1. Dopo una lunga e travagliata vicenda parlamentare e governativa, è stata approvata la legge Cartabia di riforma della giustizia penale.
Avviata dal Ministro Bonafede, con A.C. 2435 che ha accolto al suo interno anche le implicazioni processuali della sospensione della prescrizione con la sentenza di primo grado, in conseguenza di quanto previsto con la l. n. 3 del 2019 (c.d. Spazzacorrotti), la riforma ha avuto varie vicissitudini in relazione al mutato orizzonte politico culminato nella nascita del Governo Draghi e alla necessità di adempiere agli impegni assunti in sede europea.
Al fine di ottenere gli stanziamenti del P.N.R.R. era necessaria una riforma capace di abbattere del 25% il carico giudiziario ed i tempi dei processi penali.
E’ stato quindi necessario intervenire sulla struttura del progetto Bonafede, già incardinato alla Camera, e trovare una risposta alle riferite negative implicazioni della sospensione del corso della prescrizione che, mancando, a differenza della precedente riforma Orlano (l. n. 103 del 2017), tempi certi di celebrazione della fase di gravame, rischiava di vedere l’imputato sottoposto “a vita” al procedimento penale.
Per l’elaborazione di questo insieme di previsioni, la Ministra Cartabia ha insediato una Commissione di studio, presieduta dal Presidente emerito della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi, il cui elaborato è stato poi emendato, a più riprese dal Governo che ha avviato una complessa fase di mediazione con le forze politiche che sostengono il Governo.
Il frutto di tale labirintico percorso è appunto la L. 134 del 2021, nella quale è conservata la doppia “anima” iniziale costituita da una legge delega e da alcune previsioni connesse alla prescrizione di immediata operatività.
Approvato con la tecnica del maxiemendamento, il provvedimento, infatti, si sostanzia in 2 soli articoli strutturati in più commi (i vecchi articoli appunto).
2. La delega tocca quasi tutti i settori della materia processuale (esclusa la fase esecutiva) ed è accompagnata da una significativa riforma del sistema sanzionatorio che aspira al superamento della logica carceraria del nostro sistema penale.
Al fianco di aggiustamenti e di meccanismi che hanno evidenziato criticità e riserve che si cerca di perfezionare e aggiustare in una logica di funzionalità ed efficienza, c’è indubbiamente – pur nella profonda differenza di approccio tra il modello Lattanzi e quello Cartabia – una idea di processo che cerca di perseguire il modello di giustizia -25% ma con la proiezione al suo consolidamento.
Sotto il profilo di messa a punto di meccanismi processuali che hanno evidenziato maggiori criticità, ovvero che anche alla luce delle non pienamente condivise, o addirittura censurate decisioni giurisprudenziali lesive dei diritti costituzionalmente garantiti non possono non segnalarsi le direttive in tema di notificazioni, di disciplina dell’assenza e soprattutto delle indagini preliminari dove vanno segnalate le direttive in tema di iscrizione soggettiva ed oggettiva della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. con possibilità della retrodatazione disposta dal gip su richiesta dell’imputato; la disciplina del tempo delle indagini e delle tempistiche delle iniziative dell’accusa; la disciplina dei c.d. criteri di priorità dell’azione investigativa.
Non mancano, inoltre, anche profili più strettamente strutturati legati ad una diversa distribuzione delle competenze (giudice monocratico) e dei percorsi processuali (udienza predibattimentale del rito monocratico).
Non mancano anche previsioni più strettamente strutturali dell’apparato giudiziario: informatizzazione degli uffici, digitalizzazione dell’attività processuale, processo telematico e a distanza; incremento di risorse umane (l’ufficio del processo) e materiali (dotazioni).
3. Come anticipato, innestato sull’impianto Bonafede, essendo impossibile per ragioni politiche prescindere dall’A.C. 2435, la riforma costruisce una ipotesi di modello processuale teso alla realizzazione delle richieste (vere o presunte) europee della giustizia -25%. A prescindere se questo obiettivo sia stato raggiunto nella stesura finale del documento di delega, va sicuramente evidenziato comunque il diverso approccio dell’elaborato della Commissione Lattanzi (certamente più in linea con quell’obiettivo) rispetto al testo varato dal Parlamento.
