1.- Il processo penale genera al suo interno situazioni di conflitto fra l’interesse di persecuzione penale, tutelato dall’art. 112 cost. con la prescrizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, e altri interessi che pure godono di uguale copertura costituzione.
La legge ordinaria, nel dare attuazione all’art. 112 cost., ha di fronte due compiti a cui deve doverosamente adempiere: prevedere norme di esercizio dell’azione penale secondo il canone della legalità, senza sconfinamenti in scelte di opportunità; farsi carico della necessità di bilanciamento tra l’interesse di persecuzione penale con altri anch’essi costituzionalmente tutelati quando in date situazioni concrete siano tra loro confliggenti perché la tutela dell’uno comporta il sacrificio di una altro e siano quindi da predisporre criteri di legalità per stabilire l’opzione di tutela a favore di quello che risulti preminente.
Quest’ultima operazione normativa non è consegnata alla discrezionalità politica del legislatore ordinario, ma è costituzionalmente doverosa: la normazione di fonte ordinaria non deve ignorare situazioni di conflitto assumendo come assoluto l’interesse di persecuzione penale e negligendo altri valori costituzionali; vanno previsti meccanismi di risoluzione dei conflitti con il bilanciamento fra quegli interessi che non sono suscettibili di contemporanea tutela; sono da fissare criteri di bilanciamento che presiedano a valutazioni informate non all’opportunità, ma alla legalità.
2.- Di tale bilanciamento la legge ordinaria si fa carico in più materie e con diverse tecniche normative.
In una prima classe di disposizioni il bilanciamento è compiutamente esaurito nella legge stessa con la previsione di cause di non punibilità o di condizioni di procedibilità aventi la loro ragion politica nella salvaguardia di interessi ritenuti prevalenti a quello di persecuzione penale[1].
In una seconda classe di disposizioni il bilanciamento tra interessi diversi è operato con la previsione di fattispecie costitutive del dovere di promuovere l’azione penale tra i cui estremi sono contemplati anche gli esiti di valutazioni demandate al pubblico ministero secondo criteri previsti dalla legge stessa e quindi con un atto la cui qualificazione giuridica soggettiva è propria della “discrezionalità” quale figura di specie del genere “dovere”[2] . È sin d’ora da fissare la ragione necessaria di questa scelta tecnico-normativa: sono in gioco conflitti la cui risoluzione non può essere affidata a meccanismi previsti esaustivamente da normative astratte, ma richiedono anche valutazioni che devono riguardare contingenti specificità. È proprio in ciò che si esplica la funzione giudiziaria, improntata al canone della legalità. Salvo immaginare irrealisticamente che tutti i fenomeni giuridici trovino la loro regolamentazione compiuta nelle previsioni astratte, senza l’apporto giudiziario. Una deriva dogmatica, quanto mai obsoleta, indifferente alle dinamiche di attuazione delle norme giuridiche ad opera della funzione giudiziaria, da esercitarsi, è bene ribadirlo, secondo i registri della legalità.
3.- Alla seconda classe di disposizioni appartengono l’art. 27 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, concernente il procedimento minorile, e l’art. 34 dlg. 28 agosto 2000, n. 274 per il procedimento avanti il giudice di pace [3].
Nel primo è in gioco il conflitto tra l’interesse di persecuzione penale e quello concernente le esigenze educative del minore (artt. 27 c. 3 e 30 cost.). Un giudizio di irrilevanza sociale del fatto compiuto dal pubblico ministero in base ai criteri della sua tenuità e dell’occasionalità del comportamento rende il secondo prevalente sul primo e determina il dovere di non procedere.
Nel secondo si contempla il potenziale conflitto tra interessi, da un lato, di persecuzione penale e, dall’altro, di lavoro, studio, famiglia e salute (artt. 35, 34, 29 e 32 cost.): quando il fatto risulti di particolare tenuità in base ai criteri indicati nella norma, la tutela di quegli interessi prevale sull’interesse di persecuzione penale e pertanto il pubblico ministero non deve promuovere l’azione penale, ma richiedere il decreto di archiviazione.
4.- Una questione di grande rilievo, tale da coinvolgere la tenuta dell’operatività pratica del sistema processuale penale, occupa oggi il theatrum dramatis della giustizia penale rappresentando il conflitto tra interesse di persecuzione penale e interesse di efficienza giudiziaria.
Nelle analisi del gap fra domanda e offerta di giustizia è ricorrente che questo fenomeno sia avvertito come la conseguenza di fattori che allignano sul terreno di una cattiva politica della giustizia: destinazione di risorse ingiustificatamente inadeguate all’attività giudiziaria, strutture operative abbandonate all’obsolescenza, loro gestione irrazionale e inefficiente, ricorso iperbolico alla legge penale per intervenire su situazioni per le quali sarebbe da ricorrere a misure di altra natura. Senza dubbio in queste prospettazioni vi è molto di vero, ma si colgono solo aspetti patologici, la cui rimozione, quand’anche perseguita con un’accorta politica della giustizia penale, non sarebbe in grado di risolvere in modo soddisfacente il problema. Ne ridurrebbe le dimensioni, ma non lo esaurirebbe. Ad esempio, un’inversione della linea dell’iperpenalizzazione o una severa e sistematica depenalizzazione e decriminalizzazione darebbero buoni contributi, ma non risolutivi. Lo stesso è da dire di quegli altri fattori che producono il gap tra domanda e offerta di giustizia.
Quelle analisi, incentrate solo sulle cause patologiche del sottodimensionamento delle risorse destinate all’amministrazione giudiziaria, non rilevano un dato fisiologico, da riconoscersi come tale perché sempre lo si è registrato e lo si registra negli ordinamenti giudiziari moderni di ogni tempo e luogo. Il ricorrente contesto economico-finanziario, sociale e politico è che il governo della società agisce in ogni campo con risorse limitate rispetto al fabbisogno necessario per fronteggiare tutte le esigenze e ciò rende ineludibili scelte di contemperamento fra le stesse.
Si è acutamente osservato: «A partire dalla Magna Charta Libertatum (1215) di Re Giovanni Senza Terra (To no one will we deny or delay right or justice) fino all’art. 24 della nostra Costituzione e all’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il diritto di ottenere una decisione giudiziaria è stato proclamato senza accennare a limiti derivanti dalla possibilità concreta dello Stato di provvedervi. E tuttavia l’entità delle risorse pubbliche destinate alla amministrazione della giustizia delimita in ogni sistema la quantità e la qualità del servizio reso. Sul piano costituzionale – a prescindere dalla sua corretta attuazione – è significativo in proposito l’art. 81/4 Cost., che richiama il nesso tra limiti delle risorse e limiti delle garanzie assicurate dalle leggi. Si tratta di una delimitazione quantitativa e qualitativa che proviene dall’esterno del sistema normativo, imponendo ad esso di adeguarsi alla realtà di ciò che è possibile»[4].
Insomma lo scarto fra esigenze di giustizia e risorse disponibili, al di fuori della sfera dei fattori patologici, non si identifica solo con la conseguenza di una cattiva politica della giustizia. Ė un dato di realtà di cui la legge non può non tenere conto nel predisporre un sistema che si voglia equilibrato e efficiente, senza manomettere gli istituti della giustizia penale fondanti i valori della sua identità nell’ordinamento costituzionale.
In questi termini, precisamente, si manifesta l’esigenza di mettere sotto controllo il carico di lavoro mediante la «selezione del crimine»[5], affinché una sua indiscriminata immissione nei circuiti giudiziari non ne comprometta l’efficienza.
5.- L’efficienza giudiziaria è anch’essa un interesse a copertura costituzionale. Vi provvedono gli artt. 97 c. 2 e 111 c.2 cost.
