ordinanza n. 19 del 2017 e il rigetto da parte della Consulta – 4. Prime riflessioni.
1. La questione di costituzionalità sollevata e il quadro normativo di riferimento.
Il Tribunale di Spoleto solleva l’annosa questione di incostituzionalità dell’art. 34 comma 2 c.p.p. – in relazione ai precetti di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost. – nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare, e/o procedere al successivo giudizio, del Giudice che ha rigettato la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato.
Nel caso di specie, infatti, l’imputato veniva rinviato a giudizio per il reato p. e p. dall’art. 635 comma 2 c.p. e, alla prima udienza, il difensore di fiducia richiedeva la sospensione del processo con messa alla prova. Il Tribunale, tuttavia, in considerazione degli atti a sua disposizione, delle dichiarazioni della persona offesa e dei precedenti dell’imputato, rigettava tale richiesta.
Preso atto del rigetto, il difensore chiedeva un rinvio per valutare la praticabilità di altri riti alternativi ed il Tribunale lo concedeva anche al fine di meglio approfondire il tema della eventuale sopravvenuta propria incompatibilità all’ulteriore corso del giudizio. Alla successiva udienza, la difesa, in accordo con il pubblico ministero, eccepiva l’incompatibilità del Giudice ab origine adito, sottolineando la possibile incostituzionalità dell’art. 34 comma 2 c.p.p. e il Tribunale sollevava la suddetta questione di legittimità costituzionale.
La questione veniva valutata dal giudice a quo rilevante e fondata, in quanto apparivano meritevoli di approfondimento i dubbi interpretativi prospettati dal difensore nell’applicazione dall’art. 34 c.p.p., in rapporto alla complessiva disciplina codicistica della messa alla prova.
Invero, nel partire da una disamina della normativa, appare opportuno soffermarsi sui poteri cognitivi e valutativi in astratto riconosciuti al giudice nella fase della decisione sull’ammissione dell’imputato alla prova.
L’art. 464 quater comma 1 c.p.p. esordisce, infatti, statuendo che «il Giudice si pronuncia con ordinanza sulla richiesta di messa alla prova dell’imputato sempre che non debba pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129 c.p.p.»
Mutatis mutandi, ciò equivale a dire che al giudice, investito di un’istanza di sospensione del processo con messa alla prova, è imposta – esattamente come nell’ipotesi di richiesta di applicazione pena su accordo delle parti – una preliminare delibazione sulla non ricorrenza delle condizioni ex lege previste per un immediato proscioglimento dell’imputato, o, se si preferisce, un succinto positivo giudizio (almeno) sulle seguenti circostanze: che il fatto sussista, che sia stato commesso dall’imputato, che costituisca reato, che sia previsto dalla legge come reato, che abbia dato vita ad un reato ancora procedibile e non già estinto.
L’art. 464 quater comma 1 c.p.p. impone pertanto al giudice di valutare, seppure sommariamente e allo stato degli atti, i presupposti della colpevolezza dell’imputato, la sussistenza di un reato in tutti i suoi elementi costitutivi, nonché l’astratta riferibilità dell’illecito all’imputato stesso.
Nel proseguire nell’analisi dei poteri discrezionali riconosciuti dalla legge al giudice ed esercitabili nella fase di ammissione della messa alla prova, preme richiamare l’art. 464 quater comma 3 c.p.p., nella parte in cui richiede al Giudice di accertare, in base ai parametri dettati dall’art. 133 c.p., l’idoneità del programma di trattamento proposto ed il pericolo di recidiva.