Cercando di sintetizzare in termini strutturali il modello della Commissione deve dirsi che, posto l’obiettivo finale, questo si ipotizza di perseguire facendo, inizialmente, base sulla riforma del sistema sanzionatorio.
Questa premessa, che fa leva sulle pene pecuniarie e su sanzioni sostitutive della detenzione, quindi – in sintesi – su di un sistema sanzionatorio meno afflittivo, permette di sviluppare una caduta nel sistema processuale che fa capo a due ulteriori elementi: una valutazione in termini di previsione di condanna da parte del p.m. e del giudice dell’udienza preliminare alla base dei provvedimenti di archiviazione e della sentenza di non luogo, con l’obiettivo di indurre l’imputato all’accesso alle definizioni anticipate del processo che vengono significativamente incrementate nel numero e soprattutto nella premialità.
Sono così previste, in rapida elencazione: ampliamento delle ipotesi di perseguibilità a querela; estinzione delle contravvenzioni per adempimento della prestazione determinata da un organo accertatore; archiviazione meritata (sul modello dei reati ambientali e di quelli sulla sicurezza del lavoro); l’ampliamento delle ipotesi che consentono la definizione del processo per la tenuità del fatto; la più ampia possibilità di accedere alla sospensione e messa alla prova; le condotte riparatorie; la giustizia riparativa; l’ampliamento delle condizioni per l’emissione del decreto penale di condanna; l’abbattimento della metà della pena prevista in concreto per definire il processo con la pena patteggiata dove si prevede anche l’esclusione delle ipotesi ostative; rito abbreviato condizionato celebrato in dibattimento “concepito come ultima chiamata”; conferma del concordato in appello senza preclusioni di reato.
Non mancano anche ipotesi che cercano di arginare gli sviluppi processuali: disincentivi premiali alla proponibilità dei gravami; sentenza inappellabile di non doversi procedere in caso di impossibilità di procedere in assenza; previsioni di decisioni inappellabili relativamente a reati puniti con la pena pecuniaria.
A questi elementi di exitstrategy si affiancava, a loro completamento, una riscrittura dell’appello che escludeva la legittimazione del p.m., condizionava a motivi tassativi predeterminati la proposizione da parte dell’imputato che con ulteriori incentivi premiali veniva scoraggiato a proporre gravame.
Le diverse resistenza delle forze politiche all’impianto sanzionatorio, premiale e processuale, all’impostazione della Commissione Lattanzi e la loro necessità di indicare la loro presenza nella riforma hanno condotto ad un ripensamento complessivo del modello, nel quale tutto deve tenersi nella necessaria individuazione di un minimo comune denominatore, di un punto di caduta che coaguli le diverse esigenze.
Rimasta ormai solo nelle auspicate premesse, di fatto superate, le esigenze europee del -25%, la riforma modifica la regola di giudizio, elevandola rispetto all’art. 125 disp. att. c.p.p., ma ridimensionandola rispetto alla riferita proposta Lattanzi, attenua gli indici del sistema sanzionatorio, disciplina al “ribasso” la premialità dei riti speciali, alcuni dei quali non erano riproposti.
Completava il modello la ribadita legittimazione del pubblico ministero ad appellare e la riproposizione della disciplina dell’appello da parte dell’imputato con la previsione di alcune modifiche procedurali ma soprattutto onerando lo stesso di adempimenti documentali e della specificità delle critiche alla sentenza appellata e di specificità delle richieste al giudice di secondo grado.
4. Come anticipato, la riforma oltre alla legge delega (alla quale si è fatto sino ad ora cenno, sia per la parte del processo penale, sia per quella del sistema sanzionatorio), contiene anche la nuova disciplina delle implicazioni della sospensione (diventata ora cessazione ex art. 161 bis c.p.) del decorso della prescrizione con la sentenza di primo grado. Si tratta, infatti, di raccordare questa disposizione con lo sviluppo successivo del processo, innovando rispetto alla disciplina di cui alla l. n. 103 del 2017, che non prevedeva tempi di definizione delle fasi di gravame, consegnando l’imputato ad un processo “senza fine”.