Quanto alla prima disposizione, la sua interpretazione restrittiva, e cioè che atterrebbe anche agli uffici giudiziari, ma limitatamente al loro ordinamento e funzionamento per gli aspetti amministrativi e non all’esercizio della funzione giurisdizionale[6], va corretta correlandola con la seconda: la quale, stabilendo che sia assicurata la durata ragionevole del processo, presuppone come adempimento costituzionalmente dovuto che la legge disciplini l’organizzazione degli uffici giudiziari, e quindi l’esercizio dei relativi poteri, secondo criteri informati all’efficienza giudiziaria. In ciò si garantisce il «buon andamento» dell’amministrazione della giustizia. In altri termini, l’attuazione di una regola fondamentale del «giusto processo», qual è la sua durata ragionevole, necessita anzitutto di uffici che funzionino in modo adeguato a tale fine; e quindi, in una visione ermeneutica sistematica che determini i contenuti normativi delle due disposizioni, l’una è servente all’altra in modo necessario.
6.- Per altro verso, la messa a punto di una regolazione dei conflitti pratici fra i due interessi di persecuzione penale e di efficienza giudiziaria che li riconduca a soluzioni proficue e nel contempo coerenti con i valori capisaldi e le strutture procedurali dell’amministrazione della giustizia penale, richiede una rinnovata riflessione sulla portata del precetto di obbligatorietà dell’azione penale nel vigente assetto normativo.
Al riguardo è anzitutto da registrare – e qui invero sta lo snodo centrale dell’intera questione – il sensibile mutamento di questa regola nel passaggio dal codice Rocco alla Costituzione.
Nella codificazione del 1930 [7] l’interesse di persecuzione penale era tutelato come assoluto. Ciò era conseguente all’idea che la legge penale, massima esplicazione della potestà sovrana dello Stato sull’individuo, presidiasse valori irrinunciabili perché sovrastanti su ogni altro di natura sociale o individuale, in funzione della difesa dell’assetto statale. Il potere-dovere di azione penale costituiva l’inesorabile “cinghia di trasmissione” nella società di tutto il potenziale punitivo enucleato nella legge penale. Salvo, naturalmente, le eccezioni previste nel sistema legislativo, specie le cause di non punibilità e le condizioni di procedibilità.
Nella Costituzione l’interesse alla persecuzione penale è concepito non come valore di per sé preminente in termini assoluti su ogni altro, ma è tutelato dall’art. 112 cost. in un quadro sistematico plurale di valori e relativizzato in tale contesto di salvaguardie.
Il dato normativo essenziale è che l’«obbligatorietà» è stabilita non più come automaticità necessaria tra notizia di reato e azione penale, ma come regola della legalità, la quale richiede che l’esercizio del potere di azione penale sia disciplinato dalla legge ordinaria in termini di dovere prevedendone i presupposti e le modalità, così che non sia rimesso a criteri d’opportunità concepiti dal pubblico ministero in modo dichiarato o surrettizio. Ciò è dato ricavare dai lavori preparatori della Costituzione. Le discussioni del Costituente sul tema presero avvio da un articolo del progetto Calamandrei di questo tenore: «Pubblicità e legalità dell’azione penale. – L’azione penale è pubblica, e il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitarla in conformità della legge, senza poterne sospendere e ritardare l’esercizio per ragioni di convenienza» (art. 8). Il pubblico ministero, osservò Piero Calamandrei, «nella sua funzione preminente di accusa nel processo penale è tenuto ad osservare il principio di legalità» [8]. Si trattava infatti di farsi carico di prassi di uso della funzione di persecuzione penale su due versanti, l’arbitrio nei confronti della singola persona e la diseguaglianza fra le persone sia quanto a iniziativa che a inerzia.
7.- La traduzione dell’art. 112 cost. nella legge ordinaria si è vista esposta a numerose complicazioni concettuali e interpretative.
Sull’assunto inespresso, ma facilmente individuabile, che la formula precettiva dell’art. 112 cost. sia equivalente a quella del codice Rocco («Il pubblico ministero o il pretore per i reati di sua competenza inizia e esercita con le forme stabilite dalla legge l’azione penale, a norma dell’art. 1»: art. 74 c. 1), in cui con il modo indicativo («inizia e esercita») statuisce una situazione di dovere, in dottrina, per uscire da una prescrizione ritenuta troppo rigida [9], ci si è rivolti a prospettazioni innovative secondo la formula dell’ «obbligatorietà temperata».
Su un medesimo assunto si sono avanzate proposte di riforma legislativa dell’art. 112 cost. intese a aggiungere all’attuale testo la formula «nei casi e nei modi previsti dalla legge»[10].
Prese di posizioni in effetti ultronee per almeno due ordini di ragioni.
Esse sono concepite come se non fosse insito nella teoria delle fonti del diritto e nella tecnica di produzione legislativa che la formulazione della fattispecie costitutiva del dovere prescritto dalla disposizione costituzionale compete alla legge ordinaria nel rispetto dei contenuti normativi della legge superiore, così cadendo in un circolo vizioso: l’attuazione, doverosa per la legge ordinaria, del precetto costituzionale non sarebbe in grado di uscire dalla sua supposta rigidità.
Ciò in quanto si manca di rilevare la relatività, sopra segnalata, della tutela apprestata dall’art. 112 cost. all’interesse di persecuzione penale, che deve essere considerato in rapporto con altri interessi di pari copertura costituzionale, con la conseguenza che in date situazioni concrete può ingenerarsi un conflitto tra la tutela di quel primo interesse e la tutela di alcuno di questi altri.
Posto un insieme complesso di tutele costituzionali, come si è già osservato, è dunque compito doveroso della legge ordinaria che, nell’attuare la legge superiore, si prevedano criteri e meccanismi procedurali di risoluzione di situazioni di conflitto mediante il bilanciamento tra interessi di pari copertura costituzionale per i quali la tutela di uno di essi comporta il sacrificio di un altro, così da poter individuare, secondo legalità e non per scelte di opportunità, quale sia il preminente, che quindi va tutelato lasciando senza presidio, a tali condizioni in modo costituzionalmente legittimo, l’altro.
8.- Per definire il quadro normativo entro cui tale fenomeno va collocato e praticamente gestito è utile una puntuale individuazione della categoria teorica cui appartiene la cosiddetta “obbligatorietà” dell’azione penale. Tale è la categoria della situazione giuridica soggettiva della “discrezionalità”, species della figura genus del “dovere”. Da questo essa si contraddistingue, cioè per l’appunto si specifica, per la peculiarità della struttura della propria fattispecie costitutiva. Mentre la fattispecie costitutiva del dovere tout–court si compone di estremi previsti in modo compiuto dalla legge, quella della discrezionalità annovera un duplice ordine di estremi: alcuni sono previsti esaustivamente dalla legge, altri consistono in un determinato esito di valutazioni che la legge assegna al soggetto cui è attribuito il dovere e che vanno da questi compiute in base ai criteri stabiliti dalla legge stessa. Insomma la “discrezionalità” è anch’essa una situazione di “dovere”, pur originando da una fattispecie che reca in sé quelle specifiche connotazioni. Le quali la distinguono anche da situazioni di mera “opportunità” (o “facoltà”), normativamente amorfe: per le quali un soggetto può tenere un comportamento piuttosto che un altro in termini indifferenti per le regole giuridiche[11].
Nei discorsi di dottrina e giurisprudenza ricorre che i vocaboli “discrezionalità” e “opportunità” siano usati come sinonimi, sovrapponendo figure di qualificazione giuridica nettamente distinte e con ciò privandosi di categorie indispensabili per una puntuale analisi delle vicende che sostanziano l’azione penale.
È anche da annotare come la discrezionalità, intesa nei termini teoricamente corretti di species del genus “dovere” e perciò distinta dall’“opportunità” (o “facoltà”) sia in effetti la categoria normativa che in modo corretto attiene al fenomeno usualmente enunciato come “obbligatorietà” dell’azione penale; e come essa qualifichi le vicende di esercizio del potere di azione penale.
Si consideri, per tutte, la vicenda primigenia di questo potere.