Il riferimento ai criteri stabiliti dall’art. 133 c.p. sottolinea la sussistenza di poteri valutativi del giudice in ordine, quantomeno, ad una preliminare prognosi di non innocenza e di sussistenza del fatto. Invero, è chiamato a tener conto: 1) della gravità del reato, con specifico riferimento alle diverse voci indicate dall’art. 133 comma 1 c.p., 2) della capacità a delinquere e quindi dei motivi a delinquere e del carattere dell’imputato, dei precedenti penali, della condotta contemporanea e susseguente al reato e delle condizioni di vita individuale e familiare. Tutti parametri che presuppongono una valutazione sul caso di specie e che, non consentirebbero, in caso di rigetto della richiesta di messa alla prova, di garantire la doverosa terzeità ed “illibatezza” del giudice del dibattimento.
Inoltre, ai sensi dell’art. 464 bis comma 5 c.p.p., è riconosciuto al Giudice un prezioso (per quanto eccezionale) potere istruttorio (in funzione della decisione sulla messa alla prova). Gli è infatti consentito acquisire (ulteriori) informazioni sulle condizioni di vita dell’imputato, salvo poi il dovere di portare gli elementi probatori extraprocessuali in tale modo raccolti – siano essi documenti o dichiarazioni – a conoscenza delle parti del giudizio in corso.
L’analisi del dettato normativo consente, prima facie, di ritenere fondata la questione di illegittimità costituzionale prospettata dal Tribunale di Spoleto, in considerazione dell’ampia discrezionalità valutativa che il legislatore ha voluto attribuire all’organo giudicante.
2. I poteri valutativi del giudice nella fase di ammissione alla prova: un breve excursus delle recenti sentenza.
La giurisprudenza più volte si è interrogata sui limiti cognitivi del giudice in sede di ammissione dell’imputato al rito speciale della sospensione del procedimento con messa alla prova, delineando, in tal modo, il perimetro valutativo in relazione ai diversi criteri normativi indicati sia dagli artt. 168 bis e quater c.p., sia dagli artt. 464 bis e quater c.p.p.
In merito alla valutazione del fatto e alla verifica della ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 168 bis c.p., si è ripetutamente affermato che il giudice deve verificare la correttezza della qualificazione giuridica attribuita al fatto dall’accusa ed eventualmente provvedere a modificarla, ove non la si ritenga corretta, traendone le conseguenze sul piano della ricorrenza del beneficio in parola[1]. Il giudice, pertanto, può procedere a tale valutazione mediante una delibazione che si nutra dei materiali disponibili, i quali, a seconda del momento in cui viene avanzata la richiesta, saranno più o meno ampi. Può, altresì, essere sentita la persona offesa e anche tale corredo informativo può essere posto a fondamento della decisione sull’ammissibilità al rito speciale.
In altri termini, la richiesta può trovare accoglimento solo nel caso in cui il giudice al quale viene rivolta, all’esito di un percorso valutativo, reputi idoneo il programma di trattamento presentato e ritenga che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati, avendo sempre come punto di riferimento la gravità del reato, la capacità a delinquere del prevenuto, l’idoneità del programma di trattamento, la possibilità di formulare una prognosi favorevole nei confronti dell’imputato sulla circostanza che egli per il futuro si asterrà dal commettere ulteriori reati[2].
Tra i vari aspetti sottoposti alla valutazione del giudice vi è anche quello attinente all’obbligo – in capo all’imputato – di risarcire «ove possibile» il danno, obbligo previsto dall’art. 168 bis, comma 2, c.p.; valutazione che comporta inevitabilmente una commisurazione tra grado di colpa, gravità del fatto e gravità del danno e la locuzione «ove possibile» presuppone un bilanciamento tra il pregiudizio patrimoniale arrecato alla vittima e lo sforzo “massimo” richiedibile all’imputato; invero il giudice è chiamato anche a valutare le condizioni economiche dell’imputato utilizzando i propri poteri ufficiosi[3].
Appare innegabile che la giurisprudenza, sulla scorta dell’analisi del dettato normativo, abbia conferito al giudice un evidente potere valutativo che gli impone una conoscenza, seppure preliminare ma non certo superficiale, del fatto e della sua corretta qualificazione giuridica, della gravità del reato, del grado di colpa, della proporzione tra offerta risarcitoria e gravità del danno, oltre alla valutazione dei parametri di cui all’art. 129 c.p.p.