La soluzione al problema è stata individuata nell’introduzione nel codice di procedura penale attraverso una scansione dei tempi per la celebrazione dell’appello e del ricorso per cassazione il cui rispetto determina la pronuncia di una decisione di improcedibilità per mancato rispetto della durata ragionevole del processo che trova collocazione all’art. 344 bis del codice di procedura penale.
Si prevede, infatti, che l’azione penale divenga improcedibile qualora il grado di appello non si concluda entro il termine di due anni (nuovo art. 344 bis, comma 1, c.p.p.) e qualora il giudizio di Cassazione non si concluda entro un anno (nuovo art. 344 bis, comma 2, c.p.p.); il dies a quo è fissato nel “novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall’art. 544, come eventualmente prorogato ai sensi dell’art. 154 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del presente codice, per il deposito della motivazione della sentenza” (nuovo art, 344 bis, comma 3, c.p.p., ossia da novanta giorni secchi; in caso di motivazione contestuale, fino al 270° giorno dalla pronuncia di primo grado, in caso di concessione della massima proroga per il deposito dei motivi). I riferiti termini di fase sono in linea con quanto previsto dalla Legge Pinto in relazione al principio di durata ragionevole del processo (art. 111 Cost. e 6 Cedu).
E’ previsto peraltro che il giudice procedente – con ordinanza motivata – possa prorogarli, rispettivamente, per un periodo non superiore all’anno (in appello) e per un periodo non superiore a sei mesi (in Cassazione) nel caso di giudizio (valutato come) particolarmente complesso “in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare” (art. 344 bis, comma 4, c.p.p.).
Qualora si tratti di taluni delitti di criminalità organizzata o sessuali di particolare gravità – quelli previsti agli artt. 270, comma 3, 306, comma 2, 416 bis, 416 ter, 609 bis, nelle ipotesi aggravate di cui all’art. 609 ter, 609 quater e 609 octies c.p., nonché i delitti aggravati ai sensi dell’art. 416 bis 1, primo comma, c.p. e il delitto di cui all’art. 74 d.p.r. n. 309 del 1990 – il giudice può disporre “Ulteriori proroghe”, della medesima durata di quelle appena viste e sempre che risulti una notevole complessità del giudizio (art. 344 bis, comma 4, c.p.p.).
Qualora si proceda per i delitti aggravati ex art. 416 bis 1, primo comma, c.p., “i periodi di proroga non possono superare complessivamente tre anni nel giudizio di appello e un anno e sei mesi nel giudizio di cassazione”, ossia tre anni che si aggiungono ai due anni “ordinari” in appello e un anno e sei mesi che si aggiungono all’anno “ordinario” avanti alla Suprema Corte (art. 344 bis, comma 4, c.p.p.).
Da quest’ultima specificazione si può desumere che negli altri casi di delitti di particolare allarme sociale per cui sono possibili “Ulteriori proroghe”, queste ultime non sono vincolate a nessun tetto massimo, apparendo replicabili (sempre che il giudicante ravvisi la particolare complessità della trattazione); “senza limiti di tempo (non è dunque fissato un limite di durata per tali giudizi)”. Siffatto meccanismo di reiterazione delle proroghe motivato con la difficoltà di prefissare in astratto termini ragionevoli delle fasi processuali, suscita non poche perplessità alla luce del principio di determinatezza, poiché per tal via si apre la possibilità di processi “a tempo indeterminato”.
L’ordinanza di proroga è ricorribile per cassazione; in caso di rigetto o di inammissibilità, “la questione non può essere riproposta con l’impugnazione della sentenza” (art. 344 bis, comma 5, c.p.p.).
Oltre all’estensione alla nuova prescrizione processuale delle cause di sospensione di cui all’art. 159, comma 1, c.p.p., è previsto che il corso della improcedibilità resta sospeso per il tempo occorrente alla rinnovazione istruttoria ma per un periodo che tra un’udienza e quella successiva non può comunque eccedere sessanta giorni (art. 344 bis, comma 6, c.p.p.) e, pertanto, in caso di più udienze il termine di sospensione si reitera.