Una notizia di reato acquisita dal pubblico ministero non è elemento sufficiente a produrre il dovere di promuovere l’azione penale[12]. Occorre anche che essa sia assistita da un certo grado di fondatezza. Questo ulteriore estremo della fattispecie costitutiva del dovere di azione penale è definito della legge ordinaria, che vi attende in termini differenti a seconda di come sia articolata la struttura processuale penale e in ciò, una volta fatto salvo l’essenziale nucleo di ratio legis del precetto costituzionale, spende la propria insindacabile discrezionalità politica.
Orbene, nella struttura del codice 1930 il promovimento dell’azione penale era situato in un momento procedurale embrionale. Avuta una notizia di reato, il pubblico ministero doveva verificare che non fosse manifestamente infondata; al che erano dedicate, quando non bastasse una semplice delibazione, le indagini preistruttorie. Se a seguito di queste risultava la palese infondatezza della notizia, si perveniva a un decreto di archiviazione; altrimenti si doveva dare inizio all’azione penale formulando l’imputazione, la quale si traduceva in una proposizione di basso titolo logico: «è possibile che Tizio abbia commesso il tal fatto di reato».
Nella struttura del codice vigente muta sensibilmente la collocazione del momento di promovimento dell’azione penale. Abolite la preistruzione e l’istruzione e sostituite con la fase delle indagini preliminari di cui è dominus il pubblico ministero quale unico organo dell’investigazione, le determinazioni circa l’esercizio dell’azione penale sono collocate nel momento conclusivo di tale fase, quando si è dato fondo alle ricerche necessarie e utili per ricostruire il fatto, individuarne l’autore, reperire e assicurare i mezzi di prova indispensabili ad accreditare la tesi di accusa davanti al giudice della decisione. Conseguentemente l’imputazione, quale contenuto necessario dell’atto di inizio dell’azione penale, racchiude un giudizio di esistenza del fatto e della responsabilità della persona che ha un grado logico ben più pregnante della mera possibilità[13]. Il criterio per la sua calibratura è così fissato: occorre che i risultati delle indagini preliminari siano tali da far pronosticare che essi, con l’integrazione e l’affinamento che potranno ricevere dall’attività probatoria dibattimentale, siano idonei a dimostrare la fondatezza dell’accusa davanti al giudice del dibattimento (art. 125 disp. att. c.p.p.). In ciò si realizza il presupposto che rende doveroso l’inizio dell’azione penale; in caso contrario, il pubblico ministero deve richiedere l’archiviazione.
Riguardo alla vicenda del promovimento dell’azione penale la fattispecie costitutiva del dovere di esercizio di tale potere annovera dunque tra i suoi estremi l’esito di una valutazione attribuita al pubblico ministero: nel codice Rocco il giudizio di non manifesta infondatezza della notizia di reato; nel codice 1988 il giudizio prognostico di condanna. Si tratta dunque di un dovere della specie della discrezionalità.
9.- Dentro queste coordinate concettuali normative vanno collocati i rapporti tra le tutele, nella legge ordinaria, degli interessi di persecuzione penale e di efficienza giudiziaria e, in particolare, i conflitti pratici che vi insorgono.
Il discorso deve prendere le mosse dall’art. 131-bis c.p., che, sotto la rubrica «Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto», prevede la generalizzazione della clausola del fatto esiguo da qualificarsi, secondo la più attendibile fra le diverse classificazioni proposte, come causa di non punibilità in senso stretto.
Dottrina e giurisprudenza hanno segnalato le numerose criticità della disposizione [14], delle quali non è questa la sede di occuparsi.
Si deve invece qui considerare il fondamento dell’istituto. Conseguente al minima non curat praetor e al limite di impiego del diritto penale quale extrema ratio nel sistema giuridico delle tutele di beni sociali e individuali, in esso si realizza un succedaneo della depenalizzazione ex lege rimettendo tale compito al giudice a cui sono attribuiti i necessari poteri discrezionali.
Si è detto che l’art. 131-bis c.p. ha «una connotazione ancipite, sostanziale e processuale»[15]. Senonché una simile duplice qualificazione non è postulabile, ponendosi tra le due una alternativa insuperabile. Se è in gioco un elemento di fattispecie penale sostanziale, esso rientra nella materia che è oggetto del processo e quindi della decisione di merito. Se è in gioco un elemento di natura processuale, nel caso in esame configurerebbe una causa di improcedibilità, ricorrendo la quale sarebbe precluso, quanto all’azione penale, il suo promovimento e, quanto alla decisione, un giudizio di merito, dovendo il pubblico ministero presentare richiesta di archiviazione e il giudice pronunciare sentenza di non doversi procedere.
Questa considerazione, peraltro, induce a introdurre il tema di una diversa riflessione sulla generalizzazione della clausola del fatto particolarmente tenue, sulla sua finalità nella politica penale e sulla sua qualificazione giuridica.
10.- Il problema di fondo che si pone è se all’istituto debba attribuirsi, anziché la finalità su cui è stato costruito l’art. 131-bis c.p., quella di ridurre il carico di lavoro delle strutture giudiziarie in funzione della loro efficienza, interesse, si è visto, a copertura costituzionale. Questa sembra essere la strada da battere, con una diversa formulazione della norma, che la metta al riparo da questioni di incostituzionalità e le imprima una importante funzione pratica nella selezione del carico giudiziario.
L’operazione legislativa che ha messo capo all’art. 131-bis c.p. ha avuto un suo antecedente nella Proposta di legge presentata il 22 gennaio 2009 d’iniziativa dell’on. Tenaglia e altri, portante «Modifiche al codice di procedura penale per la definizione del processo penale nei casi di particolare tenuità del fatto».
Tale proposta prevedeva l’introduzione nell’art. 125 disp. att. c.p.p. di un comma 1-bis così formulato: «Il pubblico ministero presenta al giudice la richiesta di archiviazione anche quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità delle conseguenze dannose o pericolose della stessa, il fatto è di particolare tenuità».
Nella relazione che accompagnava la proposta, si diceva: essa è concepita «nella prospettiva di un’incentivazione dell’effetto deflattivo del carico di lavoro penale, ispirato alla superfluità del processo in un più ampio scenario che valorizzi il principio di mitezza della risposta penale»[16]).
Nella proposta Tenaglia non si parlava di «irrilevanza sociale del fatto». Questa, come si è visto, nelle disposizioni sul procedimento minorile e sul giudice di pace è la risultante del bilanciamento tra interessi diversi. Nella proposta Tenaglia, invece, bastava che il pubblico ministero rilevasse nel fatto la connotazione di particolare tenuità perché venisse a mancare il dovere di promuovere l’azione penale.
Sono invero da nutrire serie perplessità circa la legittimità costituzionale di una norma che prevede che per un fatto tenue non si coltivi l’interesse alla persecuzione penale anche quando la sua attivazione non sacrifichi altri interessi costituzionalmente protetti su di esso preminenti.
Dall’analisi dell’art. 112 cost. si è appurato che esso tutela l’interesse di persecuzione penale in un contesto che annovera anche altri valori costituzionali. La sua tutela, cioè, non è assoluta, ma relativa in un rapporto di equilibrio con tali valori. Ciò che dunque può e deve prevedere la legge ordinaria è di escludere il dovere di promuovere l’azione penale in determinate situazioni in cui, in esito a una valutazione demandata al pubblico ministero sul registro della discrezionalità, risulti prevalente, rispetto all’interesse di persecuzione penale, la tutela di un altro interesse di rango costituzionale.
Non è invece consentito alla legge ordinaria di obliterare il dovere di azione penale in ragione del solo ricorrere, in concreto, di un interesse di persecuzione penale di misura tenue.
Non è cioè sufficiente, per legittimare il limite al precetto costituzionale, una ragione di politica della giustizia sottesa alla legge ordinaria. Ė necessario che questa formuli una norma che specifichi il valore costituzionale a cui, in determinate situazioni, sia da dare preminenza di tutela rispetto a altri secondo un doveroso bilanciamento affidato ai meccanismi della discrezionalità.