Affermare, come viene sancito in alcune pronunce, che nel caso di rigetto della richiesta di messa alla prova manchi una situazione pregiudicante della decisione interlocutoria o anche definitoria, poiché l’ordinanza di rigetto del giudice non implica una valutazione di merito dell’ipotesi di accusa[4], significa comprimere i poteri valutativi del giudici che la stessa giurisprudenza delinea in modo chiaro.
3. Il precedente analogo: l’ordinanza n. 19 del 2017 e il rigetto da parte della Consulta.
E’ noto che analoga questione era già stata sollevata dinnanzi alla Corte Costituzionale, ipotizzandosi un presunto contrasto dell’art. 34 comma 2 c.p.p. (contenente l’elenco dei tassativi casi di incompatibilità del Giudice determinata da atti compiuti nel procedimento) con i precetti di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui non viene ivi prevista (anche) l’incompatibilità a partecipare e/o procedere al (successivo) giudizio (ordinario) del Giudice del dibattimento che ha rigettato la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato;
La suddetta questione è stata dichiarata inammissibile con ordinanza n. 19 del 2017 e la dichiarazione di inammissibilità si è fondata su un argomento di mera natura procedurale, ovvero, sul fatto che il giudice a quo non aveva, nell’ordinanza di rimessione degli atti, (autonomamente) motivato le ragioni per cui riteneva fondata la questione medesima.
Premesso ciò e non essendosi di fatto mai pronunciata la Consulta sulla specifica questione, nulla impedisce una rivisitazione del tema estesa al merito.
4. Prime riflessioni
La questione di incostituzionalità sollevata dalla difesa dell’imputato appare rilevante e fondata, essendo certo meritevoli di una più approfondita verifica i dubbi interpretativi prospettati dal difensore nell’applicazione della norma dettata dall’art. 34 c.p.p., in rapporto alla disciplina codicistica della messa alla prova.
Del resto, che la commissione di un reato ad opera dell’imputato sia alla base della sospensione del processo per messa alla prova trova, come abbiamo visto, indiretta conferma sistematica nel disposto dell’art. 168 quater c.p.; dell’art. 464 quater comma 3 c.p.p. e dell’art. 464 septies c.p.p.
Di particolare interesse è poi l’individuazione della piattaforma conoscitiva da cui l’organo giudiziario è abilitato a trarre gli elementi per una compiuta decisione sulla richiesta di sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato. Infatti, il giudice può fare largo uso di quanto contenuto nel fascicolo del dibattimento ed in specie di ogni elemento in esso rappresentato come riferibile al prevenuto: dal certificato del casellario giudiziale, alla documentazione prodotta dalla difesa a sostegno della richiesta del rito in verifica, alla relazione di indagine socio-familiare eseguita dall’UEPE, comprese le dichiarazioni rilasciate dall’imputato in ordine al reato commesso ed ivi riportate. Inoltre, secondo quanto stabilito dalla Corte Costituzionale (Sentenza n. 91 del 2018), il Giudice può acquisire e visionare – così integrando la propria sfera di cognizione – gli atti di indagine preliminare contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, fermo restando l’obbligo di restituirli all’organo di accusa nell’ipotesi di successivo rigetto della richiesta. E ciò in forza di una (non vietata) applicazione analogica dell’art. 135 disp. att. c.p.p.
Sulla base di queste premesse e riconducendosi ad unità le molteplici argomentazioni sinora svolte, non si vede come si possa allora insistere in un ormai anacronistico restringimento dell’area di valutazione imposta all’organo giudiziario che finisca per optare nel senso di un rigetto dell’istanza di messa alla prova. La decisione del Giudice in materia non sembra qualificarsi come puramente procedurale e/o interlocutoria.