I termini di fase sono altresì sospesi quando è necessario procedere a nuove ricerche dell’imputato per la notificazione del decreto di citazione per il giudizio di appello o degli avvisi da parte della Corte di Cassazione all’imputato privo di difensore di fiducia; l’effetto sospensivo si estende a tutti gli imputati nei cui confronti si sta procedendo e opera dalla data in cui l’autorità giudiziaria dispone le nuove ricerche sino alla data in cui la notificazione è effettuata (art. 344 bis, comma 6, c.p.p.).
Come la prescrizione sostanziale, anche quella processuale è rinunciabile dall’imputato (art. 344 bis, comma 7, c.p.p.) e non ha ad oggetto i delitti (autonomi o circostanziati) puniti con l’ergastolo (art. 344 bis, comma 9, c.p.p.).
Al fine di evitare un impatto forte delle nuove scansioni in realtà oberate da notevoli carichi giudiziari non ci sono previsioni per le – limitate – modifiche alla prescrizione del reato (operando quindi le regole generali di cui all’art. 2 c.p.), per la causa di improcedibilità è disposta una retroattività “mitigata”, essendo previsto che la previsione si applichi ai reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020 (data di entrata in vigore della l. n. 3 del 2019); tuttavia, nei procedimenti nei quali l’impugnazione è proposta entro il 31 dicembre 2024 e nei giudizi conseguenti ad annullamento con rinvio pronunciato prima del 31 dicembre 2024 i termini di fase non sono quelli “ordinari” (due anni in appello, un anno in Cassazione), bensì termini prolungati, ossia tre anni per il giudizio d’appello e un anno e sei mesi per il ricorso in Cassazione, ma anche conseguentemente il tempo per i reati della fascia intermedia.
5. Sono numerose, com’è facile intuire, le ricadute sia in termini di legittimità costituzionale, sia sotto l’aspetto più strettamente processuale che la norma implica (legittimità dalla previsione; ragionevolezza del sistema ibrido così concepito tra prescrizione e improcedibilità; ragionevolezza delle scansioni tra i vari reati; poteri del giudice nel disporre le proroghe e tassatività dei relativi presupposti).
Non mancano carenze normative e dubbi interpretativi nell’orizzonte applicativo della previsione.
Sono facili da delineare due situazioni di un certo rilievo. Innanzitutto, si dovrebbe ritenere che la declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione prevalga sulla declaratoria di improcedibilità.
In secondo luogo, non appare infondato sostenere che con la declaratoria di improcedibilità, non c’è né condanna, né proscioglimento. Sono assorbite le precedenti decisioni sia di condanna, sia di assoluzione; si caducano le misure cautelari personali (anche quelle a tutela della vittima) e quelle reali; l’imputato perde il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione; vengono meno i provvedimenti civili provvisoriamente esecutivi nonché le decisioni di confisca; nessuna decisione sul querelante; si prospettano questioni sul valore probatorio del materiale in un altro procedimento; in caso di annullamento con rinvio per la determinazione della pena viene meno il giudicato sulla responsabilità; forse l’imputato può avvalersi della legge Pinto.
Questi due elementi non possono non rafforzare gli interrogativi di costituzionalità della nuova ipotesi definitoria, nonché le carenze normative che essa prospetta.
Resterà, altresì, necessario considerare, al di là delle possibili modifiche alla norma base ed alle citate carenze normative, come il nuovo meccanismo si inserirà nella riforma del giudizio d’appello di cui alla delega, dove sono previste oltre a quelle già citate ulteriori nuove regole.
6.Si tratta, in conclusione, di una riforma complessa che richiederà una attenta valutazione da parte degli operatori della giustizia e che dovrà misurarsi sulla frastagliata geografia giudiziaria del nostro Paese, nella differenziazione dei carichi di lavoro nei diversi uffici giudiziari e nella diversità dei fenomeni criminali tra le corti d’appello, nonché sui comportamenti processuali delle parti.