Occorre pertanto formulare una disposizione in cui: 1) la «particolare tenuità del fatto» figuri come misura dell’interesse di persecuzione penale ricorrente nella situazione particolare; 2) questa sia da mettere a confronto con l’interesse di «efficienza giudiziaria»; 3) dal loro bilanciamento vada diagnosticato in concreto se il secondo sia preminente sul primo: così che risulti costituzionalmente legittimo prevedere che l’esito positivo di tale valutazione del pubblico ministero determini che non ricorre il dovere di azione penale.
Si compone in questo modo la parabola di una complessa vicenda valutativa che ha come risultato il giudizio di «irrilevanza sociale del fatto».
11-. La questione ultima da chiarire concerne la qualifica giuridica che sia da dare alla «irrilevanza sociale del fatto» per rispondere adeguatamente agli obiettivi di politica penale perseguiti e superando anche le divergenze registratesi nell’interpretazione delle norme vigenti.
La proposta Tenaglia muoveva da questa prospettazione: «Ė necessario allora strutturare l’istituto incentrandolo sull’accertamento di una responsabilità soltanto in ‘ipotesi’, che può fare a meno di valutazioni sulla personalità dell’autore di fatto. Alla definizione con archiviazione per particolare tenuità del fatto dovrebbe giungersi sulla base di un’argomentazione così articolata: ‘per questo fatto, che si ipotizza sia stato commesso dal soggetto individuato, il processo è una risposta eccessiva e quindi inadeguata’» (cfr. Relazione, p. 2). Sembra dunque che vi si configurasse una causa di una pronuncia di merito che, alla stessa stregua di quella sulle cause di estinzione del reato, avrebbe una struttura logica che si dice «in ipotesi» in quanto non compie alcun accertamento, né positivo né negativo, sull’esistenza del fatto e sulla responsabilità dell’indagato o dell’imputato, assumendo questi temi per l’appunto come mera ipotesi.
Conseguente a ciò, peraltro, sarebbe che, quando si appalesi l’irrilevanza sociale del fatto ma già risulti una prioritaria causa «di merito» di archiviazione, di non luogo a procedere o di assoluzione, è in base a questa che il provvedimento andrebbe adottato. Sarebbe quindi da modificare anche l’art. 129, comma 2 c.p.p., includendovi, dopo «una causa di estinzione del reato», la previsione della «irrilevanza sociale del fatto».
Senonché questa costruzione depotenzierebbe drasticamente l’efficacia deflattiva della nuova previsione in quanto aprirebbe a sviluppi del procedimento anche complessi.
La soluzione preferibile è dunque quella di configurare l’«irrilevanza sociale del fatto» come causa di improcedibilità dell’azione. In tal caso la pronuncia che ne seguirebbe sarebbe «di rito», cioè meramente processuale, essendovi preclusa ogni disamina del merito e ogni pronuncia al riguardo, anche a norma dell’art. 129, comma 2 c.p.p.
[1] Rinvio alle più articolate riflessioni esposte nel mio scritto Interesse alla prescrizione penale e irrilevanza sociale del fatto nel prisma dell’efficienza giudiziaria, in Studi in onore di Mario Pisani, vol. I, Piacenza, 2010, 324 s.
[2] Cfr. infra, par. 8
[3] QUATTROCOLO, Esiguità del fatto e regole per l’esercizio dell’azione penale, Napoli, 2004; CESARI, Le clausole di irrilevanza sociale del fatto nel sistema processuale penale, Torino, 2005.
[4] V. ZAGREBELSKY, Stabilire le priorità nell’esercizio obbligatorio dell’azione penale, Relazione al Convegno di studio «E. de Nicola», Saint Vincent, 3-5 giugno 1993, su Il pubblico ministero oggi, Atti, Milano, 1994, 101, che prosegue: «In particolare, essa impone di effettuare scelte, tra ciò che è possibile realizzare e ciò che occorre dilazionare. L’accenno alle scelte da operare richiama una esigenza di trasparenza da parte dei pubblici poteri – organi giudiziari inclusi -, che è condizione essenziale di ogni sistema democratico».
[5] L’espressione è tratta dal felice titolo del lavoro di SARZOTTI, Processi di selezione del crimine. Procure della Repubblica e organizzazione giudiziaria, con saggi di Bledino e Torrente e prefazione di Maddalena, Milano, 2007.
[6] Corte cost., ord. n. 201/2001.
[7] Sull’obbligatorietà dell’azione penale nel codice Rocco è da richiamarsi per tutti a MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, vol. I, Torino, 1931, p. 202 ss. In particolare si vedano questi passi: «Regola dell’autorità del processo penale. – L’organo dello Stato, l’ufficio pubblico, l’Autorità, che per il nostro diritto deve far valere la pretesa punitiva derivante da reato, cioè promuovere la decisione giurisdizionale intorno alla pretesa stessa e curarne la realizzabilità ed eventualmente la effettiva realizzazione, è il pubblico ministero, rappresentante del potere esecutivo presso l’Autorità giudiziaria, sotto la direzione del ministro della giustizia» (ivi, p. 204); «La pretesa punitiva dello Stato, derivante da reato, deve farsi valere dall’apposito organo pubblico ogniqualvolta ne ricorrano in concreto le condizioni di legge, in adempimento d’un dovere funzionale assoluto e inderogabile, escludente ogni considerazione d’opportunità» (ivi, p. 210).
[8] Così l’on. Calamandrei, Commissione per la Costituzione, 2a Sottocommissione, sed. ant. 10-1-1947, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea costituente, a cura della Camera dei Deputati – Segretariato generale, VIII, 1993 e, già in precedenza, 1991. Cfr. anche on. Uberti, loc. cit., 1992; on. Leone, ivi; on. Ambrosini, ivi; on. Cappi, ivi, 1993; on. Laconi, 1995; on. Bettiol, Ass. cost., sed. ant. 27.11.1947, in La Costituzione della Repubblica, cit., V, 4145; on. P. Rossi, ivi, 4148. Contro l’enunciazione del principio dell’obbligatorietà nella Carta costituzionale si pronunciò, perché preclusiva della ricezione nella futura legge ordinaria del principio dell’opportunità, l’on. Targetti, Commissione per la Costituzione, ad. plenaria, sed. pom. 31-1-1947, in La Costituzione della Repubblica, cit., VI, 264 s.
[9] Cfr. per un’approfondita analisi della questione CHIAVARIO, Obbligatorietà dell’azione penale: il principio e la regola, Relazione, in Il pubblico ministero oggi, cit., p. 71: «Nella sua letterale drasticità l’art. 112 è certo una rara avis nel panorama delle Costituzioni contemporanee. Per come suona testualmente, esso sembra infatti portare all’estremo quanto ad assolutezza espressiva – nel momento stesso in cui lo cristallizza al livello più alto dell’ordinamento – un principio che altrove è normativamente tradotto in termini assai più morbidi e con una valenza assai più “relativa”».
[10] Così già nel testo della Commissione Boato e poi nel Disegno di legge di revisione costituzionale d’iniziativa del Governo AC/4275-Camera dei deputati, 7 aprile 2011.
[11] Cfr. CORDERO, Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1956, 158 ss.
[12] Per un richiamo risalente cfr. Corte cost., n. 88/1991.
[13]Per tutti CAPRIOLI, L’archiviazione, Napoli, 1994, p. 340; MARZADURI, voce Azione. IV) Diritto processuale penale, in Enc. giur. Treccani, vol. IV, Roma, 1996, p. 8 ss.
[14] Per un compendio delle questioni cfr. da ultimo, anche per i riferimenti bibliografici e giurisprudenziali, AMARELLI, La particolare tenuità del fatto nel sistema della non punibilità, in Riv. pen., 2019, 2.
[15] Amarelli, op. cit.,12.
[16] Atti Parlamentari, Camera dei deputati, n. 2094, XVI Legislatura.
Un conflitto endemico tra gli interessi di persecuzione penale e di efficienza giudiziaria
1.- Il processo penale genera al suo interno situazioni di conflitto fra l’interesse di persecuzione penale, tutelato dall’art. 112 cost. con la prescrizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, e altri interessi che pure godono di uguale copertura costituzione.