Anzi, nell’evenienza di mancato accoglimento della richiesta di messa alla prova, la pronuncia sembra assumere il carattere proprio della definizione di una fase – quale è quella degli atti introduttivi al dibattimento – con valutazioni necessariamente di merito sulla fondatezza dell’ipotesi accusatoria.
Simile ricostruzione dogmatica peraltro ben si concilia con la natura ibrida dell’istituto sotto osservazione che si caratterizza invero per una fisionomia sostanziale unita ad un’intrinseca dimensione processuale valevole ad elevarlo a rango di rito speciale alternativo al dibattimento. Si tratta infatti di un procedimento in tutto equiparabile all’applicazione concordata della pena su richiesta delle parti per la predominante base consensuale, atteso che, in entrambi i casi, l’imputato, in cambio dell’ottenimento di benefici sanzionatori, non contesta l’accusa, ovvero, rinuncia al pieno esercizio del diritto di difesa coessenziale al rito ordinario.
Pertanto, se in caso di rigetto della richiesta di messa alla prova (ovvero in caso di esito negativo della stessa) il giudice non versa in alcuna condizione di incompatibilità, si rischia di violare il principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge ex art. 3 Cost., per l’evidente disparità di trattamento che si realizzerebbe fra situazioni analoghe; inoltre sarebbe violato anche il diritto di difesa riconosciuto a tutti i cittadini in ogni stato e grado del procedimento ai sensi dell’art. 24 comma 2 Cost., atteso che le conseguenze negative dipendenti dalla scelta del rito speciale si tradurrebbero in ripercussioni pregiudizievoli inerenti ad una modalità di esercizio dello stesso diritto di difesa. Da ultimo, sarebbe violato l’art. 111 comma 2 Cost., infatti, il processo che dovesse proseguire con l’apertura del dibattimento davanti allo stesso magistrato che ha rigettato la richiesta di messa alla prova sarebbe inevitabilmente condizionato dalle valutazioni – negative per la posizione dell’imputato – da questi in precedenza espresse per la formazione del proprio convincimento, con grave compromissione di imparzialità e terzietà del giudice.
Ci si riserva di pubblicare e commentare la decisione della Consulta.
* Il presente contributo è stato sottoposto alla valutazione di un revisore, con esito favorevole.
[1] Corte Cost., Sent. 3 aprile 2019, dep. 29 maggio 2019, n. 131, in Cass. Pen. , 2019, fasc. 10, pag. 3617, con nota di Aprile; Corte Cass. Sez. IV, ud. 8 maggio 2018, dep. 31 luglio 2018, n. 36752 in CED Cass.; Cass. Sez. IV, ud. 20 ottobre 2015 , n. 4527, in Riv. Pen. 2016, 4, 340
[2] cfr., Cass. Pen., Sez. V, ud. 26 ottobre 2015 n. 7.983, in Riv. Pen. 2016, 4, 341.
[3] Cass. Pen. Sez. II, ud. 13 giugno 2019, n.34878, in Guida al diritto 2019, 41, 77.
[4] Cass. Pen. sez. IV, 09 luglio 2019, dep. 24 luglio 2019, n.33260.
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La Consulta si pronuncia sulla incompatibilità del G.i.p. a pronunciarsi sulla nuova richiesta di decreto penale di condanna: inammissibili le q.l.c.
Sospensione della pena e non menzione della condanna nel casellario: illegittimità costituzionale parziale.
Foglio di via del Questore: per la Consulta non è necessaria la convalida del giudice.
La Consulta sull’obbligo di testimoniare del prossimo congiunto dell’imputato che sia persona offesa dal reato.
La Consulta si pronuncia sulla incompatibilità del G.i.p. a pronunciarsi sulla nuova richiesta di decreto penale di condanna: inammissibili le q.l.c.
Sospensione della pena e non menzione della condanna nel casellario: illegittimità costituzionale parziale.
Foglio di via del Questore: per la Consulta non è necessaria la convalida del giudice.