Tra politica e giustizia: la riforma Cartabia
1. Dopo una lunga e travagliata vicenda parlamentare e governativa, è stata approvata la legge Cartabia di riforma della giustizia penale.
Avviata dal Ministro Bonafede, con A.C. 2435 che ha accolto al suo interno anche le implicazioni processuali della sospensione della prescrizione con la sentenza di primo grado, in conseguenza di quanto previsto con la l. n. 3 del 2019 (c.d. Spazzacorrotti), la riforma ha avuto varie vicissitudini in relazione al mutato orizzonte politico culminato nella nascita del Governo Draghi e alla necessità di adempiere agli impegni assunti in sede europea.
Al fine di ottenere gli stanziamenti del P.N.R.R. era necessaria una riforma capace di abbattere del 25% il carico giudiziario ed i tempi dei processi penali.
E’ stato quindi necessario intervenire sulla struttura del progetto Bonafede, già incardinato alla Camera, e trovare una risposta alle riferite negative implicazioni della sospensione del corso della prescrizione che, mancando, a differenza della precedente riforma Orlano (l. n. 103 del 2017), tempi certi di celebrazione della fase di gravame, rischiava di vedere l’imputato sottoposto “a vita” al procedimento penale.
Per l’elaborazione di questo insieme di previsioni, la Ministra Cartabia ha insediato una Commissione di studio, presieduta dal Presidente emerito della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi, il cui elaborato è stato poi emendato, a più riprese dal Governo che ha avviato una complessa fase di mediazione con le forze politiche che sostengono il Governo.
Il frutto di tale labirintico percorso è appunto la L. 134 del 2021, nella quale è conservata la doppia “anima” iniziale costituita da una legge delega e da alcune previsioni connesse alla prescrizione di immediata operatività.
Approvato con la tecnica del maxiemendamento, il provvedimento, infatti, si sostanzia in 2 soli articoli strutturati in più commi (i vecchi articoli appunto).
2. La delega tocca quasi tutti i settori della materia processuale (esclusa la fase esecutiva) ed è accompagnata da una significativa riforma del sistema sanzionatorio che aspira al superamento della logica carceraria del nostro sistema penale.
Al fianco di aggiustamenti e di meccanismi che hanno evidenziato criticità e riserve che si cerca di perfezionare e aggiustare in una logica di funzionalità ed efficienza, c’è indubbiamente – pur nella profonda differenza di approccio tra il modello Lattanzi e quello Cartabia – una idea di processo che cerca di perseguire il modello di giustizia -25% ma con la proiezione al suo consolidamento.
Sotto il profilo di messa a punto di meccanismi processuali che hanno evidenziato maggiori criticità, ovvero che anche alla luce delle non pienamente condivise, o addirittura censurate decisioni giurisprudenziali lesive dei diritti costituzionalmente garantiti non possono non segnalarsi le direttive in tema di notificazioni, di disciplina dell’assenza e soprattutto delle indagini preliminari dove vanno segnalate le direttive in tema di iscrizione soggettiva ed oggettiva della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. con possibilità della retrodatazione disposta dal gip su richiesta dell’imputato; la disciplina del tempo delle indagini e delle tempistiche delle iniziative dell’accusa; la disciplina dei c.d. criteri di priorità dell’azione investigativa.
Non mancano, inoltre, anche profili più strettamente strutturati legati ad una diversa distribuzione delle competenze (giudice monocratico) e dei percorsi processuali (udienza predibattimentale del rito monocratico).
Non mancano anche previsioni più strettamente strutturali dell’apparato giudiziario: informatizzazione degli uffici, digitalizzazione dell’attività processuale, processo telematico e a distanza; incremento di risorse umane (l’ufficio del processo) e materiali (dotazioni).
3. Come anticipato, innestato sull’impianto Bonafede, essendo impossibile per ragioni politiche prescindere dall’A.C. 2435, la riforma costruisce una ipotesi di modello processuale teso alla realizzazione delle richieste (vere o presunte) europee della giustizia -25%. A prescindere se questo obiettivo sia stato raggiunto nella stesura finale del documento di delega, va sicuramente evidenziato comunque il diverso approccio dell’elaborato della Commissione Lattanzi (certamente più in linea con quell’obiettivo) rispetto al testo varato dal Parlamento.