La legge ordinaria, nel dare attuazione all’art. 112 cost., ha di fronte due compiti a cui deve doverosamente adempiere: prevedere norme di esercizio dell’azione penale secondo il canone della legalità, senza sconfinamenti in scelte di opportunità; farsi carico della necessità di bilanciamento tra l’interesse di persecuzione penale con altri anch’essi costituzionalmente tutelati quando in date situazioni concrete siano tra loro confliggenti perché la tutela dell’uno comporta il sacrificio di una altro e siano quindi da predisporre criteri di legalità per stabilire l’opzione di tutela a favore di quello che risulti preminente.
Quest’ultima operazione normativa non è consegnata alla discrezionalità politica del legislatore ordinario, ma è costituzionalmente doverosa: la normazione di fonte ordinaria non deve ignorare situazioni di conflitto assumendo come assoluto l’interesse di persecuzione penale e negligendo altri valori costituzionali; vanno previsti meccanismi di risoluzione dei conflitti con il bilanciamento fra quegli interessi che non sono suscettibili di contemporanea tutela; sono da fissare criteri di bilanciamento che presiedano a valutazioni informate non all’opportunità, ma alla legalità.
2.- Di tale bilanciamento la legge ordinaria si fa carico in più materie e con diverse tecniche normative.
In una prima classe di disposizioni il bilanciamento è compiutamente esaurito nella legge stessa con la previsione di cause di non punibilità o di condizioni di procedibilità aventi la loro ragion politica nella salvaguardia di interessi ritenuti prevalenti a quello di persecuzione penale[1].
In una seconda classe di disposizioni il bilanciamento tra interessi diversi è operato con la previsione di fattispecie costitutive del dovere di promuovere l’azione penale tra i cui estremi sono contemplati anche gli esiti di valutazioni demandate al pubblico ministero secondo criteri previsti dalla legge stessa e quindi con un atto la cui qualificazione giuridica soggettiva è propria della “discrezionalità” quale figura di specie del genere “dovere”[2] . È sin d’ora da fissare la ragione necessaria di questa scelta tecnico-normativa: sono in gioco conflitti la cui risoluzione non può essere affidata a meccanismi previsti esaustivamente da normative astratte, ma richiedono anche valutazioni che devono riguardare contingenti specificità. È proprio in ciò che si esplica la funzione giudiziaria, improntata al canone della legalità. Salvo immaginare irrealisticamente che tutti i fenomeni giuridici trovino la loro regolamentazione compiuta nelle previsioni astratte, senza l’apporto giudiziario. Una deriva dogmatica, quanto mai obsoleta, indifferente alle dinamiche di attuazione delle norme giuridiche ad opera della funzione giudiziaria, da esercitarsi, è bene ribadirlo, secondo i registri della legalità.
3.- Alla seconda classe di disposizioni appartengono l’art. 27 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, concernente il procedimento minorile, e l’art. 34 dlg. 28 agosto 2000, n. 274 per il procedimento avanti il giudice di pace [3].
Nel primo è in gioco il conflitto tra l’interesse di persecuzione penale e quello concernente le esigenze educative del minore (artt. 27 c. 3 e 30 cost.). Un giudizio di irrilevanza sociale del fatto compiuto dal pubblico ministero in base ai criteri della sua tenuità e dell’occasionalità del comportamento rende il secondo prevalente sul primo e determina il dovere di non procedere.
Nel secondo si contempla il potenziale conflitto tra interessi, da un lato, di persecuzione penale e, dall’altro, di lavoro, studio, famiglia e salute (artt. 35, 34, 29 e 32 cost.): quando il fatto risulti di particolare tenuità in base ai criteri indicati nella norma, la tutela di quegli interessi prevale sull’interesse di persecuzione penale e pertanto il pubblico ministero non deve promuovere l’azione penale, ma richiedere il decreto di archiviazione.
4.- Una questione di grande rilievo, tale da coinvolgere la tenuta dell’operatività pratica del sistema processuale penale, occupa oggi il theatrum dramatis della giustizia penale rappresentando il conflitto tra interesse di persecuzione penale e interesse di efficienza giudiziaria.
Nelle analisi del gap fra domanda e offerta di giustizia è ricorrente che questo fenomeno sia avvertito come la conseguenza di fattori che allignano sul terreno di una cattiva politica della giustizia: destinazione di risorse ingiustificatamente inadeguate all’attività giudiziaria, strutture operative abbandonate all’obsolescenza, loro gestione irrazionale e inefficiente, ricorso iperbolico alla legge penale per intervenire su situazioni per le quali sarebbe da ricorrere a misure di altra natura. Senza dubbio in queste prospettazioni vi è molto di vero, ma si colgono solo aspetti patologici, la cui rimozione, quand’anche perseguita con un’accorta politica della giustizia penale, non sarebbe in grado di risolvere in modo soddisfacente il problema. Ne ridurrebbe le dimensioni, ma non lo esaurirebbe. Ad esempio, un’inversione della linea dell’iperpenalizzazione o una severa e sistematica depenalizzazione e decriminalizzazione darebbero buoni contributi, ma non risolutivi. Lo stesso è da dire di quegli altri fattori che producono il gap tra domanda e offerta di giustizia.
Quelle analisi, incentrate solo sulle cause patologiche del sottodimensionamento delle risorse destinate all’amministrazione giudiziaria, non rilevano un dato fisiologico, da riconoscersi come tale perché sempre lo si è registrato e lo si registra negli ordinamenti giudiziari moderni di ogni tempo e luogo. Il ricorrente contesto economico-finanziario, sociale e politico è che il governo della società agisce in ogni campo con risorse limitate rispetto al fabbisogno necessario per fronteggiare tutte le esigenze e ciò rende ineludibili scelte di contemperamento fra le stesse.
Si è acutamente osservato: «A partire dalla Magna Charta Libertatum (1215) di Re Giovanni Senza Terra (To no one will we deny or delay right or justice) fino all’art. 24 della nostra Costituzione e all’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il diritto di ottenere una decisione giudiziaria è stato proclamato senza accennare a limiti derivanti dalla possibilità concreta dello Stato di provvedervi. E tuttavia l’entità delle risorse pubbliche destinate alla amministrazione della giustizia delimita in ogni sistema la quantità e la qualità del servizio reso. Sul piano costituzionale – a prescindere dalla sua corretta attuazione – è significativo in proposito l’art. 81/4 Cost., che richiama il nesso tra limiti delle risorse e limiti delle garanzie assicurate dalle leggi. Si tratta di una delimitazione quantitativa e qualitativa che proviene dall’esterno del sistema normativo, imponendo ad esso di adeguarsi alla realtà di ciò che è possibile»[4].
Insomma lo scarto fra esigenze di giustizia e risorse disponibili, al di fuori della sfera dei fattori patologici, non si identifica solo con la conseguenza di una cattiva politica della giustizia. Ė un dato di realtà di cui la legge non può non tenere conto nel predisporre un sistema che si voglia equilibrato e efficiente, senza manomettere gli istituti della giustizia penale fondanti i valori della sua identità nell’ordinamento costituzionale.
In questi termini, precisamente, si manifesta l’esigenza di mettere sotto controllo il carico di lavoro mediante la «selezione del crimine»[5], affinché una sua indiscriminata immissione nei circuiti giudiziari non ne comprometta l’efficienza.
5.- L’efficienza giudiziaria è anch’essa un interesse a copertura costituzionale. Vi provvedono gli artt. 97 c. 2 e 111 c.2 cost.
Quanto alla prima disposizione, la sua interpretazione restrittiva, e cioè che atterrebbe anche agli uffici giudiziari, ma limitatamente al loro ordinamento e funzionamento per gli aspetti amministrativi e non all’esercizio della funzione giurisdizionale[6], va corretta correlandola con la seconda: la quale, stabilendo che sia assicurata la durata ragionevole del processo, presuppone come adempimento costituzionalmente dovuto che la legge disciplini l’organizzazione degli uffici giudiziari, e quindi l’esercizio dei relativi poteri, secondo criteri informati all’efficienza giudiziaria. In ciò si garantisce il «buon andamento» dell’amministrazione della giustizia. In altri termini, l’attuazione di una regola fondamentale del «giusto processo», qual è la sua durata ragionevole, necessita anzitutto di uffici che funzionino in modo adeguato a tale fine; e quindi, in una visione ermeneutica sistematica che determini i contenuti normativi delle due disposizioni, l’una è servente all’altra in modo necessario.