Cercando di sintetizzare in termini strutturali il modello della Commissione deve dirsi che, posto l’obiettivo finale, questo si ipotizza di perseguire facendo, inizialmente, base sulla riforma del sistema sanzionatorio.
Questa premessa, che fa leva sulle pene pecuniarie e su sanzioni sostitutive della detenzione, quindi – in sintesi – su di un sistema sanzionatorio meno afflittivo, permette di sviluppare una caduta nel sistema processuale che fa capo a due ulteriori elementi: una valutazione in termini di previsione di condanna da parte del p.m. e del giudice dell’udienza preliminare alla base dei provvedimenti di archiviazione e della sentenza di non luogo, con l’obiettivo di indurre l’imputato all’accesso alle definizioni anticipate del processo che vengono significativamente incrementate nel numero e soprattutto nella premialità.
Sono così previste, in rapida elencazione: ampliamento delle ipotesi di perseguibilità a querela; estinzione delle contravvenzioni per adempimento della prestazione determinata da un organo accertatore; archiviazione meritata (sul modello dei reati ambientali e di quelli sulla sicurezza del lavoro); l’ampliamento delle ipotesi che consentono la definizione del processo per la tenuità del fatto; la più ampia possibilità di accedere alla sospensione e messa alla prova; le condotte riparatorie; la giustizia riparativa; l’ampliamento delle condizioni per l’emissione del decreto penale di condanna; l’abbattimento della metà della pena prevista in concreto per definire il processo con la pena patteggiata dove si prevede anche l’esclusione delle ipotesi ostative; rito abbreviato condizionato celebrato in dibattimento “concepito come ultima chiamata”; conferma del concordato in appello senza preclusioni di reato.
Non mancano anche ipotesi che cercano di arginare gli sviluppi processuali: disincentivi premiali alla proponibilità dei gravami; sentenza inappellabile di non doversi procedere in caso di impossibilità di procedere in assenza; previsioni di decisioni inappellabili relativamente a reati puniti con la pena pecuniaria.
A questi elementi di exitstrategy si affiancava, a loro completamento, una riscrittura dell’appello che escludeva la legittimazione del p.m., condizionava a motivi tassativi predeterminati la proposizione da parte dell’imputato che con ulteriori incentivi premiali veniva scoraggiato a proporre gravame.
Le diverse resistenza delle forze politiche all’impianto sanzionatorio, premiale e processuale, all’impostazione della Commissione Lattanzi e la loro necessità di indicare la loro presenza nella riforma hanno condotto ad un ripensamento complessivo del modello, nel quale tutto deve tenersi nella necessaria individuazione di un minimo comune denominatore, di un punto di caduta che coaguli le diverse esigenze.
Rimasta ormai solo nelle auspicate premesse, di fatto superate, le esigenze europee del -25%, la riforma modifica la regola di giudizio, elevandola rispetto all’art. 125 disp. att. c.p.p., ma ridimensionandola rispetto alla riferita proposta Lattanzi, attenua gli indici del sistema sanzionatorio, disciplina al “ribasso” la premialità dei riti speciali, alcuni dei quali non erano riproposti.
Completava il modello la ribadita legittimazione del pubblico ministero ad appellare e la riproposizione della disciplina dell’appello da parte dell’imputato con la previsione di alcune modifiche procedurali ma soprattutto onerando lo stesso di adempimenti documentali e della specificità delle critiche alla sentenza appellata e di specificità delle richieste al giudice di secondo grado.
4. Come anticipato, la riforma oltre alla legge delega (alla quale si è fatto sino ad ora cenno, sia per la parte del processo penale, sia per quella del sistema sanzionatorio), contiene anche la nuova disciplina delle implicazioni della sospensione (diventata ora cessazione ex art. 161 bis c.p.) del decorso della prescrizione con la sentenza di primo grado. Si tratta, infatti, di raccordare questa disposizione con lo sviluppo successivo del processo, innovando rispetto alla disciplina di cui alla l. n. 103 del 2017, che non prevedeva tempi di definizione delle fasi di gravame, consegnando l’imputato ad un processo “senza fine”.
La soluzione al problema è stata individuata nell’introduzione nel codice di procedura penale attraverso una scansione dei tempi per la celebrazione dell’appello e del ricorso per cassazione il cui rispetto determina la pronuncia di una decisione di improcedibilità per mancato rispetto della durata ragionevole del processo che trova collocazione all’art. 344 bis del codice di procedura penale.
Si prevede, infatti, che l’azione penale divenga improcedibile qualora il grado di appello non si concluda entro il termine di due anni (nuovo art. 344 bis, comma 1, c.p.p.) e qualora il giudizio di Cassazione non si concluda entro un anno (nuovo art. 344 bis, comma 2, c.p.p.); il dies a quo è fissato nel “novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall’art. 544, come eventualmente prorogato ai sensi dell’art. 154 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del presente codice, per il deposito della motivazione della sentenza” (nuovo art, 344 bis, comma 3, c.p.p., ossia da novanta giorni secchi; in caso di motivazione contestuale, fino al 270° giorno dalla pronuncia di primo grado, in caso di concessione della massima proroga per il deposito dei motivi). I riferiti termini di fase sono in linea con quanto previsto dalla Legge Pinto in relazione al principio di durata ragionevole del processo (art. 111 Cost. e 6 Cedu).
E’ previsto peraltro che il giudice procedente – con ordinanza motivata – possa prorogarli, rispettivamente, per un periodo non superiore all’anno (in appello) e per un periodo non superiore a sei mesi (in Cassazione) nel caso di giudizio (valutato come) particolarmente complesso “in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare” (art. 344 bis, comma 4, c.p.p.).
Qualora si tratti di taluni delitti di criminalità organizzata o sessuali di particolare gravità – quelli previsti agli artt. 270, comma 3, 306, comma 2, 416 bis, 416 ter, 609 bis, nelle ipotesi aggravate di cui all’art. 609 ter, 609 quater e 609 octies c.p., nonché i delitti aggravati ai sensi dell’art. 416 bis 1, primo comma, c.p. e il delitto di cui all’art. 74 d.p.r. n. 309 del 1990 – il giudice può disporre “Ulteriori proroghe”, della medesima durata di quelle appena viste e sempre che risulti una notevole complessità del giudizio (art. 344 bis, comma 4, c.p.p.).
Qualora si proceda per i delitti aggravati ex art. 416 bis 1, primo comma, c.p., “i periodi di proroga non possono superare complessivamente tre anni nel giudizio di appello e un anno e sei mesi nel giudizio di cassazione”, ossia tre anni che si aggiungono ai due anni “ordinari” in appello e un anno e sei mesi che si aggiungono all’anno “ordinario” avanti alla Suprema Corte (art. 344 bis, comma 4, c.p.p.).
Da quest’ultima specificazione si può desumere che negli altri casi di delitti di particolare allarme sociale per cui sono possibili “Ulteriori proroghe”, queste ultime non sono vincolate a nessun tetto massimo, apparendo replicabili (sempre che il giudicante ravvisi la particolare complessità della trattazione); “senza limiti di tempo (non è dunque fissato un limite di durata per tali giudizi)”. Siffatto meccanismo di reiterazione delle proroghe motivato con la difficoltà di prefissare in astratto termini ragionevoli delle fasi processuali, suscita non poche perplessità alla luce del principio di determinatezza, poiché per tal via si apre la possibilità di processi “a tempo indeterminato”.
L’ordinanza di proroga è ricorribile per cassazione; in caso di rigetto o di inammissibilità, “la questione non può essere riproposta con l’impugnazione della sentenza” (art. 344 bis, comma 5, c.p.p.).
Oltre all’estensione alla nuova prescrizione processuale delle cause di sospensione di cui all’art. 159, comma 1, c.p.p., è previsto che il corso della improcedibilità resta sospeso per il tempo occorrente alla rinnovazione istruttoria ma per un periodo che tra un’udienza e quella successiva non può comunque eccedere sessanta giorni (art. 344 bis, comma 6, c.p.p.) e, pertanto, in caso di più udienze il termine di sospensione si reitera.