6.- Per altro verso, la messa a punto di una regolazione dei conflitti pratici fra i due interessi di persecuzione penale e di efficienza giudiziaria che li riconduca a soluzioni proficue e nel contempo coerenti con i valori capisaldi e le strutture procedurali dell’amministrazione della giustizia penale, richiede una rinnovata riflessione sulla portata del precetto di obbligatorietà dell’azione penale nel vigente assetto normativo.
Al riguardo è anzitutto da registrare – e qui invero sta lo snodo centrale dell’intera questione – il sensibile mutamento di questa regola nel passaggio dal codice Rocco alla Costituzione.
Nella codificazione del 1930 [7] l’interesse di persecuzione penale era tutelato come assoluto. Ciò era conseguente all’idea che la legge penale, massima esplicazione della potestà sovrana dello Stato sull’individuo, presidiasse valori irrinunciabili perché sovrastanti su ogni altro di natura sociale o individuale, in funzione della difesa dell’assetto statale. Il potere-dovere di azione penale costituiva l’inesorabile “cinghia di trasmissione” nella società di tutto il potenziale punitivo enucleato nella legge penale. Salvo, naturalmente, le eccezioni previste nel sistema legislativo, specie le cause di non punibilità e le condizioni di procedibilità.
Nella Costituzione l’interesse alla persecuzione penale è concepito non come valore di per sé preminente in termini assoluti su ogni altro, ma è tutelato dall’art. 112 cost. in un quadro sistematico plurale di valori e relativizzato in tale contesto di salvaguardie.
Il dato normativo essenziale è che l’«obbligatorietà» è stabilita non più come automaticità necessaria tra notizia di reato e azione penale, ma come regola della legalità, la quale richiede che l’esercizio del potere di azione penale sia disciplinato dalla legge ordinaria in termini di dovere prevedendone i presupposti e le modalità, così che non sia rimesso a criteri d’opportunità concepiti dal pubblico ministero in modo dichiarato o surrettizio. Ciò è dato ricavare dai lavori preparatori della Costituzione. Le discussioni del Costituente sul tema presero avvio da un articolo del progetto Calamandrei di questo tenore: «Pubblicità e legalità dell’azione penale. – L’azione penale è pubblica, e il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitarla in conformità della legge, senza poterne sospendere e ritardare l’esercizio per ragioni di convenienza» (art. 8). Il pubblico ministero, osservò Piero Calamandrei, «nella sua funzione preminente di accusa nel processo penale è tenuto ad osservare il principio di legalità» [8]. Si trattava infatti di farsi carico di prassi di uso della funzione di persecuzione penale su due versanti, l’arbitrio nei confronti della singola persona e la diseguaglianza fra le persone sia quanto a iniziativa che a inerzia.
7.- La traduzione dell’art. 112 cost. nella legge ordinaria si è vista esposta a numerose complicazioni concettuali e interpretative.
Sull’assunto inespresso, ma facilmente individuabile, che la formula precettiva dell’art. 112 cost. sia equivalente a quella del codice Rocco («Il pubblico ministero o il pretore per i reati di sua competenza inizia e esercita con le forme stabilite dalla legge l’azione penale, a norma dell’art. 1»: art. 74 c. 1), in cui con il modo indicativo («inizia e esercita») statuisce una situazione di dovere, in dottrina, per uscire da una prescrizione ritenuta troppo rigida [9], ci si è rivolti a prospettazioni innovative secondo la formula dell’ «obbligatorietà temperata».
Su un medesimo assunto si sono avanzate proposte di riforma legislativa dell’art. 112 cost. intese a aggiungere all’attuale testo la formula «nei casi e nei modi previsti dalla legge»[10].
Prese di posizioni in effetti ultronee per almeno due ordini di ragioni.
Esse sono concepite come se non fosse insito nella teoria delle fonti del diritto e nella tecnica di produzione legislativa che la formulazione della fattispecie costitutiva del dovere prescritto dalla disposizione costituzionale compete alla legge ordinaria nel rispetto dei contenuti normativi della legge superiore, così cadendo in un circolo vizioso: l’attuazione, doverosa per la legge ordinaria, del precetto costituzionale non sarebbe in grado di uscire dalla sua supposta rigidità.
Ciò in quanto si manca di rilevare la relatività, sopra segnalata, della tutela apprestata dall’art. 112 cost. all’interesse di persecuzione penale, che deve essere considerato in rapporto con altri interessi di pari copertura costituzionale, con la conseguenza che in date situazioni concrete può ingenerarsi un conflitto tra la tutela di quel primo interesse e la tutela di alcuno di questi altri.
Posto un insieme complesso di tutele costituzionali, come si è già osservato, è dunque compito doveroso della legge ordinaria che, nell’attuare la legge superiore, si prevedano criteri e meccanismi procedurali di risoluzione di situazioni di conflitto mediante il bilanciamento tra interessi di pari copertura costituzionale per i quali la tutela di uno di essi comporta il sacrificio di un altro, così da poter individuare, secondo legalità e non per scelte di opportunità, quale sia il preminente, che quindi va tutelato lasciando senza presidio, a tali condizioni in modo costituzionalmente legittimo, l’altro.
8.- Per definire il quadro normativo entro cui tale fenomeno va collocato e praticamente gestito è utile una puntuale individuazione della categoria teorica cui appartiene la cosiddetta “obbligatorietà” dell’azione penale. Tale è la categoria della situazione giuridica soggettiva della “discrezionalità”, species della figura genus del “dovere”. Da questo essa si contraddistingue, cioè per l’appunto si specifica, per la peculiarità della struttura della propria fattispecie costitutiva. Mentre la fattispecie costitutiva del dovere tout–court si compone di estremi previsti in modo compiuto dalla legge, quella della discrezionalità annovera un duplice ordine di estremi: alcuni sono previsti esaustivamente dalla legge, altri consistono in un determinato esito di valutazioni che la legge assegna al soggetto cui è attribuito il dovere e che vanno da questi compiute in base ai criteri stabiliti dalla legge stessa. Insomma la “discrezionalità” è anch’essa una situazione di “dovere”, pur originando da una fattispecie che reca in sé quelle specifiche connotazioni. Le quali la distinguono anche da situazioni di mera “opportunità” (o “facoltà”), normativamente amorfe: per le quali un soggetto può tenere un comportamento piuttosto che un altro in termini indifferenti per le regole giuridiche[11].
Nei discorsi di dottrina e giurisprudenza ricorre che i vocaboli “discrezionalità” e “opportunità” siano usati come sinonimi, sovrapponendo figure di qualificazione giuridica nettamente distinte e con ciò privandosi di categorie indispensabili per una puntuale analisi delle vicende che sostanziano l’azione penale.
È anche da annotare come la discrezionalità, intesa nei termini teoricamente corretti di species del genus “dovere” e perciò distinta dall’“opportunità” (o “facoltà”) sia in effetti la categoria normativa che in modo corretto attiene al fenomeno usualmente enunciato come “obbligatorietà” dell’azione penale; e come essa qualifichi le vicende di esercizio del potere di azione penale.
Si consideri, per tutte, la vicenda primigenia di questo potere.
Una notizia di reato acquisita dal pubblico ministero non è elemento sufficiente a produrre il dovere di promuovere l’azione penale[12]. Occorre anche che essa sia assistita da un certo grado di fondatezza. Questo ulteriore estremo della fattispecie costitutiva del dovere di azione penale è definito della legge ordinaria, che vi attende in termini differenti a seconda di come sia articolata la struttura processuale penale e in ciò, una volta fatto salvo l’essenziale nucleo di ratio legis del precetto costituzionale, spende la propria insindacabile discrezionalità politica.