I termini di fase sono altresì sospesi quando è necessario procedere a nuove ricerche dell’imputato per la notificazione del decreto di citazione per il giudizio di appello o degli avvisi da parte della Corte di Cassazione all’imputato privo di difensore di fiducia; l’effetto sospensivo si estende a tutti gli imputati nei cui confronti si sta procedendo e opera dalla data in cui l’autorità giudiziaria dispone le nuove ricerche sino alla data in cui la notificazione è effettuata (art. 344 bis, comma 6, c.p.p.).
Come la prescrizione sostanziale, anche quella processuale è rinunciabile dall’imputato (art. 344 bis, comma 7, c.p.p.) e non ha ad oggetto i delitti (autonomi o circostanziati) puniti con l’ergastolo (art. 344 bis, comma 9, c.p.p.).
Al fine di evitare un impatto forte delle nuove scansioni in realtà oberate da notevoli carichi giudiziari non ci sono previsioni per le – limitate – modifiche alla prescrizione del reato (operando quindi le regole generali di cui all’art. 2 c.p.), per la causa di improcedibilità è disposta una retroattività “mitigata”, essendo previsto che la previsione si applichi ai reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020 (data di entrata in vigore della l. n. 3 del 2019); tuttavia, nei procedimenti nei quali l’impugnazione è proposta entro il 31 dicembre 2024 e nei giudizi conseguenti ad annullamento con rinvio pronunciato prima del 31 dicembre 2024 i termini di fase non sono quelli “ordinari” (due anni in appello, un anno in Cassazione), bensì termini prolungati, ossia tre anni per il giudizio d’appello e un anno e sei mesi per il ricorso in Cassazione, ma anche conseguentemente il tempo per i reati della fascia intermedia.
5. Sono numerose, com’è facile intuire, le ricadute sia in termini di legittimità costituzionale, sia sotto l’aspetto più strettamente processuale che la norma implica (legittimità dalla previsione; ragionevolezza del sistema ibrido così concepito tra prescrizione e improcedibilità; ragionevolezza delle scansioni tra i vari reati; poteri del giudice nel disporre le proroghe e tassatività dei relativi presupposti).
Non mancano carenze normative e dubbi interpretativi nell’orizzonte applicativo della previsione.
Sono facili da delineare due situazioni di un certo rilievo. Innanzitutto, si dovrebbe ritenere che la declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione prevalga sulla declaratoria di improcedibilità.
In secondo luogo, non appare infondato sostenere che con la declaratoria di improcedibilità, non c’è né condanna, né proscioglimento. Sono assorbite le precedenti decisioni sia di condanna, sia di assoluzione; si caducano le misure cautelari personali (anche quelle a tutela della vittima) e quelle reali; l’imputato perde il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione; vengono meno i provvedimenti civili provvisoriamente esecutivi nonché le decisioni di confisca; nessuna decisione sul querelante; si prospettano questioni sul valore probatorio del materiale in un altro procedimento; in caso di annullamento con rinvio per la determinazione della pena viene meno il giudicato sulla responsabilità; forse l’imputato può avvalersi della legge Pinto.
Questi due elementi non possono non rafforzare gli interrogativi di costituzionalità della nuova ipotesi definitoria, nonché le carenze normative che essa prospetta.
Resterà, altresì, necessario considerare, al di là delle possibili modifiche alla norma base ed alle citate carenze normative, come il nuovo meccanismo si inserirà nella riforma del giudizio d’appello di cui alla delega, dove sono previste oltre a quelle già citate ulteriori nuove regole.
6.Si tratta, in conclusione, di una riforma complessa che richiederà una attenta valutazione da parte degli operatori della giustizia e che dovrà misurarsi sulla frastagliata geografia giudiziaria del nostro Paese, nella differenziazione dei carichi di lavoro nei diversi uffici giudiziari e nella diversità dei fenomeni criminali tra le corti d’appello, nonché sui comportamenti processuali delle parti.
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