Orbene, nella struttura del codice 1930 il promovimento dell’azione penale era situato in un momento procedurale embrionale. Avuta una notizia di reato, il pubblico ministero doveva verificare che non fosse manifestamente infondata; al che erano dedicate, quando non bastasse una semplice delibazione, le indagini preistruttorie. Se a seguito di queste risultava la palese infondatezza della notizia, si perveniva a un decreto di archiviazione; altrimenti si doveva dare inizio all’azione penale formulando l’imputazione, la quale si traduceva in una proposizione di basso titolo logico: «è possibile che Tizio abbia commesso il tal fatto di reato».
Nella struttura del codice vigente muta sensibilmente la collocazione del momento di promovimento dell’azione penale. Abolite la preistruzione e l’istruzione e sostituite con la fase delle indagini preliminari di cui è dominus il pubblico ministero quale unico organo dell’investigazione, le determinazioni circa l’esercizio dell’azione penale sono collocate nel momento conclusivo di tale fase, quando si è dato fondo alle ricerche necessarie e utili per ricostruire il fatto, individuarne l’autore, reperire e assicurare i mezzi di prova indispensabili ad accreditare la tesi di accusa davanti al giudice della decisione. Conseguentemente l’imputazione, quale contenuto necessario dell’atto di inizio dell’azione penale, racchiude un giudizio di esistenza del fatto e della responsabilità della persona che ha un grado logico ben più pregnante della mera possibilità[13]. Il criterio per la sua calibratura è così fissato: occorre che i risultati delle indagini preliminari siano tali da far pronosticare che essi, con l’integrazione e l’affinamento che potranno ricevere dall’attività probatoria dibattimentale, siano idonei a dimostrare la fondatezza dell’accusa davanti al giudice del dibattimento (art. 125 disp. att. c.p.p.). In ciò si realizza il presupposto che rende doveroso l’inizio dell’azione penale; in caso contrario, il pubblico ministero deve richiedere l’archiviazione.
Riguardo alla vicenda del promovimento dell’azione penale la fattispecie costitutiva del dovere di esercizio di tale potere annovera dunque tra i suoi estremi l’esito di una valutazione attribuita al pubblico ministero: nel codice Rocco il giudizio di non manifesta infondatezza della notizia di reato; nel codice 1988 il giudizio prognostico di condanna. Si tratta dunque di un dovere della specie della discrezionalità.
9.- Dentro queste coordinate concettuali normative vanno collocati i rapporti tra le tutele, nella legge ordinaria, degli interessi di persecuzione penale e di efficienza giudiziaria e, in particolare, i conflitti pratici che vi insorgono.
Il discorso deve prendere le mosse dall’art. 131-bis c.p., che, sotto la rubrica «Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto», prevede la generalizzazione della clausola del fatto esiguo da qualificarsi, secondo la più attendibile fra le diverse classificazioni proposte, come causa di non punibilità in senso stretto.
Dottrina e giurisprudenza hanno segnalato le numerose criticità della disposizione [14], delle quali non è questa la sede di occuparsi.
Si deve invece qui considerare il fondamento dell’istituto. Conseguente al minima non curat praetor e al limite di impiego del diritto penale quale extrema ratio nel sistema giuridico delle tutele di beni sociali e individuali, in esso si realizza un succedaneo della depenalizzazione ex lege rimettendo tale compito al giudice a cui sono attribuiti i necessari poteri discrezionali.
Si è detto che l’art. 131-bis c.p. ha «una connotazione ancipite, sostanziale e processuale»[15]. Senonché una simile duplice qualificazione non è postulabile, ponendosi tra le due una alternativa insuperabile. Se è in gioco un elemento di fattispecie penale sostanziale, esso rientra nella materia che è oggetto del processo e quindi della decisione di merito. Se è in gioco un elemento di natura processuale, nel caso in esame configurerebbe una causa di improcedibilità, ricorrendo la quale sarebbe precluso, quanto all’azione penale, il suo promovimento e, quanto alla decisione, un giudizio di merito, dovendo il pubblico ministero presentare richiesta di archiviazione e il giudice pronunciare sentenza di non doversi procedere.
Questa considerazione, peraltro, induce a introdurre il tema di una diversa riflessione sulla generalizzazione della clausola del fatto particolarmente tenue, sulla sua finalità nella politica penale e sulla sua qualificazione giuridica.
10.- Il problema di fondo che si pone è se all’istituto debba attribuirsi, anziché la finalità su cui è stato costruito l’art. 131-bis c.p., quella di ridurre il carico di lavoro delle strutture giudiziarie in funzione della loro efficienza, interesse, si è visto, a copertura costituzionale. Questa sembra essere la strada da battere, con una diversa formulazione della norma, che la metta al riparo da questioni di incostituzionalità e le imprima una importante funzione pratica nella selezione del carico giudiziario.
L’operazione legislativa che ha messo capo all’art. 131-bis c.p. ha avuto un suo antecedente nella Proposta di legge presentata il 22 gennaio 2009 d’iniziativa dell’on. Tenaglia e altri, portante «Modifiche al codice di procedura penale per la definizione del processo penale nei casi di particolare tenuità del fatto».
Tale proposta prevedeva l’introduzione nell’art. 125 disp. att. c.p.p. di un comma 1-bis così formulato: «Il pubblico ministero presenta al giudice la richiesta di archiviazione anche quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità delle conseguenze dannose o pericolose della stessa, il fatto è di particolare tenuità».
Nella relazione che accompagnava la proposta, si diceva: essa è concepita «nella prospettiva di un’incentivazione dell’effetto deflattivo del carico di lavoro penale, ispirato alla superfluità del processo in un più ampio scenario che valorizzi il principio di mitezza della risposta penale»[16]).
Nella proposta Tenaglia non si parlava di «irrilevanza sociale del fatto». Questa, come si è visto, nelle disposizioni sul procedimento minorile e sul giudice di pace è la risultante del bilanciamento tra interessi diversi. Nella proposta Tenaglia, invece, bastava che il pubblico ministero rilevasse nel fatto la connotazione di particolare tenuità perché venisse a mancare il dovere di promuovere l’azione penale.
Sono invero da nutrire serie perplessità circa la legittimità costituzionale di una norma che prevede che per un fatto tenue non si coltivi l’interesse alla persecuzione penale anche quando la sua attivazione non sacrifichi altri interessi costituzionalmente protetti su di esso preminenti.
Dall’analisi dell’art. 112 cost. si è appurato che esso tutela l’interesse di persecuzione penale in un contesto che annovera anche altri valori costituzionali. La sua tutela, cioè, non è assoluta, ma relativa in un rapporto di equilibrio con tali valori. Ciò che dunque può e deve prevedere la legge ordinaria è di escludere il dovere di promuovere l’azione penale in determinate situazioni in cui, in esito a una valutazione demandata al pubblico ministero sul registro della discrezionalità, risulti prevalente, rispetto all’interesse di persecuzione penale, la tutela di un altro interesse di rango costituzionale.
Non è invece consentito alla legge ordinaria di obliterare il dovere di azione penale in ragione del solo ricorrere, in concreto, di un interesse di persecuzione penale di misura tenue.
Non è cioè sufficiente, per legittimare il limite al precetto costituzionale, una ragione di politica della giustizia sottesa alla legge ordinaria. Ė necessario che questa formuli una norma che specifichi il valore costituzionale a cui, in determinate situazioni, sia da dare preminenza di tutela rispetto a altri secondo un doveroso bilanciamento affidato ai meccanismi della discrezionalità.
Occorre pertanto formulare una disposizione in cui: 1) la «particolare tenuità del fatto» figuri come misura dell’interesse di persecuzione penale ricorrente nella situazione particolare; 2) questa sia da mettere a confronto con l’interesse di «efficienza giudiziaria»; 3) dal loro bilanciamento vada diagnosticato in concreto se il secondo sia preminente sul primo: così che risulti costituzionalmente legittimo prevedere che l’esito positivo di tale valutazione del pubblico ministero determini che non ricorre il dovere di azione penale.
Si compone in questo modo la parabola di una complessa vicenda valutativa che ha come risultato il giudizio di «irrilevanza sociale del fatto».
11-. La questione ultima da chiarire concerne la qualifica giuridica che sia da dare alla «irrilevanza sociale del fatto» per rispondere adeguatamente agli obiettivi di politica penale perseguiti e superando anche le divergenze registratesi nell’interpretazione delle norme vigenti.
La proposta Tenaglia muoveva da questa prospettazione: «Ė necessario allora strutturare l’istituto incentrandolo sull’accertamento di una responsabilità soltanto in ‘ipotesi’, che può fare a meno di valutazioni sulla personalità dell’autore di fatto. Alla definizione con archiviazione per particolare tenuità del fatto dovrebbe giungersi sulla base di un’argomentazione così articolata: ‘per questo fatto, che si ipotizza sia stato commesso dal soggetto individuato, il processo è una risposta eccessiva e quindi inadeguata’» (cfr. Relazione, p. 2). Sembra dunque che vi si configurasse una causa di una pronuncia di merito che, alla stessa stregua di quella sulle cause di estinzione del reato, avrebbe una struttura logica che si dice «in ipotesi» in quanto non compie alcun accertamento, né positivo né negativo, sull’esistenza del fatto e sulla responsabilità dell’indagato o dell’imputato, assumendo questi temi per l’appunto come mera ipotesi.
Conseguente a ciò, peraltro, sarebbe che, quando si appalesi l’irrilevanza sociale del fatto ma già risulti una prioritaria causa «di merito» di archiviazione, di non luogo a procedere o di assoluzione, è in base a questa che il provvedimento andrebbe adottato. Sarebbe quindi da modificare anche l’art. 129, comma 2 c.p.p., includendovi, dopo «una causa di estinzione del reato», la previsione della «irrilevanza sociale del fatto».
Senonché questa costruzione depotenzierebbe drasticamente l’efficacia deflattiva della nuova previsione in quanto aprirebbe a sviluppi del procedimento anche complessi.
La soluzione preferibile è dunque quella di configurare l’«irrilevanza sociale del fatto» come causa di improcedibilità dell’azione. In tal caso la pronuncia che ne seguirebbe sarebbe «di rito», cioè meramente processuale, essendovi preclusa ogni disamina del merito e ogni pronuncia al riguardo, anche a norma dell’art. 129, comma 2 c.p.p.
[1] Rinvio alle più articolate riflessioni esposte nel mio scritto Interesse alla prescrizione penale e irrilevanza sociale del fatto nel prisma dell’efficienza giudiziaria, in Studi in onore di Mario Pisani, vol. I, Piacenza, 2010, 324 s.
[2] Cfr. infra, par. 8
[3] QUATTROCOLO, Esiguità del fatto e regole per l’esercizio dell’azione penale, Napoli, 2004; CESARI, Le clausole di irrilevanza sociale del fatto nel sistema processuale penale, Torino, 2005.
[4] V. ZAGREBELSKY, Stabilire le priorità nell’esercizio obbligatorio dell’azione penale, Relazione al Convegno di studio «E. de Nicola», Saint Vincent, 3-5 giugno 1993, su Il pubblico ministero oggi, Atti, Milano, 1994, 101, che prosegue: «In particolare, essa impone di effettuare scelte, tra ciò che è possibile realizzare e ciò che occorre dilazionare. L’accenno alle scelte da operare richiama una esigenza di trasparenza da parte dei pubblici poteri – organi giudiziari inclusi -, che è condizione essenziale di ogni sistema democratico».
[5] L’espressione è tratta dal felice titolo del lavoro di SARZOTTI, Processi di selezione del crimine. Procure della Repubblica e organizzazione giudiziaria, con saggi di Bledino e Torrente e prefazione di Maddalena, Milano, 2007.
[6] Corte cost., ord. n. 201/2001.
[7] Sull’obbligatorietà dell’azione penale nel codice Rocco è da richiamarsi per tutti a MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, vol. I, Torino, 1931, p. 202 ss. In particolare si vedano questi passi: «Regola dell’autorità del processo penale. – L’organo dello Stato, l’ufficio pubblico, l’Autorità, che per il nostro diritto deve far valere la pretesa punitiva derivante da reato, cioè promuovere la decisione giurisdizionale intorno alla pretesa stessa e curarne la realizzabilità ed eventualmente la effettiva realizzazione, è il pubblico ministero, rappresentante del potere esecutivo presso l’Autorità giudiziaria, sotto la direzione del ministro della giustizia» (ivi, p. 204); «La pretesa punitiva dello Stato, derivante da reato, deve farsi valere dall’apposito organo pubblico ogniqualvolta ne ricorrano in concreto le condizioni di legge, in adempimento d’un dovere funzionale assoluto e inderogabile, escludente ogni considerazione d’opportunità» (ivi, p. 210).
[8] Così l’on. Calamandrei, Commissione per la Costituzione, 2a Sottocommissione, sed. ant. 10-1-1947, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea costituente, a cura della Camera dei Deputati – Segretariato generale, VIII, 1993 e, già in precedenza, 1991. Cfr. anche on. Uberti, loc. cit., 1992; on. Leone, ivi; on. Ambrosini, ivi; on. Cappi, ivi, 1993; on. Laconi, 1995; on. Bettiol, Ass. cost., sed. ant. 27.11.1947, in La Costituzione della Repubblica, cit., V, 4145; on. P. Rossi, ivi, 4148. Contro l’enunciazione del principio dell’obbligatorietà nella Carta costituzionale si pronunciò, perché preclusiva della ricezione nella futura legge ordinaria del principio dell’opportunità, l’on. Targetti, Commissione per la Costituzione, ad. plenaria, sed. pom. 31-1-1947, in La Costituzione della Repubblica, cit., VI, 264 s.
[9] Cfr. per un’approfondita analisi della questione CHIAVARIO, Obbligatorietà dell’azione penale: il principio e la regola, Relazione, in Il pubblico ministero oggi, cit., p. 71: «Nella sua letterale drasticità l’art. 112 è certo una rara avis nel panorama delle Costituzioni contemporanee. Per come suona testualmente, esso sembra infatti portare all’estremo quanto ad assolutezza espressiva – nel momento stesso in cui lo cristallizza al livello più alto dell’ordinamento – un principio che altrove è normativamente tradotto in termini assai più morbidi e con una valenza assai più “relativa”».
[10] Così già nel testo della Commissione Boato e poi nel Disegno di legge di revisione costituzionale d’iniziativa del Governo AC/4275-Camera dei deputati, 7 aprile 2011.
[11] Cfr. CORDERO, Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1956, 158 ss.
[12] Per un richiamo risalente cfr. Corte cost., n. 88/1991.
[13]Per tutti CAPRIOLI, L’archiviazione, Napoli, 1994, p. 340; MARZADURI, voce Azione. IV) Diritto processuale penale, in Enc. giur. Treccani, vol. IV, Roma, 1996, p. 8 ss.
[14] Per un compendio delle questioni cfr. da ultimo, anche per i riferimenti bibliografici e giurisprudenziali, AMARELLI, La particolare tenuità del fatto nel sistema della non punibilità, in Riv. pen., 2019, 2.
[15] Amarelli, op. cit.,12.
[16] Atti Parlamentari, Camera dei deputati, n. 2094, XVI Legislatura.
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Alla Corte costituzionale una questione sull’art. 30-ter dell’ordinamento penitenziario
La Consulta si pronuncia sulla incompatibilità del G.i.p. a pronunciarsi sulla nuova richiesta di decreto penale di condanna: inammissibili le q.l.c.
Sospensione della pena e non menzione della condanna nel casellario: illegittimità costituzionale parziale.
Foglio di via del Questore: per la Consulta non è necessaria la convalida del giudice.
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Sospensione della pena e non menzione della condanna nel casellario: illegittimità costituzionale parziale.